L'identità nel curricolo

La ricerca di un’identità per la scuola di oggi

 

 

Anna SgherriIntroduce i lavori l’ispettrice Anna Sgherri Costantini, la quale sottolinea, visto il tema della sessione, l’opportunità di riportare l’attenzione sull’identità dell’indirizzo, sul suo impianto epistemologico, sui punti di forza e di debolezza, nonché sulla dimensione storica del Liceo delle Scienze Sociali. Bisogna riflettere sull’eredità del passato, sulle esigenze del presente, sulle prospettive future in relazione alle quali spetterà al Ministro Berlinguer aprire uno scenario possibile.

Per quanto riguarda il passato non bisogna dimenticare che il Liceo delle Scienze Sociali nasce da processi ed esperienze fatte nel settore pedagogico; da non sottovalutare, inoltre, il contributo proveniente dagli istituti tecnici e professionali che hanno sperimentato nuovi indirizzi. Infatti la novità più significativa delle sperimentazioni non consiste tanto nell’originalità dei curricoli, quanto piuttosto nell’analisi disciplinare, nella mappa dei saperi e nella ricaduta didattica. Due momenti, infine, hanno segnato la nascita del Liceo delle Scienze Sociali: l’attuazione del Progetto Brocca, nel quale per la prima volta emerge l’area delle scienze sociali, nonché la riflessione, il cammino e l’avvento dell’autonomia che ha legittimato la progettualità delle scuole. Da tutti questi presupposti nasceva così un indirizzo del tutto nuovo, che non esisteva nel panorama della scuola italiana. Non un piano di studi, ma un curricolo orientato alla società e cultura contemporanee, equilibrato sotto il profilo formativo e conforme a tre criteri: 1) soddisfazione dei bisogni formativi emergenti e reali; 2) rispetto dei quadri culturali di riferimento; 3) aspettative della società.

Il presente delle Scienze Sociali appare piuttosto problematico. Oggi si moltiplicano le esigenze e benché siano trascorsi dieci anni, i punti di forza e di debolezza sono gli stessi del Convegno di Ferrara, su cui comunque molte scuole hanno dato risposte soddisfacenti. Una difficoltà emerge quando si tratta di coniugare l’esigenza di flessibilità, di per sé punto di forza, con la necessità improrogabile di mantenere salda l’identità epistemologica del curricolo. La flessibilità, infatti, se non viene gestita in rapporto al territorio, ma solo dal punto di vista numerico delle ore disciplinari, diviene un punto debole.

Un altro aspetto significativo riguarda la professionalità docente, intesa non come un dato acquisito una volta per tutte, bensì un obiettivo da raggiungere, un percorso da costruire. Una scuola statica ed esecutiva non sviluppa tale professionalità e lo stage formativo è, invece, la ricerca di una modalità diversa che risponde ad un’esigenza comune.

Un elemento di debolezza consiste nell’autoreferenzialità del sistema di valutazione: mentre i primi anni sono stati caratterizzati da un monitoraggio attento sulle cose da fare, oggi le Scienze Sociali fanno parte del panorama indistinto di sperimentazioni in attesa di una sistemazione della riforma, “congelate” in un limbo. Pertanto sarebbe opportuno prevedere una valutazione esterna che possa confermare la novità dell’indirizzo, l’efficacia e la fondatezza della scelta presso l’utenza, legittimare, insomma, la sua esistenza.

 

 

 

 

 

Epistemologia delle Scienze Sociali: coniugare radici e mutamento

Leonello BettinLeonello Bettin, docente di scienze sociali

 

Il relatore, dopo aver richiamato il documento di riferimento del Liceo delle Scienze Sociali elaborato nel 2000 che ne ravvisa la cifra identitaria nell’asse storico antropologico e nell’attenzione alla contemporaneità, propone una riflessione sulla necessità che le scienze sociali, in quanto scienze del cambiamento e della contemporaneità, riflettano su se stesse, sui propri metodi e sulla pratiche didattiche ad esse collegate.

Tale riflessione è incentrata sul tema del mutamento dalla cui analisi le scienze sociali traggono la propria origine e la propria ragion d’essere; infatti, come afferma P. Jedlowski, “ si comincia a studiare la società quando essa non può essere data per scontata”. Le scienze sociali sono espressione di cambiamenti epocali che introducono “fattori di netta discontinuità con il passato”.

La società moderna, in quanto massimo esempio di una società mutata dopo millenni di dominio di società agricole, tradizionali e gerontocratiche, sollecita la messa in atto di nuove “strategie di conoscenza e approcci cognitivi”.

Ripercorrendo rapidamente le tappe della storia umana, Bettin ravvisa tre grandi svolte epocali rispettivamente determinate dal passaggio dalla caccia/raccolta all’agricoltura, dall’agricoltura all’industria e, a quello ancora in atto, dall’industria alla finanza e ai servizi, avendo cura di precisare che le nuove modalità di lavoro e le nuove organizzazioni sociali non cancellano le precedenti, ma le relegano su un piano secondario. Esse, ciononostante, determinano un cambiamento profondo che coinvolge tutti gli ambiti dell’agire umano e la stessa visione del mondo.

Il cambiamento, tuttavia, non ha necessariamente carattere evolutivo. Come infatti è stato osservato da vari studiosi, il passaggio dalla società dei raccoglitori/cacciatori a quella degli agricoltori/allevatori, è stato un vero e proprio “arretramento civile”. Esso ha determinato un aumento del tempo dedicato al lavoro, la fine del comunitarismo delle società primitive a vantaggio di una società agricola rigidamente gerarchizzata in cui guerra, servitù e schiavitù diventano normali prassi produttive.

A tal proposito, recuperando il concetto di “equivoco antropologico” e ipotizzandone un’utilizzazione didattica, afferma che il rapporto tra le società nomadi e quelle sedentarie può essere proficuamente affrontato nel biennio da “una prospettiva rovesciata” rispetto a quella tradizionalmente proposta anche nei manuali scolastici, con “ sguardo strabico”, ovvero rivolto alla contemporaneità: la distanza nel tempo, implicante un certo “distacco”, favorirà un approccio più spregiudicato e dissacrante e risulterà utile per comprendere la contemporaneità attraverso il filtro della storia: “i “primitivi” -afferma Bettin- allargano il nostro sguardo all’intero globo, sprovincializzandoci”.

Rilevare tale “equivoco antropologico” consente di riflettere sul fatto che le idee dei “dominanti diventano idee dominanti” e sui rapporti tra le società nomadi e quelle sedentarie.

La seconda discontinuità coincide con l’avvento della società industriale e con il processo di modernizzazione ad essa connesso, la cui percezione sollecita lo sviluppo delle scienze sociali.

Negli ultimi trent’anni è in atto un nuovo cambiamento che, comunque lo si voglia chiamare, impone a studiosi, docenti e discenti un nuovo modo di accostarsi alla realtà e ripensare alle scienze sociali. Ciò, secondo il relatore, risulta stimolante: “il bello dell’indirizzo è di sentirci coinvolti, è la base di un ambiente paritetico e non ipocritamente democratico”.

Nell’ottica della discontinuità i fenomeni culturali appaiono come “costellazioni di significati contestualizzati” la cui indagine richiede la conoscenza del contesto in cui essi si sono formati, ma anche del contesto di coloro che li interrogano.

Ne consegue che alle culture del passato non ci si può accostare con le categorie del presente; la discontinuità, inoltre, introduce l’idea della fluidità e della mutevolezza delle culture, che appaiono prive di quella “sostanzialità forte” in grado di forgiare in modo permanente un individuo determinandone quelle caratteristiche comunemente percepite come i tratti distintivi di una civiltà.

Il concetto di cultura in quest’ottica si configura come un’astrazione: la discontinuità restituisce centralità alle persone, ai singoli individui. Le scienze sociali sono scienze di relazione che hanno come oggetto le modalità di vita di società e gruppi di individui in carne e ossa.

Anche le scienze sociali nascono nel segno della discontinuità. La genesi e l’affermazione di nuove scienze, espressione di una società che cambia, sono di per sé un atto di discontinuità; le scienze sociali inoltre negli ultimi decenni hanno dovuto ridefinire le proprie strategie cognitive modificando quelle adottate nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, in quanto devono confrontarsi con una realtà le cui coordinate sono state modificate dai fenomeni migratori, da nuove disuguaglianze e dai differenti equilibri internazionali della società industriale. Esse inoltre, in quanto scienze della relazione, sono in rapporto di discontinuità anche con la filosofia, “forma culturale delle società agricole tradizionali”.

Il carattere fluido di queste scienze del cambiamento e in cambiamento richiede un insegnante di tipo nuovo, aggiornato, consapevole, disposto a mettere in gioco e in discussione se stesso e prassi didattiche da lungo tempo consolidate. Bettin, richiamando Callari Galli, ribadisce la necessità che l’insegnante riorganizzi le proprie conoscenze e di conseguenza quelle di propri alunni, per temi e problemi “superando le consolidate gerarchie disciplinari e andando a cercare nuovi percorsi e nuovi stimoli negli accostamenti più impensati”. Il processo di apprendimento di queste nuove scienze si fonda pertanto sulla valorizzazione del dubbio e della prudenza, sulla ricerca e sull’osservazione delle differenze.

Dunque il relativismo critico e “ben temperato” (secondo una definizione di Cassano) deve essere assunto come guida didattica e culturale. “Senza relativismo - sottolinea Bettin - non ci sono scienze sociali, ma dogmi e certezze, senza relativismo non c’è processo di apprendimento co-costruito, ma solo insegnamento”. Esso, inoltre, porta alla luce la “qualità multipla delle culture” che, nell’ottica sopraindicata, non sono astrazioni, ma “persone che agiscono culturalmente”. L’atteggiamento relativistico aiuta pertanto a stabilire contatti, creare ponti tra esseri umani diventando così non solo un metodo e una prassi didattica, ma occasione di dialogo e di comunicazione tra portatori di diverse visioni del mondo.

A conclusione dell’intervento il relatore solleva un interrogativo proponendo peraltro di utilizzare la scuola come campo di indagine sulla contemporaneità. “La scuola italiana - si chiede - sta diventando produttrice di analfabeti in quanto istituzione nata nella modernità e non adeguata ai cambiamenti del postmoderno?”.

 

 

 

 

 

Tempi della politica e tempi della scuola

Luigi Berlinguer, presidente gruppo di lavoro per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica

 

Luigi BerlinguerIl relatore Luigi Berlinguer, che, come rilevato dall’ispettrice Sgherri nella presentazione, ha ipotizzato con la legge 30 una collocazione definitiva del Liceo delle Scienze Sociali, attualmente presiede il Gruppo di lavoro interministeriale per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica e il Comitato per l’apprendimento pratico della musica da parte di tutti gli studenti.

Dopo aver espresso un vivo apprezzamento per la testimonianza degli allievi dell’Istituto “Ainis” dalla quale emerge la consapevolezza della propria identità di studenti del Liceo delle Scienze Sociali e l’orgoglio di appartenenza alla propria scuola, sottolinea la necessità di un’innovazione che parta dalla riflessione sui contenuti delle discipline e sui metodi di insegnamento, relegando invece in un secondo piano le politiche dell’“architettura” che esemplifica nella legge per l’autonomia e nell’estensione dell’obbligo scolastico.

Il concetto di obbligo, rileva peraltro, risulta obsoleto e inadeguato in un contesto che sempre più concepisce lo studio come un diritto e come mezzo di promozione sociale, come dimostra l’alta percentuale dei diplomati in Italia che tocca il 75%.

Recepisce pertanto la sfida lanciata dal Convegno Innovare la scuola si può, significativamente espressa senza punto interrogativo, per sottolineare la necessità imprescindibile di un cambiamento. La questione, afferma infatti il relatore, non verte sul se, ovvero sull’opportunità di innovare, ma sul come, ovvero sulle modalità attraverso cui deve realizzarsi l’innovazione di una scuola che sia equa e di qualità. I due termini sono in stretta relazione: una scuola non di qualità diventa necessariamente fonte di iniquità in quanto riproduce le differenze sociali. La società chiede invece una scuola finalizzata alla promozione sociale, che tenga conto dell’eterogeneità dei discenti.

Bisogna quindi evitare un approccio alla scuola di tipo ideologico, affrancarsi dal retaggio dell’ideologia gentiliana e convincere l’opinione pubblica della centralità dell’education nell’intento di colmare un vuoto educativo che non è solo epistemologico, ma riguarda l’impianto complessivo.

“La rivoluzione democratica -afferma il relatore- ha sconvolto il mondo, perché tutto ciò che si fa a scuola deve essere motivato e deve rispondere ai profondi interrogativi di senso dei discenti”. Pertanto è necessaria una rivoluzione altrettanto radicale nel metodo e nei contenuti, che si traduca nel rifiuto dell’enciclopedismo e della lezione frontale, e nell’attuazione di pratiche didattiche che -specie nell’ambito scientifico- passino attraverso la sperimentazione.

Particolarmente rilevante risulta l’introduzione dell’arte e della musica, la cui pratica consente di ricomporre quella scissione, non esistente in natura ma che è invece prodotta dalla scuola, tra corpo, anima e cervello: la distinzione tra fare e sapere, ribadisce il relatore, risulta infatti innaturale.

Oggi il compito per tutta la scuola è ripensare ai curricoli, anche attraverso la rivisitazione epistemologica. Questo compito non è di pertinenza esclusiva dell’Università, ma dei docenti, ovvero i disciplinaristi, coinvolti “nell’avventura educativa”. Il mondo della ricerca accademica e quello della ricerca scolastica non possono essere separati.

Il POF, non inteso come “ progettificio”, ma come l’insieme delle esperienze didattiche, e’ la sede privilegiata della sperimentazione, in cui il curricolo viene definito, monitorato e valutato.

Il contributo delle università potrebbe consistere nell’organizzazione di masters che coinvolgano gli insegnanti nell’ottica di una sperimentazione che tenga conto dei profondi cambiamenti e degli elementi di discontinuità caratterizzanti il mondo attuale.

Particolare rilievo assumono in tal senso la globalizzazione, che ha modificato il tradizionale concetto di identità, e la democrazia che ha cambiato i rapporti intersociali. Altro fenomeno significativo, che congiuntamente agli altri impone una rivisitazione dei curricoli, è quello che il relatore definisce con forza “l’esplosione della scienza e della tecnica.”

La scuola deve rispondere a questo bisogno di scientificità costruendo curricoli fondati su una matrice scientifico- teorica, che mirino a sviluppare negli studenti non l’astrattezza, ma la tendenza all’astrazione, come punto di arrivo di un processo cognitivo; parimenti importante la storicità da non identificare tuttavia con lo storicismo.

Altro problema su cui Luigi Berlinguer si sofferma è quello della mancanza di terminalità. Nell’ottica dell’innovazione della scuola che risponda ai bisogni dell’utenza e della società, è necessario superare la distinzione tra licei e istituti tecnici. Tutti gli istituti superiori devono avere una terminalità possibile. Ciò necessita di una ridefinizione dei curricoli in cui trovino spazio anche le scienze dure (economia e diritto) in rapporto di equilibrio con lo studio più fluido delle materie storico-antropologiche. La rielaborazione dei curricoli non può rimanere confinata all’interno del corpo docente: risulta importante definire a che cosa serve il complesso di conoscenze anche “dal punto di vista esterno”, verificando la congruità dell’impianto disciplinare rispetto alle richieste della società e del mondo del lavoro.

Il relatore, pur ponendo l’accento sulla terminalità, non elude il problema della formazione professionalizzante degli studenti, che tuttavia deve essere affrontato con opportune strategie dopo il diploma. Sottolinea inoltre la necessità di investire nella formazione professionale dei docenti.

Le università dell’area umanistica propongono un percorso articolato nella laurea triennale seguito dai due anni di specialistica e dalla Sissis; nel mondo scientifico si propende per una formazione complessiva di cinque anni, che nei due della specialistica includa anche le pratiche didattiche. La formazione iniziale, tuttavia, deve essere integrata da quella in servizio che va trasferita alle scuole cui spetta il compito -che non può essere espletato da altri- di indicare il fabbisogno professionale dei docenti partendo dal monitoraggio dell’insegnamento in rapporto alla situazione esistente e agli obiettivi ottimali.

In fase conclusiva ribadisce la necessità di superare la segmentazione disciplinare nell’ottica dell’interdisciplinarità e del lavoro di equipe, di sviluppare l’autonomia, conservando tuttavia la natura nazionale del curricolo.

 

il convegno di Messina 2008

 

 

 

 

INTERVENTI

 

L’avvio del dibattito verte sulla formazione dei docenti. L’ispettrice Sgherri, ricollegandosi a un precedente intervento relativo alla necessità di una formazione adeguata dei docenti di Scienze Sociali, rileva la disponibilità di varie pubblicazioni riguardanti la storia dell’indirizzo ulteriormente arricchite da vari materiali inseriti nel sito. Ciononostante, ribadisce la necessità di una formazione permanente, ancora inadeguata, e di un osservatorio nazionale.

Berlinguer propone che la Rete Passaggi divulghi, tramite apposita circolare, le informazioni bibliografiche ai Licei delle Scienze Sociali e suggerisce di elaborare un progetto di formazione da inviare al Ministero e alla Comunità europea.

Nel corso del dibattito si evidenzia la peculiarità dell’indirizzo in cui i contenuti disciplinari non costituiscono il fine, ma il mezzo all’interno di un processo di apprendimento che, non mirando solo all’acquisizione dei contenuti, valorizza tutte le intelligenze e gli stili di apprendimento. Tale modello educativo, che va oltre il “passatismo”, dovrebbe costituire un paradigma per tutti i licei.

Ricollegandosi agli interventi precedenti, ci si chiede quale contributo possa dare la Rete a quei docenti che, pur essendo motivati, spesso si trovano soli nell’affrontare la didattica quotidiana.

Ai fini di un adeguato orientamento dei docenti, il Prof. Camuri suggerisce la partecipazione ad eventuali masters. A tal proposito Berlinguer ribadisce la necessità di sottrarre i masters alle logiche accademiche che spesso vogliono solo manifestare le loro potenzialità scientifiche e risultano poco funzionali alla reale esigenza di formazione.

Il dibattito si conclude con l’intervento della Prof.ssa Fatai, portavoce del dipartimento di matematica e scienze che propone di rivedere il curricolo quinquennale per dare maggior spazio alla statistica e curvarla sulle esigenze delle Scienze Sociali.