Crollate le mura del manicomio, sopravvivono luoghi che riproducono malattia, cronicità, esclusione. Progettare luoghi diversi significa «demedicalizzare», ascoltare le persone che vivono l'esperienza della malattia, scoprire che i luoghi della cura altro non sono che i luoghi del quotidiano
Peppe Dell'Acqua*
Il rapporto tra le istituzioni della psichiatria e l'architettura ha una storia lunga e ricca di suggestioni. Tra la seconda metà dell'800 e l'inizio del '900 il grande ottimismo per le conquiste e le certezze della scienza, l'elettricità, la velocità, le nuove vie di comunicazione: influenza anche il mondo della medicina. Il progresso delle discipline mediche è segnato da un susseguirsi di scoperte che generano incredibili aspettative. Il modello medico-biologico trionfa: la causa della malattia mentale è una lesione del cervello; il medico è il tecnico deputato al trattamento; la cura si fonda su strumenti di natura fisica e chimica (farmaci, contenzione, terapie di shock, isolamento); il luogo della cura è l'ospedale psichiatrico. Fedeli al paradigma positivista i medici arrivano a una definizione sempre più certa, meticolosa e ossessiva dell'organizzazione degli istituti e forniscono ai progettisti dei frenocomi indicazioni dettagliate e soprattutto scientificamente certe. La riforma dell'assistenza psichiatrica e la chiusura dei manicomi ha riportato in scena persone e storie, bisogni e relazioni, contesti e quotidianità e ha decostruito di fatto i luoghi vecchi e nuovi della psichiatria. Ma, potrebbe accadere che mentre la nave (il manicomio) affonda altri navigli (nuove tecniche, nuovi contenitori, nuove forme di controllo) si presentino minacciosi all'orizzonte.
Tutta la rete regionale dei servizi di salute mentale del Friuli VeneziaGiulia, per esempio, si è strutturata consapevole del rischio della riproposizione dei luoghi della malattia. A Trieste mentre si lavorava alla chiusura del manicomio, alla distruzione dell'istituzione nascevano i centri di salute mentale. Era chiara la ricerca ostinata del territorio, dei luoghi della città, della dimensione delle relazioni possibili. Non ci sono «porte chiuse» e tutte le forme di contenzione sono bandite. Il centro di salute mentale può diventare, negando quotidianamente la sua pretesa natura sanitaria, un luogo di transito, una piazza, un mercato. Un luogo intenzionato a favorire lo scambio, l'incontro, il riconoscimento reciproco. Ad accogliere con cura singolare. Un luogo che vuole vedersi abitato non (soltanto) dai "pazienti". Un luogo che progetta, costruisce e cura un suo dentro senza mai perdere di vista il fuori. Anzi è l'attenzione ossessiva al fuori che pretende la cura del dentro.
Tra il dentro e il fuori si disegna una soglia che definisce il luogo dell'incontro, dell'ascolto, dell'aiuto, della terapia, in una sorta di contiguità tra la casa delle persone, gli spazi del rione, i luoghi collettivi, il centro di salute mentale. La soglia è il luogo. Progettare e costruire un centro di salute mentale significa rendere concreto, praticabile, abitabile la soglia.
Il centro allora oltre che essere un luogo bello, accogliente, confortevole deve coltivare la vocazione a essere punto di passaggio, confine, attraversamento. Disporsi instancabilmente tra lo star bene e lo star male, tra la normalità e la anormalità, tra il regolare e l'irregolare, tra il singolo e il gruppo, tra le relazioni plurali e la riflessione singolare, tra gli spazi dell' ozio e gli spazi dell'attività. Un luogo che contrasta la sottomissione e l'assoggettamento. Un confine aperto che garantisce sempre il ritorno.
I luoghi della psichiatria, i manicomi, sono stati storicamente i luoghi della costruzione e della riproduzione della malattia mentale: luoghi senza ritorno. Nel nostro paese le leggi di riforma dell'assistenza psichiatrica e la conseguente chiusura del manicomio, hanno rappresentato la prima misura (nel mondo) che si è rivelata capace di garantire il ritorno e di avviare processi efficaci di prevenzione.
Anche se il manicomio non c'è più e le mura sono letteralmente crollate, sono sopravvissuti ai cambiamenti luoghi che riproducono malattia, cronicità, esclusione. È evidente allora che non sono i luoghi in sé che inducono le cattive pratiche. Sono le pratiche che fondano su quella psichiatria che ha edificato il manicomio. Una psichiatria tutta interna al paradigma medico definisce malattie, oggetti, comportamenti, rischio, pericolosità, inguaribilità: «Lo psichiatra finisce per avere occhi ciechi e orecchi sordi». Sordità e cecità condizionano irrimediabilmente i luoghi. Oggi immaginare e progettare luoghi diversi significa disarticolare completamente il paradigma della medicalizzazione (demedicalizzare!), interrogarsi sulla natura della malattia, ascoltare le persone che vivono l'esperienza della malattia per scoprire alla fine che i luoghi della cura altro non sono che i luoghi del quotidiano.
Il centro di salute mentale, con le persone che lo attraversano costituisce un insospettabile campo di contraddizioni (inconciliabili), di ricerca di singolari possibilità, di resistenza. È il luogo della indefinizione, della decostruzione, dell'incertezza. Ma anche il luogo della rassicurazione, della ricomposizione, della riflessione. La vivibilità del centro deve fare i conti con tutto questo. Garantire l'attraversabilità, la contaminazione e l'uso collettivo degli spazi e la possibilità di un uso riservato, privato, sicuro. Gli infermieri, i medici, i pazienti, i familiari giocano su un'immagine di sé, della malattia, del ruolo inconciliabile con il progetto di centro di salute mentale. Ognuno fa fatica a condividere la visione dell'altro. Tenere aperto questo campo, garantire la diversità, l'inconciliabilità, l'insieme delle voci diverse - l'eterofonia - costruisce la possibilità concreta di immaginare un centro di salute mentale.
In conclusione, si potrebbe riconoscere uno spazio per le persone, un luogo di incontri che fa della orizzontalità, dell' attraversabilità la sua forza; e uno per i pazienti che trova la sua conferma nella gerarchia, nella malattia, nelle codificazioni diagnostiche, nel lessico medico. Quanto più il luogo, il centro, è visibile, trasparente, attraversabile e attraversato dalle contraddizioni tanto più crescono le possibilità di radicamento..
Un luogo dove chi sta bene può incontrare lo sguardo dell'altro che sta male soltanto se ambiente, relazioni, atmosfere non costringono a vivere drammaticamente la differenza, non connotano inesorabilmente sano e malato. In questo senso ritorna importante la questione dell'estetica, del bello, dell'accogliente che costringe alla cura dell'immagine di chi attraversa questi luoghi all'attenzione ai «dettagli»: le cicche per terra, le porte sgangherate, le toilette infrequentabili, gli intonaci cadenti e tutti quei segni che condizionano lo sguardo prima ancora che incontri e riconosca chi il centro di salute mentale si trova ad attraversare.
*Direttore del Dipartimento di Salute mentale di Trieste
articolo apparso su "Il manifesto" 9 febbraio 2010