Sulla soglia ma non come pezzenti
di Paolo Cinque
[C’è un punto del cammino in cui la cognizione finalmente acquisita
della struttura storica del proprio destino incrocia la possibilità non vana ma
razionale della speranza, come raggiungimento statisticamente probabile della
soluzione più favorevole nelle condizioni date: nel nostro caso, alla continuità
evolutiva dell’intelligenza in campo, nelle forme che sceglieremo di adottare.
Noi siamo esattamente lì. Confusi probabilmente. Ma in piedi e a testa alta.1]
Si era ancora con il pensiero al Convegno di Trieste di un anno fa, ancora ringraziando Guido e Davide per il lavoro svolto nella preparazione e realizzazione degli incontri … e già un nuovo Convegno ci è venuto incontro e ci ha coinvolto. E nuove sensazioni e nuovi riconoscimenti ... Il “Grazie!” che oggi dobbiamo a Guido, Marina e Barbara è dovuto anche per certe cose nuove che hanno fatto intravedere: nel tempo della miseria che ci circonda non è poco.
Non è che, secondo me, non si possa cogliere una continuità nello stato d’animo tra i due convegni: infatti, non era un clima facile un anno fa, dato lo sbigottimento prevalente, determinato dalle deliberazioni in merito al riassetto dei Licei e in particolare di quello delle Scienze Umane. Si trattava di uno sbigottimento destinato a durare ancora, oppure a svilupparsi in una disincantata elaborazione del possibile. Entrambe le strade sono ancora aperte e non credo che sarà facile chiuderle, ancora oggi, visto che l’anno trascorso non ha fatto che farci muovere i primi passi in un paesaggio scolastico devastato dalla ruspa gelminiana.
Non abbiamo mai avuto vita facile durante la sperimentazione, figurarsi adesso che i giochi sono fatti: rispetto a quanto abbiamo visto e vissuto della scuola italiana, rispetto a quanto ci può essere stato riconosciuto in termini di progettualità e di modello, possiamo dire che non siamo noi a “scaricare” il liceo delle scienze sociali: se mai, è stato proprio il contrario.
Il Liceo delle Scienze Sociali, quello prefigurato dalla sperimentazione allargata e approdato in qualche modo nel quadro orario di “prima lettura” … quel Liceo lì non è piaciuto: questo è il senso di fondo della sfiguramento operato tra le rasoiate delle due “letture” finali. Nessun altro Liceo ha subito uno stravolgimento così profondo come quello delle Scienze Umane e, in particolare, della sua opzione economico-sociale: è stata un’operazione voluta, intenzionalmente diretta su quella “cosa” e finalizzata a depotenziarla, stravolgendola e immiserendola in un curriculum senz’anima.
La cabina di regìa è stata pagata per questo. E ha svolto un eccellente lavoro: Max Bruschi, il regista, ha potuto vantare l’operazione da lui diretta paragonandola al “Rasoio di Ockham”, in un commento autocelebrativo che sublima lo sporco lavoro del “Machete di Tremonti” nella nobile immagine di una raffinata razionalizzazione metodologica2. Come se quel sofisticato strumento epistemologico equivalesse e autorizzasse a “gettare il bambino con l’acqua del bagno”. Ora, fatta piazza pulita grazie a questa sofisticata opera di razionalizzazione, non resta che collaborare. Il resto non interessa, “il resto è noia”, secondo la colta citazione del commento finale. Da Ockham a Califano3.
A me viene in mente il più bonario punteruolo di Trilussa4 …
Così, le osservazioni di Angelo Morales su una “sorprendente” assenza di dibattito in vista del convegno di Verbania si possono spiegare come effetto collaterale di questo “clima”. È calato il sipario sulla sperimentazione e, a spettacolo finito, attorno all’epilogo si forma come un perdurante alone di silenzio attonito: inizio di una rielaborazione, un guardarsi attorno con forse il sentimento di una solitudine preannunciata.
Sento la necessità di partire da queste constatazioni per poter ripensare il nostro lavoro, la nostra collocazione e la declinazione del nostro ruolo all’interno della glaciazione gelminiana e delle inevitabili “estinzioni” didattiche che essa comporterà, visto che l’operazione “rasoio” non ha guardato per il sottile. Si può oggi affermare che la nostra azione si è svolta in un contesto caratterizzato da un “doppio legame”: quello che, da un lato, ci ha “coinvolto” e incoraggiato nella sperimentazione, nello stesso momento in cui, dall’altro, ci ha “sconvolto” disconfermandoci nel momento decisivo della formalizzazione ordinamentale.
Per riprendere un’espressione triestina di Peppe Dell’Acqua: quali sono ora le collaborazioni che offriamo ad un sistema che pure critichiamo? Questa domanda è simmetrica a quella che ci si può porre nei confronti del sistema stesso, oggetto di critica: quante e quali sono state le collaborazioni offerteci da un sistema che pure ci rifiuta? Detta in altri termini: qual è la soglia possibile per un atteggiamento che sia collaborativo e complementare con il sistema scolastico così “riordinato” ma, nello stesso tempo, non subalterno e collusivo con le sue grottesche autopresentazioni?
Dobbiamo restare sulla soglia, amici e colleghi, ma non come pezzenti. Sulla soglia, come è costitutivo della condizione stessa dell’insegnante, della sua professionalità sociale e relazionale, tra saperi diversi, ruoli diversi, linguaggi diversi, generazioni diverse. Forse anche futuri diversi. Sulla soglia non a chiedere l’elemosina di qualche ora o, peggio, a litigarsela in una ressa miserabile per alcune briciole, spostando l’attenzione solo su un effetto collaterale del riassetto dei Licei e non sulla madre di tutti gli effetti: cioè l’intenzione, tutta politica, di procedere ad una liquidazione del sistema formativo pubblico, facendola passare per “riforma” di un sistema che era certamente difettoso e obsoleto, ma che avrebbe avuto bisogno di progetti e non di emergenze, di investimenti e non di tagli, di cultura complessa e non di economicismi semplificatori.
La liquidazione del sistema formativo è, poi, solo una parte dell’attacco complessivo al sistema dei servizi e delle garanzie sociali che mistifica il termine “riforma” – parte di quel massacro linguistico così ben descritto da Gianrico Carofiglio5 – per consumare l’impostura dello smantellamento del sistema formativo, come del sistema giudiziario, del sistema sanitario, del servizio di informazione, del “welfare-state”, in un attacco che mortifica i diritti umani declinati nella prima parte della Costituzione italiana.
“La cultura non si mangia”, secondo il brutale pragmatismo tremontiano: figurarsi l’istruzione, che è l’accesso istituzionale ad essa.
È di questo che si tratta, anche per quanto riguarda il sistema scolastico: per quest’ultimo, in particolare, la quantità di ore da aggiustare all’interno di un programma orario è ben misera pagliuzza. Se ne profilano effetti anche per gli anni successivi, a partire dai tagli alle cattedre e dalle riconversioni “fast teach” dei docenti, in aggiornamenti di poche ore.
Sulla soglia, dunque, per trovare modi e ragioni di una resistenza, non per lamentarci addosso, esibendoci in inutili guaìti narcisistici su un Liceo-disgrazia e sul perché il Liceo delle Scienze Umane – e specialmente quello dell’opzione – non ci piaccia così com’è.
L’enorme differenza tra i due modelli – quello della sperimentazione tradita e quello del riassetto gelminico – rende intanto chiaro che non possiamo in alcun modo sentirci e renderci corresponsabili di questo scempio; nello stesso tempo, però, non possiamo rinunciare al ruolo di insegnanti: e questo vale a prescindere dal contesto ordinamentale e dalla qualità della politica scolastica che così lo ha voluto, oltre che dalla risposta al bisogno di rinnovamento della scuola pubblica, compreso quello degli insegnanti che in essa operano. Essi non potevano che esprimere questo bisogno: non possono fare altro, oggi, se non continuare ad esprimerlo, anche se non più nella forma di una sperimentazione originale e avanzata o nelle movenze di una collaborazione manierata. La differenza è così marcata da far sembrare che il politico abbia avuto bisogno di questa voce e di queste idee proprio per identificare il modello da NON realizzare: c’era qualcosa di troppo “sociale” in quella sperimentazione di Scienze Sociali, troppo sentore di residuo “Sessantotto” in quella visione critica e integrata di saperi in un approccio complesso alla società contemporanea, non funzionale alla retorica del mito rassicurante della “classicità”. Troppa “Utopia”, troppo “Illuminismo”, troppa “Ideologia”, troppa “Sinistra”, troppo “Culturame”. In risposta, il rasoio ha voluto estirpare la malapianta.
Siamo stati trattati da “utili idioti”. Ora che non siamo più utili … Torniamo ad essere insegnanti disinteressati; che interesse, infatti, può suscitare in un insegnante la risposta configurata nella riforma e, più in particolare, nel Liceo delle Scienze Umane e nella sua opzione?
Sulla soglia, dunque, sui margini dove l’indignazione può essere elaborata con maggiore consapevolezza di quelli che sono – e che sono sempre stati – i veri interlocutori in gioco. Sulla soglia, ma non come comparse sguaiate e isteriche: è la posizione chiave dell’insegnare, dell’insegnante che dalla sua posizione liminale si volge ad altri soggetti: tanto più se è disincantato.
Nella disillusione, una nuova modalità d’insegnante ci si presenta dinanzi: quella del docente indignato, che nella posizione di marginalità nella quale è collocato individua i punti irrinunciabili della sua presenza-resistenza, indipendentemente dal grado di successo/insuccesso o di compiacimento/denigrazione delle idee che ha cercato di “inculcare” nelle pratiche e nei profili formativi istituzionali. La sua collocazione marginale è storia profonda e silenziosa nella società italiana – che sembra così profondamente ispirata all’incultura – ed è una parte dei molti e diversi motivi, il cui insieme costituisce il non risolto problema della riforma della scuola.
Ora non è più il tempo di una collaborazione edificante: è tempo di elaborare l’indignazione in termini di progettualità scolastica ben al di sotto di un’agenda dettata dai regolamenti – già ampiamente esaminati e criticati – e nonostante tutto questo. È anche il questo senso che può essere letto il “silenzio” evidenziato da Angelo Morales.
Proprio l’opposto di quel “silenzio” che sembra chiedere Paola Mastrocola nel suo ultimo “saggio sulla libertà di non studiare”. Dopo aver tentato, in un testo precedente, di spiegare al suo cane che “Studio” deriva dal latino “studium” – il cui significato comprende la passione intellettuale, l’impegno, il coinvolgimento – ora la stessa autrice tenta di convincere gli insegnanti che sarebbe opportuno “togliere il disturbo”. Non lo dice al cane.
Non ho dubbi sul fatto che si tratti di una provocazione ma i motivi che la ispirano sono del tutto inaccettabili, così come il metodo stesso di gran parte delle argomentazioni che la supportano. Questo “togliere il disturbo” è un invito a non indignarsi, ad allontanarsi da un luogo devastato sia dall’incuria dei docenti per la grammatica e lo studio dei classici (per esempio, la poesia del Tasso, autore-epìtome di una mistica della classicità pura e inarrivabile), sia da certe psico-pedagogie progressiste centrate sullo sviluppo di “competenze” e riprese da inqualificabili e degradanti indicazioni europee.
Poche cose sono così volgari come l’ostentazione della “classicità”, soprattutto della propria. Non si sente il bisogno di questo dis-interesse, di questa dis-interessata presenza-assenza: essa ricorda il “ritiro aventiniano” di molti insegnanti all’indomani della contestazione sessantottesca, con la differenza che quella loro de-legittimazione viene oggi compiuta non dagli studenti ma dalle stesse istituzioni. E con nessuna motivazione ideale, per giunta.
Piuttosto, c’è bisogno di insegnanti realmente disinteressati: insegnanti, cioè, la cui indignazione si esprime nel disinteresse verso chi non li ha voluti ascoltare se non per “prenderli a rasoiate”. Sulla soglia, dunque, per dare le spalle a questi non-interlocutori dal rasoio facile, che … quel che avevano da dire l’hanno detto: <Si tratta di inutili complicazioni> è stata la loro risposta (cioè la non-risposta) alle nostre – qualitative – domande sugli “assi”, sui “saperi”, sulle “teste ben fatte”, sulle potenzialità umane, sulle funzioni e i modi dell’autonomia scolastica, sull’istruzione come servizio e su una concezione non economicistica delle risorse da impiegare … molto di più e molto prima che alle domande – quantitative e consequenziali alle prime – sulle “cattedre”, sugli “orari”.
Non solo questo, però: dall’altro lato della soglia, è la ri-focalizzazione del loro interesse verso il senso profondo – formativo e sociale – dell’insegnamento della propria disciplina: una “presenza” culturale che, sebbene non in forme egemoniche ma co-integrate nei saperi umanistici, scientifici e linguistici, contribuisce alla preparazione del futuro cittadino cosmopolitico. È in questa direzione che è possibile intrerpretare, per esempio, le ricorrenti indicazioni di Edgar Morin e, oggi, anche di Martha Nussbaum, che pure conferisce alla crisi dell’istruzione una dimensione mondiale e “silenziosa”. É a questa crisi silente che occorre corrispondere6.
Come si può coniugare disinteresse e indignazione?
Penso che a questo collegamento ci si dovrà dedicare, proprio come docenti indignati/disinteressati – scettici appassionati – e penso che i nostri documenti di indirizzo – come sono stati tutti quelli dei convegni di “Passaggi”, compreso quello elaborato al termine dei lavori di Verbania – dovranno occuparsi di non farci smarrire la bussola per la rotta essenziale, proprio perché essa non è tracciata e non è riconosciuta nella mappa del riassetto. Dopo il salasso “ockhamiano” di Bruschi, l’impostazione del Liceo delle Scienze umane nel suo complesso, mortifica sia la visione scientifica che quella umanistica ed è a questa profonda deficienza – a questa profonda afasìa culturale – che occorre guardare, proprio nel momento in cui il vento gelminiano sospinge la formazione e l’istruzione in curricoli-ore e in materie a cottimo.
È proprio lo stare sulla soglia che permette di dare le spalle a non-interlocutori per volgersi ad altro, anch’esso “oltre”.
Il convegno di Verbania è la “soglia” che ci offre uno sguardo sui reali interlocutori nella comprensione-trasmissione di quei saperi: una popolazione studentesca, antropologicamente re-inventata, con inediti stili cognitivi, caratteristiche mentali e percezione del mondo che starebbero ben oltre la “Galassia Gutenberg” e ben dentro, a quanto pare, la “Galassia Internet”. È un invito agli adulti perché assumano uno sguardo meno prevalentemente preoccupato e apocalittico, che nasce da una declinazione, che può essere anche riduttiva, della “virtualità”, dove l’esplosione dei contatti tramite i “new media” contrasta con lo stile del racconto compattato e lineare tipico di Homo sapiens gutenbergensis, ovvero delle generazioni scolarizzate “istruite” fino agli ultimi vent’anni del secolo scorso all’interno di strutture in ogni caso obsolete. È un invito ad esplorare le possibilità offerte all’insegnante – quale che sia il punto in cui situare il suo “centro” in una società multicentrica – dall’affermarsi di tecniche di costruzione, elaborazione e consumo delle informazioni che sfidano il modo di pensare consolidato nella civiltà del libro: un invito a comprendere come questo bagaglio di strumenti sia in grado di modificare e addirittura produrre una mente che, fino alla generazione dei genitori di questi studenti, si era strutturata attorno all’attivazione di competenze psichiche prevalentemente “gutenberghiane”.
Non si tratta di de-culturalizzarsi, subendo la colonizzazione facile-ottimistica di chi scommette tutto sull’adozione e diffusione della tecnologia multimediale nella scuola come panacèa dei problemi dell’istruzione; non si tratta affatto di chiudere gli occhi sui dubbi e le ambiguità che tutte le tecnologie portano con sé e quelle della comunicazione in particolare: tutte le perplessità di fronte al carattere ambiguo dello “spazio virtuale”, dove spasima “l’io minimo” in una pratica di amicizie attraverso la moltiplicazione indefinita dei “contatti”, massificando la propria identità e coltivando la “passione triste” della paura del futuro … Tutta quest’attenzione critica non verrebbero meno: si tratta, piuttosto, di riuscire a vedere nei nuovi studenti dei soggetti culturalmente attivi, dei quali comprendere il linguaggio che retro-agisce con gli strumenti multimediali via via più diffusi e presenti nell’ordinaria esperienza quotidiana. Sintetizzando, se l’alfabetizzazione “gutenberghiana” ha prodotto competenze cognitive oggi marginalizzate dalla popolazione scolastica “internettizzata”, occorre riconoscere che anche l’inverso è un problema: se i “nativi informatici” sono “dislessici” rispetto alle competenze cognitivo-emozionali degli “aborigeni gutenberghiani”, anche questi ultimi lo sono rispetto alle competenze cognitivo-emozionali esercitate dai primi. Si potrebbe trattare di due alfabetizzazioni non ancora integrate, che forse è il caso di tentare di non rendere opposte e alternative.
Si tratterebbe dunque di creare una “soglia” di tensione tra competenze storicamente sorte in tempi e contesti diversi, entrambe costitutive della condizione umana, entrambe espansioni del sistema nervoso centrale e del cervello “culturale”. Come contrapposizione tra due mondi incompatibili, questa tensione è vissuta negativamente, ora come apocalissi della cultura “alta” (snobisticamente “classica” nella visione di Paola Mastrocola suggestivamente “politica” nella visione di Martha Nussbaum) ora come liberazione individualistica dalla “fatica di pensare” e da una tradizione che “riempie senza accendere”, verso uno spazio virtuale che si apre a un’esperienza tutta declinata al presente e che forse “accende senza riempire”, massificando il web in una soggettività pulviscolare.
Pur se psicologicamente collegabile, la “soglia” del convegno di Verbania non è dunque già più quella del precedente convegno “di passaggio”, per così dire, dalla sperimentazione all’ordinamento. Già nel suo titolo programmatico, infatti, ha voluto porsi sulla soglia diversa: quella fra mondi e persone non facilmente mediabili negli stili cognitivi, di insegnamento e di apprendimento: essi però si appartengono reciprocamente molto più di quanto il “corpo insegnante” appartenga alla scuola “ockhamizzata”. Perciò, l’indignato silenzio dovuto al vuoto di chi non ci ha ascoltato non può estendersi ad un silenzio risentito che si opporrebbe all’ascolto e allo “sguardo da lontano” verso le aule e le reti della condivisione giovanile, duplicandosi nel rifiuto sdegnato nei confronti di soggetti che sono solo diversamente attivi dal punto di vista emozionale ed intellettuale, perché alfabetizzati in modo diverso, comunque sotto-intercettato come “fastidio”.
Questa “soglia” consente di ritrovare, riformulandolo, uno dei problemi che definisce il fondamento stesso della funzione docente: quello della mediazione del sapere a generazioni ignoranti ma non stupide (una novità ovvia) ma diversamente alfabetizzate (una novità dirompente). In questa dirompente novità il sapere non è più “deposto” in una generazione di adulti e da essi via via “versato” nelle teste vuote di soggetti intelligenti, ma è “portato” anche da quegli stessi soggetti che un tempo sarebbero stati solo o prevalentemente oggetto di un più o meno benevolo sentimento “colonizzatore” di responsabile “superiorità” da parte del popolo degli adulti.
In quest’opera di mediazione è la diversa alfabetizzazione che costituisce la sfida: la conseguente diversa percezione del mondo, dei suoi “tempi” e dei “saperi” su di esso, non più asimmetricamente distribuiti. La si può formulare in questi termini: quale strategia di mediazione e comunicazione fra due mondi, uno dei quali vive la cultura come “trasmissione” intergenerazionale attraverso l’uso dei libri mentre l’altro la vive come “consumo” intragenerazionale attraverso la massificazione dei media vecchi e nuovi e l’industria culturale? Quali sono le possibilità offerte in questo spazio, per molti di noi quasi inedito, sia ai saperi tradizionali che alla formazione di una coscienza civile, di una rivendicazione di maggiori diritti e dignità?7
Non si tratta, dunque, di accodarci a nuove mode mediatiche: la posizione di “soglia” necessita di una buona dose di perplessità.
Il convegno di Verbania non poteva che continuare ad offrire riflessioni su un sapere non più arroccato pregiudizialmente nelle proprie specializzazioni, sulle proprie abitudini metodologiche. È un altro modo di stare sulla soglia, rivolti verso la propria disciplina molto più che verso la singola materia di insegnamento, intendendo per disciplina il modo di pensare tipico di un determinato sapere8. É questo che l’insegnante dovrebbe essere messo in grado di comunicare, attraverso la materia che insegna, intendendo con “materia” l’insieme delle conoscenze fondanti che attengono ad una disciplina. Il passaggio dalla “materia” alla “disciplina” non è automaticamente garantito dallo studio nozionistico: tanto meno lo è il passaggio dalla singola disciplina all’insieme delle discipline curricolari, cioè al sapere complesso che fonda l’atteggiamento correlativo rispetto alla complessità del mondo e ad una emozionante perplessità, che oggi è forse la nuova fonte – dopo la meraviglia – della passione per il sapere stesso.
Un curriculum scolastico è l’insieme – non la somma – dei diversi modi di pensare e di vedere il mondo. Con buona pace di Paola Mastrocola, è questo l’essenziale di ciò che oggi si chiama “competenza”, il “cum-petere” dei saperi acquisiti, l’allargamento ad ambiti diversi di ciò che si è appreso in un ambito particolare, ivi compresa l’emozione del chiedersi: riprendendo una considerazione di Aldo Schiavone, “Credo che il significato della transizione rivoluzionaria che stiamo attraversando sia tutto qui: aver reso effettivo, diretto e determinato innanzi agli occhi di tutti quello che la modernità aveva solo lasciato intravedere […]. Che cioè attraverso la scienza e la tecnica l’infinito – l’infinito come assenza totale di confini alle possibilità del fare […] – sta entrando stabilmente nel mondo degli uomini […]. Questa assoluta indeterminatezza dà le vertigini solo a pensarla: ma vi dovremo fare l’abitudine. […] Non sarà facile: gli inizi si stanno rivelando tormentosi, il passaggio è stretto e pieno di insidie, e stiamo rischiando […] di perdere il senso stesso della nostra posizione.”9
In questa rete di possibilità anche l’improbabile e l’imprevedibile acquistano un peso e un senso: le statistiche orientano e gli specialisti pure ma … chi avrebbe mai scommesso, per esempio, sugli eventi che agitano attualmente il mondo arabo? O sulle catastrofi che turbano il “sonno della ragione” ipertecnologica sulla sicurezza atomica? In fondo, anche questa scuola – e non solo quella nazionale – può essere solo la mediocre opzione di un’orgogliosa e accecata sicurezza del pensiero politico dominante, che ignora il potere del rischio.
Perciò … Sulla soglia, amici e colleghi: E guardando da quel lato dove essa imbocca un senso, per quanto silenziosa e oscura sia la caverna, dal punto in cui stiamo.
O, forse, molto più piena di rumori di fondo e barlumi di luce che … Chissà …
A forza di guardare dalla parte opposta, nel buio del fondo di essa, si può finire col pensare di essere diventati ciechi.
Paolo Cinque
- A Schiavone, Storia e destino, Torino, Einaudi 2007, pp. 98 sg.
- M. Bruschi, SCUOLA/ Conoscenze o competenze? Superiamo la diatriba con il buon vecchio rasoio di Ockham ora in http//dirisp1.interfree.it/isp/attivita/competenze/compet_docum.htm
- M. Bruschi, SCUOLA/ 2. Bruschi (Ministero): ci interessa solo il dialogo educativo, il resto è noia, commento alle indicazioni ufficiali dei nuovi licei, 27 maggio 2010
- “La lumachella de la vanagloria/ch’era strisciata sopra un’obelisco/guardò la bava e disse:<Già capisco/che lascerò un’impronta ne la storia!>”
- G. Carofiglio, La manomissione delle parole, Milano, Rizzoli 2009
- M.C. Nussbaum, Not for Profit.Why Democracy needs the Humanities. Princeton Univ 2010. Tr. it. “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”, Il Mulino, Bologna 2011. Il riferimento a Morin è pressoché scontato, anche perché l’autore ha continuato ad insistere sul rapporto “riforma dell’insegnamento-riforma del pensiero”, fino alla recente “lectio magistralis” tenuta all’Università di Torino alla fine di marzo.
- Qual è stato il ruolo dei Social Network nell’esplosione della richiesta di libertà politica nel Nord Africa di questi giorni e, probabilmente, di altre parti del mondo arabo? Se lo chiede, per esempio, Barbara Spinelli “L’Agorà araba”, la Repubblica 2 marzo 2011
- H. Gardner, Five Minds for the Future, Harvard 2006, tr. it. Cinque Chiavi per il Futuro, Milano, Feltrinelli 2008
- A Schiavone, cit. p. 98.sg