L'epistemologia delle Scienze Sociali: coniugare radici e mutamento (Leonello Bettin)

Leonello Bettin

 

A conclusione di un primo ciclo di seminari nazionali riguardanti la configurazione culturale/didattica da affidare al Liceo delle scienze sociali, nel 2000 esce il documento di riferimento del Liceo. Esso dice, in estrema sintesi, che l’asse culturale è quello storico-antropologico e che l’oggetto di studio è la contemporaneità.

L’associazione “Passaggi”, all’inizio della sua attività, ha avvertito il bisogno di riandare a riflettere intorno a queste due polarità (in realtà si tratta di un polo a due facce) realizzando due seminari dedicati all’asse e all’oggetto.

Infatti, per ragionare ancora sul curricolo, per riconoscersi in esso, bisogna ripartire da qui, da questa cornice epistemologica/culturale che si è andata riempiendo negli anni, in seguito a riflessioni, studi, scambi tra scuole e insegnanti.

Si è delineata, così, una visione più chiara dell’articolazione del curricolo a livello quinquennale, una scansione che rappresenta un risultato – provvisorio ma solido – del modo in cui le scienze sociali hanno riflettuto sui cambiamenti del mondo e della condizione umana, sulla storia e su se stesse.

L’asse culturale si è andato concretando in modo sempre più consapevole: si è pensato, si è applicato, si è pensato.

Ora proviamo a raccogliere alcuni risultati di questa attività di riflessione e di pratica didattica

 

 

Leonello Bettin1. Il Cambiamento

 

«Il desiderio di studiare le forme della vita sociale trae dalla percezione del mutamento una spinta formidabile: si comincia a studiare la società quando essa non può più essere data per scontata.» Così Paolo Jedlowski, in Il mondo in questione, stabilisce la corretta relazione tra cambiamento sociale e nascita delle scienze sociali. Il tempo della nostra specie è stato segnato per millenni da mutamenti marginali tali da non essere percepiti, perché le condizioni di vita di gran parte della società sono rimaste nella sostanza invariate. Per segnalare con una battuta la continuità dei modi di vita, si suol dire che i contadini del XVI secolo condividevano la condizione dei contadini dell’era di Cesare (ma, in realtà, si può retrocedere per almeno altri due mila anni).

Insomma, è prevalsa la continuità e ciò ha comportato conseguenze importanti, sia sul piano sociale che culturale. Per citare solo due esempi, la società della continuità è gerontocratica, comandano gli anziani che sono garanzia, appunto, di continuità tra il passato e il presente; è il passato che conta, che dà validità al presente, mentre il futuro è visto come un passato che ritorna. La mente delle persone è rivolta al passato garante della solidità della tradizione che costituisce la cornice necessaria in cui inscrivere la vita. Questa tipologia sociale è chiamata, non a caso, tradizionale perché la conoscenza così come le pratiche di vita sono ancorate alla tradizione che offre sicurezza e certezze. Ciò è possibile in un mondo in cui la risorsa terra (dunque agricoltura) è il fattore di produzione centrale delle società tradizionali e per coltivare la terra bisogna fidarsi di chi ha esperienza, dunque degli anziani. Gli adulti/anziani sono anche gli artigiani che addestrano nelle loro “botteghe” bambini e adolescenti. Per migliaia di anni la conoscenza esperta acquisita con l’età ha dominato i rapporti sociali e di genere, garantendo una società bloccata. Nelle società post tradizionale assume una sempre maggior rilevanza la ricerca tecnico-scientifica, che impone uno scarto, una secca discontinuità che rovescia i rapporti tra le età e fluidifica –in parte – la società; il vecchio/anziano viene considerato obsoleto, mentre il giovane incarna la noLeonello Bettinvità.

L’esperienza viene scalzata dall’aggiornamento tecnico, con importanti, e non sempre positive, ricadute sul piano antropologico, sulla nostra concezione di noi stessi, dei rapporti sociali, dei modelli di vita (si vedano le riflessioni di Galimberti sulla tecnica di cui l’essere umano diventa il “servente”).

Al di là dei semplicistici stereotipi che accompagnano la visione dei rapporti tra le età della vita, sta di fatto che, nel caso accennato, siamo di fonte a un cambiamento che, a buon diritto, è stato definito epocale: si è conclusa un’epoca della storia dell’umanità, per entrare in un nuovo percorso, che ancora non siamo in grado di intravedere dove ci condurrà (ma “nuovo” non significa necessariamente “migliore”, ma semplicemente “differente”).

Il cambiamento epocale o totale (perchè sommuove l’intera società e ha portata mondiale) introduce un fattore di netta discontinuità che spezza il deflusso lineare della storia introducendo tali modificazioni da rendere la realtà umana talmente “nuova”, da renderla incompatibile (e incomparabile) con quella precedente.

La società moderna è l’esempio massimo di società mutata – dopo i millenni di dominio delle società agricole – e tale è il cambiamento che essa non può più essere data per scontata. È la sua stessa esistenza a porre problemi dunque, per avviarne la comprensione, devono cambiare i quadri concettuali, le strategie di conoscenza, gli approcci cognitivi e le stesse categorie mentali, il cui esame, tra Aristotele e Kant sembrava concluso.

Le scienze sociali hanno, dunque, valore in sé perché rinnovano e rifondano modelli concettuali e percorsi cognitivi.

 

 

2. La discontinuità

 

I grandi cambiamenti epocali hanno provocato l’evidenziarsi di una discontinuità con l’epoca precedente, un evento evidentemente non immediato ma che con il tempo è stato percepito dalle popolazioni coinvolte che, normalmente, hanno esaltato le virtù della nuova situazione contro un passato giudicato negativamente. Di qui sono nati equivoci storici e antropologici, cui accenneremo.

L’umanità ha fatto l’esperienza, fino ad ora, di tre grandi cambiamenti epocali, di tre grandi discontinuità.

Il primo è stato il passaggio dalla caccia/raccolta all’agricoltura, il secondo dall’agricoltura all’industria, il terzo, tuttora in atto, il passaggio dall’industria alla finanza e ai servizi. Luciano Gallino parla di uno «spropositato predominio (di un ordine compreso tra 50:1 e 100:1) degli scambi esclusivamente finanziari sugli scambi dell’economia reale» [Globalizzazione e disuguaglianze].

Va chiarito che con “caccia/raccolta”, “agricoltura”, ecc., si vuol indicare la forma prevalente del lavoro umano che riesce a plasmare l’intera vita della popolazione che ha subìto quel dato cambiamento. È, in sostanza, questo che caratterizza un’epoca; ciò che esisteva prima non è sparito ma assume una funzione secondaria. Ad esempio l’imporsi dell’industria nel corso dell’Ottocento non ha cancellato l’agricoltura, non tutti i contadini sono diventati operai, ma ora agricoltura e contadini sono attività marginali rispetto al cambiamento epocale imposto dall’industria. E questo vale anche per gli altri periodi storici.

Parliamo di cambiamento epocale, di discontinuità, perché nel caso di queste tre grandi “rivoluzioni”, vi è stato solo in parte un passaggio graduale, ciò che invece colpisce è la modificazione profonda delle modalità della vita, dei rapporti sociali e della visione del mondo. Un cambiamento radicale (= alla radice) economico/politico, della struttura sociale (quali sono le classi dominanti, come si stabiliscono i rapporti di potere, la tipologia di famiglia, i rapporti di genere ecc.) ha una netta ricaduta sul piano antropologico ovvero sui modelli di pensiero e di emozione, sulla visione di sé e degli altri.

Quando il cambiamento viene percepito, la discontinuità nei fatti diventa consapevolezza nella coscienza (per coscienza si intende vygotskijanamente “pensiero consapevole”). 

 

 

3. Le tre grandi discontinuità

 

Ci fermiamo a ragionare, brevemente, sulle tre discontinuità poiché queste rappresentano la cornice culturale del Liceo delle scienze sociali, l’ambito su cui si fonda il senso dell’ indirizzo.

La prima rottura, il passaggio dalla società di cacciatori/raccoglitori a quella degli agricoltori/allevatori è rilevante, per noi, perché ci permette di superare una serie radicata di pregiudizi sui cosiddetti “primitivi” (antiche e moderni, direi) e su un concetto tutto produttivistico di sviluppo, secondo cui il passaggio avrebbe permesso all’umanità di fare un decisivo passo in avanti. Accenno solo all’ “equivoco antropologico” riguardo alla società dei cacciatori/raccoglitori messo in luce da Sahlins, poi da Harris e da tutti gli antropologi che hanno riflettuto sulla questione, tra cui Nicola Martino (lo ricordo perché il suo testo è di facile accesso).

Dall’ “equivoco” esce una prospettiva rovesciata: il passaggio tra le due società è un deciso arretramento civile. Il tempo del lavoro per la sopravvivenza passa da 4 a 12 ore, il comunitarismo egualitario e solidaristico intersessuale e intergenerazionale della società “primitiva” viene spezzato dalla società agricola che impone gerarchie quasi immutabili, che durano millenni, di genere, di età, di classe sociale, di liberi/schiavi, di forme di governo autoritario.

Inoltre, la società agricola pratica la guerra, la schiavitù e la servitù come normali prassi produttive.

Va, ancora, fatto un cenno al colonialismo che si è retto per più di 4 secoli sulla giustificazione della missione civilizzatrice delle società occidentali verso il popoli selvaggi e/o primitivi (e nell’ultima fase del colonialismo vi sono pesanti responsabilità dell’antropologia. Si veda, ad esempio il cap. Interrogativi etnici nel saggio di Francesco Pompeo, Il mondo è poco. Un Tragitto antropologico nell’interculturalità. Sempre a questo proposito, per noi resta importante la lettura di Armi, acciaio e malattie di Diamond: strumento forte per una pratica culturale antirazzista, in un’epoca di razzismo montante).

Il primo cambiamento epocale ci permette di individuare alcune problematiche che restano centrali: la qualità dei rapporti sociali, le forme di famiglia, i rapporti di genere e tra governanti e governati, gli strumenti attraverso i quali le idee dei dominanti diventano idee dominanti, le pratiche della socializzazione, e poi gerarchia, razzismo, sviluppo, guerra, ma anche storia mondiale. I “primitivi” allargano il nostro sguardo all’intero globo, sprovincializzandoci. Al contrario, la sedentarietà delle società agricole ha sviluppato culture locali (Mesopotamia, Egitto, Grecia-Roma, Cina, Centro-Sud America) che hanno creato confini – prerequisito della guerra - spezzando il globalismo nomade del cacciatore.

Mi sono soffermato sulla prima discontinuità perché normalmente è tema di biennio che deve puntare a una fondamentale competenza: saper “vedere” con uno sguardo socio-antropologico, uno sguardo strabico, si parla infatti di passato ma ci si interroga sul presente (si pensi, ad esempio, alle diversità di comportamento verso l’ambiente, tra noi, dissipatori, e i primitivi, conservatori). In questo caso – biennio/società arcaiche-antiche - uno “sguardo la lontano” è utile perché si rivolge a temi non direttamente coinvolgenti e che dunque possono essere studiati con un certo distacco, percorrendo vie anche dissacranti, anticonformiste. Inoltre, come ho accennato, l’altrettanto necessario sguardo sull’intero mondo aiuta a relativizzarci noi europei, civili, sviluppati ( è di estrema rilevanza che Diamond non parli mai dell’Europa e degli USA).

La seconda discontinuità è il nostro pane: dalla modernizzazione nascono le scienze sociali, la nostra stessa ragione di essere. E dalla modernizzazione si forma la società industriale che attraverso guerre, massacri, genocidi, immonde gerarchie e ingiustizie sociali, dimensione strumentalmente produttivistica dello spazio e del tempo, è giunta – non per un destino benevolo - a stabilire un patto storico tra capitalismo, Stato sociale e democrazia [Beck], un ambito sociale in cui ci siamo formati noi post cinquantenni, non passivamente, ci siamo messi in campo anche noi (la nostra formazione “politica” è stata stimolata da un’ottica da scienze sociali).

La nostra avventura – personale, professionale, culturale – comincia da qui e prosegue in un presente che è un’altra storia perché da circa trent’anni il mondo è cambiato. « Nel momento in cui il capitalismo globale dissolve i valori di base della società del lavoro dei paesi occidentali, si spezza un patto storico tra capitalismo, Stato sociale e democrazia» [U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro], o, con un altro linguaggio, « la fine del Panopticon [la fine della modernità] preconizza la fine dell’epoca del reciproco coinvolgimento: tra controllori e controllati, capitale e lavoro, leader e seguaci » [ Z. Bauman, Modernità liquida. Il corsivo è dell’Autore].

Surmodernità, postmodernità, modernità liquida, modernità riflessiva, società postindustriale, società dell’informazione : tanti possibili nomi per definire una società mutata e in via di mutamento. E qui ci siamo dentro, noi e i nostri studenti e qui applicare uno sguardo da lontano è proprio complicato. Anzi, il bello dell’indirizzo è di sentirci coinvolti: è la base di un ambiente “paritetico” e non ipocriticamente democratico. Noi siamo in ballo come e con i nostri studenti.

 

 

4. La discontinuità culturale

 

È quasi superfluo notare che le nuove realtà socio-economiche, le radicalmente mutate condizioni di vita, innescano dinamiche culturali, impensabili a priori. Così, si modificano nel profondo i quadri di riferimento ( gli “strumenti”, direbbe Vygotskij ) che fanno da referente nella costruzione di sistemi collettivi di significato o, sistemi di simboli, con i quali gli esseri umani conferiscono senso a propria esistenza e al mondo sociale [C. Geertz, Interpretazione di culture].

La discontinuità culturale ci indica più cose: 1)i fenomeni culturali sono costellazioni di significati contestualizzati, 2) per indagarli va studiato il contesto in cui si sono formati e il contesto di colui/coloro che li interrogano, 3) le condizioni storicamente determinate, o contesto, ci guidano verso una collocazione appropriata delle culture in una diacronia non uniforme e indifferenziata ma, al contrario, caratterizzata da rotture epistemologiche e/o cambi di paradigma [Kuhn], 4) la contestualizzazione delle culture non ci permette di pensare i passati con le categorie del presente, come se il mondo si fosse lentamente evoluto in modo omogeneo; anzi, la constatazione del cambiamento ci aliena qualsiasi tentazione di “stabilizzare” i fenomeni culturali estraendoli dal tempo e traendone una manualistica semplificatoria e absoluta.

La discontinuità introduce l’idea della instabilità dei fenomeni culturali, della loro modificabilità, mutevolezza, fluidità, privi di una sostanzialità forte, anche se pur tutta immanente (come vorrebbe lo strutturalismo e in primis Lévi-Strauss).

Le culture, così vengono a perdere i presunti caratteri di costruzioni chiuse, ripiegate su se stesse, che sarebbero in grado di forgiare completamente e in modo duraturo una persona (una prospettiva che piace ai fautori delle guerre di civiltà).

La discontinuità/cambiamento toglie il primato alle culture per restituirlo alle persone. Marco Aime ci ricorda che le culture in senso proprio non esistono: « Si tratta di espedienti retorici e analitici, di astrazioni formulate dagli studiosi per indicare a posteriori processi storici [sta parlando delle culture], ma utilizzare tali categorie per leggere la nostra realtà quotidiana può essere fuorviante. In questa realtà noi vediamo donne, uomini e bambini conoscersi, convivere, lottare, combattere. […] Dalle carrette del mare […] sbarcano disperati, non culture» [Eccessi di culture, p. 53].

In tempi di disgregazione sociale che facilita il riaffermarsi del razzismo e della xenofobia, il concetto di cultura - come quello di etnia - va usato con molta cautela per non rischiare di far passare l’idea di un mondo attraversato da una rete di confini invalicabili che dividono territori in cui dovrebbe vigere il più assoluto comunitarismo - secondo cui non ci sarebbero persone ma culture - per non cadere nella trappola della reificazione.

La voglia di comunità identitaria sta scombinando le menti di tutti i devoti d’occidente e d’oriente e ognuno brandisce la propria verità contro l’altro. Teniamoci a distanza. 

 

 

5. La discontinuità attraversa le scienze sociali e la didattica delle scienze sociali

 

Le scienze sociali sono nate in seguito alla modernizzazione come indagini sulla contemporaneità. Il solo fatto del formarsi e dell’affermarsi di nuove scienze è già un atto di discontinuità, così come l’oggetto dello studio è conseguenza di un cambiamento d’ottica epocale: la società contemporanea (allo studioso) non era mai stata ritenuta degna di scienza.

La contemporaneità diventa invece la loro stessa ragione d’essere: conoscere vuol dire costruire strategie d’investigazione del mondo che abbiamo davanti, a noi contemporaneo.

Ma la contemporaneità è un concetto diacronicamente relativo: esiste il mondo con-temporaneo agli “inventori delle scienze sociali”, esiste il mondo con-temporaneo a noi. Tra i due “mondi”, la frattura che si è manifestata intorno agli anni ’70 del ‘900 si è andata approfondendo introducendo un fattore di netta discontinuità. La scienza sociale dell’Ottocento-prima metà del Novecento è una testimonianza socio-antropologica della modernità: la nuova epoca – la “post” – ha, dunque, richiesto una modificazione profonda delle strategie cognitive, dei concetti, degli oggetti/soggetti di studio privilegiati. Tra un Malinowski e una Callari Galli, tutti e due antropologi, non esiste nessun rapporto ( se non che Callari Galli ha studiato Malinowski), così come tra Weber e Bauman, ambedue sociologi, l’abisso di distanza è netto ( se non, ancora, l’omaggio che il secondo può fare del primo come grande interprete della sua società e costruttore di categorie concettuali della modernità). Il mondo è cambiato, gli scienziati sociali si sono dovuti ri-attrezzare, cambiando codici concettuali, categorie ma anche procedendo verso una sintesi originale tra sociologia e antropologia, poiché l’oggetto di studio – la società contemporanea – è diventato comune alle due scienze. E anche noi, insegnanti, dobbiamo di continuo ri-attrezzarci: ripeto, il senso dell’indirizzo è l’indagine sulla contemporaneità.

Le scienze sociali sono dunque contrassegnate da una doppia discontinuità – il loro formarsi e poi il loro ri-formarsi - che ne esalta il carattere non-definito tipico delle scienze “di relazione” che hanno per oggetto le modalità di vita di società e gruppi, insomma degli esseri umani in carne ed ossa: la discontinuità con la filosofia, la forma culturale delle società agricole o tradizionali o premoderne, è netta. Non si può dare scienza dell’uomo ma solo scienza degli uomini, e delle donne e dei bambini… e non per tentare di costruire una nuova ontologia “plurale” (la nuova moda filosofica) ma per studiare le relazioni, i rapporti sociali o, più in generale, interumani. « Se ogni scienza può essere definita come conoscenza di reti di rapporti, la forma del conoscere antropologico è allora da intendersi come l’interpretazione dell’incontro con l’altro: dell’incontro, non dell’altro» [G. Harrison, I fondamenti antropologici dei diritti umani]. E lo stesso può dirsi per una sociologia rinnovata che deve confrontarsi con una realtà in cui sono saltate tutte le coordinate della società industriale: è la fluidità dei rapporti intersociali che diventa centrale e assume carattere mondiale, sia perché le migrazioni stanno cambiando gli assetti delle società sia perché le stesse subiscono nuove disuguaglianze per una diversa allocazione di ricchezze e di povertà (i circa tre miliardi di poveri – condizione costante non accidente storico superabile - non possono non avere conseguenze nella riflessione delle scienze sociali), sia infine perché gli equilibri fra super potenze economiche stanno cambiando e il dominio economico che passa di mano, dagli USA a Cina e India, significa un bel colpo ai nostri schemi planetari (si vedano i libri, innovativi, di Rampini).

Scienze dell’incontro, scienze delle relazioni, scienze del cambiamento, scienze in cambiamento: esigenza di un insegnante di tipo nuovo, colto, aggiornato, auto consapevole, attento alla vita pubblica nazionale e internazionale, che dà vita a una nuova didattica adatta alla novità costituita dalle scienze sociali.

E’ qui che si gioca il destino del Liceo delle scienze sociali, perché è proprio il carattere fluido di queste scienze che rende il compito difficile, sia sul piano strettamente culturale sia su quello della prassi didattica: due livelli che costituiscono un tutt’uno inscindibile.

La “fluidità” delle scienze sociali pone la possibilità di attirare altre discipline, che per contribuire alla costruzione di piste di indagine debbono anch’esse assumere un carattere fluido, problematico, antidogmatico, non-certo (penso a diritto, economia, storia, scienze naturali. Sul diritto suggerisco Zagrebelsky, La virtù del dubbio, dove discutendo di diritto costituzionale si parla di universalismo e relativismo, diritto e cultura, positivismo e antipositivismo, pluralismo e multiculturalismo, ecc.: le scienze sociali sono chiaramente “espansive”). Le scienze sociali non possono essere semplicemente una disciplina tra le tante, affiancata alle altre, ma devono tentare di informare di sé tutto il curricolo liceale. L’asse culturale tradizionale retorico-letterario va sostituito con quello storico-antropologico: inneschiamo noi elementi di discontinuità, perché la sostituzione dell’asse culturale è foriera di cambiamenti radicali della cultura scolastica. Non solo l’ottica socio-culturale può modificare l’impostazione di quasi tutte le discipline, ma le scienze sociali, se sono scienze della contemporaneità, sono scienze del presente, dunque vanno direttamente a configgere con l’impostazione “passatista” della scuola italiana. Questo cenno al presente va ampliato e approfondito anche perché ha altre potenzialità, come ci suggerisce Callari Galli: «L’attenzione al presente […] esige la rottura di confini tra i diversi saperi. Essa richiede di organizzare le nostre conoscenze – e quindi quelle dei nostri allievi – per temi e problemi, superando le consolidate gerarchie disciplinari e andando a cercare nuovi percorsi e nuovi stimoli negli accostamenti più impensati» [Lo studio del presente].

Cambiamenti vasti è radicali che vanno affrontati pena il definitivo scacco della scuola: il tutto si gioca sulla capacità di collaborazione – a cui non siamo abituati, a cominciare dalla non-collaborazione che offriamo ai nostri allievi – e sul puntiglio dell’ aggiornamento continuo: l’insegnante di scienze sociali o è una persona colta che si sa mettere in gioco e in discussione, civilmente informata e coinvolta, o non è.

L’ignoranza semplicizza e banalizza, la preparazione culturale semplifica; l’ignoranza manualizza e verifica perché insegue i risultati, la preparazione culturale insegue i processi di apprendimento consapevole, che per quanto riguarda scienze completamente nuove ( che non hanno potuto costruire, come le altre discipline, una sorta di abitudine a una certa ottica costruita nelle elementari/medie) queste hanno bisogno di tempi lunghi di apprendimento e di verifiche mai sommative ma sempre formative, informali, quasi quotidiane, da costruire e correggere insieme, in classe. L’apprendimento è una co-costruzione, ben pensare è apprendere insieme [Morin].

Ma ci sono altre procedure specifiche che sempre implicano quella lucidità che si costruisce con una preparazione culturale in continua sollecitazione e revisione: la valorizzazione del dubbio, della non-certezza, della prudenza e della “pazienza”, l’abitudine all’approccio sotto forma di ricerca aperta e osservazione auto riflessiva, l’attenzione alle differenze prima tra di noi e poi tra noi e gli altri (noi facciamo fatica a riconoscere le “differenze degli altri” perchè non riconosciamo le differenze che ci sono tra di noi: così la scuola, anche senza maligne intenzioni, contribuisce a separare o assimilare – che sono due modalità solo apparentemente opposte).

Si potrebbe dire che, in buona sostanza, debba essere assunto il relativismo come guida didattica e culturale. Senza relativismo non ci sono scienze sociali, ma dogmi e certezze, senza relativismo non c’è processo di apprendimento co-costruito ma solo insegnamento (intrinsecamente autoritario, mentre l’apprendimento costruito insieme è strutturalmente democratico).

Il relativismo culturale non significa passività né indifferenza o accettazione supina di qualsiasi formazione culturale: al contrario, è critico, “ben temperato” [Cassano] dalla riconduzione delle culture alle persone e alla loro centralità culturale ( ricordiamo che “sbarcano disperati, non culture”), convive con regole e scelte ma ne contesta l’assolutezza. « […] il relativismo è quell’atteggiamento per cui l’Occidente fa esperienza dell’incertezza di sé e della limitatezza della propria immagine del mondo, l’universalismo è quello che, non essendo mai scosso dal dubbio, ama proporsi come regola universale» [F. Cassano, Per un relativismo ben temperato]. Il relativismo non è una sovrapposizione ideologica alle culture ma, al contrario, aderisce alla loro struttura che è sempre multiculturale: il relativismo porta alla luce la qualità multipla delle culture, che sono persone che agiscono culturalmente. Se le culture sono multiple e mutevoli l’atteggiamento relativistico aiuta a creare ponti, contatti, incontri che avvengono tra persone, non certo tra astratte e deificate culture (che sono nella testa dei politici devoti e dei cattivi maestri).

Questo è un nodo centrale che non può essere eluso. La sequenza formata dall’abbandono, ben controllato e ben temperato delle certezze (non si va allo sbando ma si lavora secondo un’epistemologia della relazione) e dalla costruzione di una didattica coerente, implica l’assunzione del relativismo per la sua valenza scientifica (è l’unico che ci permette di metterci in contatto con la varietà relazionale) ma anche per il suo valore umanistico: diamo un’anima al nostro indirizzo.

 

 

6. Scuola e contemporaneità

 

Un ultimo punto solo per porre una domanda: perché la scuola (a partire da quella italiana) viene normalmente esclusa dalle indagini sulla contemporaneità, mentre potrebbe diventare un laboratorio di ricerca (e di consapevolezza) formidabile?

Si pensi alla problematica centrale moderno/postmoderno. La scuola è un’istituzione nata nella modernità e che ne mantiene le caratteristiche in un’età post: non sarà anche per questo motivo che la scuola italiana sta diventando produttrice di analfabeti? Calcoli accurati da parte di De Mauro danno questi dati: 2 milioni di analfabeti totali, 15 milioni di semianalfabeti, 15 milioni a rischio di analfabetismo di ritorno, a fronte di una frequenza della quasi totalità della popolazione giovanile nelle elementari- medie e di un numero rilevante nel biennio superiore [ La cultura degli italiani].

Temiamo di mettere i piedi nel nostro piatto?

 


 

Bibliografia dei testi citati (o evocati) dalla relazione 

 

F. Pompeo, Il mondo è poco. Un tragitto antropologico nell’interculturalità, Meltemi, Roma, 2002

M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra, trad. it. Bompiani, Milano, 1980

M. Harris, Cannibali e re, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1988

N. Martino, L’osservazione in antropologia, in C: Ziglio R. Boccalon, “Lei vede ma non osserva …”, UTET, Torino, 1996

L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari, 2000

D. Cohen. Tre lezioni sulla società postindustriale, trad. it. Garzanti, Milano, 2007

M. Augé, Nonluoghi, trad. it. Eléuthera, Milano, 1993

P. Jedlowski, Il mondo in questione, Carocci, Roma, 1998

F. Rampini, L’impero di Cindia, Mondatori, Milano, 2006

U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 1999

M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004

M. Aime, Gli specchi di Gulliver. In difesa del relativismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2006

F. Cassano, Per un relativismo ben temperato, in AA. VV., Il ritorno dell’etnocentrismo, MAUSS # 1, Bollati Boringhieri, Torino, 2003

C. Geertz, Interpretazioni di culture, trad. it. il Mulino, Bologna, 1998

U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, trad. it. Einaudi, Torino, 2000

Z. Bauman, Modernità liquida, trad. it. Laterza, Roma-Bari, 2002

J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, trad. it. Einaudi, Torino, 1998

G. Harrison, I fondamenti antropologici dei diritti umani, Meltemi, Roma, 2001

L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, trad. it. Giunti Barbera, Firenze 1984

E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, trad. it. Cortina, Milano 2001

Th. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it. Einaudi, Torino, 1978

M. Callari Galli, Lo studio del presente, in “Iter”, n. 6, settembre-dicembre 1999

R. Gallissot- M. Kilani- A. Rivera, L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari, 2001

C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, trad. it. Einaudi, Torino, 1967

G. Zagrebelsky, La virtù del dubbio, Laterza, Roma-Bari, 2007

T. De Mauro, La cultura degli italiani, Laterza, Roma-Bari, 2004