Spazi - tempi – modi dell’apprendere e del fare scuola
Nicoletta Lanciano – 30 marzo 2007
(intervento non revisionato dall'autore)
Mi presenterò con il lavoro, ho una provenienza matematica e mi sono formata come allieva di Lucio Lombardo Radice e di Emma Castelnuovo e fin da subito mi sono anche occupata di didattica dell’astronomia, appartengo al MCE, che come vedrete rappresenta in realtà gran parte della mia radice culturale di ricerca.
Viene presentato del materiale visivo:
Noi abbiamo a portata di mano un laboratorio naturale che è il cielo, lo sprechiamo un po’ e questa grande emozione che dà il cielo, porta già attraverso l’osservazione ad affermare ciò che scriveva Lucrezio, “tutti d’altronde siamo del seme del cielo”, era questa una conoscenza che veniva dall’empatia.
Oggi gli astrofisici dicono che siamo fatti di stelle: la pelle, il sangue, le ossa sono fatti di materiale che all’inizio non esistevano, c’erano solo l’idrogeno e l’elio, dove è che poi si sono formati tutti gli altri elementi che compongono il cielo, la terra, i nostri corpi? Si sono formati nelle stelle, quando sono esplose hanno dato elementi nuovi, gli elementi pesanti: si è aggiunto l’ossigeno, il calcio, il carbonio e poi altre stelle sono esplose, fino a che si è formata una stella il Sole e vicino la Terra e lì la vita.
“Noi siamo fatti di stelle”, la nostra origine è nel cielo, qualcosa di profondo ci unisce a questa parte della natura, ci rimanda alle radici di noi stessi. A questo cielo possiamo guardare con tanti occhi diversi, guardare attraverso il mito ci porta a vedere delle figure nel cielo, ma come spesso accade i racconti mitici ci rimandano a una organizzazione geometrica, spaziale. Se l’Orsa Maggiore indica il Nord, è perché questo sta nella sua storia che è raccontata in versi e nel mito.
Così delle conoscenze tipiche delle scienze esatte, possiamo parlare anche attraverso il mito greco latino. In particolare Ovidio racconta di questa avventura, della ninfa Callisto trasformata in orsa. È possibile guardare con occhio tecnico alle costellazioni, ma anche con tanti altri linguaggi.
Del mito si sono occupati diversi artisti, con la pittura e la scultura, con il pensiero narrativo, la poesia presente nei testi antichi che è uno dei modi di parlare di scienza.
“Pensare per storie” è uno dei grandi laboratori del Circolo Bateson (1) e effettivamente anche nell’educazione scientifica ha un gran peso. Le storie per me riguardano il cielo, la mitologia, o anche problemi di tipo geometrico o matematico.
Imparare a parlare deve rispondere a qualche necessità, è un cosa molto seria, si continua a imparare perché ci interessano i linguaggi anche specifici. Il cielo forse ha questa possibilità di essere approcciato da tanti punti di vista diversi, invita effettivamente a cercare una serie di linguaggi appropriati: questo può essere agevolato per il fatto di aver incontrato il cielo effettivamente.
Questo stile può riguardare anche la geometria. Vi chiedo di pensare, ciascuno di voi, se trova nella sua memoria un piacevole ricordo di geometria, ognuno per conto suo. La parola geometria vi fa venire in mente un fatto, una scena, qualcosa di piacevole. Poi vi chiederò qualcosa. Sto lavorando con alcuni insegnanti in un progetto di astronomia e geometria in città e su questo vi mostrerò delle cose.
In questo momento lavoro sul fare scuola fuori dalle aule e sulla città. Uno degli elementi metodologici, io mi occupo di formazione degli insegnanti o di studenti universitari, è nel momento di presentarsi, non solo dicendo io sono tizio, ma per esempio presentarsi attraverso un proprio ricordo, attraverso la memoria alla maniera di Proust, cioè ricercare nella memoria involontaria non scolastica, cercare nella nostra storia, ad esempio cercare qualcosa di piacevole: così come nella vita, anche nell’apprendimento si tende a dimenticare ciò che è stato per noi spiacevole e si ricorda ciò che è piacevole.
Così poi possiamo provare a condividere qualcosa di piacevole. Mi capita spesso di chiedere un ricordo di geometria, sollecitato dall’osservazione dei mosaici di Villa Adriana vicino Roma, come vedete questi pavimenti sono una fucina di conoscenze e di sapere geometrico. Ma è possibile guardare allo stesso luogo, alle stanze degli ospiti di Villa Adriana anche con i testi della letteratura, come da questo della Yourcenar tratto da Memorie di Adriano (2), che parla di qualcosa che è emozionalmente forte, da leggere proprio lì, nella Villa. (lettura).
Questo luogo diventa luogo di studio geometrico, ma possiamo anche parlarne con altri linguaggi. Questi mosaici romani del II secolo d.C. sono fatti a mano e pieni di piccoli errori, è interessante la ricerca di queste piccole asimmetrie, che nulla tolgono alla bellezza dell’oggetto, anzi danno senso di movimento. La ricerca dell’errore e della presenza di differenze in quello che sembra microscopicamente uniforme, e appare invece come asimmetrico quando si va oltre la prima visione d’insieme, quando lo si analizza nei dettagli: questo guardare per strutture (il macroscopico e in dettaglio) è un atteggiamento scientifico interessante da costruire. Così mi è accaduto nella Basilica di San Paolo, il pavimento sembra regolare, poi con il tempo, (ma bisogna darsi un tempo,altrimenti non ci si accorge di niente), ma se si cerca un contatto empatico, quello “stare con le cose”, non come il turista giapponese che guarda e fugge, allora possiamo scoprire in strutture microscopicamente regolari e ricche di simmetrie, delle difformità che ci fanno sentire l’opera di un artigiano, il lavoro fatto con la materia e con le mani.
È così che capiamo quanto la natura ci è maestra, ma i tempi sono lunghi, sono i tempi del capire. Perché mi interessa la natura e la città, cioè l’uscire dalle aule? perché nella ricerca didattica ci occupiamo ovviamente delle difficoltà.
La scuola lavora solo nel microspazio, spazio fatto di quaderni, di cubetti, di solidi fatti con il cartoncino, di disegni, ma nel microspazio si guardano le cose dall’esterno, io sono esterno, gli oggetti li vedo completamente e li raggiungo, se penso a un altro tipo di spazio, un’aula, una piazza, quello che noi chiamiamo il mesospazio, posso avere diversi punti di vista, posso percorrerlo sia con gli occhi, che muovendomi, posso vedere le cose che cambiano in relazione al mio punto di vista, ma posso allargare l’attenzione ancora di più al macrospazio, ad esempio il Lazio, l’Europa: di questi spazi dobbiamo farci un’idea mentale. I bambini spesso chiedono quando viaggiano dove si trovano, se è passata una città o una regione, chiedono se il Lazio sta dentro Roma o fuori, se sta nell’Italia. Altrimenti bisognerebbe avere una visione dall’alto, dal satellite per vedere questo. Non è così banale, cercare immagini totali, qui è potente la necessità di astrazione, qui lo sguardo non mi aiuta più e per pensare questo spazio è il pensiero che deve intervenire.
Poi c’è uno spazio ancora più grande, il megaspazio, quello in cui solo l’immaginazione può aiutarmi; se dico il Sistema Solare o la nostra galassia, io non ho un punto di vista da cui lo posso vedere interamente, ho un unico punto di vista ed è interno a questo. Sono sul pianeta Terra quindi posso mettere insieme immagini, ma lavoro con spazi immensi di cui devo costruire immagini mentali.
Ora mi piacerebbe chiedervi se i vostri ricordi di geometria appartenevano al microspazio, quanti? (Molti) E quanti ricordi erano di uno spazio più grande e dello spazio grande e nel cosmo? ancora tre. La forte preponderanza del microspazio è davvero un inciampo nella nostra vita anche scolastica, eppure basta poco per considerare una spazio più grande.
A Roma ci sono molte meridiane a tangente, alcune sono molto famose, ma anche l’obelisco di piazza San Pietro è uno gnomone di una linea meridiana, verso la fontana di destra: questa è una meridiana che funziona con l’ombra, l’altra in S.ta Maria degli Angeli, ha la luce che entra. Questa differenza è su un piano simbolico profondo, lavorare con l’ombra o con la luce, non è così neutra questa scelta. Con le ombre guardo per terra e dò le spalle alla luce, mentre nell’altro caso lavoro in uno spazio tridimensionale e mi rivolgo alla luce.
Per questo lavoro spesso nel Pantheon, spazio curvo circolare e sferico, e per questo penso valga la pena uscire dalle aule e considerare come spazio educativo anche altro.
E’ piacevole entrare nel Pantheon, in uno spazio curvo, dato che nella nostra cultura tutte le case, le strade le architetture sono squadrate, noi viviamo nel trionfo dell’angolo retto. Andiamo in questi luoghi anche nella convinzione che il bello educhi al bello. La bellezza ha molto a che fare con la matematica, accenno soltanto all’intervento di Michael Atiyah, intervenuto al Festival della matematica a Roma, nel sostenere che nel proprio lavoro ha sempre cercato di unire il bello e il vero e quando proprio ha dovuto scegliere tra le due ha scelto il bello. Ad Atiyah si chiedeva cos’è bello in matematica e come la bellezza si rapporti alla verità, la bellezza è legata all’eleganza, alla chiarezza, semplicità che controlla la complessità, originalità e sorpresa, profondità, importanza e tutte queste caratteristiche noi, dal di dentro della matematica, le riconosciamo anche nella matematica.
Possiamo dire che una figura è bella ed elegante, che una figura aiuta il ragionamento e quindi il pensiero. Concludeva quindi “la bellezza è dentro di noi, la verità è fuori di noi” e la bellezza può essere una guida per capire qual è la verità.
Un altro aspetto della mia ricerca sull’educazione è legato alla questione del mettersi in gioco in prima persona: anche con i miei studenti universitari sempre trovo comunque il modo di invitarli a sedersi per terra, c’è un prato quasi ovunque per fortuna, e così possono dire che non pensavano proprio di trovarsi a quell’età a sedersi nel prato a sporcarsi le mani; a volte mi raccontano che era dalle elementari che non tagliavano con le forbici o non accendevano una candela.
Io penso che questa sia un’emergenza della nostra epoca, un problema serissimo: i ragazzi sviluppano la falange che serve per il mouse, i videogiochi, il cellulare e il resto del corpo si atrofizza. Questo è problematico, perché quando poi si pensa che si possa fare a meno di camminare, odorare, guardare, poi ci si accorge che questo non è vero. Non dobbiamo perdere la manualità. Questo ha a che fare con il metodo, riproporre il laboratorio tra gli adulti, se voi siete una rete cercherete di fare qualcosa insieme. Sappiamo che non basta scriversi, né parlarsi: è fondamentale mangiare insieme, passare del tempo insieme, fare delle cose insieme.
Perché alcune strutture non funzionano? Perché non ci si capisce nel merito, perché non si fa nulla insieme, non si diventa coppia, famiglia, amici se non si coltiva l’essere in relazione. Possibile che la scuola sia così cieca, così perversamente uguale a se stessa nel tempo? Ci si lamenta da sempre dei collegi dei docenti, ma non si riesce a mettere fantasia, a uscire dalle convenzioni, perché dobbiamo stare tutti seduti sulle sedie, senza guardarci, non facciamo mai un cerchio. Perché non cerchiamo i posti dove questo sia possibile? Il mettersi in gioco in prima persona è indispensabile.
Nella scuola di solito si danno giudizi, propongo invece spesso di sospendere il giudizio, in particolare di non interpretare mai i contenuti emotivi che vengono portati: è fondamentale la capacità d’ascolto attivo dell’adulto verso gli allievi e imparare dagli errori propri e altrui, esplicitare e condividere le difficoltà che non devono restare sottointese in quanto se restano tali rischiano di diventare ostacoli alla conoscenza.
Io lavoro spesso con gli adulti, ma vi propongo alcune riflessioni che sono valide a tutti i livelli di età.
Spesso faccio una domanda: noi siamo qui adesso, e io vi dico che il Nord è alle mie spalle, e vi chiedo di indicare con un braccio ben teso nello spazio dove si trova la Norvegia? voi dove pensate che sia nello spazio tridimensionale intorno a noi ?
Ecco vuoi alzarti in piedi e mostrare a tutti dov’è per te la Norvegia? Seguo il tuo braccio teso: che cosa c’è là, se buco il muro e penso che sia notte vedo di sicuro qualche stella, vi piacerebbe vedere la Norvegia lassù? Sarebbe un bel film, ma non è vero.
Perché si crea l’immagine che un paese che è più a Nord di dove ci troviamo noi sia appeso lassù? Forse perché siamo abituati a lavorare con le carte geografiche, che hanno un alto e un basso: ma in realtà tutti i paesi sono sotto il piano del nostro orizzonte. Se noi dobbiamo immaginare qualsiasi cosa a nord, a sud, a ovest è sempre sotto il piano dell’orizzonte, perché siamo su una sfera. Ecco che il destabilizzare questo è indispensabile per capire di astronomia che è basata sulla sfera della Terra e sulle sue relazioni con la sfera del cielo. E’ utile abituarsi a lavorare con la sfera, e a scuola non ci si arriva mai alla sfera ! Questa difficoltà (di tendere il braccio verso l’alto) deve essere condivisa come elemento ricco che permette di stanare alcuni possibili errori; questo lavoro serve a far emergere quegli ostacoli che vanno esplicitati in una relazione didattica.
Vengo all’ascolto, alla pedagogia dell’ascolto che nel MCE è mutuata dalla psicoanalisi, a noi giunta attraverso Alessandra Ginzburg, una psicoanalista che negli anni ’80 si riferiva a I. Matte Blanco e alla sua teoria dell’emozione come madre del pensiero. L’ascolto degli adulti verso i bambini e poi dell’insegnante verso l’allievo. Leggo un piccolo brano di Alessandra per una revisione critica di Piaget. “le fasi che Piaget considerava evolutive non cessano mai di esistere per l’inconscio che vi ricorre abitualmente in occasione di emozioni particolarmente intense … una concezione che fa dell’emozione la madre del pensiero, ribaltando l’immagine riduttiva offerta dalla psicologia, in particolare quella di orientamento cognitivo molto in voga nella scuola …”(3)
È una rivoluzione epistemologica: Piaget sosteneva che tra i bambini in età scolare non si sviluppava mai una vera discussione tra pari: questo abbiamo imparato a vedere che non è vero, in particolare penso a Ludovica Montoni che ha scritto questo libro “I bambini pensano difficile” (4) ed è lei che ha portato anche nelle scuole di Reggio Emilia, la pedagogia dell’ascolto. Dall’ascolto, arrivava negli anni ’80, quello che chiamavamo le ipotesi fantastiche, le particolari ipotesi che un bambino fa, in una relazione di ascolto positiva, sugli eventi naturali o misteriosi che caratterizzano la realtà. Spesso queste ipotesi ci rimandavano ai filosofi presocratici, ad un grande contatto con la natura. È un ascolto che fa prendere in considerazione le concezioni iniziali di chi apprende che sono sempre concezioni relative non esaustive che poi si arricchiranno nella conoscenza. Ma le concezioni sono quasi sempre relative. In astronomia, ad esempio, si dice che è sbagliato dire che è inverno quando la Terra è più lontana dal Sole: è giusto, però, se non è vero per noi è vero invece per l’emisfero Sud. Anche affermazioni di questo genere non sono errori, dietro c’è un pensiero, qualcosa di più complesso e articolato, se ha un suo campo di validità che può essere ampliato.
Tutto questo avviene nel laboratorio adulti, fase necessaria della formazione degli insegnanti. Per insegnare a scrivere mi cimento con l’emozione della pagina bianca. La mancanza del fare in prima persona quello che insegna, spesso è lamentato dagli allievi, qui c’è un problema ora molto sentito specie nella scuola superiore. Quando una persona non lavora su di sé, rispetto alle cose che insegna, se non va a teatro a vedere le tragedie, chi insegna latino e greco, anche per vedere come le presentano gli artisti di oggi, chi non vede l’arte ma l’insegna, chi non guarda il cielo insegnando astronomia, viene sgamato dagli studenti e perde credibilità, e questo accade specie nelle scuole superiori. Infatti gli insegnanti della scuola primaria si mettono per terra con i ragazzini, le cose le fanno. Ma quando mai un’insegnante di italiano del liceo dice ho scritto questo o si mette in alcuni degli inciampi che propone ai suoi allievi? Il lavorare con la natura impone in qualche modo di metterci di fronte ai fenomeni da osservare nel momento in cui avvengono: devo aspettare per esempio il sorgere della Luna.
Forse non sempre è possibile, però perché quando diamo un tema, l’insegnante non si mette anche lui a scrivere. Questo coinvolge il corpo a scuola: in tempi recenti le neuroscienze hanno messo in evidenza che quando un corpo è in movimento le due parti del cervello collaborano in modo efficace. La parte fantastica e creativa interagisce con quella riflessiva, gli apprendimenti sono potenziati. Più aree cerebrali vengono attivate, più si fissa la conoscenza. Attivare tanti recettori oltre la vista, fa sì che appunto la conoscenza si incorpori in modo diverso nelle persone, per questo preferisco le immagini dinamiche a quelle statiche in geometria.
Proporre ciò è più faticoso e bisogna averlo provato su di sé, sapere che funziona su di sé. Attivare il corpo, dal cantare insieme, al misurare, all’avere approcci di tipo vario è importante e utile nello sviluppo delle conoscenze.
In tutte le discipline c’è questa responsabilità dello scegliere cosa insegnare, come fare questa scelta? tutti i programmi hanno comunque qualcosa in cui ci sono delle scelte. Ci sono alcuni parametri che possono guidare la scelta: una scelta è legata a ciò che si sa e si conosce, non si insegna quella che di non si sa l’esistenza, anche se non occorre una conoscenza totale e esaustiva; poi c’è quello che noi pensiamo sia educativamente importante, cioè abbia senso in un certo contesto e questo va rivisto continuamente ed è legato al contesto, però la scelta del senso, esplicitare il senso di ciò che si farà, cioè che abbia senso almeno per chi insegna; poi penso fortemente, che sia opportuno insegnare ciò che appassiona chi insegna. Voglio rivendicare la passione di chi insegna come elemento fondamentale, se noi pensiamo a chi riconosciamo come maestro, quando dico Lucio Lombardo Radice è stato un mio maestro è perché era assolutamente appassionato di quello che faceva, che era intanto aiutare noi studenti a capire le nostre passioni, lui ne aveva una, era l’algebra astratta e ci provava a trascinarti lì, lo fece anche con me, ma capì subito che doveva aiutarmi ad andare verso il cielo. Quello è il maestro: lui era un algebrista, lui conosceva con passione, non vale la pena essere maestri non appassionati e penso che sia importante per i giovani incontrare delle persone con delle passioni forti, in un’epoca di “passioni tristi”, come scrivono gli autori di un bellissimo libro (5): proponiamo passioni forti.
Le aule quindi non bastano, sono un accidente della nostra cultura, della nostra scuola, altre culture fanno scuola stando sotto un albero o nel cortile peripatetico di Atene. C’è la natura, la città, tanti altri spazi. Per allargare lo spazio al macrospazio, è importante pensare il mondo da tanti punti di vista diversi e anche dal punto di vista degli altri, degli stranieri, di chi arriva qui da lontano o vive in altri paesi. La corrispondenza scolastica è una delle tecniche di Freinet che ci porta a far venire nelle nostre aule il mondo da fuori.
Noi facciamo corrispondenza scolastica con i cieli dell’Argentina, (6) e attraverso i messaggi che ci arrivano vediamo tutto alla rovescia e questo ci costringe a interrogarci sulle nostre radici e su quelle degli altri, di tutti gli altri che sono altri, rispetto a noi, per età, sesso, luogo di nascita, come portatori di cultura, e per fare questo è necessario entrare nelle radici della nostra cultura e queste radici sono in gran parte nel cielo.
(1)^ Circolo Bateson www.ips.it/musis/pensare
(2)^ N. Lanciano, Villa Adriana tra cielo e terra, Apeiron ed, 2003
(3)^ A. Ginzburg, Educazione e psicoanalisi: un percorso di ricerca nel gruppo romano MCE, Cooperazione Educativa, n 9-10, 1991, p 5-13
(4)^ L. Muntoni, I bambini pensano difficile, Carocci ed, 2005
(5)^ M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Universale Economica Feltrinelli, 2003 (edizione francese)
(6)^ sito del CARFID, progetto “Sotto lo stesso cielo” http://w3.uniroma1.it/Carfid/
Nicoletta Lanciano