Amo la scuola perchè mi ha salvato.
E della scuola hanno bisogno tutti coloro che desiderano essere salvati. E' per questo che gli studenti più motivati, direi affamati, sono i miei studenti minori stranieri non accompagnati. Vengono dal Gambia, dalla Somalia, dal Benin, dall'Egitto. Quando arrivano non sanno nemmeno una parola di italiano. Dopo tre mesi comprendono tutto e sanno parlare benissimo.
E' allora che io mi comincio a pormi domande inquietanti: MA PERCHE' I NOSTRI RAGAZZI DOPO DIECI ANNI DI INGLESE SANNO A MALAPENA DIRE I AM LUIGI, MY PEN IS ON THE TABLE? E se li porti in un aeroporto straniero si esprimono a gesti? Quando glielo chiedo loro mi rispondono che in classe fanno solo la letteratura straniera. Cioè imparano a memoria in inglese la vita di Shakespeare. E quel pò di inglese vero che sanno lo apprendono solo dalle canzoni e dal web.
Una mia collega di storia una anno voleva rimandare un nostro alunno straniero perchè in tre mesi di frequenza ancora non conosceva le guerre di indipendenza italiane. Io ho proposto al consiglio di classe e alla prof. di mettersi su un barcone, arrivare in Somalia ed in tre mesi imparare il somalo e tutta la storia di quel paese, poi l'avremmo interrogata per vedere i risultati.
Per una anno ho insegnato in una classe "difficile". L'insegnamento delle competenze potevo farlo solo per strade non canoniche, spesso per strade reali in quanto me li dovevo portare al cinema o al bar per comunicare con loro. Un notte mi chiamò la polizia perchè uno di loro si era messo nei guai e aveva fatto il mio nome come suo punto di riferimento. Gli sono stato vicino per mesi in terapia e per uscire da quel mondo. Poi il problema è stato travare lavoro, per non ritornare lì.
Io ho ancora l'idea che la scuola debba salvare le persone. Vengo da una famiglia del basso proletariato. Quando ho fatto il dottorato in filosofia a Lovanio, in Belgio, mia madre pensava che io fossi a Lavinio, vicino Roma. Quando ho regalato a mio padre una copia del mio primo libro mi ha chiesto perchè perdessi tempo in queste cose futili e non mi preoccupassi di stare vicino ai miei figli. E' la scuola che mi ha aperto dei mondi lì dove non ce n'erano davanti a me, se non un treno alle cinque di mattina per andare in cantiere a Roma come faceva mio padre. E ho sempre pensato: ma se la scuola non serve a dare la felicità o almeno a mettermi in condizione di ricercarla a cosa serve? A nulla. Insegno ai miei studenti a rivendicare il diritto alla felicità. Perchè non posso dimenticare le mie notti ai tempi del liceo passate a leggere Spinoza, o Foscolo, magari ascoltando Battiato. E poi la mattina essere accecato dallo stesso furore letto in quelle pagine e impiegarlo nella ricerca di qualcosa di grande e di unico nella mia vita quotidiana. Questo mi ha dato la scuola e questo cerco di dare ai miei studenti.
Il dibattito attuale sull'istruzione in Italia è attraversato da contraddizioni assurde e deliranti. I grandi intellettuali si appassionano ancora alla lotta tra competenze e conoscenze quando è chiaro e ovvio che l'una è legata all'altra e che comunque è più importante saper comprendere e interpretare un testo che ripetere a memoria le terzine di Dante. I più rispettosi dell'ordine pubblico si sono poi impegnati nel ridare alla scuola dignità con la severità e l'introduzione del voto di condotta che fa media come le altre discipline. Perchè questi ragazzi sono diventati troppo maleducati, dicono. Senza considerare invece che quel voto dovrebbe valutare le competenze di cittadinanza attiva acquisite dallo studente. E qui c'è il vero problema, perchè dalla vecchia educazione civica all'attuale insegnamento di "Cittadinanza e Costituzione" la scuola italiana trascura la formazione della coscienza civile dei giovani. Direi anche la formazione della coscienza morale. Quando uno studente sta zitto, non parla e non discute non merita 10 in condotta perchè è educato ma va aiutato perchè lo abbiamo lobotizzato. La scuola non può non fare politica perchè educare politicamente significa educare al bene comune. L'alternativa è creare persone incapaci di pensare criticamente la complessità della realtà e che da adulti saranno illusoriamente rinchiusi in mondi gretti ed angusti. Facili prede di ciarlatani e demagoghi.
Edgar Morin ha ricordato che insegnare non è solo una professione ma è una missione. E un'arte. Questo può scandalizzare ma non c'è alternativa per ridare al docente dignità e professionalità. Insegnare non è un lavoro per tristi. Per farlo occorre motivazione alla ricerca, al sogno, ad aprire mondi e possibilità. Occorre avere speranza per darla agli studenti. E loro sono gli unici veri protagonisti di un sistema di valutazione dei docenti che sia davvero tale. Perchè hanno il fiuto e le antenne della giovinezza e della sincerità per capire chi è alla ricerca come loro.
La missione non è un colonizzazione: il docente non ha la verità ma ha (o dovrebbe averla) una solida cultura aggiornata e capacità validate per insegnarla, conoscendo almeno l'abc delle leggi della comunicazione ( se continua a ripetere a chi non studia che "deve studiare di più", evidentemente non le conosce). L'insegnante che ricerca con i suoi studenti aspetti sempre nuovi dei temi che tratta non fa mai la stessa lezione ma la reinventa sempre anche dopo trent'anni. Perchè nuovi sono gli studenti che ha davanti, nuove sono le letture e i film che lui ha visto, nuove sono le condizioni sociali da richiamare anche se stai facendo la più astratta metafisica.
Questo lavoro richiede Eros. Non è adatto a gente che non si innamora. Il lacaniano Massimo Recalcati ce lo ha ricordato nel suo bel libro, L'ora di lezione.Per un'erotica dell'insegnamento.
E' la lezione di Platone, come di tutti i grandi maestri di spiritualità che quando li cito e li spego ai miei studenti si entusiasmano come se ascoltassero il loro cantante preferito. La scuola ha bisogno di docenti e Dirigenti che siano capaci di suscitare il desiderio. Senza il quale non c'è apprendimento e conoscenza.
Poi viene tutto il resto: la valutazione, l'organizzazione, le tecnologie. L'essenziale è la relazione e l'accoglienza dei nostri studenti a partire dalla loro "situazione di partenza", come dicono tutti gli schemi di programmazione. Il guaio è che non è una semplice formula ma la primaria realtà della scuola. Oggi chi rivendica tutto ciò passa per buonista – o lassista - e anche don Milani è stato messo sotto accusa per la sua idea di scuola. Ecco, dobbiamo rivendicare invece con forza che una scuola che non sa accogliere ed elevare tutti, gli ultimi sopratutto, è indegna di questo nome. Come Luigi Berlinger ci ha più volte ricordato la nostra è ancora una scuola classista, si ergono steccati tra i vari indirizzi di studio e l'istruzione professionale viene considerata di serie B. E' una visione senza prospettive, degna di un paese arretrato incapace innanzitutto di rispettare l'altro e poi sostanzialmente conservatrice e retrograda. Dovremmo tutti prendere atto che la scuola della lezioncina frontale è finita da un pezzo e che siamo chiamati ad una didattica viva, laboratoriale, capace di suscitare l'intelligenza critica e non la ripetizione passiva.
Di tutto ciò le facce silenzose dei nostri studenti hanno bisogno, ce lo chiedono sopratutto quando non sono interessati a quello che gli propiniamo. Siamo noi che dobbiamo cambiare, abbassare le nostre difese e provare a trovare altre strade per raggiungere il loro cuore. Certo, bisogna avere fiducia nell'uomo per farlo, dobbiamo credere che le persone possono migliorare. Non spetta alla scuola valutare nel senso di giudicare. Non sarebbe che un ratificare le differenze sociali esistenti. A noi spetta scardinarle queste differenze.
So che vuol dire tanto, forse troppo, che ci vuole una fede per farlo, o almeno la speranza.
Prof. Luigi Mantuano, Isiss Pacifici e de Magistris, Sezze (Latina)