Ricordi e considerazioni
di Paolo Cinque
- Professore, la voglio mandare a Montecatini per un convegno sul Liceo delle Scienze Sociali. Io non posso andarci. Andrebbe lei al posto mio?
Non mi era stato difficile accettare l’offerta. Riflettevo fra me, tra l’altro: «Ma perché ci deve andare un preside e non un docente?»
Da qualche mese avevo in carico le tre prime classi in un Liceo delle Scienze sociali, una sperimentazione a livello nazionale che quella scuola aveva deliberato di aprire alla fine dell’anno scolastico precedente: uno spazio pionieristico e un’occasione propizia per un mio trasferimento “mirato”, cioè più corrispondente ai miei orientamenti didattici. Da alcuni anni, infatti, avevo scelto di insegnare pedagogia come “scienze dell’educazione”, seguendo un percorso per singole discipline sociali ed evitando la più diffusa prassi d’insegnamento basata sull’identificazione della materia curricolare con “storia della pedagogia”.
Ero in preda ad uno stato d’animo che dietro l’eccitazione nascondeva anche molta preoccupazione: il nuovo arrivato in quella scuola – un ex Istituto magistrale diventato Liceo polivalente – non aveva infatti trovato colleghi della sua classe di concorso che volessero prendersi la “gatta da pelare”. Sembrava, anzi, che se ne volessero disfare in fretta, nascondendo la mano dopo aver tirato il sasso. Quelle tre classi prime sostituivano le corrispondenti del magistrale, in via di estinzione e la sensazione più diffusa era che per quell’esordio “assoluto” fosse stato chiamato un “utile idiota” con lo “specchietto” della sua diversa scelta didattica: giusta o no che fosse quell’impressione, il nuovo arrivato sarebbe stato comunque un isolato, uno “spiaggiato” sulla riva di una delle tante scuole interessate più a rimediare posti di lavoro che a curare i contenuti sperimentali di un progetto formativo.
Avevo già conosciuto la gioia professionale di lavorare per un progetto comune, sentivo che lì non sarebbe stata la stessa cosa e i primi mesi avevano confermato gran parte delle mie supposizioni.
Di solito non mi tiro indietro, però, e a Montecatini andai con la testa piena di curiosità, più che di idee. E fu una fortuna per me: quel convegno avrebbe costituito una svolta professionale che smentiva le mie fosche sensazioni iniziali, relativizzandole. Fu come sbarcare in una terra abitata, altro che finire spiaggiato chissà dove. Molte fra le persone che incontrai sarebbero diventate una “bussola” del mio lavoro scolastico, e motivarono anche i numerosi incontri nei convegni successivi, fin oltre la soglia della pensione.
Divennero anche amicizie.
Arrivavo con il gruppetto degli ultimi perché alcuni si conoscevano da tempo, da prima che la sperimentazione diventasse nazionale. Non per questo venni escluso, però: anzi, mi colpì subito il senso di interesse a valorizzare la persona che partecipava, nella convinzione che una motivazione condivisa l’avesse portata fin lì; di conseguenza, c’era un interesse a mettere in comune le diverse esperienza della sperimentazione, mettendo a disposizione documenti, esempi, pubblicazioni, teorie, che spesso confluivano in una rivista creata apposta per essere fonte di informazioni e diffusione di contributi individuali. Si chiamava, galileianamente, “Sensate Esperienze”, dove il richiamo al “senso” evidenzia il significato di “dare senso” alle cose, attraverso la condivisione di un lavoro per la formazione di un curriculum liceale che era inedito nel panorama scolastico italiano (e forse non solo). Grazie a quel rispecchiamento la testa, oltre che piena di curiosità, me la scoprivo anche più piena di idee, e perfino non proprio malvagie: erano in buona compagnia con quelle dei partecipanti, a giudicare dall’accoglienza.
La curiosità, però non venne meno: anzi. Qual era, mi chiedevo, la sorgente che animava la messa in comune di tutte quelle energie, la calamìta di quelle presenze così bene intenzionate, che si sarebbero disperse nel territorio nazionale ma sarebbero anche tornate regolarmente a ricostituirsi, oltre che a ritrovarsi nelle pagine della rivista? Alcune di quelle persone avevano una chiara funzione organizzatrice, che orientava i lavori all’interno del gruppo e si avvaleva della collaborazione di docenti e dirigenti degli istituti organizzatori dei convegni, come quello toscano di quell’anno: mancava però qualcosa che rappresentasse l’anima, per così dire, di tutte quelle motivazioni ad andare, a organizzare, a partecipare, per poi tornare a disperdersi nel territorio senza perdere il senso del legame coltivato. Il mio fantasma del lavoro isolato era intanto esorcizzato, però: ora potevo lavorare nonostante la sopportazione indifferente dei colleghi – o, al massimo, la loro prudente, cortese e rispettosa curiosità, “neutrale” ma non di più – perché il “respiro” da dare a quel lavoro quotidiano di costruzione di un nuovo curriculum accreditabile era finalmente trovato e sarebbe durato fino alla fine della corsa, quando anche qualche altri colleghi di scuola (molto pochi) si sarebbero finalmente avvicinati a quella sperimentazione così snobbata.
Venne così anche il tempo di scoprire e incontrare la fonte originaria, il “magnete” di tutta questa energia catalizzatrice: era Clotilde Pontecorvo, alla cui memoria è dedicato questo sommesso intervento, una persona capace di restare discretamente ai margini delle attività, lasciando che fossero i colleghi delle pratiche curricolari quotidiane ad esprimersi, per ricondurle ad una sintesi finale che rafforzava il senso d’aver lavorato insieme.
Émile Durkheim distingue tre livelli di “sapere” e di “agire” pedagogico, tutti indispensabili e fra loro interdipendenti. Oggi sarebbe forse più corretto intenderli come tre “tipologie”: una prima è quella dei grandi teorici dell’educazione, capaci di intuizioni profonde sulla “natura umana” e sulle finalità educative più generali, feconde anche senza un apparato di conoscenze e informazioni paragonabile a quelle di oggi. Da Platone a Dewey ( e oltre), sono autori che entrano agevolmente nei manuali di storia della pedagogia e della filosofia: ad essi fanno necessariamente riferimento tutti quelli che si occupano di educazione, consapevolmente o meno,. Una seconda tipologia riguarda chi si occupa di educazione scientificamente, con ricerche che possiedono rigore induttivo sistematico e richiedono, a complemento, la sfera dell’azione concreta che ha valore di verifica scientifica. Una terza è costituita da tutti coloro che si impegnano nell’effettivo lavoro scolastico quotidiano particolare: “artigiani” dei processi educativi, li chiamava Durkheim, preziosi e indispensabili ma non necessariamente degli “applicati”, perché il loro lavoro è una riserva di informazioni, intuizioni e pratiche originali decisive per l’elaborazione di conoscenze e strategie ulteriori.
Se queste distinzioni, comunque relative, hanno un senso, allora si può affermare che Clotilde Pontecorvo ha rappresentato quella classe di educatori che, impegnati a fondo nella conoscenza dei processi educativi, ha fornito agli “operai” nella scuola gli strumenti intellettuali indispensabili alla loro opera, ma anche alla sua stessa: ricevendo da essi, dalle informazioni sulla loro esperienza diretta, indicazioni indispensabili per confermare o ampliare e raffinare la comprensione di quei processi, dando così senso complessivo, in cambio, alla loro didattica più contestualizzata.
Per Clotilde, però, questo non basta, per comprendere bene: era infatti senza dubbio capace di esprimere questa necessaria connessione fra i tre aspetti dell’opera educatrice, traendola dall’alto delle sue conoscenze e dal profondo della sua “sapienza” teorica. Eppure, le metafore “alto” e “profondo” non rendono adeguatamente il tono e lo stile della persona: trovo più confacente esprimermi nei termini dello “stare accanto”, della vicinanza personale rispetto agli “artigiani” che operano nel quotidiano delle scuole, essendo questi ultimi gli attori definitivi, le “sinapsi” di ogni sistema scolastico inteso come comunità integrata verso un fine formativo. Essi non sono affatto i “travet” di un sistema a livello puramente esecutivo, ma soggetti attivi in un progetto formativo autoprodotto, dove la “direttiva” scaturisce dalle conseguenze dell’impostazione condivisa e fa riferimento alle sue motivazioni propulsive.
Clotilde rendeva evidenti queste intenzioni e conferiva ad esse il carattere di una coscienza comune. È riuscita, così, a dare una modulazione ulteriore ad una linea di pensiero e buone pratiche ch’era stata iniziata da Lev Semënovič Vygotskij – come “zona di sviluppo prossimale” – e ripresa una generazione più tardi da Jerome Seymour Bruner attraverso l’elaborazione del concetto di “scaffolding”. Nella sua visione il lavoro scolastico dei docenti era anch’esso un apprendimento “prossimale”, un’attività di sostegno come risultato di una mediazione inter-soggettiva fra gli stessi insegnanti, alcuni dei quali sono più competenti di altri, e proprio per questo “sostengono” maggiormente il senso dell’apprendere.
Scuola sovietica (non ufficiale), scuola statunitense, scuola romana, dunque: Clotilde Pontecorvo apparteneva ad una generazione ulteriore, che si inserisce con pieno diritto in questa linea di sviluppo, qui connotata come “stare accanto”, come particolare articolazione di una presenza relazionale, che si attua essenzialmente attraverso il sostegno, la solidarietà intellettuale tra i “pari”, nella realizzazione di un’impresa comune. Era un impegno di lunga data da parte sua, questo: ero io che venivo in ritardo, impacciato nello “spiaggiamento” e nei lacci di una pretesa che una laurea in filosofia potesse essere la chiave per rispondere preventivamente a tutte le richieste di un “sapere” aperto. Ora scoprivo invece che non c’è sapere senza una costruzione comune, condivisa nella negoziazione dei significati. La formazione di un curriculum come insieme integrato di “saperi” non si riferiva, poi, solo alla scuola primaria ma, attraverso la sperimentazione del Liceo delle Scienze sociali, anche alla secondaria. Inteso in modo “costruttivista”, un curriculum scolastico non diventava più una somma di “materie” ma una rete disciplinare interconnessa attraverso una riflessione sulle “intelligenze”, ovvero sui “modi del pensare” tipici delle diverse discipline: come pensa un fisico, uno storico, un biologo, un giurista, un filosofo, un economista, un matematico, e così via? E poi, domanda delle domande: «Un bambino, un adolescente, un adulto, come pensano? Come “sanno”?».
Clotilde riconnetteva tutte queste problematiche in un’unità complessa, la cui risposta comportava l’assunzione di un atteggiamento, di una posizione a sua volta complessi, da parte nostra: declinava la “complessità” come formazione curricolare, e come processo psicopoiètico, formatore della mente.
È evidente, allora, la ricaduta di questo tipo di problemi sulla stessa formazione del docente, di qualsiasi ordine e grado, dovunque la costruzione di “senso” prendesse la forma di “saperi”. Con ciò, Clotilde si spingeva oltre la strada dell’ovvietà formativa per inoltrarsi in un’ovvietà “altra”, quella relazionale, così spesso trascurata perché data per scontato: nel nostro rapporto diretto con lei e all’interno di quei gruppi, questa “ovvietà” acquisiva invece il senso di una presenza accudente, come pre-condizione per un’identità professionale. Così, trasferendo quello “stare accanto” nel mondo nella scuola dove operavamo, la “parola”, oggetto asettico dei programmi didattici della letto-scrittura e della ripetizione di nozioni, si mostrava innanzitutto come espressione di una relazionalità discorsiva, quanto mai vicina alla socializzazione primaria e promotrice di quella secondaria. Non attività dialettica ma dialogica, dunque, che nella scuola superiore, integrandosi con il pensiero logico, guida il flusso delle argomentazioni scambiate e interpretate, rendendo possibile il contatto con il pensiero altrui. Non una parola qualsiasi, comunque sia, ma una parola “data”.
Non ci vuole molto per vedere come tutta questa attenzione alla parola scritta, letta, dialogata, relazionale, sia potuta sfociare in una psicologia culturale: oltre che psicopoiètica, la parola psichica è etnopoiètica. Si può perciò comprendere come molti di noi insegnanti, attraverso questa sorprendente coscienza antropologica, si siano potuti rispecchiare nell’avventura delle “scienze sociali in classe”. La sperimentazione nostra, animata in questo modo, ha portato per la prima volta, nella storia della scuola italiana, la sociologia, l’antropologia culturale, la psicologia sociale e culturale come discipline di studio, da integrare con altri studi di carattere sociale già presenti nei curricula, come il diritto, la storia, l’economia. Per non parlare del confronto con le scienze “naturali”. Era un curriculum complessivo, da rifondare in un progetto formativo integrato, che comportava perfino – ciliegina sulla torta – la verifica dei saperi attraverso uno “stage” formativo (cioè a sua volta curricolare, non aziendale e tirocinante, e non in alternanza scuola-lavoro), di osservazione del territorio locale dal punto di vista dei servizi che vi si svolgevano e alla luce delle conoscenze che si studiavano, per comprendere “sul campo” la presenza e il senso delle figure sociali di riferimento.
Clotilde è stata una protagonista in questa nostra avventura: la sua era cominciata quasi cinquant’anni fa con la pubblicazione, nel 1977 presso Einaudi, di un testo, Scienze sociali e riforma della scuola secondaria, che conteneva anche un suo scritto, assieme a diversi altri contributi (di G. Baglioni, V. Castronovo, A. Cavalli, R. Laporta, S. Rodotà, P. Rossi, B. Sajeva, P. Sylos-Labini), Vent’anni più tardi, ecco finalmente una sperimentazione nel solco delle considerazioni che vi si svolgevano, continuata fino alla “stretta” finale (anche nel senso di “strozzatura”) costituita dalle “riforme” dei Ministri Moratti, prima, e Gelmini, immediatamente dopo. Testimonianza di quell’esperienza era espressa in un secondo testo, Nuovi saperi per la scuola. Le Scienze Sociali trent’anni dopo, edito da Marsilio nel 2007, da lei curato assieme a Lucia Marchetti: l’avevamo scritto in gran parte noi docenti, questa volta, ed era introdotto da Clotilde (Come fare scuola con le scienze sociali. Un possibile modello di scuola).
Si compiva un arco di trent’anni. Con quali risultati?
La conclusione di quella sperimentazione costituisce un motivo di dispiacere, che fa parte del dolore per la scomparsa di Clotilde: quel progetto si è arenato nelle secche di una “riforma” che lo ha mortificato e sciupato in un liceo “altro”, irriconoscibile rispetto alle finalità di quella sperimentazione, perché concepito come “essenzializzazione” dei saperi, cioè in un impoverimento semplificatorio rispetto alla realtà complessa della formazione in un periodo storico-sociale ricco di trasformazioni drammatiche. E dire che lo stesso Ministero si era preoccupato di realizzare un agile strumento (scritto collettivamente da noi insegnanti nella sperimentazione: Lo stage formativo nell’indirizzo di scienze sociali. Don’t worry! c cura di Lucia Marchetti, Ferrara 2001), che aiutasse gli insegnanti alle prese con l’imbarazzante prospettiva di “sporcare” i saperi “alti” di un liceo, nel confronto fra quei saperi e l’effettiva operatività sociale circostante, terraterra. Niente da fare: dopo quasi cinquant’anni i “nuovi saperi” e i vecchi bisogni restano “spiaggiati” in un Liceo che sembra mostrare perfino il timore di ospitare nella sua denominazione ufficiale il termine “sociale”.
Ci sarebbe da riflettere sul motivo di questo impoverimento, di questo gravissimo ritardo, sui sintomi che lo accompagnano, anche alla luce delle ricerche che hanno caratterizzato la presenza di questa pedagogista del “fare psiche”. Ci sarebbe ad esempio ancora molto da riflettere sul progressivo abbandono della scrittura in corsivo, da sempre considerata una meravigliosa esperienza motoria raffinata e un tramite prezioso di velocizzazione del pensiero, di dominio e coordinazione dello spazio-tempo, di unificazione stilistica di segni diversi in una parola fluida personalizzata, di de-codifica dei segni altrui, di conquista globalista di un cosmo di segni, differenziati da un caos indifferenziato di segni generici ma già intenzionati al senso. Ci sarebbe da riflettere sulla limitazione della scrittura personale allo stampato o al ricorso all’impersonale tastiera di un computer o di una smartphone, che è spesso così comoda … Che riflessi ha una simile trascuratezza sulla psiche e sulla personalità? Sono domande attualissime – poste anche in uno dei nostri convegni, quello di Verbania – di fronte alle quali mi sarebbe piaciuto ascoltare le risposte di Clotilde, che alla scrittura, come parte visibile della psicopoièsi, ha dedicato parte della sua ricca e feconda ricerca.
Questa scuola incompiuta Clotilde non la meritava: è un grande rammarico pensare che il suo sguardo profetico si sia fermato sul limitare di una terra promessa, intravista solo da lontano ma non raggiunta.
È un’impossibilità che ha riguardato anche noi, suoi compagni e colleghi di viaggio – come minimo per quelli della mia generazione – ai quali la nostra cara Clotilde, con la sua pedagogia del libro, della parola “data” che si fa psiche, ha donato l’ultima delle nostre utopie.
Oggi, la sua scomparsa conferisce a quel suo “stare accanto” il senso di un’assenza che non può essere del tutto lenìta dai ricordi, come il venir meno di una tacita sollecitudine, che in molti di noi è nel frattempo diventata parte della propria coscienza.