SUL CARCERE CHE DOVREBBE INSEGNARE COSA? - SECONDA PARTE
Inviato da Vincenzo Andraous il Gio, 28/07/2016 - 18:12
Non è semplice raccontare come in questi ultimi cinquant’anni il carcere sia andato incontro a una vera e propria mutazione antropologica. Rammento poco e male un carcere che non c’è più, un agglomerato sub-urbano appiccicato a un’era cretacea. Nelle mie pagine lo definisco un carcere analfabeta, dove il diritto era davvero un eufemismo.
Così ben descritto dai vari Alberto Sordi e Nino Manfredi, i descamisados sopra i tetti delle circondariali, tanti detenuti in canotta o torso nudo, a srotolare lenzuola bianche dell’Amministrazione, una sequela di scritte sgangherate- sgrammaticate, a gettare tegole in strada per richiamare la più piccola attenzione.
Di rimpiazzo ecco arrivare il carcere degli scarponi chiodati, della polvere da sparo, dei colpi secchi, alle spalle, da una parte e dall’altra, il furore della lotta armata, degli anni di piombo ( le nuove generazioni poco o nulla sanno, la memoria storica perde contatto con la sostanza delle cose, con la realtà circostante, la fa da padrona quella virtuale che appanna ogni prospettiva) una vera e propria guerra combattuta non soltanto nelle piazze, nelle strade, nelle periferie delle città, ma anche e soprattutto nei passeggi, nelle celle di tante galere.
Un corpo a corpo privo di adiacenze al cuore, se non quello dello Stato da abbattere costi quel che costi, un’arena dove niente e nessuno veniva risparmiato, neppure l’ultima volontà di un perdono.
Anni di rumori sordi e di rinculi repentini, un’intera generazione andata al macero, scomparsa, annientata. Un’apnea asfissiante sotto vuoto spinto dall’ideologia, i morti e in feriti caduti sotto il piombo sparato in fretta, oppure garrotati senza un fremito nei cortili circondati dalle alte mura.
I colpevoli smisero i panni delle prime linee alla sconfitta, gli innocenti accatastati uno sull’altro, gli uni e gli altri colpevoli e innocenti sovrapposti e dimenticati dalla storia. Finchè fece capolino un altro carcere ancora, quello della grande Riforma Penitenziaria, ideale innovativo e nobile per tentare di umanizzare quella sorta di terra di nessuno, dove nessuno intende-va guardare, per tentare di rendere la prigione, uno spazio, sì, di castigo, ma anche un tragitto di vita possibile, un laboratorio per favorire una nuova condotta sociale.
Una Riforma Penitenziaria sbrigativamente ed erroneamente licenziata come la Legge Gozzini, infatti, fu sì vergata dal Sen. Mario Gozzini, ma voluta, condivisa e votata dall’intero arco costituzionale.
E come ogni grande riforma, ogni nuova era di rinnovata civiltà e diritto, perché possa resistere all’urto e al fastidio degli eventi, abbisogna di interventi e di investimenti professionali, finanziari, non di meno di una onesta e corposa volontà politica, non soltanto di parole retoriche, di slogans di conio obsoleto, oppure delle solite reiterate narrazioni tossiche.
Di quella legge non è rimasto molto in piedi nel corso degli anni, perché continuamente tagliata, rabberciata, sospesa, fino a bollarla come una legge sbagliata, addirittura iper buonista, che premia-va i Caino a dispetto degli Abele.
Invece, per vincere la recidiva, la noia mortale persistente che logora e incancrenisce le esistenze, la violenza insita in ogni angolo di cella, l’illegalità diffusa, quella legge sospingeva avanti l’intenzione a prendersi carico delle proprie responsabilità, la propria fatica a intravedere un pezzo di futuro, creando le condizioni per una sana revisione critica del proprio passato, senza rimanere contusi dalla crisi di panico derivante dal sopravvenuto mutamento interiore, fino a giungere in prossimità, sull’uscio di un nuovo orientamento esistenziale.
Forse, con più onestà intellettuale, quella legge più semplicemente non ha mai potuto essere correttamente applicata, non s’è mai voluto che desse i frutti desiderati, se non con il senno del poi, comprenderne a pieno l’importanza, di come l’impegno, il lavoro, il patto sociale concordato, riducessero drasticamente la reiterazione dei reati.
Senza troppi affanni, eccoci dirimpetto al carcere che n’è seguito, ben più malsano e inverecondo, puzza-va di deflagrazioni, di grandi botti a perdere, esplosione dopo esplosione, bombe una dietro l’altra, giudici in mille pezzettini, scorte di uomini e donne polverizzate per aria, l’antistato alle prese con i propri interessi messi alla berlina, lo Stato al cospetto dei propri fantasmi.
Morto dopo morto, botta al plastico dopo botta al plastico, la grande maturità raggiunta dalla stragrande maggioranza della popolazione detenuta, venne rispedita al mittente senza tanti complimenti. Infine siamo rinculati al cospetto del carcere attuale, che non può assolutamente esser chiamato carcere, perché si tratta più tragicamente di un contenitore di cose, oggetti, numeri, corpi accatastati uno sull’altro, spesso, sempre più spesso di carne morta.
Un carcere prigioniero di se stesso, che vive sopravvivendo a se stesso, nel sovraffollamento, nell’ingiustizia, nell’illegalità, nella violenza di tutti i giorni. Un carcere in cui contenere, punire, rieducare, che però non si piega a nessuna utilità e scopo, a cui incredibilmente è chiesto a gran voce di rimanere baluardo insormontabile di sicurezza per l’intera collettività. Un carcere che si contorce in una sorta di irridente ortopedia penitenziaria, dove etimologicamente l’arto leso dovrebbe essere trattato sensibilmente per ritrovarlo a ben camminare, nell’accezione attuale l’illusione di condurre l’uomo detenuto dentro un percorso socialmente condivisibile per ben camminare e raro cadere, appunto.
Ma cosa c’è di socialmente condivisibile nella recidiva che permane al 70%, dimenticando volutamente e politicamente come le misure alternative, basate sul lavoro, sull’impegno, sulla proposizione di un patto sociale da rispettare, riducano drasticamente quella feroce recidiva abbassandola al 11%.
Cosa c’è di socialmente condivisibile nell’uomo della pena costretto a sopravvivere in un tempo bloccato, permanentemente inchiodato al momento dell’arresto, che non passa, perchè si rimane lì, stritolati da una noia mortale, a una chiusura ermetica dove l’obbligatorietà sta nel non fare nulla, unica possibilità stra-parlare, chiacchierare, ripetere giorno dopo giorno, tra compagni di cella, nello spazio ridotto sub-umano causato dal sovraffollamento, la sequenza di quel maledetto giorno dell’ammanettamento, sul come fare per non incorrere più negli stessi ferri ai polsi, alzando tragicamente il livello di scontro, alla ricerca spasmodica di una impunità che invece non ci sarà.
Cosa c’è di socialmente condivisibile in una carcerazione che non rispetta la dignità di alcuno, bensì la contorce in una caduta rovinosa, alla fine della sua corsa, il detenuto arriverà persino a convincersi di essere innocente di esser colpevole, una sorta di infantilizzazione pericolosissima, nella consapevolezza di avere scontato non soltanto la pena erogata dal suo giudice naturale in sentenza, ma altre pene aggiuntive non contemplate da alcun codice penale, soprattutto mai condivise dalla nostra Costituzione.
Cosa c’è di socialmente condivisibile in una pena che non riesce ad accorciare le distanze con una libertà che comunque prima o poi ritornerà nelle gambe e nel cuore di ciascun uomo ristretto, perché volenti o nolenti la pena prima o poi avrà un termine. Inducendo la persona che avrà terminato di scontare la propria condanna, a pensare davanti a quel cancello blindato finalmente spalancato: bene, eccomi nuovamente libero, ora ho pagato quanto mi è stato chiesto, ho pagato anche di più, assai di più, ora non devo più niente a nessuno, ora nessuno può chiedermi altro, ora posso finalmente ritornare a fare quello che voglio.
In questo delirio del niente imparato e appreso, mi ritorna in mente quanto accade ogni qual volta mi reco in un’aula scolastica per incontrare tanti giovani studenti, i quali alla domanda che spesso faccio loro a bruciapelo: “ Ma per te cos’è la libertà? Cosa significa per te essere un uomo libero?
La risposta che ricevo di primo acchito è : la libertà è fare tutto quello che voglio.
Penso davvero che qualcosa di socialmente condivisibile invece c’è da fare, necessita fare, è urgente e non più rinviabile fare, e sta nell’accompagnare quel detenuto di fronte a quel portone aperto nella consapevolezza che proprio in quei primi passi, uno dopo l’altro, alla luce, con il viso in alto di chi spera, dovrà avere compreso che proprio in quel preciso istante inizieranno gli esami veri, i conti quotidiani nei gesti ripetuti con la propria coscienza.
Un carcere socialmente condivisibile non è rappresentato dalla vendetta statuale o sociale di per sé impresentabile, bensì è uno spazio in cui sarà possibile scontare con dignità la propria pena, in cui imparare il valore della libertà per quello che è : RESPONSABILITA’.