ANNA SGHERRI
UNA MEMORIA COMPLESSA NELLA FORMAZIONE DI UN DOCENTE
There are two Ripenings – one – of sight
Whose forces Spheric wind
Until the Velvet product
Drop spicy to the ground –
A homelier maturing –
A Process in the Bur –
That Theeth of Frost alone disclose
In far October Air 1[E. Dickinson, “Poesie”, Ed. Bompiani 1978]
Non faccia meraviglia ritrovare Anna Sgherri nelle riflessioni sulla scuola che riescono ancora ad intrigare, al di là di un pomeriggio speciale nella quale la sua figura è ricordata: la memoria di questa giornata è solo la parte visibile di una memoria che, con sfumature anche molto diverse, penso può durare ancora nel lavoro di quanti l’hanno conosciuta e frequentata, ritrovandola nell’azione quotidiana, anche e soprattutto quando certe esperienze sono terminate e molte idee e intenzioni sono sembrate smarrite o diventate irriconoscibili.
A me è successo proprio questo. La forma particolare della mia formazione come docente ha infatti trovato un senso solo alla fine del mio lavoro, come sistemazione di una serie di presentimenti e decisioni parziali, che non avevano trovato una loro “cornice” in un’immagine unitaria.
Mi ero laureato (e piuttosto bene) in filosofia della religione. La mia prospettiva chissà dove sarebbe arrivata se non fosse stato per uno shock educativo del tutto inaspettato: fare il “moniteur” su base CEMEA nei campeggi per i figli dei dipendenti ENI e poi ITALSIDER (nella Sila Grande, nell’anno del colera) e infine OLIVETTI. Sopravvissuto, sono stato insegnante di Lettere nelle Scuole medie della periferia romana e poi di Psicologia/Pedagogia in un I.P.S.A.C.I romano (sempre di periferia, con le famigerate Tor Sapienza, Torre Angela, Tor Bella Monaca): pensavo di trovare un equilibrio tra “pratica selvaggia” con i bambini di Bagnoli, Taranto, Torre Annunziata e studi “classici” da integrare con psicologia. Sono approdato, infine, in un Liceo romano delle Scienze Sociali, all’inizio della sperimentazione a livello nazionale.
Il mio incontro con Anna Sgherri è avvenuto all’inizio di questa elaborazione finale, a partire da un convegno a Montecatini.
Indicherò solo alcuni fra i tratti finali decisivi della mia formazione che devo a lei, traendoli dalle ultime pagine della mia biografia professionale:
- Con Anna Sgherri ho imparato a confrontarmi con la prospettiva delle “buone pratiche”, molto prima che l’espressione “buona scuola” trovasse uno “sdoganamento” oggi così ambiguamente rassicurante. Anna non me ne voglia se sono davvero portato a sostenere che le due espressioni non sono affatto sinonime, dal momento che nelle intenzioni della “buona scuola” non riesco a veder quasi nulla di quel che allora si intendeva con “buone pratiche”, neppure facendo la cresta sulle inevitabili differenze che intervengono nel momento in cui si passa dalla fase sperimentale (con le “buone pratiche ” che chiedono inevitabilmente spazio) a quella istituzionale (dove le sintesi prendono il sopravvento, buone o cattive che siano).
Le “buone pratiche”, condivise nella prospettiva sostenuta da Anna Sgherri, mi hanno portato direttamente nel cuore di quello che ritengo essere stato uno degli aspetti più avveniristici e illuminati nel tentativo di riforma della scuola: portare le scienze sociali all’interno dei Licei e delle Scuole superiori, istituendo un “asse” antropologico che comprendesse l’Antropologia culturale, la Sociologia, la Psicologia sociale (dette “Scienze sociali”) accanto al Diritto, all’Economia, alle Scienze dell’educazione, alla Storia e alla Filosofia. Si potrebbe obiettare che anche discipline come Diritto, Economia e Storia – e soprattutto Pedagogia – sono esempi di scienze sociali a pieno titolo e si potrebbe esser certi dell’assenso generale. Senza quelle “scienze sociali” lì, però, tutte le altre (con la sola eccezione di Pedagogia che ha improntato di sé l’asse magistrale) non avrebbero avuto la forza di orientare l’asse culturale dei curricula scolastici nei quali erano inserite.
Quella del “Liceo delle Scienze sociali” è stata dunque un’operazione culturale originale di altissimo livello, che cercava di corrispondere ad un bisogno consapevolmente avvertito nella cultura italiana degli ultimi quarant’anni almeno: avvertito e recepito anche istituzionalmente con la sperimentazione, benché la sintesi finale avrebbe disatteso le prospettive che sembravano essersi aperte. Si era aperto un po’ troppo …? Temo proprio di sì, anche se questo forse Anna Sgherri non l’avrebbe trovato così importante: i processi culturali non dipendono dal narcisismo dei desiderî. Chi però l’ha provata, quell’apertura, non poteva che restarne catturato quali che fossero stati i risultati immediati. Di questo non posso che essere grato a chi attorno ad Anna – in una grande diversità di approcci e punti di vista – ha fatto girare un po’ di varietà e complessità come tratti imprescindibili di un orizzonte scolastico.
- Un aspetto per me sorprendente delle “buone pratiche” è stato l’insistenza di Anna a “non avere fretta” nel lavoro scolastico: qualcosa che aveva convergenze con analoghi suggerimenti di Clotilde Pontecorvo. Ho finito col declinare il messaggio come slow theaching: se si preferisce, come slow foot, come lento pede, che così facilmente mi fa affiorare alla memoria i ricordi dei trekking appenninici e dolomitici.
Come si fa ad essere lenti nella scuola se i programmi sembrano fatti apposta per mettere fretta al docente con ansia da prestazione, per insinuare sospetto nel dirigente efficientista e perplessità nelle famiglie, per coltivare irresponsabilità nello studente cinicamente opportunista?
Una bella quadratura del cerchio: era una re-visione di ciò che debba intendersi con “programma”, “programmazione”, “progettazione”, una revisione del modo individualista di lavorare, così funzionale alla condizione di isolamento, di cui spesso il docente di scuola superiore poi si lamenta. Anna non suggeriva altro se non questo: andare piano con gli studenti. Cosa intendeva di preciso?
Credo sia un bene che non l’abbia mai detto esplicitamente, per quel che ne so. Nello sforzo di interpretare quel suo dire mi è sembrato che volesse intendere l’adeguamento dell’insegnamento ai ritmi dell’apprendimento, soprattutto se esso riguarda quella generale modalità del pensare che abbiamo imparato a chiamare “complessità”. Altre volte mi è sembrato che intendesse privilegiare la lettura e la discussione dei testi classici della filosofia e delle scienze sociali, insomma un soffermarsi ad arricchire l’ “enciclopedia” dello studente: tutte cose che richiedono lentezze imprevedibili e autodisciplina, così insolite in un’organizzazione del sistema formativo che sembra svolgersi all’insegna di “efficienza = rapidità = rassicurazione”. Mi è sembrato, infine, che volesse invitare a riflettere sulla necessità d’insegnare le modalità di pensiero che sono sottese nelle diverse discipline e perseguite dalle diverse figure intellettuali, nei metodi e nei problemi ad esse correlativi: come pensa e come lavora uno storico? un sociologo? un antropologo? un giurista? un matematico? un critico letterario? Lo studente lo scopre automaticamente studiando la singola “materia”? O non lo scopre, piuttosto, “cogliendo sul fatto” il lavoro intellettuale sul campo e, nello stesso tempo, andandone a scovare le ragioni anche nelle pagine degli argomenti e degli autori di riferimento? Prima di confrontarmi con Anna Sgherri e il suo gruppo avrei optato per la prima risposta.
- È così che si è venuto a delineare il tratto forse più consequenziale e, per me, sconvolgente di quelle premesse: questa “buona pratica”, che si rispecchia anche nel “lento andare” lungo i tempi e i ritmi della comprensione, si sarebbe espresso in una “Stage formativo curricolare”. In un rapporto inedito, più franco e diretto con un territorio storicamente definito, cioè un luogo dove la pratica non segue lo schema “buono/cattivo” perché la prassi è l’essenza stessa di quel vivere localmente. Con i grandi temi della globalizzazione che si riverberano lì. Lo Stage formativo sarebbe stata la prima esperienza di comprensione intellettuale ed empatica del territorio, da parte di uno studente che elabora l’osservazione diretta – preferibilmente partecipata – fusa con lo studio sui testi che parlano di diritti, storia, modi di vivere, processi sociali, statistiche, pregiudizi da contestualizzare lì. Lo “stage formativo” avrebbe trasformato le “discipline” (cioè i modi di pensare tipici degli scienziati) in una “materia” (cioè il contenuto dell’osservazione partecipata e della comprensione intellettuale). E le “materie tradizionali”? Strumenti e risorse informative dentro una “cassetta di attrezzi” molto, molto più ampia.
Anche qui una novità inaudita per un Liceo: l’introduzione, nel curriculum, dell’osservazione diretta della realtà come “costruzione sociale”, fatta di bisogni, processi decisionali, lavoro d’interpretazione multidisciplinare, a contatto con un territorio che materializza le conoscenze possibili, le rende reali. Nessuna “alternanza scuola-lavoro”: piuttosto un’elaborazione curricolare attorno ad un’esperienza osservativa direttamente gestita insieme – dagli studenti e dagli adulti vygotzkianamente “di sostegno” – per andare oltre il semplice “guardare”, verso l’ “osservare”. Il “lavoro” dello studente di un Liceo delle Scienze sociali sarebbe stato propedeutico al “lavoro intellettuale come professione”.
Ci si metta nei panni di un docente la cui competenza si estende fra le pagine di libri e registri e la cui immagine di sé è quella dell’intellettuale “tutto mente”: la sua pratica è tutta nella esecuzione di un programma che, quando non promana dall’alto di una circolare o di un’ordinanza, viene comunque dall’alto dell’indice degli argomenti del manuale che ha scelto. E costituisce un tradimento, sempre, perfino del sacrosanto principio gentiliano, “il metodo è il maestro”. Ci si metta nei panni di un docente che si sente “aggiornato” perché è capace di fare riferimenti alla vita di tutti i giorni attraverso (quando gli va bene) le analogie che può intuire trattando certi argomenti o autori molto attuali. Non dovrebbe essere difficile vestirsi: sono panni che abbiamo indossato un po’ tutti. Ebbene, quell’opera di “riferimenti a …” era ed è sempre qualcosa di astratto, qualcosa che parte da un libro e dentro un libro ritorna, dopo esser passato per la mente didattico-centrica del docente.
Ci si metta nei panni di un docente liceale: come è vestito ordinariamente? L’immagine prevalente è quella di un guardaroba che ha tuttora molto in comune con quello dell’impiegato, con un certo ammodernamento del “look” dovuto alla rivoluzione sessantottesca dei jeans e delle scarpe di gomma. Ma quanti di quei docenti liceali sarebbero disposti a sporcare del “lavoro sul campo” quei vestiti ordinarî, quelle borse, quelle cravatte, quelle sciarpe, quelle scarpe con i tacchi, quelle camicie, quelle giacche?
Ecco. Anna mi ha chiesto questo: di “risciacquare le idee nel Tevere e nell’Aniene”, come nel Garigliano, nel Po, nel Mincio, nel Fiora, nel Tirso, nel Pescara, nell’Adige, nell’Arno. Non era un’opzione manzoniana, era un’operazione – semplice nella sua concezione, complessa nella sua attuazione e nelle sue conseguenze – di meticciamento curricolare di didattica (un bisogno del docente) e bisogni “altri”.
Anna mi ha chiesto di mettere alla prova le idee e i metodi “pulitini” dell’agire didattico individuale, provando a scendere per le strade con i “miei” studenti (che quelle strade sanno a volte – ma non sempre – meglio di me e che spesso ignoriamo entrambi…), uscendo dalla scuola-presepio verso la scuola-società. E di tornare con i vestiti mentali sgualciti, per l’impatto con una realtà non più guardata solo con occhio “puro”, con apollineo e imperiale distacco. Sporchi della polvere del dubbio, della sorpresa, della difficoltà a “costruire” una comprensione che non fosse solo la conclusione logica di un ragionamento “page to page”.
Anna Sgherri mi ha chiesto di rendere complesso il mio lavoro di docente, senza fare del termine “complessità” l’ultimo velo patetico e retorico dell’imperiale vestito scolastico …
Paolo Cinque
I modi sono due del maturare –
Uno è visibile
E la sua forza rotea come sfera,
Finché il frutto vellutato
A terra cade, carico d’aromi –L’altro, più intimo
È tormento del mallo –
Solo i denti del gelo
Lo disserrano nell’aria
Dell’ultimo ottobre.[trad. di G. Errante, Bompiani 1978]