Il confronto con la complessità richiede l’esercizio del dubbio, la ricerca attraverso il dialogo e l’esplorazione intersoggettiva. Valutare nella scuola implica sempre un discorso educativo, che non può espletarsi in un mero lavoro di riduzione dei fenomeni a una dimensione quantificabile e misurabile, se non mettendo a rischio il valore stesso della valutazione.
Parlare oggi di valutazione, quando la scuola italiana è accusata di non avere una cultura della valutazione, quando nel sempre più confuso discorso politico si mette demagogicamente insieme valutazione e meritocrazia, richiede innanzitutto una riflessione sul modello di scuola che abbiamo in testa, richiede attenzione e cura verso i diversi soggetti coinvolti nel processo valutativo, richiede uno studio attento degli strumenti finora utilizzati.
Il tempo che ho a disposizione è limitato, non potrò dunque scendere in analisi puntuali, ma il contesto in cui mi trovo, un seminario con la presenza di docenti e dirigenti della Rete di scuole Passaggi e dell’Associazione SISUS (Società Italiana di Scienze Umane e Sociali), della Presidente dell’Invalsi e della prof.ssa Clotilde Pontecorvo, mi permette di puntare ai nodi principali, lasciando all’approccio seminariale di questo incontro lo spazio per una discussione che entri nel merito delle posizioni che proverò ad illustrare.
Ritengo che la scuola oggi abbia sempre più bisogno di promuovere un approccio critico alla conoscenza, una scuola dove il ragionare trovi spazio in una comunità di ricerca, dove studenti e docenti sviluppino capacità dialogiche e relazionali, dove il discorso educativo si sostanzi nei tanti atti quotidiani del fare scuola, in cui il punto di vista, l’errore, l’interpretazione, il soggettivo siano occasione di crescita individuale e collettiva.
Le diverse possibili risposte ad un’unica domanda, l’attribuzione di senso nell’interazione con i testi aprono percorsi che dovrebbero caratterizzarsi per la presenza di riflessività, di creatività, di ritmi che lasciano il tempo per la maturazione, per l’osservazione e l’autosservazione, per il ragionamento, per la richiesta di aiuto, soprattutto in quelle fasce d’età dove competenze emotive e cognitive si intersecano, producendo risultati positivi quando il clima è basato sulla fiducia e sul dialogo. Parafrasando il titolo di un libro ancora insuperato, e le cui autrici sono qui presenti, discutendo si impara: si impara nella relazione con il docente, con i compagni, s’impara stando nei problemi, a partire dai problemi e dai soggetti perché lo scopo dell’apprendimento è proprio quello di saper padroneggiare le modalità di accesso alle conoscenze e al loro utilizzo. Ma questa padronanza cresce nell’interazione, nella consapevolezza che non vi sono risposte pronte all’uso, che la ricerca di soluzioni parte sempre da un riposizionamento, sollecitato dal confronto, da una riformulazione delle conoscenze e da una ridefinizione del problema.
In questo laboratorio, che dovrebbe essere la scuola, i soggetti sono persone, che imparano e che insegnano, status e ruoli distinti, ma tra loro interdipendenti; un laboratorio dove l’attenzione è posta al percorso di apprendimento soggettivo, sulla base di un processo di valutazione che
rappresenta un continuum e che non si esplica all’arrivo ma descrive e informa l’intero percorso.
La valutazione non si aggiunge al termine della relazione educativa, quasi fosse la nottola di Minerva, ma ne è parte essenziale, si costruisce nella relazione, dà forma al processo di insegnamento-apprendimento. Non può prescindere dal contesto, dai soggetti coinvolti, dalle strategie utilizzate; deve partire da una conoscenza attenta ai dettagli, ai bisogni, alle storie che ogni bambino e ogni ragazzo porta con sé. Pensare che in nome di una (presunta) oggettività e standardizzazione, si possa de-contestualizzare e trattare con strumenti statistici semplificati realtà complesse e dalle mille sfaccettature come gli apprendimenti, che sono sempre agganciati alle persone e alle loro tante variabili di comportamento e di pensiero, significa banalizzare se non stravolgere ciò che si vorrebbe conoscere.
L’obiettività è il punto di arrivo e non di partenza di una ricerca, soprattutto quando questa ha il compito precipuo di valutare. L’obiettività non è figlia della standardizzazione: si costruisce a partire da una conoscenza diretta della realtà che si vuole indagare, dal coinvolgimento degli attori del sistema, costruendo e calibrando insieme gli strumenti di indagine. È un lavoro lungo e faticoso, che gli insegnanti già fanno nelle loro classi attraverso la riflessione, l’ascolto e la predisposizione di strumenti e situazioni sulla base sempre di un’intenzione educativa. Altrimenti non svolgiamo un’azione valutativa ma una semplice misurazione “quantitativa”, che ha la pretesa di essere oggettiva, ma in realtà manipola il suo oggetto di indagine (che è in realtà un soggetto), lo obbliga ad adeguarsi alla logica di chi ha strutturato le prove, stabilite a prescindere dal contesto. In questo modo la valutazione diventa il letto di Procuste, dove ogni soggettività è piegata in nome della confrontabilità e pseudo-oggettività dei risultati.
Nessuna griglia, nessun quesito a risposta multipla o basato sulla logica binaria del vero/falso ci rassicurerà sull’oggettività e quindi sul valore predittivo del risultato, se nel contempo non ci confrontiamo e non ascoltiamo i significati che i nostri studenti attribuiscono a quelle risposte preconfezionate.
Esempio paradigmatico è la valutazione della padronanza linguistica, fenomeno complesso e articolato, tanto che nel Quadro di riferimento della prova di italiano, predisposta dall’Invalsi nel 2013, si fa riferimento ai suoi tre ambiti fondamentali (oralità, lettura e scrittura). Tuttavia, per motivi tecnico-organizzativi, due dei tre ambiti non vengono presi in considerazione: produzione orale/ascolto e scrittura. Quindi le modalità più utilizzate nell’ambito scolastico vengono ignorate, in quanto non compatibili con le modalità del testing.
Resta dunque la competenza di lettura, che viene “misurata” in gran parte con domande a risposta multipla, in cui vi è una sola risposta corretta. Per un’analisi puntuale rimando al testo di Ferdinando Goglia Criticità delle prove Invalsi di Italiano, presente nel volume I test Invalsi.
Contributi per una lettura critica a cura del Centro Studi per la Scuola Pubblica e dei Cobas Scuola. Qui mi limito solo ad evidenziare come le risposte corrette, predisposte dall’Invalsi, nell’ambito della competenza pragmatico-testuale, siano fortemente limitate da una rigida restrizione interpretativa imposta da una procedura di valutazione che deve ridurre a una dimensione quantificabile e misurabile un fenomeno, come l’interazione con il testo, in cui l’esperienza della lettura non può che partire dal ruolo della soggettività per mediare poi con la tradizione delle
interpretazioni e con il confronto con gli altri lettori, prima di tutto la classe e il docente.
Mi viene in mente a questo proposito una delle conversazioni su argomenti problematici che Bateson chiamava metaloghi. In questo, intitolato Quante cose sai?, la figlia chiede al padre se ci sia mai stato qualcuno che abbia misurato quanto uno sapesse. Il padre le risponde che lo hanno
fatto, mediante prove e quiz, come se avessero cercato di capire quanto è grande un pezzo di carta gettandogli contro dei sassi. Tuttavia il padre dichiara di ignorare il significato dei risultati. Egli precisa poi che il foglio colpito di più dovrebbe essere il più grande, così come lo studente, a cui è
stato gettato un sacco di domande e le cui conoscenze sono state colpite di più, dovrebbe saperne di più. Ma in realtà questa soluzione, secondo Bateson, non può funzionare perché non considera che ci sono «diversi generi di sapere» e che «ci dovrebbero essere tipi diversi di voti per i diversi tipi di
domande». E alla fine il padre conclude «Non si possono mescolare i pensieri, si possono solo combinare. E alla fin fine ciò significa che non li si può contare. Perché contare è proprio aggiungere semplicemente una cosa all’altra. E per i pensieri questo non lo si può fare
assolutamente».
Come dicevo all’inizio valutare richiede attenzione e cura verso i diversi soggetti in esso coinvolti. In una dimensione valutativa seria e attenta al dialogo educativo, un alunno o uno studente non può essere trattato come un individuo anonimo, a cui non può essere data alcuna informazione aggiuntiva, non concedendogli il tempo e l’opportunità, penso alla scuola primaria, di riflettere con calma, di tornare sui suoi passi, di chiedere aiuto, perché la rapidità della risposta non permette l’approfondimento e favorisce il più delle volte il convenzionalismo e il pensiero convergente, mentre chi valuta, soprattutto le competenze meta cognitive, dovrebbe tenere in debito conto anche il pensiero divergente.
Infine il docente, che svolge un ruolo fondamentale nel processo valutativo, non può essere ignorato, sospeso per un giorno dal suo ruolo educativo. Piegarlo ad una logica di sottomissione in cui deve dire e fare ciò che altri hanno deciso (mi riferisco in questo caso al Manuale del
somministratore), o essere allontanato dalla sua classe perché potrebbe inficiare la scientificità del protocollo, rappresentano scelte istituzionali che prima di tutto spersonalizzano la relazione educativa, in secondo luogo attivano un dispositivo autoritario che nulla dovrebbe avere a che fare
con la scuola, luogo di confronto e di scelte consapevoli, dispositivo che colpisce invece la dignità professionale del docente, la sua esperienza e la relazione con i suoi studenti.
Chiudo il mio intervento con una riflessione della filosofa Martha Nussbaum che, guardando alla realtà statunitense e al sistema di test nazionali introdotto dal No Child Left Behind Act, così scrive: «Preparare al test è l’insegnamento ormai dominante nelle aule scolastiche, che produce
un’atmosfera di passività fra gli allievi e di routine fra i professori. La creatività e l’individualità che contraddistinguono il miglior insegnamento e l’apprendimento umanistico hanno sempre più difficoltà a palesarsi. Quando il test determina l’intero futuro scolastico, le forme di rapporto
discente docente che non siano utili ai fini del test saranno verosimilmente compresse». Anche in Italia sta accadendo in molte classi qualcosa di simile e ne è testimonianza la larga messe di volumi per addestrare gli studenti ad affrontare i testi Invalsi, tanto che qualche voce autorevole non ha
esitato a definirla editoria pornografica: conoscenza ridotta in pillole per «preparare i bambini ad affrontare ogni aspetto del test di valutazione», come recita il manuale di un’importante casa editrice.
Facciamo allora in modo che la scuola italiana non sia straziata sul letto di Procuste preparato dall’Invalsi
Davide Zotti