La psichiatria e la validità dell’esperienza sul campo
Il racconto dell'esperienza di stage di Cristina Perini, allieva del Liceo delle Scienze Sociali di Trieste, presso la Cooperativa Sociale Lister all'interno del Parco di S. Giovanni (l'ex manicomio di Trieste, dove Basaglia ha attuato la sua riforma).
Lo stage
Durante i cinque anni in cui ho frequentato il Liceo delle Scienze Sociali, ho compreso come tale disciplina risulti essere, per chi la approfondisce, un validissimo strumento per imparare a comprendere e, soprattutto, affrontare la complessità della società odierna. Dato che i fenomeni analizzati dalle Scienze Sociali risultano molto elaborati, un approccio teorico non è sufficiente. E’ infatti necessario che lo studio teorico proceda, il più possibile, di pari passo con l’esperienza sul campo.
Il mezzo più efficace per intraprendere in modo completo e produttivo un’esperienza di applicazione delle conoscenze e competenze acquisite in un contesto di quotidianità è lo stage. Personalmente, ho avuto la grande fortuna di prendere parte, nel corso del quarto anno, ad uno stage presso la sartoria sociale “Lister”, situata nel “Padiglione M” del Parco culturale di San Giovanni. Durante una settimana, alcuni miei compagni ed io abbiamo lavorato all’interno della sartoria. Nella struttura lavorano coloro che hanno fondato la sartoria sociale, tra cui un’ex infermiera che lavorò al fianco di Franco Basaglia, moltissimi volontari e persone che presentano un disagio psichico. Queste ultime, nel momento in cui intraprendono il percorso lavorativo alla Lister, firmano un regolare contratto di lavoro e, cosa ancora più importante, sono considerate socie alla pari. Ciò significa che tutti i soci della sartoria, attraverso il loro lavoro, collaborano per mantenere in vita la Lister.
Nella settimana di stage, il mio gruppo ed io, abbiamo partecipato attivamente al lavoro quotidiano della sartoria sociale. Esso consiste nel diffondere, attraverso i manufatti, l’arte del riciclaggio e del riutilizzo: infatti, in quella sartoria, oggetti come jeans vecchi e caduti ormai nell’oblio del disuso, una volta scuciti, “riprendono vita” sotto forma di splendidi vestiti o fantastiche borse e borsette. Noi studenti, durante lo stage, abbiamo dato il nostro contributo, ad esempio, aiutando nella preparazione dei materiali destinati a divenire parte integrante dei tanti capolavori. Inoltre, è fondamentale aggiungere che, oltre a sottolineare l’importanza di “rianimare” gli oggetti, i manufatti della Lister hanno un ruolo come mezzi che permettono di migliorare le capacità relazionali. Infatti, lo scopo principe della sartoria sociale è quello di dare dignità lavorativa a persone che si trovano in una situazione di disagio. Inoltre, lavorando in quel contesto con continuità, ho potuto constatare che lavorare con ritmi più lenti, dovuti all’accuratezza dei lavori manuali, sia un enorme aiuto per creare legami privi di superficialità e pregiudizi.
Per far comprendere al meglio la verità di questa mia affermazione, desidero raccontare un episodio che mi ha visto protagonista proprio in quella settimana di stage: era il primo giorno; siccome avevo saputo che avrei dovuto cimentarmi in lavori manuali, per i quali sono sempre stata negata, avevo il timore di non riuscire a relazionarmi con nessuno e, quindi, di essere l’unica a non raggiungere il vero scopo dello stage. Invece, con mia grande sorpresa, ho visto il mio limite trasformarsi in un enorme vantaggio. Infatti, una delle socie della Lister, si è avvicinata a me e mi ha dato una mano. Ed è così che ho iniziato a chiacchierare con lei e devo dire che l’ho trovata da subito una persona molto sensibile, simpatica e socievole.
Questo episodio tanto piacevole, mi ha permesso di “rompere il ghiaccio” e di relazionarmi con tutti i lavoranti della sartoria. Sono rimasta pienamente soddisfatta da questa settimana di stage, soprattutto perché mi ha permesso di vivere in una realtà fino a quel momento a me sconosciuta. Ritengo, inoltre, che questo tipo di esperienze debba essere promosso con sempre maggior intensità, in quanto permette di ridurre, se non addirittura sradicare, pregiudizi e stereotipi causati dalla paura di venire a contatto con realtà non sempre facili da affrontare.
La testimonianza di Mariuccia Giacomini
Durante una giornata di stage, Mariuccia, l’ex infermiera che lavorò con Basaglia, raccontò a noi ragazzi di come lei fu testimone diretta della rivoluzione che si ebbe nel campo psichiatrico, a partire dal 1971, con l’arrivo di Basaglia all’allora manicomio di San Giovanni.
Mariuccia iniziò a lavorare come infermiera all’interno del manicomio nel 1968. Fino al 1971, dovette inorridire silenziosamente davanti al brutale scempio dei diritti umani che si stava inesorabilmente consumando davanti ai suoi occhi. Una volta entrate in manicomio, le persone venivano private completamente della loro dignità e personalità. Gli oggetti in loro possesso venivano confiscati e, pertanto, i sentimenti e i ricordi venivano crudelmente spazzati via. Mariuccia, nel suo racconto, definì le persone rinchiuse dei “corpi vuoti”.
I pazienti del manicomio erano costretti a dormire in enormi stanze buie; uomini e donne venivano tenuti rigorosamente a distanza tra loro e, più in generale, i pazienti non avevano alcun contatto con la realtà esterna alla struttura in cui si trovavano rinchiusi. Inoltre, essi venivano privati della loro autonomia in termini di vestizione ed igiene personale. Alle infermiere era tassativamente proibito intraprendere relazioni interpersonali con i pazienti. Il loro unico compito era quello di tenere puliti gli ambienti e le persone stesse. Nel caso in cui un paziente si agitasse, lo si sottoponeva ad elettro-shock, oppure lo si metteva in isolamento, rinchiudendolo in uno stanzino. In esso, le finestre erano totalmente assenti. L’unica fonte di luce, flebile oltretutto, era costituita da una plafoniera posizionata sul soffitto. Le finestre di tutto l’edificio venivano chiuse a chiave. Un paziente era considerato tranquillo quando non pronunciava parola.
Nel manicomio venivano rinchiusi anche i bambini; essi venivano legati e torturati. Mariuccia lavorò due giorni in quel padiglione, poi, non potendo ribellarsi alla situazione, chiese di poter non lavorare più in quel reparto.
Con l’arrivo di Basaglia, le infermiere non indossarono più divise e cuffie per i capelli, bensì, vestiti molto vivaci, pieni di colore. Questo abbigliamento più informale, risultò essere uno strumento molto utile per instaurare un rapporto più confidenziale con i pazienti. Essi vennero aiutati a ritrovare la loro libertà, autonomia, dignità e personalità. Seppur con difficoltà, si fece capire ai familiari dei pazienti che essi, nonostante la loro diversità e le loro difficoltà, erano perfettamente in grado di donare affetto e amore e che, allo stesso tempo, ne erano bramosi. Lo stesso lavoro di presa di coscienza, venne fatto con la città. Si fecero delle assemblee; in esse venivano riuniti cittadini e pazienti e questi ultimi raccontavano le loro vite. Così facendo, i cittadini potevano comprendere di non essere poi così diversi da loro.
Per facilitare maggiormente l’integrazione dei pazienti nella società, si aprirono centri in tutto il territorio e si smistarono i pazienti a seconda della loro residenza. Inoltre, veniva favorito l’inserimento al lavoro dei pazienti: in queste occasioni, essi venivano aiutati dagli infermieri. In generale, la città reagì di buon grado a tutti questi cambiamenti. Quando, nel 1978, venne stata approvata la legge 180, purtroppo si entrò in una fase di recessione; negli infermieri si annidò nuovamente la freddezza e la paura di interagire con i pazienti.
Le conferenze brasiliane
Franco Basaglia, tra il 18 giugno e il 7 luglio 1979, tenne a San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte delle conferenze riguardanti le ragioni e i metodi che si vollero introdurre, lottando per la realizzazione della riforma, avvenuta nel 1978 con la legge 180.
In un suo discorso, Basaglia afferma di non sapere cosa sia esattamente la follia e nega l’esistenza di una patologia “originaria” nell’uomo. Egli definisce la follia una condizione presente insieme alla ragione nell’essere umano. La società giudicava la follia una parte della ragione perché voleva ad ogni costo trasformare la follia in ragione. Questo era lo scopo dell’istituzione del manicomio: infatti, non appena un folle varcava la soglia di questa istituzione veniva automaticamente etichettato come malato e, conseguentemente, “accettato” a livello sociale. Questo surrogato di accettazione consisteva nel fatto che il manicomio, rinchiudendo le persone che presentavano disagi psichici, le allontanavano dal contesto sociale, permettendo di fatto di diminuire il dilagare dell’improduttività; al folle veniva posto lo stigma di improduttivo e pericoloso. Il manicomio rappresentava la possibilità di isolare tali soggetti e far dimenticare della loro esistenza al resto della società.
Per renderla civile una società dev’essere razionalizzata; proprio grazie al manicomio, che è l’istituzione razionale per eccellenza, diviene possibile controllare tutti gli atti considerati devianti. Il manicomio si trasforma nella casa del folle, il luogo che imprigiona l’irrazionalità. L’internamento rappresenta, inoltre, la concretizzazione della malattia mentale e questo riesce a dare sicurezza ad una società razionale, in quanto, grazie a questo processo, si definisce il confine invalicabile tra razionalità ed irrazionalità.
Riflessione personale
la follia come elemento dionisiaco e l’internamento come elemento apollineo
A mio parere, è possibile effettuare un parallelismo tra la razionalizzazione secondo Basaglia e l’elemento apollineo, presente negli scritti giovanili di Nietsche, in particolare nell’opera “La nascita della tragedia” del 1872. Nietsche, in questa sua opera, mette in risalto gli elementi che, secondo la sua opinione, costituiscono la tragedia e di conseguenza fanno parte dell’animo dell’uomo tragico.
Questi elementi prendono il nome di apollineo e dionisiaco: il primo rappresenta la razionalità, l’ordine; mentre il secondo rappresenta l’irrazionalità e il caos. Nietsche critica Socrate, sostenendo che egli mistifica la tragedia cancellando l’elemento dionisiaco e razionalizzandola completamente. L’elemento dionisiaco ha sempre suscitato paura nell’animo umano, mentre l’elemento apollineo è sempre stato considerato sinonimo di civiltà e armonia.
Alla luce di tutto ciò, posso considerare l’internamento e l’istituzione del manicomio la concretizzazione dell’elemento apollineo che sovrasta e razionalizza l’elemento dionisiaco, cioè la follia.