Ieri ho visitato la biennale di architettura a Venezia e sono stata particolarmente colpita dal padiglione giapponese dove era esposta l’esperienza di un gruppo di architetti sotto la guida di Toyo Ito in una cittadina distrutta dal terremoto. Sulla storia del progetto riporto sotto un articolo della rivista DOMUS. Di Toyo Ito il nostro sito aveva usato l’immagine della Torre dei venti (1986) come icona e metafora della contemporaneità e della leggerezza in un mondo in continuo mutamento (clicca qui per accedere alla vecchia pagina del sito di Passaggi su Toyo Ito).
Oggi il mondo deve affrontare problemi nuovi e una nuova sensibilità. Problemi gravi come le conseguenze di un terremoto e problemi legati alla sopravvivenza del pianeta e l’architettura può essere per i nostri piani di studio un riferimento paradigmatico importante.
Dopo il terribile terremoto dell'11 marzo 2011 alcuni dei più celebri architetti giapponesi si sono riuniti per creare il kisyn-no-kai, un gruppo di cui fanno parte Riken Yamamoto, Hiroshi Naito, Kengo Kuma, Kazuyo Sejima e Toyo Ito. Gli architetti hanno instaurato un dialogo con le vittime di Sendai, cercando di trovare il modo di aiutarle nella ricostruzione della città e di migliorare la vita quotidiana della comunità. Il risultato è stato la Home-for-All (Minna no Ie): un luogo dove la gente potesse sentirsi come a casa sua, incontrarsi, riposarsi e parlare del futuro della città. La prima residenza del progetto Home-for-All è stata terminata a Sendai lo scorso autunno: una piccola struttura tradizionale di travi di legno che permette alla gente di ricominciare a guardare avanti.
Gonzalo Herrero Delicado, María José Marcos: Di fronte agli esiti della prima Home-for-All notiamo un'ovvia, seconda interpretazione. Il progetto è una riflessione sul nuovo ruolo sociale degli architetti contemporanei, che si realizza andando al di là della forma e tornando nelle strade, avvicinandosi alle persone.
Toyo Ito: Benché prima di tutto il progetto mirasse ad aiutare le persone, queste azioni erano anche un modo per mettere in discussione che cosa gli architetti dovrebbero fare e che cosa bisogna fare, che cosa sarà l'architettura d'ora in avanti e come si pensa che si farà architettura. È un aspetto concettuale che cerchiamo di trasmettere alla generazione dei giovani architetti allo scopo di ripensare l'architettura, ed è una cosa possiamo fare ora perché questo è ciò che ora sta accadendo. È una questione molto importante per tutti noi.
Parli sempre della Casa di tutti come di uno spazio pubblico in cui le persone possono incontrarsi. Ma il concetto di spazio pubblico in Europa e in Giappone non è molto differente?
La Home-for-All non è solo uno spazio interno, è anche un piccolo porticato esterno. È legata alla concezione tradizionale giapponese del mantenere in collegamento gli spazi interni e quelli esterni tramite un elemento detto engawa. Così dall'esterno all'interno ci saranno delle gradazioni, il che è tipico del vivere giapponese insieme alla natura. In Giappone abbiamo un clima abbastanza buono, ma si può comunque sempre godere di questa parte della casa: il giapponese gode del trascorrere delle stagioni, cosa in realtà molto importante per gli anziani giapponesi. Benché in Europa e negli Stati Uniti si tenda a separare molto nettamente l'esterno e l'interno, il chiuso e l'aperto, gli architetti coinvolti nella Home-for-All hanno cercato di sfumare questa divisione ed è stato molto importante perché, così facendo, ognuno è parte di ciò che accade all'interno dell'edificio.
È difficile nei tuoi progetti distinguere che cosa nasca da circostanze specifiche del contesto progettuale e che cosa si riferisca invece a tuoi interessi specifici. In questo progetto, ma anche in parecchi altri, tu progetti lo spazio pubblico partendo dalla scala domestica. Ci piacerebbe sapere se questa situazione nasce dalle condizioni del progetto o dal fatto che oggi il confine tra scala domestica e scala pubblica è in realtà scomparso: è un aspetto riscontrabile in particolare nella Casa di tutti?
Bella domanda. Ovviamente negli ultimi anni ho lavorato parecchio sulla scala pubblica e ogni volta che lo faccio mi sento frustrato e arrabbiato, e naturalmente questo si trasforma in altrettanta energia per fare il lavoro bene, ma quando si decide di realizzare un'architettura pubblica non si lavora in pieno sull'idea di ambiente, si è sempre vincolati da costruzioni e da limiti. Questa volta invece, con il progetto della Casa di tutti, abbiamo iniziato a lavorare con le vittime del disastro e poi abbiamo creato un luogo comunitario per le persone, e di fatto questa volta abbiamo davvero fatto qualcosa per la gente. Certamente si tratta di un pubblico molto limitato, ma questa volta non sono né frustrato né arrabbiato, perché funziona davvero. È uno spazio pubblico di forma elementare, e ho davvero trovato modo di colmare il dislivello esistente tra le due scale. Comunque, cambiando in questo caso il mio ruolo di architetto, facendo questo ora, non faccio qualcosa di diverso da quel che ho fatto prima, anche se questa volta ho avuto l'occasione di ripensare a come fare queste cose nuove.
Per il secondo progetto della Home-for-All hai chiesto la collaborazione di alcuni colleghi: Kumiko Inui, Sou Fujimoto e Akihisa Hirata. La ricerca ha avuto come risultato la mostra che si può visitare al padiglione del Giappone della Biennale. La vostra prima proposta prevedeva la costruzione di una Casa di tutti a Venezia. Perché alla fine ci avete rinunciato?
All'inizio volevamo costruire una parte della seconda Casa nel giardino di fronte al padiglione giapponese e poi riportarla in Giappone per le vittime del disastro. Ma poi abbiamo pensato che così facendo non saremmo stati in grado di consegnare la struttura agli utenti prima della prossima primavera, o magari della prossima estate, e allora sarebbe stato troppo tardi. In questo caso queste persone avrebbero dovuto trascorrere l'autunno e l'inverno in abitazioni molto fredde e volevamo aiutarle più in fretta. Perciò sono lietissimo di annunciare che il progetto sarà completato in Giappone entro due mesi. E poi c'è l'altra questione del sostegno economico per realizzarlo: avevamo il sostegno della Japan Foundation ma per il progetto immediato non avremmo ottenuto finanziamenti statali, mentre di fatto riceviamo fondi da donatori di tutto il mondo che ci sostengono.
Le tue opere si concentrano sulla creazione di spazi pubblici di quartiere, ma le persone vivono in capannoni dalla qualità progettuale bassissima. Non pensi che sarebbe stato più interessante dedicarsi a migliorare queste abitazioni?
È una domanda interessante, dato che pensiamo sia una cosa che ci piacerebbe fare, ma è molto complicata perché in Giappone la situazione politica risulta molto intricata, e proprio su questo tema. Da questo punto di vista il Giappone è un paese decisamente privo di fantasia, il principio della competizione non funziona: se devi costruire 50.000 abitazioni provvisorie devono essere tutte uguali, non si può fare qualcosa di qualità migliore e neppure soltanto qualcosa di differente: devono essere tutte la stessa identica abitazione.
La consuetudine vuole che la Biennale di Venezia sia per l'architettura un laboratorio di idee, una finestra sulle più interessanti realizzazioni internazionali, ma questa edizione si è dedicata a presentare molte archistar, senza concedere molto spazio a proposte fresche e innovative. Che ne pensi?
Per tradizione ogni architetto è inevitabilmente radicato in un certo paese ed è una cosa che il pubblico può gradire, dato che si pensava potesse costituire uno spazio comune. Ma il problema è che tutto ciò è andato perduto negli ultimi anni e nelle ultime Biennali perché oggi si può andare a Tokyo, a Pechino, a Hong Kong oppure qui a Venezia, e vedere che l'architettura viene usata soltanto come uno strumento dell'economia, e che si è perso il suo significato originale. In Giappone dopo il terremoto abbiamo dovuto fare molti sacrifici, ci sono state molte vittime e perciò siano tornati al grado zero, siamo tornati all'idea di architettura come luogo che permette alle persone di riunirsi, un posto che può essere usato da tutti. È quel che abbiamo fatto, facendo ripartire la città ancora una volta, come è accaduto tante volte nella nostra storia. È un modo di fare architettura che si può applicare a tutto il mondo, voglio dire pensare all'architettura come a uno strumento sociale, come a un modo di creare spazi perché le persone possano stare insieme. Secondo me Chipperfield ha pensato il Common Ground in questo senso, o per lo meno il nostro progetto ne è un riflesso.
Si ringraziano il presidente del CIVA Marie Vanhamme per il supporto e la Japan Foundation per l'assistenza.