UNA CITTÀ n. 202 / 2013 Aprile
Intervista a Anna Lona
realizzata da Barbara Bertoncin
Trovarsi, nel giro di pochi anni, di fronte a bambini che non sanno più ascoltare e però spontaneamente fanno gruppo e scambiano tutto; l’importanza che la scuola, di fronte alle nuove tecnologie, faccia non un passo indietro, ma semmai avanti, provando a recuperare un’alleanza con i genitori; il problema, grave, del gap generazionale. Intervista a Anna Lona.
Annamaria Lona, maestra elementare, insegna a Verona.
Vorremmo parlare con te del dibattito che si è aperto sull’uso delle lavagne interattive multimediali, le Lim, e in generale di computer e tablet in classe...
Ci tengo a premettere che io non ho competenze specifiche di multimedialità, sono un’autodidatta totale, una cosiddetta "migrante digitale”, per di più anche un po’ goffa. Sono arrivata a questa riflessione anche grazie a un percorso di ricerca sul curricolo per competenze in atto nel mio Istituto. La didattica per competenze costringe a un approccio all’insegnamento che sposta il fuoco dalle conoscenze alle abilità. Ma, soprattutto, mi sono imbattuta in questa tematica proprio confrontandomi con i bambini della mia classe.
Io insegno alle elementari. Per diversi anni non ho avuto i piccolini, tendenzialmente li prendevo dalla terza e li portavo in quinta. Invece tre anni fa mi è arrivata questa prima di venti bimbi e sono andata in crisi: non riconoscevo nel loro modo di fare molti degli elementi che nel mio immaginario dovevano corrispondere a quello che un bambino fa quando apprende. Io insegno dal ’78, con una pausa di attività sindacale, quindi da molti anni. La mia storia professionale inoltre è stata segnata dall’aver insegnato per molti anni nel tempo pieno, dall’appartenenza alla Cgil scuola e al Movimento di cooperazione educativa; tutte esperienze che mi hanno aiutato a maturare un approccio alla professione molto attento alla didattica partecipativa, a un approccio non trasmissivo del sapere, ecc.
Tutto questo armamentario però non mi è bastato per affrontare quello che mi sono vista succedere davanti. Il primo dato è che mi sono trovata davanti venti bambini che non sanno ascoltare. Gli esperti dicono che questa è una delle caratteristiche tipiche dei bambini nati nell’era digitale. Scherzando, all’inizio dicevo: "Le orecchie sono rimaste nella pancia della mamma”. Non poter più contare sull’ascolto, sul dialogo, come attività intrinseche della didattica, mi ha molto messa in crisi. Un po’ per curiosità, un po’ per necessità, ho cercato di capirne di più. Se uno fa questo mestiere non può non tener conto che chi ha davanti è profondamente cambiato. Quindi il limite nella capacità di ascolto è il primo indicatore del cambiamento radicale avvenuto nel modo di apprendere. Il secondo elemento -una cosa molto vera, che ho sperimentato- è che questi bambini imparano molto l’uno dall’altro, quasi per contaminazione. Oggi non devi più fare un percorso intenzionale per costruire il gruppo perché loro, forse per via dei videogiochi, sono già abituati allo scambio, a far conto l’uno sull’altro, alla collaborazione e, anche il più fragile, quello che di solito rimaneva indietro, viene coinvolto. Si tratta proprio di un atteggiamento spontaneo e questa, secondo me, è una cosa importante. Nella mia classe i gruppi si formano ogni due settimane; sono gruppi liberi perché si impara dalle persone con cui si sta bene; l’unico vincolo è che si mescolino un po’ maschi e femmine. Già solo quattro-cinque anni fa non era così. Loro sono proprio connessi, interconnessi, sono abituati a scambiare tutto e questa mi sembra una bella novità.
Tu usi il computer in classe?
In classe abbiamo un solo un computer vinto a un concorso molti anni fa e nel mio plesso non c’è un’aula di informatica che possa dirsi tale. Fin dalla prima li ho dunque portati nell’aula multimediale delle medie, prima una volta al mese, poi ogni quindici giorni per abituarli un po’. Loro acquisiscono velocemente una certa manualità e rilevo che a casa non hanno una frequenza al computer importante; non sono bambini che stanno ore davanti al monitor.
Abbiamo fatto quindi un piccolo percorso di familiarizzazione, per cui adesso sanno usare Word, hanno tutti un indirizzo e-mail e i compiti me li spediscono per mail o, in alternativa, li salvano sulla pennetta e poi li scarichiamo sul pc in classe. Sempre sulla pennetta poi si salvano materiali che utilizzo per affrontare questo o quell’argomento. Ho fatto un lavoro sui verbi utilizzando, su suggerimento di una collega "La Fiera dell’Est” di Branduardi, e poi ho fatto loro ascoltare "Il cielo d’Irlanda” di Bubola per le metafore; avevo trovato dei video interessanti e divertenti e allora se li sono voluti portare a casa. Non è un’attività ossessiva: occorre anche molto rispettare il loro percorso. Ad esempio c’è un tempo definito per spedirmi il testo corretto, chi ha piacere e sa usare bene la mail e vuole scrivere al compagno è libero di farlo. Insomma, una proposta moderata e non invasiva. Io rispondo sempre a tutti: vedo che loro ci tengono. Qualcuno ti manda il testo con tutti i colori, con una parola grande e una piccola perché magari si è voluto divertire.
L’uso del pc in classe si può articolare su due livelli: uno riguarda come lo usi tenendo conto di come è cambiato il modo di apprendere; per fare questo sarebbe necessario averne più di uno, in rete e con un collegamento internet permanente; il secondo riguarda come l’insegnante lo può usare in supporto alla didattica.
Franco Lorenzoni ha fatto un appello affinché i bambini fino a otto anni siano liberi da schermi e computer nella scuola...
Questi bambini usano le tecnologie a casa e iniziano prima degli otto anni. Cosa si fa? Io credo che il compito della scuola sia di insegnare a usarle in modo consapevole. Molti citano Freinet. Quando Freinet fa stampare i libri ai bambini, che è un modo per dire siamo editori di noi stessi, lo fa anche con un intento politico, cioè per dimostrare che il libro non è sacro. Noi, secondo me, dobbiamo compiere un po’ la stessa operazione. Io condivido alcune delle preoccupazioni espresse da Lorenzoni, ma credo anche che la scuola non possa e non debba sottrarsi a una responsabilità precisa.
Quest’anno vorrei provare, ad esempio, a fare un piccolo lavoro su come si verifica se un sito è attendibile o meno. Quindi per me il pc può entrare nelle classi e credo sia preferibile avere pc e connessione internet rispetto alla Lim, perché la lavagna multimediale, se non prevede un’interazione costante degli alunni, diventa solo una protesi utile a supportare una spiegazione. Il rischio che vedo infatti è soprattutto un uso banalizzato e banalizzante del pc, un uso inconsapevole. A me sembra questa la partita da giocare e su cui dovremmo stringere un’alleanza tra insegnanti che hanno a cuore questo mestiere.
In ogni caso, un pezzo di metodologia della didattica che ha caratterizzato anche il nostro modo di far scuola rimane vivo. Mi sembra importante sottolineare questo: non è che siccome uso il computer non devo sapere come si fa ricerca storica, lo devo sapere, devo sapere come si usa una fonte. Certo, se l’uso del pc si riduce a dare come compito a casa delle ricerche che verranno fatte col copia e incolla, oppure, come dice Lorenzoni, propinare loro un brutto video di youtube sul ciclo dell’acqua, sono d’accordo: questo è un uso banale, misero, che non cambia niente. L’appello contiene considerazioni importanti, perché è vero che i bambini devono imparare con lentezza, è giusto far loro seminare l’orto, ma questo non può esser posto in alternativa al computer. Io voglio stare dentro questa dimensione e allora mi interessa di più interrogarmi su quali risorse, sia materiali che umane, si può contare quando si introduce nei programmi la competenza digitale. Oggi non c’è più l’ora di informatica perché non ha senso. Non dovrebbe nemmeno esserci più l’aula di informatica, ma delle postazioni all’interno delle classi. Intanto però l’editoria propone prodotti che molto spesso sono i vecchi libri di testo trasferiti sul pc.
Qualcosa si sta muovendo anche a livello nazionale. È partito il Piano Nazionale Scuola Digitale che però, ad oggi, riguarda soprattutto le scuole superiori e solo in piccola parte la scuola primaria: le cosiddette classi 2.0. È un fatto importante perché è chiaro che se vogliamo interagire con gli sviluppi in atto dobbiamo acquisire, tutti, delle conoscenze e delle capacità. Questo però non lo può fare uno da solo. Mi piacerebbe che, come una volta si faceva rete sul tempo pieno, si tornasse a fare rete su questa questione, sapendo che il problema delle risorse è decisivo, ma è decisivo anche mettere sotto la lente cosa deve saper fare oggi un insegnante. Questi cambiamenti ci costringono a una riflessione sul ruolo dell’insegnante. E non è facile perché dobbiamo fare i conti con un doppio gap. Il primo generazionale: siamo il corpo docente più vecchio d’Europa; il secondo di genere, almeno per la mia generazione: una categoria femminile fatta di insegnanti che spesso sono arrivate all’uso del pc imparando da mariti, compagni e figli. Io stessa ho imparato a usare il pc nel corso della mia esperienza fuori dal mondo della scuola.
Dicevi che non ascoltano più. Quindi una tua lezione com’è articolata?
Di solito porto del materiale. Per esempio, se facciamo un lavoro sul genere dei nomi, porto un elenco di nomi maschili e femminili, un po’ di distrattori, metto dei contenitori e poi ci interroghiamo sul perché un nome è stato messo in uno piuttosto che altrove, si contano gli errori, si fanno delle tabelle… Non è un metodo innovativo, si faceva anche prima. È che non c’è più, intenzionalmente, una spiegazione preventiva.
Non si dice prima una regola che poi si va a verificare, non si legge sul sussidiario e non si copia dalla lavagna.
Per queste ragioni l’ascolto diventa più un obiettivo che va curato con modalità precise. Anche se è vero che loro ascoltano volentieri le storie raccontate o lette e le loro esperienze reciproche, resta il fatto che quello che trattengono rispetto ai contenuti non passa più dal fatto che tu l’hai detto. Loro fondamentalmente imparano facendo; la riflessione, la comprensione di una regola, la sistematizzazione di alcuni concetti vengono dopo.
Ormai è risaputo, lo ripetono spesso anche le colleghe: "Non sono più i bambini di una volta”, ed è vero: tu non puoi più contare su alcune cose, come appunto l’ascolto. La fascinazione del racconto funziona ancora, ma se vuoi che imparino una cosa, non c’è niente da fare: devi fargliela vedere, devi fargliela fare. Quando dico che non ascoltano, non intendo che disturbano, non è un problema di disciplina, assolutamente. Cioè loro ti guardano, ma se poi gli chiedi: "Che cos’ho detto?”, restano muti, quello che dici non entra o entra parzialmente. Ricordo in particolare una bambina, in prima, non ascoltava, o almeno a me così pareva, poi però faceva la verifica praticamente senza errori. Per dire che non è che proprio non ascoltino, non so; l’impressione però è che prendano dei pezzetti perché intanto hanno la mente anche da un’altra parte. Gli esperti lo chiamano multitasking. Non mi addentro in questo tema, però è forse l’elemento più complesso perché questa capacità di stare su più temi porta con sé il rischio di perdere in profondità, cioè di mettere assieme delle conoscenze episodiche, casuali e non legate. Però, ci tengo a ribadirlo, questo è un problema nostro. Non è possibile pensare di tornare a vent’anni fa. Prendiamo questa cosa di poter fare un clic. Sto facendo un percorso di educazione all’immagine e li ho preparati per portarli a vedere la mostra "Da Botticelli a Matisse”. Ho preso l’audioguida per bambini, un prodotto ben fatto, adatto alla loro età, accattivante ma rigoroso nella presentazione delle opere. La cosa interessante è che a gruppetti si sono costruiti uno specifico percorso, tornando su certi quadri, saltandone alcuni, chiamandosi per vederne altri. Cioè non hanno aspettato le indicazioni dell’insegnante, non si sono mossi in venti, hanno trovato dei percorsi personali e ogni tanto davanti a qualche quadro si sono fermati a prendere appunti. Qualcuno è tornato indietro anche di due o tre sale per rivedere un quadro. Questo dieci anni fa non sarebbe successo, perché non avevano familiarità con questa possibilità di decidere premendo un tasto.
Un bimbo un po’ timido, che non è di quelli che quando fai la discussione interviene, beh, tu avessi visto che percorso s’è fatto, perché è uno che a casa ha la console o comunque ha dimestichezza con questi strumenti. Ecco, mi piacerebbe che si riflettesse anche su questo.
Quando i bambini arrivano in prima elementare hanno già conoscenze tecnologiche?
Molti fanno i giochini sul cellulare dei genitori, ma nessuno ne ha uno suo (al massimo gliene danno uno da portare in gita); usano i dispositivi dei genitori o dei fratelli; gli senti dire: "Mia madre ha l’iPad”. Per la festa di Santa Lucia alcuni quest’anno hanno avuto la Wii, la console per videogiochi. Hanno familiarità con una serie di strumenti tecnologici multimediali che non sono necessariamente il computer, che però li fanno stare in questo mondo in cui appunto con un clic scegli il tuo percorso. Anche per questo fermarsi sul pc è fuorviante, perché in realtà loro sono immersi in tutto un mondo... Se li ascolti parlare dei videogiochi, ci si potrebbe fare più di una lezione di italiano.
Gli esperti poi sostengono che mentre per noi cosiddetti migranti digitali la differenza tra il virtuale e il reale è netta, per loro il virtuale è comunque una possibilità e questa non è necessariamente una cosa negativa. Anche questo sarebbe un aspetto da esplorare.
I genitori cosa pensano, sono preparati?
I genitori cominciano a chiedersi quale sia l’atteggiamento migliore da tenere. Loro sono arrivati prima di noi insegnanti all’uso di queste tecnologie, soprattutto per i cambiamenti intervenuti del mondo del lavoro, quindi hanno meno diffidenza di noi insegnanti.
Abbiamo fatto un’interclasse proprio la settimana scorsa ed è uscita una discussione su questo tema: loro sono interessati a capire come possono destreggiarsi a casa. Questo potrebbe quindi essere un terreno attorno al quale si rimette un po’ in piedi quell’alleanza educativa tra insegnanti e genitori che è andata perduta. Riuscire a capire insieme, a concordare, come si faceva una volta, delle "regole”, che non si limitino al divieto, potrebbe essere una bella opportunità in questa direzione.
Sono molte le cose che si potrebbero fare, come ad esempio orientarli nell’uso delle risorse presenti in rete. Come dicevo, l’offerta è molto ampia, ci sono cose banali ma anche materiale di qualità. Per limitarsi a qualche esempio, c’è un portale, dienneti.it, dove si trovano moltissime risorse gratuite.
Alle elementari usano già i social network?
Qualcuno li conosce per via di fratelli e sorelle. Qualche bimbo è dentro la rete Google, ma perché ci si va un po’ in automatico.
È più alle medie che c’è il problema, ma proprio per questo sarebbe l’età giusta in cui intervenire. Uno potrebbe aiutarli a fare un loro piccolo network, così sarebbero già attrezzati a un uso responsabile.
Il punto è sempre quello: passare da un uso inconsapevole a uno consapevole. Ma fino a che noi siamo dominati dalla paura, loro non ci riconosceranno alcuna competenza e tantomeno autorevolezza.
Gli apparecchi tecnologici non rischiano di essere un elemento di discriminazione tra chi può permetterseli e chi no?
Guarda, io ho venticinque bambini e il computer a casa ce l’hanno tutti. La mia è una classe con bimbi di famiglie di ceti sociali diversi, inclusi figli di immigrati. Hanno un diverso accesso a internet e ovviamente modelli diversi, ma per quello che dobbiamo fare noi (non avendo una classe multimediale) vanno bene tutti. Se vuoi, il fatto che in tutte le case ci sia un computer è un dato interessante. Dieci anni fa non era così. Ma neanche nella classe precedente era così e sono passati solo quattro anni.
Ti confronti con i colleghi su questi temi?
Purtroppo non abbiamo mai fatto una riflessione comune su questo tema anche se con alcune colleghe ci scambiano consigli su questo o quel sito. Molti colleghi usano il pc come supporto alla didattica, anche se la cosa non è così diffusa, perché, ripeto, l’età media è dai cinquanta in su, anche se le colleghe più giovani hanno alcune competenze in più. Ecco, riuscire allora a organizzare scambi, forme di tutoraggio sarebbe importante perché altrimenti si rischia di avere una Ferrari e usarla come fosse una Seicento. Anche limitandosi a un uso "strumentale”, in rete ci sono molte risorse fatte bene che i bambini possono usare autonomamente: se la divisione in sillabe diventa un gioco, perché non farla lì, dove peraltro si possono correggere da soli? Perché costringerli a usare solo la carta e la penna? L’Iprase (Istituto Provinciale per la Ricerca e la Sperimentazione Educativa) del Trentino già alcuni anni fa aveva elaborato una serie di esercitazioni e giochi per bambini, dall’infanzia alla scuola media.
Voglio dire che c’è del software intelligente in giro, non solo per i bambini con bisogni speciali. Confinare l’uso del computer ai bambini con problemi mi pare riduttivo. Ci sono in gioco questioni importanti; qualcuno sostiene che questa modalità di apprendere alla fine crea valore aggiunto, cioè dà vita alla cosiddetta "intelligenza collettiva”, per non parlare di come il cambiamento interessa ed interesserà sempre di più le forme e i modi della partecipazione alla vita pubblica..
Nel mio piccolo, mi sono limitata a fare un pezzetto, cioè a non usare più lo strumento didattico per eccellenza, la lavagna, e a contenere il più possibile il momento della spiegazione verbale. Per dire, se devo correggere un compito, scelgo le frasi con gli errori e con il video-proiettore le faccio vedere a tutti, così si ragiona assieme e gli errori di uno servono anche agli altri. Quando si fanno queste cose, loro sono molto attenti. D’altra parte, se loro apprendono soprattutto per via visiva, ne devo tener conto: se il mio scopo è far imparare loro la punteggiatura non posso limitarmi a spiegargliela a voce, far vedere la differenza tra un testo e un altro, li devo far materialmente provare. Ripeto, non ho inventato niente. Questo si faceva anche prima. Questo tipo di approccio non è in sé una novità. Per me è importante capire come adattarlo ai nuovi strumenti senza limitarsi a vederli solo come un nemico da tenere lontano.
Citavo questi esperimenti pilota di classe 2.0. Si tratta di una classe multimediale in cui l’apprendimento avviene con queste nuove modalità perché fondato sull’interattività.
Sarebbe interessante costruire delle forme di riflessione, di scambio tra questo nucleo di avanguardie e noi insegnanti "normali”. Non è pensabile che nei prossimi due anni noi abbiamo tutti cinque, sei computer per classe, però sarebbe utile cominciare a capire quello che si può cambiare fin da ora per essere pronti, o almeno per non ostacolare, ma andare incontro a questo cambiamento necessario.
Un’altra cosa che ci tengo a dire è che non è vero che l’attenzione alla multimedialità porta via tempo e spazio alla lettura. I miei alunni, ad esempio, leggono uno, due libri al mese e leggono bene, anche come comprensione. Non è vero che non sanno più leggere e scrivere. Periodicamente faccio delle prove di comprensione e devo dire che hanno delle ottime performance. Per esempio hanno una grande capacità di cogliere le inferenze, le metafore; non sempre sanno farle, ma le riconoscono.
Sarebbe interessante, come scuola, provare a mettere in campo una piccola sperimentazione. Per il momento ogni insegnante fa da sé, non c’è un vincolo a usare il computer ma, al di là delle diverse capacità e predisposizioni, sarebbe importante riflettere assieme su cosa si può fare perché si rischia di arrivare tardi.
Molte cose si stanno già muovendo nel mondo della scuola; dall’anno prossimo avremo la cosiddetta dematerializzazione, vale a dire che sarà generalizzata la prassi per cui tutti gli incartamenti andranno on-line, compresi i registri, i voti, le comunicazioni alle famiglie e, sempre dal prossimo anno, alcune classi saranno vincolate ad adottare libri di testo in formato e-book o misto. Gli e-book sono già presenti soprattutto nella scuola superiore e, pur non conoscendoli direttamente, condivido la preoccupazione di chi sostiene che se il libro digitale diventa quello cartaceo trasferito su uno schermo, la didattica non cambia.
Per me la vera novità, il passaggio più importante nell’apprendimento è che si passa dal rapporto uno-molti a quello molti-molti, in cui l’insegnante diventa soprattutto un mediatore, un filtro. A quel punto non basta più quello che sai, devi mettere in campo anche delle competenze nuove, specifiche. L’approccio cooperativo è importante, ma non è più sufficiente. È cambiata la struttura del modo di apprendere e se tu non ne tieni conto, molte delle cose che servono loro le impareranno fuori dalla scuola. Il rischio è che la scuola vada avanti per la propria strada e che i ragazzini giochino questa partita da soli, fuori, in famiglia o con i pari. Cito un’interessante ricerca appena pubblicata, "La wireless generation e la crossmedialità”, voluta dal Comitato Regionale per le Comunicazioni della Regione Veneto e condotta dal Dipartimento di ingegneria dell’Università di Padova, dalla quale risulta che solo il 12,9% dei ragazzi intervistati dice di aver imparato l’uso di internet in classe. Ecco, credo invece che la scuola debba rivendicare un suo ruolo e dire: "Il mio pezzo me lo prendo. So che non posso fare da sola, però la mia partita voglio giocarla”. Questa, secondo me, dovrebbe essere la nostra rivendicazione, sapendo che devi ridiscutere anche dei tuoi limiti e riconoscere che altri, a partire dalla famiglia, possono assumere un peso pari o forse addirittura superiore nella vicenda educativa. La famiglia, che oggi delega molte cose, magari su questo può tornare a prendersi un ruolo. Il panorama è interessante e stimolante.
Proprio per questo dispiace, e preoccupa, che un pezzo della scuola, questi bravi insegnanti che riflettono, si tiri fuori, anche perché molte delle pratiche che ci hanno caratterizzati, come il partire dall’esperienza, l’imparare facendo, sono parecchio in sintonia con la nuova modalità di apprendere ed è sbagliato vedere il pc come un nemico.
I bambini, almeno quelli che vedo io, non hanno un atteggiamento morboso verso le tecnologie. Il computer è come un gioco e tu di un gioco di stufi, ti annoi e non c’è nemmeno il pericolo che uno stia davanti allo schermo da solo perché non succede. Come dice Paolo Ferri, che ha dedicato un bel libro ai "nativi digitali”, i bambini si "assiepano” davanti al computer.
Dicevi che sul piano della comprensione le performance sono buone...
In uno studio ho letto che il tempo di attenzione rispetto al parlato è di nove secondi. Non lo so... Io ho fatto vedere loro "Hugo Cabret” di Scorsese, un film bellissimo; è un film dentro il film; è la storia di un bambino che si intreccia con la storia di Georges Méliès, considerato l’inventore degli effetti speciali. È una storia complicata perché ci sono questi due piani che si sovrappongono. Alla fine abbiamo fatto un piccolo lavoro in cui veniva chiesto loro sostanzialmente di distinguere la parte romanzata da quella relativa alla storia del cinema.
Beh, devo dire che, tranne un paio, tutti hanno capito. Eppure l’intreccio era articolato, la possibilità di confondersi era forte. Cosa devo dirti? Loro magari non capiscono tutto, però il senso lo colgono. Loro poi sono forti, quando trovano delle parole nuove, un po’ roboanti, le riusano subito, anche a sproposito. Scrivere a loro piace. Non è vero che non scrivono più.
Sai cos’è che mi preoccupa? Che questi bambini a scuola sono in un contesto in cui imparano quasi esclusivamente da nonne. Non è naturale. Dovresti vederli quando arriva una tirocinante, una ragazza giovane: assumono un atteggiamento diverso, cambiano postura, si illuminano! Per quanto tu faccia, nell’immaginario tu sei la loro nonna... e neanche questo aiuta.
(a cura di Barbara Bertoncin)