Renata Puleo, dirigente scolastica fino al 2011, oggi ricercatrice e socia fondatrice dell’Associazione lavoratori scuola (Alas), qual è il significato della protesta del liceo romano Albertelli che ha respinto i fondi per la digitalizzazione stanziati dal progetto «Scuola 4.0» del Pnrr?
È un’esperienza importante perché pone il problema di un altro rapporto tra la scuola e le macchine digitali. La protesta ha diversi aspetti. Il primo è legato alla gestione di fondi che arrivano in proporzione diverse a seconda della popolazione scolastica e devono essere spesi secondo le indicazioni del ministero dell’Istruzione. Docenti, genitori e studenti sostengono che questi soldi dovrebbero essere usati per altri scopi: aggiustare gli edifici, creare classi meno affollate, stabilizzare i precari, per esempio. La digitalizzazione della didattica si inserisce in un processo che ha già visto l’adozione del piano dell’informatica negli anni Novanta. Dopo è arrivato il registro elettronico che oggi può essere usato dai genitori per controllare i figli, rompendo il tacito patto tra gli studenti e i docenti. Con la pandemia il lavoro che questi ultimi hanno fatto per organizzare una didattica a distanza è stato sussunto dalle piattaforme digitali proprietarie, a cominciare da Google. È stato metabolizzato e rivomitato nelle scuole come materiale originale inventato da queste aziende.
Qualcuno potrebbe dire che si tratta di luddismo. Cosa rispondete?
Più che altro questa è una critica all’uso capitalistico della tecnologia in funzione di una sua concezione cooperativa, solidale e conviviale. Ma voglio cogliere la provocazione e rilanciarla. Dato che è inevitabile usare le macchine parlerei al limite di un «luddismo riflessivo». Si tratta cioè di imparare a governare le macchine e il tempo. Non è la macchina che gestisce il mio tempo, ma sono io che decido quando la macchina mi serve. Si parla anche di diffondere l’uso del software libero nelle scuole. Crede sia possibile farlo oggi? Non sono un’informatica, come tutte le persone della mia generazione sono approdata tardi all’uso delle tecnologie digitali. Ma conosco la storia e i problemi del software libero. Al fondo mi sembra che ci sia un problema di cambio di una mentalità strutturata, non solo nei giovani, ma anche negli adulti. Il trattamento amichevole che riserva Google, o lo stesso registro elettronico, è seduttivo, mentre il software libero ha bisogno di formazione. Dev’essere più semplice da usare, è vero. Ma è questo che andrebbe insegnato nella scuola. L’accesso e gli strumenti tecnici ed intellettuali vanno garantiti a tutti. In fondo i docenti affrontano problemi assai complessi, è il loro lavoro. Che va valorizzato e riconosciuto diversamente da quanto accade oggi. La cooperazione con gli studenti potrebbe sviluppare le tecnologie liberate. Sarebbe un modo per garantire il ruolo democratico e pluralistico della scuola pubblica.
Quali sono gli obiettivi della mobilitazione alla quale partecipate?
Cercare di mantenere i collegamenti tra scuole, docenti, genitori e studenti organizzando un coordinamento sulla digitalizzazione problematica del Pnrr. E poi lavorare sul dialogo istituito all’Albertelli, e in altre scuole in Italia, tra il consiglio di istituto, quello dei docenti e le organizzazioni studentesche su questo e altri problemi. Dalla pandemia la vita democratica nella scuola sembra che si sia spostata online. Sempre meno è possibile usare le assemblee sindacali (quando si tengono) per fare informazione. Non è facile quando quasi tutto il sistema mediatico è indifferente o attacca chi critica la trasformazione neoliberale che ha investito la scuola e il mondo della riproduzione sociale. E propone di sperimentare le alternative. Oggi è importante restare svegli.
ROBERTO CICCARELLI (Il Manifesto, 27 giugno 2023)
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