Da poco abbiamo festeggiato la giornata mondiale dei poveri, mentre nella grande sala della comunità le persone entravano e si sedevano compostamente per pranzare, tra me e me pensavo, ma che roba strana la festa dei poveri del mondo. Come se ci fosse qualcosa da celebrare, da esser felici per tanta disperata esistenza. Sotto gli occhi si presentava senza maschere, senza orpelli, senza parole superflue, peggio, compassioni ipocrite, la fotocopia di tante e troppe alzate di spalle, ciò che spesso l’indifferenza crea a dismisura. I poveri hanno le sembianze dei giorni che non sono mai nostri, eppure nell’accogliere, accompagnare, ascoltare, le persone in riserva permanente con le emozioni costrette a camminare rasenti ai muri per non rischiare di cadere ancora più giù, c’è la possibilità di intravedere un piccolo pertugio dove fare convergere le residue energie interiori per tentare di risalire la china. C’è la possibilità rimasta sotto pelle di una intuizione apparentemente sopita, strappata da una fatica di vivere vissuta male, una sconfitta esistenziale mai del tutto accettata. I poveri camminano con lo spartito tra le mani, sempre quello, sempre più sdrucito, perché non mutano mai le problematiche che li riguardano. E’ povertà di là, di qua, dovunque ci sono montagne di parole nuove, dove ognuno ha fatto bene i propri compiti, ma gli ultimi non hanno ricevuto sollievo da alcuna giustizia, soltanto nuove e consunte parole.
Rimango lì a osservare quell’umanità derelitta che non può essere colmata dal cibo offerto, dalla generosa prossimità dei volontari, ci sono sorrisi e ci sono sguardi persi lontano, c’è una sorta di silenziosa insubordinazione a un quotidiano che drammaticamente non coinvolge alcuno, dentro un consorzio sociale che ha coscienza di questa fetta di realtà ai margini, soltanto quando ne è costretta, quando è con le spalle al muro da questa povertà che sta alimentandosi delle sottrazioni, le divisioni, le moltiplicazioni che comportano perdite e mancanze.
Nuovamente la comunicazione non aiuta ad accorciare le distanze, fagocita uno stile di vita basato sulle fandonie, sulla manipolazione delle emozioni, fino a trattenerle, perché per qualcuno forse è meglio così. Nella grande sala della comunità c’è lo stare insieme quale origine ontologica dell’uomo, ma più guardo le persone che s’aggirano tra cibo e volontari, più tocco con mano il degrado del cambiamento indotto dalla miseria. Nonostante questa ingiustizia che rende le persone men che mai emancipate, la politica arrogante rende gli incapaci dei formidabili utopisti, così le parole si sprecano, le promesse anche, mentre la povertà trasale nella mancanza di beni essenziali per la vita, di cibo, di medicine, di una casa, figuriamoci di un lavoro, quale unico strumento di ritorno alla vita.