Raccogliamo qui alcuni materiali relativi alle tematiche interculturali affrontate durante il Convegno di Trieste
Al convegno conclusivo del corso di formazione per assistenti familiari, 40 donne hanno appena sostenuto il colloquio finale e ricevono l`attestato di frequenza.
Tra le donne molte sono straniere, per lo più rifugiate politiche o richiedenti asilo. Giornaliste, ingegneri, segretarie di presidenti nei loro paesi, sono scappate da guerre, torture, stupri, prigioni, famiglie sterminate.
Ripercorriamo il lungo viaggio che ha portato Maria Teresa, Lara e Catherine in Italia.
A presiedere la commissione la preside della scuola ente attuatore del corso, l`istituto Pacifici de Magistris di Sezze Romano.
Clicca qui sotto per visualizzare il video dell'esperienza (Fuoriclasse).
MARTEDI' 30 MARZO
9.00 – 13.00
Scuola territorio intercultura
Entre nous, et l'enfer ou le ciel,
il n'y a que la vie entre deux,
qui est la chose du monde la plus fragile.
Blaise Pascal
Marc Chagall
Lucia Marchetti
Una bussola per non perdere l’orientamento
Il mio compito questa mattina è di coordinare una sessione composita che vuole tenere insieme teorie e pratiche, riflessioni e racconti, vita quotidiana e storia, tra scuola e vita fuori della scuola.
Non è stato a caso aver messo questo tema al centro del convegno, pur in un momento particolarmente critico per il liceo delle scienze sociali e per la scuola in generale. L’autoreferenzialità e l’avvitarsi su se stessa sembra essere uno dei problemi più grossi della scuola in questa fase e questo produce danni evidenti nella comunicazione con gli studenti e sul senso del lavoro che si fa in classe. Per il liceo delle scienze sociali il rapporto fra il dentro e il fuori la scuola è stato ed è un elemento strutturale e fondante del curricolo. Lo abbiamo a lungo teorizzato, ma soprattutto praticato aprendo la scuola alle istituzioni del territorio, ma anche uscendo dalla scuola attraverso stage che, su un progetto pensato e curato, ha introdotto i nostri studenti ma anche noi insegnanti nelle maglie complesse e nei problemi della comunità e anche della società più ampia, globale.
L’incontro con l’altro, inteso come straniero, diverso, genere, adulto, anziano, disabile, ha costituito e costituisce un perno fondamentale dei nostri percorsi educativi e ci ha imposto un atteggiamento di prudenza nell’emettere giudizi, di ascolto, di curiosità e desiderio di scoperta. Come dice Peppe Dell’Acqua “la soglia è il luogo dell’incontro” e a me pare che noi abbiamo fatto di questa metafora una bussola interpretativa del nostro agire educativo.
E’ abbastanza probabile che alcune indicazioni importanti circa la via da seguire per riformare la scuola ci verranno da fuori, da bisogni, da istanze, da emergenze poste dalla società in generale e da incontri con partner esterni, altrettanto interessati al futuro dei giovani, da interpreti appassionati a comprendere lo spirito del tempo, da altre pratiche sociali, e meno da un interno ormai consumato nella iterazione di pratiche burocratiche e nella coazione a ripetere riti privi di significato.
E’ del tutto evidente che le scienze umane e sociali rappresentano lo strumento interpretativo fondamentale per comprendere i problemi e i fenomeni che il fuori pone alla scuola, tanto è vero che prima di dar vita ad un liceo specifico si chiedeva che questi saperi entrassero nel patrimonio comune della formazione della scuola secondaria. Il liceo delle scienze sociali ha sperimentato e confermato la potenza di questi saperi, in particolare per i giovani del nostro tempo e in un paese, l’Italia, che non le ha mai considerate ‘scienze’ al pari delle altre. Ora i Regolamenti le hanno in parte sacrificate e questo liceo viene in buona misura cancellato, ma per chi ne ha verificato la potenza formativa sarà difficile ripiegare all’interno di piani di studio come quelli che ci vengono ora presentati.
Una seconda via per non perdere l’orientamento sta, a mio avviso, nel rimettere al centro la riflessione sul nostro mestiere, nel ridefinire la nostra professione, nel fare –utilizzando la frase che usa Giuseppe Mantovani per lo straniero – un “posizionamento narrativo”. Anche gli insegnanti si sentono un po’ stranieri nella scuola, ma soprattutto la scuola è straniera nel mondo circostante molto cambiato nel giro di pochi decenni. Il patrimonio educativo che si era accumulato negli ultimi trent’anni sembra essere evaporato e risulta sempre più difficile passare il testimone, comunicare con i giovani colleghi su questioni legate al significato del nostro mestiere. E invece è ormai imprescindibile ricominciare da qui.
Ci dobbiamo chiedere a questo punto, in questo contesto di società e di scuola, come potrebbe descriversi il nostro ruolo? Cosa ci compete davvero? Quali sono gli elementi fondanti della nostra professione?
Sulla soglia: una scuola aperta e responsabile
Il valore aggiunto delle esperienze che oggi presentiamo sta prima di tutto nell’idea che la scuola deve aprirsi alle questioni emergenti del proprio territorio e del mondo utilizzando le lenti di ingrandimento che le sono offerte dai saperi disciplinari, e lo deve fare sui problemi veri, sulle questioni che coinvolgono la comunità degli adulti e su queste questioni aiuta i giovani a mettersi in gioco, a farsi delle idee, a scontrarsi e ad assumere qualche responsabilità.
In secondo luogo il valore aggiunto sta nel condividere un paradigma teorico (il concetto di intercultura che ci è stato offerto da Giuseppe Mantovani) la cui verificabilità viene misurata in territori diversi, per geografia, per cultura, per composizione sociale, per tradizione di scuola.
E’ così, e solo così che si può lentamente costruire una comunità scientifica e solo così si può pensare di migliorare la qualità della professione. Non in una singola e solitaria esperienza, anche la più esaltante, che il bravo insegnante può inventare, ma nel paziente e continuo lavoro di costruzione lenta di percorsi condivisi, in una prospettiva di confronto e sostegno reciproco.
E’ stata questa la storia di Passaggi.
Sulla soglia: un territorio si apre alla scuola
Vorrei concludere questa introduzione riportando l’esperienza che a cui sto partecipando da cittadina volontaria. Ieri abbiamo incontrato Peppe Dall’Acqua, la cui storia professionale è legata alla vicenda della chiusura dei manicomi, a Basaglia e alla legge del 1978 che, per quelli della mia età, ha segnato profondamente il modo di vedere la malattia mentale, ma soprattutto l’idea di società e di mondo che si voleva costruire. A Ferrara questa vicenda è stata particolarmente vivace perché la chiusura del manicomio fu fatta sotto la guida di uno del gruppo di Basaglia, Antonio Slavich.
Ancora oggi si continua a lavorare su quella strada, anche se le cose si sono fatte molto difficili, la società, la comunità è divisa e si fa fatica a mantenere coesione e solidarietà tra la gente. A partire dalla psichiatria si è costituto un gruppo di volontariato, Gli Irregolari, che si impegna a moltiplicare le occasioni e i luoghi di incontro e di benessere per tutti, in cui anche l’altro, possa trovare un suo posto. In questa associazione anch’io mi impegno, ora che sono in pensione.
Si tratta di tenere in mano alcuni fili rossi che ci aiutano a vivere meglio e a mantenerci umani.
I nostri interlocutori
Giuseppe Mantovani
E’ tra i nostri esperti privilegiati sia perché i suoi libri sono diventati da molti anni testi di riferimento sia nel lavoro di classe sia nella costruzione del curricolo, da L’elefante invisibile (1998), adottato da molti di noi, a Intercultura (2004) a Analisi del discorso e contesto sociale (2008), ma anche perché ha assistito all’incontro fondativo della Rete che ancora non aveva trovato il nome. Allora eravamo undici scuole, oggi siamo quarantatre.
Ci incoraggiò a continuare, e ci consigliò di costruirci una teoria. Su quell’input abbiamo lavorato e mi pare di poter affermare che attraverso scambi continui abbiamo prodotto molto, soprattutto abbiamo alcune idee forti sul ruolo della scuola, sul significato da attribuire al termine ‘formazione’ e su alcuni punti fermi della didattica: tutti aspetti che sono andati a costituire una carta di identità della nostra Rete e che si trovano esplicitati nel sito web.
Giuseppe Mantovani è stato anche invitato da alcune delle nostre scuole e oggi è qui per ascoltare e per riflettere con noi sulle nostre esperienze.
Liviana Zanchettin
Da settembre 2006 a oggi responsabile del Centro Studi della Comunità di San Martino al Campo.
Comunità di San Martino al Campo
Via Gregorutti, 2 34100 TRIESTE www.smartinocampo.it
La comunità nasce nel 1970 da parte di un gruppo tra cui Don Mario Vatta, giovane sacerdote della diocesi di Trieste - che, spinte da una motivazione di fede e da un bisogno di giustizia e di solidarietà umana, desideravano mettersi concretamente al fianco di persone provenienti dal mondo del disagio: ex carcerati, malati di mente, tossicodipendenti, alcolisti... Il nome è stato ripreso da una chiesa di Londra che ogni notte accoglieva (e tuttora accoglie) a dormire persone senza fissa dimora: barboni, alcolisti, stranieri di passaggio...
Gianfranco Schiavone
è presidente e da molti anni è impegnato, attraverso l'ICS (consorzio italiano di solidarietà) con i richiedenti asilo e i rifugiati, a partire dalla guerra nella ex Yugoslavia; lavora sia a livello locale che nazionale.
Dopo le prime esperienze (1998) ha dato avvio e ha contribuito all’idea di un sistema di accoglienza a rete, strutturato su base nazionale, da cui è scaturito, nel 2001, il Piano nazionale di Accoglienza (Pna). Ad esempio è stato uno dei referenti per il sindaco di Riace nella realizzazione del paese dell'accoglienza. Alcune classi del Carducci di Trieste hanno avuto modo di svolgere lo stage presso l'associazione o di conoscere, attraverso essa, le persone e le storie segnate da migrazioni a causa di guerre o persecuzioni.
Alessandro Dal Lago
è professore Sociologia dei processi culturali presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell' Università di Genova.
OPERE: La produzione della devianza, Feltrinelli, Milano, 1981; Etnometodologia (con p. p. giglioli), Il Mulino, Bologna, 1983; L'ordine infranto. Max Weber e i limiti del razionalismo, Unicopli, Milano, 1983; Il politeismo moderno, Unicopli, Milano, 1985; Oltre il metodo. Interpretazione e scienze sociali, Unicopli, Milano, 1989; Il paradosso dell'agire, Liguori, Napoli, 1990; Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Il Mulino, Bologna, 1990; (con p. a. rovatti) Elogio del pudore, Feltrinelli, Milano, 1990; (con r. moscati) Regalateci un sogno. Miti e realtà del tifo calcistico in Italia, Bompiani, Milano, 1992; Tra due rive. La nuova immigrazione a Milano, Franco Angeli, Milano, 1994; Il conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel, Il Mulino, Bologna, 1994; I nostri riti quotidiani. Prospettive nell' analisi della cultura, Genova, Costa & Nolan, 1995. E' autore di circa 150 saggi e contributi scientifici Ha curato e introdotto opere di H. Arendt, H. Jonas, P. Veyne, G. Simmel, M. Foucault e altri.
E’ attualmente impegnato in ricerche sulla costituzione del nemico nella società contemporanea, sulle migrazioni internazionali, sugli stili di vita notturni e sul conflitto nelle metropoli. Su questi temi sta ultimando una monografia dal titolo: Qualcuno da odiare. Lo straniero come nemico pubblico. "Non persone - L’esclusione dei migranti in una società globale" Feltrinelli 2004
Ha espresso in articoli su giornali con durezza le sue posizioni sulle leggi sulla discriminazione nei confronti degli stranieri e sui respingimenti.
Sulla soglia
Il dialogo educativo tra scuola e territorio
Scuola, territorio, intercultura
Report sulla sperimentazione in atto nelle scuole della Rete
(Terlizzi, Roma, Messina, Catania, Bologna, Trieste)
Allo scopo di facilitare la comunicazione e rendere fruibile ad altre scuole le esperienze realizzate si propone una scaletta di nodi/questioni/punti forti da considerare fondamentali nel progettare nuove esperienze. Infatti lo schema riassuntivo delle esperienze che viene accluso sintetizza alcuni descrittori utili a comprendere gli aspetti essenziali e consente di evitare la fase del racconto.
Si vorrebbe quindi portare al convegno un livello più alto di confronto critico che colga le questioni essenziali sul piano epistemologico, sul piano dell’arricchimento del curricolo e sul piano didattico. I relatori e le relatrici potrebbero seguire la scaletta in modo libero, ma dovrebbero toccare almeno alcuni dei punti indicati.
In prospettiva questi punti potrebbero diventare paragrafi di un testo sull’insegnamento dell’intercultura nella scuola sia cartaceo sia online.
Ma soprattutto si potrebbe inaugurare una modalità di ricerca-azione tra scuole ed esperti o universitari come un possibile modello da mutuare anche per diverse esperienze e su diversi argomenti.
Giuseppe Mantovani
Lucia Marchetti
Scaletta per l’analisi delle esperienze
Crollate le mura del manicomio, sopravvivono luoghi che riproducono malattia, cronicità, esclusione. Progettare luoghi diversi significa «demedicalizzare», ascoltare le persone che vivono l'esperienza della malattia, scoprire che i luoghi della cura altro non sono che i luoghi del quotidiano
Peppe Dell'Acqua*
Il rapporto tra le istituzioni della psichiatria e l'architettura ha una storia lunga e ricca di suggestioni. Tra la seconda metà dell'800 e l'inizio del '900 il grande ottimismo per le conquiste e le certezze della scienza, l'elettricità, la velocità, le nuove vie di comunicazione: influenza anche il mondo della medicina. Il progresso delle discipline mediche è segnato da un susseguirsi di scoperte che generano incredibili aspettative. Il modello medico-biologico trionfa: la causa della malattia mentale è una lesione del cervello; il medico è il tecnico deputato al trattamento; la cura si fonda su strumenti di natura fisica e chimica (farmaci, contenzione, terapie di shock, isolamento); il luogo della cura è l'ospedale psichiatrico. Fedeli al paradigma positivista i medici arrivano a una definizione sempre più certa, meticolosa e ossessiva dell'organizzazione degli istituti e forniscono ai progettisti dei frenocomi indicazioni dettagliate e soprattutto scientificamente certe. La riforma dell'assistenza psichiatrica e la chiusura dei manicomi ha riportato in scena persone e storie, bisogni e relazioni, contesti e quotidianità e ha decostruito di fatto i luoghi vecchi e nuovi della psichiatria. Ma, potrebbe accadere che mentre la nave (il manicomio) affonda altri navigli (nuove tecniche, nuovi contenitori, nuove forme di controllo) si presentino minacciosi all'orizzonte.
Tutta la rete regionale dei servizi di salute mentale del Friuli VeneziaGiulia, per esempio, si è strutturata consapevole del rischio della riproposizione dei luoghi della malattia. A Trieste mentre si lavorava alla chiusura del manicomio, alla distruzione dell'istituzione nascevano i centri di salute mentale. Era chiara la ricerca ostinata del territorio, dei luoghi della città, della dimensione delle relazioni possibili. Non ci sono «porte chiuse» e tutte le forme di contenzione sono bandite. Il centro di salute mentale può diventare, negando quotidianamente la sua pretesa natura sanitaria, un luogo di transito, una piazza, un mercato. Un luogo intenzionato a favorire lo scambio, l'incontro, il riconoscimento reciproco. Ad accogliere con cura singolare. Un luogo che vuole vedersi abitato non (soltanto) dai "pazienti". Un luogo che progetta, costruisce e cura un suo dentro senza mai perdere di vista il fuori. Anzi è l'attenzione ossessiva al fuori che pretende la cura del dentro.
Tra il dentro e il fuori si disegna una soglia che definisce il luogo dell'incontro, dell'ascolto, dell'aiuto, della terapia, in una sorta di contiguità tra la casa delle persone, gli spazi del rione, i luoghi collettivi, il centro di salute mentale. La soglia è il luogo. Progettare e costruire un centro di salute mentale significa rendere concreto, praticabile, abitabile la soglia.
Il centro allora oltre che essere un luogo bello, accogliente, confortevole deve coltivare la vocazione a essere punto di passaggio, confine, attraversamento. Disporsi instancabilmente tra lo star bene e lo star male, tra la normalità e la anormalità, tra il regolare e l'irregolare, tra il singolo e il gruppo, tra le relazioni plurali e la riflessione singolare, tra gli spazi dell' ozio e gli spazi dell'attività. Un luogo che contrasta la sottomissione e l'assoggettamento. Un confine aperto che garantisce sempre il ritorno.
I luoghi della psichiatria, i manicomi, sono stati storicamente i luoghi della costruzione e della riproduzione della malattia mentale: luoghi senza ritorno. Nel nostro paese le leggi di riforma dell'assistenza psichiatrica e la conseguente chiusura del manicomio, hanno rappresentato la prima misura (nel mondo) che si è rivelata capace di garantire il ritorno e di avviare processi efficaci di prevenzione.
Anche se il manicomio non c'è più e le mura sono letteralmente crollate, sono sopravvissuti ai cambiamenti luoghi che riproducono malattia, cronicità, esclusione. È evidente allora che non sono i luoghi in sé che inducono le cattive pratiche. Sono le pratiche che fondano su quella psichiatria che ha edificato il manicomio. Una psichiatria tutta interna al paradigma medico definisce malattie, oggetti, comportamenti, rischio, pericolosità, inguaribilità: «Lo psichiatra finisce per avere occhi ciechi e orecchi sordi». Sordità e cecità condizionano irrimediabilmente i luoghi. Oggi immaginare e progettare luoghi diversi significa disarticolare completamente il paradigma della medicalizzazione (demedicalizzare!), interrogarsi sulla natura della malattia, ascoltare le persone che vivono l'esperienza della malattia per scoprire alla fine che i luoghi della cura altro non sono che i luoghi del quotidiano.
Il centro di salute mentale, con le persone che lo attraversano costituisce un insospettabile campo di contraddizioni (inconciliabili), di ricerca di singolari possibilità, di resistenza. È il luogo della indefinizione, della decostruzione, dell'incertezza. Ma anche il luogo della rassicurazione, della ricomposizione, della riflessione. La vivibilità del centro deve fare i conti con tutto questo. Garantire l'attraversabilità, la contaminazione e l'uso collettivo degli spazi e la possibilità di un uso riservato, privato, sicuro. Gli infermieri, i medici, i pazienti, i familiari giocano su un'immagine di sé, della malattia, del ruolo inconciliabile con il progetto di centro di salute mentale. Ognuno fa fatica a condividere la visione dell'altro. Tenere aperto questo campo, garantire la diversità, l'inconciliabilità, l'insieme delle voci diverse - l'eterofonia - costruisce la possibilità concreta di immaginare un centro di salute mentale.
In conclusione, si potrebbe riconoscere uno spazio per le persone, un luogo di incontri che fa della orizzontalità, dell' attraversabilità la sua forza; e uno per i pazienti che trova la sua conferma nella gerarchia, nella malattia, nelle codificazioni diagnostiche, nel lessico medico. Quanto più il luogo, il centro, è visibile, trasparente, attraversabile e attraversato dalle contraddizioni tanto più crescono le possibilità di radicamento..
Un luogo dove chi sta bene può incontrare lo sguardo dell'altro che sta male soltanto se ambiente, relazioni, atmosfere non costringono a vivere drammaticamente la differenza, non connotano inesorabilmente sano e malato. In questo senso ritorna importante la questione dell'estetica, del bello, dell'accogliente che costringe alla cura dell'immagine di chi attraversa questi luoghi all'attenzione ai «dettagli»: le cicche per terra, le porte sgangherate, le toilette infrequentabili, gli intonaci cadenti e tutti quei segni che condizionano lo sguardo prima ancora che incontri e riconosca chi il centro di salute mentale si trova ad attraversare.
*Direttore del Dipartimento di Salute mentale di Trieste
articolo apparso su "Il manifesto" 9 febbraio 2010