LA SOCIETÀ MORDI E FUGGI

padre figlio

 

Da qualche tempo l’impressione è che alla realtà che viviamo sovrapponiamo la trama di un film, che però non è mai stato girato, dunque si tratta di sequenze prodotte dalla nostra disabitudine a vedere le cose per quello che sono.

Nella scuola l’eroe da imitare non è quel ragazzo silenzioso dell’ultimo banco, quello che scrive come il mio autore preferito, piuttosto è quell’altro, che mette sotto il più debole con l’aiuto degli altri, con metodo da lager o da gulag

Il gruppo è in marcia, batte i piedi, è diventato assai più importante della famiglia, è famelico nel ricercare gli obiettivi, nell’individuare e spezzare la fragilità del coetaneo di turno.

Non è così semplice omologare una violenza, errata e inaccettabile, ma addirittura svestita di una qualunque “utilità”, quindi riottosa a qualsivoglia ridefinizione sociale.

Sulla criminalità di piccolo cabotaggio, delle grandi organizzazioni, si conoscono anse e anfratti di quelle scelte dirompenti, i pochi si nascondono dietro i tanti per fare denaro, per delirio di onnipotenza.

Ma di fronte a queste forme di incomprensibile distorsione umana, perché di vera e propria erosione intimistica si tratta, non è con la sola punizione esemplare, con la semplicizzazione della risposta penale, che si ripiana la follia di una fisicità comportamentale divenuta requisito primario per apparire, per essere riconosciuti all’esterno della propria carta di identità.

Tolleranza zero, risposte dure, tutti pronti alla guerra di liberazione del terzo millennio, forse è questa la ricetta giusta, ma quale metodo educativo è approntato per riguadagnare il terreno perduto della buona vita, al disagio relazionale che investe l’intera società e non soltanto i più giovani?

Gli adulti ben hanno da preoccuparsi, consegnando rese e tradimenti ai propri figli, quale stile di vita hanno trasmesso per fronteggiare la deriva del tutto e subito, la divinazione del mito della forza, della dialettica che mette in fila le parole ma non aiuta a distinguerne il senso, perché nel frattempo quelle parole si sono consumate.

Come per il detenuto che non sa lavorare su di sé, ma persiste a giustificare e condannare gli altri delle proprie disfatte, anche per queste generazioni di guerrieri in erba, vi sarà la disperazione ad attenderli al varco, e finchè si insisterà a raccontarne gli episodi in maniera ossessiva, da casa del “grande fratello”, il delirio continuerà a investire i più giovani, quelli innamorati della messaggeria istantanea schizzoide, dalla “roba” che fa bene, dalle nocche infrante.