Me ne stavo sul divano a guardare il tg, il solito tg, ormai sembrano fatti tutti in serie, come i rappresentanti politici, gli addetti ai lavori, i reggenti delle istituzioni. Le immagini e le parole di accompagnamento sul tema trattato della giustizia, che forse sarebbe più consono definire dell’ingiustizia della giustizia, esposti attraverso le peculiarità di ogni settore, di ogni struttura. Una sequela di coordinate sgangherate di ognuno e di ciascuno, con lo scopo neppure tanto nascosto di dirottare l’attenzione su un punto, apparentemente bene in vista, ma che spesso nel fare “comunicazione” quotidiana perennemente in corsa, sovente è relegato in seconda battuta, perché non considerato, o perché dato per scontato, a tal punto da divenire una sottile percezione che non alimenta alcuna eccezionalità. A ogni slide proiettata il consueto corollario di impegni da portare a termine e di responsabilità cui farsi carico. Le immagini veloci sul video, danno l’impressione però di restare incollate a un interrogativo, dapprima espresso sottovoce, in punta di piedi, poi scandito con voce potente. Una richiesta che è una consapevolezza, importante, per chi svolge il proprio servizio a tutela del cittadino, della collettività, del bene comune, della vita stessa di persone colpevoli e innocenti.
Ma più le parole di questo e di quello ben inquadrati dalle telecamere, vengono scandite con una certa veemenza, anche disincanto, viene da domandarsi se il valore dell’appartenenza a una società, al rispetto delle persone, alla protezione di ognuno e di ciascuno, “valore” che non è possibile acquistare al supermercato delle idee, neppure al mercatino delle cianfrusaglie usate, infatti l’appartenere a qualcosa, a qualcuno, significa restare ancorati al senso di sé, ben saldi alla sostanza della realtà che viviamo e contribuiamo a mandare avanti. In un mondo invalso dalle pratiche dell’accaparramento sociale a discapito dei più fragili, lo scambio relazionale è appiedato dall’empatia sempre più soggetta agli scossoni di una società in crisi di identità. Più il telegiornale prosegue nella sua scansione pirandelliana, più c’è da chiedersi se non sia giunto il momento di rivalutare quel senso di appartenenza, che significa riprendere contatto e conoscenza delle proprie azioni, facendo bene i conti con quanto necessita con urgenza della nostra attenzione e disponibilità.
Ho la sensazione di un fastidio urticante nell’ascoltare chi fa politica di rappresentanza e poco di servizio, chi articola concetti da massimi sistemi per molti versi incomprensibili. Eppure, ma forse mi sbaglio, più semplicemente la politica e la giustizia altro non sono che la ri-appropriazione del senso di realtà, senso etico, senso di appartenenza, che ha forte parentela con una sorta di diritto di cittadinanza, appartenendo a qualcosa che ci è dentro, a qualcuno che ci è prossimo, appunto vicino, non accontentandoci dell’assunzione di una responsabilità che ci domicilia nel comodo rifugio, ben impettiti tra coloro che si sentono a posto avendo esplicitato il compitino quotidiano.
E’ importante la consapevolezza delle nostre capacità, nei nostri limiti, non spaventandoci dell’eventuale carico di sempre nuove responsabilità. E’ questo “sentire” che ci rende consapevoli del valore della nostra dignità, che non sta alle medagliette bene appuntate sul petto, nella presunzione di meritarle, calpestando gli altri. Ma nella convinzione di valere qualcosa, in quella condivisione, dove gli altri non sono esclusi, espressione di uno stile di vita che non si limita allo stare insieme, a un normale volersi bene, soprattutto quando aumentano i mal di testa.