Festa della donna?
Ebbene, non credo proprio si tratti di una festa, dell’obbligatorietà a festeggiare un avvenimento, o della necessità a rammendare una ricorrenza.
Forse è tempo di innalzare ben altro vessillo, perché quello della donna come mio pari, appare drammaticamente obsoleto, alla luce di chi soccombe, di quante rimangono con gli occhi spalancati, di coloro con le braccia a terra non è dato ascolto ad alcuna preghiera.
Questa è la stagione nuova in cui occorre smettere di scandalizzarsi, di rimanere con la bocca spalancata, con l’incredulità dell’accadimento a farla da padrona.
Quando una donna arranca, cade, muore, c’è bisogno di uno scatto, di uno scarto, della mano alzata a tagliare il vento, non di parole dai congiuntivi educati, di interrogativi logorati e impolverati, piuttosto di presenze che non consentono passi indietro, non abbandonano metri allo scossone in agguato, prostrati alla possibilità’ che accada ancora, ancora e ancora.
Mia madre, mia sorella, mia figlia, mia moglie, la mia compagna, tutte le donne del mondo, debbono diventare compagne nella battaglia, affinché nessuna di loro venga più offesa, umiliata, ferita, uccisa, peggio, nella consuetudine lacerata e disperante dentro un’aula di tribunale, sempre che un imputato sia presente alla sbarra.
La bufera del dolore e della giustizia dovrà esser combattuta strada dopo strada, vicolo per vicolo, fino ad arrivare nelle anse che circondano il cuore di ognuno e di ciascuno.
Non ci saranno più contumelie né liturgie di nuovo conio, ma la consapevolezza che troppo amore è sempre troppo poco, e avere cura, attenzione per la donna, per tutte le donne, per chi innocente rimane sempre a terra, riceve il colpo, la vita depredata, non è soltanto un dovere, un diritto, la responsabilità della libertà, ma rispetto profondo per un preciso segno della natura.