Chissà mai perché sul problema delle dipendenze, dell’assunzione di droga, c’è sempre a fare da voltagabbana la disinformazione, la politica d’accatto, come se fosse un disagio sociale del tutto periferico, appartenente ai soliti giovanissimi, invece che ai volti nuovi e alle conseguenti carni zigrinate dagli inciampi, dalle droghe tutte, dagli abbandoni seguiti a catena. C’è che la droga non conosce intoppi o rimandi, è sempre lì a ogni angolo di strada, sottocasa, proprio dove ti aspetti di trovarla.
Viene da pensare agli abiti vecchi e al tempo che ogni cosa riporterà al suo posto, ma io che di tempo ne ho avuto tanto, a ben pensare non so ancora bene cos’è, figuriamoci se posso spiegarlo ad un giovanissimo che del tempo a venire non sa che farsene.
Mi rendo conto che nel tentativo di “ tirare fuori “, di costruire e crescere insieme, non può resistere all’usura del tempo chi parte per “ questa avventura “ con un bagaglio di certezze inossidabili, di regole intransigenti, di binari singoli.
E’difficile sapere, conoscere e agire, quando un giovane se ne sta impettito, a muso duro, felice di avere scelto il vicolo cieco, è davvero difficile spiegargli quanto è doloroso, POI, il resto che se ne ricava.
Sulla droga prevenire con progetti condivisi e realizzabili rimane spesso una intuizione che soccombe alle pressioni economiche-politiche: reprimere costa meno che prevenire, ma il risultato è l’accettazione dell’esclusione, del “sei fuori dal gioco e ci rimani “.
Quando sento di un ragazzo o di una persona adulta che soccombono, che si uccide di eroina, o peggio che uccide gli altri, gli innocenti, perchè sballato guida o pensa di essere diventato invincibile, mi chiedo quale può essere il metro di misura da usare con chi è lacerato dentro, se poi questa vista prospettica richiesta è annebbiata dalla roba.
L’impressione che si ricava nel camminare insieme alle tante lentezze e devastazioni interiori, è che non solo è difficile ben operare a causa della marea di disagio dilagante, ma lo è anche soprattutto per l’avanzare di nuove forme di malessere, che non hanno più l’etichetta protestataria di un tempo. Malessere che si insinua più facilmente in chi non ha strutture mentali formate, in chi nell’evoluzione intellettuale ha ceduto sotto il peso di una libertà inconsciamente percepita come una prostituta, per l’incapacità ad onorare reciprocamente le proprie responsabilità. La droga è un disagio che intacca aree di vita in maniera sempre più esponenziale, ogni volta che un adolescente inceppa il potente meccanismo sociale, c’è qualcuno che innalza bandiere “giustificanti”, con qualche artificio clownesco portiamo in scena la rappresentazione sulla vita, poco importa se virtuale, su come viverla al meglio, infine, come sopravviverle quando non è di nostro gradimento.
Nel frattempo si ripetono accadimenti tragici, che non posseggono alcuna attrattiva se non quella di seminare indifferenza per chi è piegato in due dalle proprie fragilità e dalle proprie rese. Giovani alla spicciolata, uno sparo diritto a ogni banale conformità, a ogni inconfessabile obbedienza, che pesa come un macigno, insopportabile da trascinare appresso. Sulla droga sappiamo tutto, oppure per non pagare dazio non sappiamo niente, nonostante ciò si muore nel rumore e nel silenzio, in modo consapevole e più impertinente verso la vita trasformata in una danza inarrestabile in onore della sordità, del rigetto, del disamore. Si muore muovendo il corpo, ma non vedendo, non sentendo, non capendo più che c’è anche domani, si muore in gruppo, dentro il recinto, fuori da ogni reale condivisione, senza la pietà della compassione, privati di una mano amica a sorreggerti, accompagnarti, accoglierti.
Mentre qualcuno si affanna a rimarcare che non tutta la droga fa male, che c’è quella buona e quell’altra cattiva, intorno ci sono quelli che allora provano per curiosità, per passioni incrociate che hanno l’esigenza di incontrarsi, di conoscersi, come fa la musica, alfabeto e vocabolario per riuscire a parlare tra irrequieti che in fondo non sono affatto. Forse occorrerebbe avere più attenzione sulle parole d’ordine, sulle immagini, che vorrebbero possedere carisma sufficiente per un pensiero di socialità, di unità e libertà. Forse è necessario usare le parole con un linguaggio che non fa curve inesistenti, dichiarando che l’alcol, la droga, qualche lama di coltello, non possono apparire come una periferia ambulante ove ognuno nel fine settimana può ritornare a “essere” qualcosa di non meglio definito. Continuo a pensare che siamo arrivati a un punto in cui c’è bisogno di una rinascita sociale di relazioni intelligenti, non perchè elitarie, ma perché sane e equilibrate, mai affidate a comportamenti che sbaragliano letteralmente la possibilità di continuare a crescere e migliorare insieme. La droga c’è, forse il mondo adulto è scomparso.