Se dovessi ripercorrere brevemente la mia esperienza professionale attraverso alcune fasi storiche, non mi sarebbe difficile trovare alcuni “topic”, momenti chiave che hanno caratterizzato la “ricerca” di molti insegnanti che hanno creduto e credono nel loro agire educativo.
L’ESORDIO o la necessità della programmazione.
Anni 80 : (Falcucci) - la scuola della programmazione - Bloom - Vertecchi - Maragliano - Bruner - Piaget - Vygoskij - Lumbelli -Pontecorvo. Le infinite discussioni tra obiettivi-contenuti/ tra unità didattiche e moduli (e la sofferenza e insofferenza di molti docenti tra la libertà di insegnamento e la camicia di forza della programmazione) Tutto poi è stato assimilato, rielaborato e digerito ma... aggiungo, l’organizzazione del lavoro, la pratica sociale, la comunità educante..... cosa è cambiato?
L’ILLUMINAZIONE o la scoperta della progettualità.
Anni 90 – (Berlinguer /De Mauro) - la scuola come progettualità. Senza un progetto, senza un percorso finalizzato la programmazione è cieca, occorre inserire la programmazione in un contesto progettuale più ampio, da qui il superdocente e la critica del docente elaboratore (il famoso e famigerato distacco) che si pone al di sopra, al di fuori della banale quotidiana prassi educativa, ma mi ripeto, l’organizzazione del lavoro, la pratica sociale, come cambiare per gli insegnanti il lavoro in classe?
LA DISFATTA o il ritorno alla scuola selettiva.
Anni 2000 – (Moratti, Gelmini), scuola del merito, la meritocrazia, premiare i migliori, la scuola che premia chi è già socialmente premiato ed esclude chi è già socialmente escluso, non mi dilungo.
IL NARCISISMO o la riforma delle riforme la Legge 107/2015.
Oggi - La buona scuola -(Giannini) - curioso aggettivare positivamente una riforma prima ancora di averla verificata/valutata sul campo: concetti come competenze, trasversalità, verticalità, orizzontalità, modularità, alternanza scuola-lavoro si affermano nel linguaggio formativo, ma quanto e come cambia nella scuola l’organizzazione del lavoro, la prassi sociale, la relazione sociale tra docenti e allievi, tempo e spazio formativo ?
Abbiamo assimilato, adottato, elaborato nuovi linguaggi, ma la prassi sociale non è cambiata in modo significativo e lo dimostra il breve excursus storico, mentre oggi la scuola vive in un contesto scolastico sempre più difficile e faticoso.
Vorrei chiarire il mio pensiero con un famoso paradosso americano. Un consiglio comunale americano delibera di abbattere la sede comunale ormai in disfacimento per costruirne una nuova; clausola è che la sede nuova deve essere ricostruita riciclando il più possibile il materiale della sede vecchia, ma si aggiunge che la sede vecchia non può essere distrutta finché non sia costruita la sede nuova.
Questo paradosso può spiegare in parte il motivo del fallimento di alcune riforme scolastiche che hanno solo puntato sull’aggiornamento-rinnovamento delle competenze tecniche dei docenti, sottovalutando la dimensione della competenza sociale. Se si vuole rinnovare veramente la scuola bisogna partire dal presupposto che le tecniche sono connesse al sociale e se non si analizza prioritariamente la funzione sociale del docente ogni mutamento meramente tecnico è destinato al fallimento, cioè se si giustappone la competenza tecnica a una ipotesi astratta di prassi/competenza sociale la dimensione tecnica si dissolve in una simulazione/ mascheramento di novità.
La competenza sociale del docente è quella coscienza/consapevolezza di assumere un ruolo sociale, ruolo che agisce come interfaccia tra le istanze/bisogni che emergono e provengono dal contesto sociale (il mondo esterno), e la gestione di quella rete di rapporti interpersonali entro la propria struttura scolastica (docenti, allievi, genitori e tutti gli altri soggetti che operano nell’istituzione scolastica),che si traduce e si implementa, in ultima analisi, entro una definita competenza tecnica.
Per competenza sociale intendo, quindi, quella prassi sociale che permetta all’insegnante:
La concezione sociale dell’attività educativa è il presupposto su cui si costruiscono certe misure tecniche e a cui corrispondono categorie concettuali nuove.
Da ciò ne deriva che senza un reale mutamento dell’organizzazione sociale del lavoro all’interno della scuola non vi è possibilità di cambiamento: tutte le volte che si prospettano cambiamenti nelle competenze tecniche senza modificare il modo di lavorare sociale (dimensione che richiede risorse finanziarie significative, e non c’è riforma senza risorse).
E’ vero anche che la funzione sociale va al di là dell’opera del singolo docente, ma questo non giustifica che si debba rinunciare; significa invece che l’intervento tecnico deve investire un campo molto più vasto di quello rappresentato unicamente dal rapporto educativo (quale scuola e in quale contesto sociale).
La componente tecnica deve ricevere stimoli dai problemi di una società in trasformazione e i nuovi modelli sociali in atto determinano il comportamento, i tipi di relazione interpersonali, la collocazione sociale e professionale dell’individuo, i suoi bisogni e le sue potenzialità. E’ la dimensione sociale che dà concretezza all’agire tecnico dell’insegnante e che permette di analizzare bisogni, risorse, criticità e debolezze del progetto educativo.
In una società caratterizzata da macro-fenomeni quali:
la scuola si deve porre come istituzione riaggregante e antagonista, cercando il più possibile di dare risposte di coscienza sociale agli strati più deboli e soprattutto ai giovani.
Allora come deve cambiare la pratica sociale in vista di un diverso ruolo tecnico?
Alcuni elementi imprescindibili possono essere:
Tutto ciò mette in discussione l’organizzazione del lavoro attuale nella nostra scuola come
Bisogna scardinare una metodologia astratta della prassi scolastica ed esigere e richiedere nuove forme di razionalità, definendo ogni tecnica in un reticolo di relazioni interpersonali, bisogna dissolvere il timore dei docenti di lavorare insieme come se fosse una utopia o peggio che il lavorare collettivamente implicherebbe un lavoro maggiore a livello del singolo (anzi è vero il contrario).
E’ in quest’ottica che è possibile assumere ed implementare progetti sociali formativi che oggi “circolano” nella scuola come leve per una nuova tecnica educativa e curriculare “didattica laboratoriale, inclusività, apprendimento cooperativo, e non ultimo alternanza scuola/lavoro”.
Tali progetti (che tendono ad essere dirompenti rispetto ad una metodologia e ad una organizzazione della attività didattica tradizionale), se da una parte intendono dare una risposta ai nuovi bisogni sociali, dall’altra modificano al suo interno una prassi sociale basata su meta-norme logiche indipendenti dalle determinazioni della funzione sociale.
Inclusività e didattica cooperante (se non vogliono restare solo sogni o illusioni per pochi docenti idealisti) devono aprire scenari/panorami organizzativi a livello strutturale completamenti nuovi.
Non più lo studente passivo, ma attante, non più il docente depositario di un sapere ripetitivo, ma conduttore del lavoro di gruppo, non più il sapere assimilativo, ma scoperta, scambio concettuale, arricchimento interpersonale. Il gruppo diventa il nuovo soggetto che cresce nella crescita del singolo, il singolo si riconosce in quel sapere collettivo e ognuno si sente responsabile della crescita del gruppo.
Questa dimensione come si può vedere non è solo un problema di competenza tecnica, ma risponde a una funzione e nuova competenza sociale.
Tutto ciò vale anche per il progetto di alternanza scuola-lavoro: se questo si realizza in una ottica di attività didattica tradizionale risulta fallimentare se non addirittura una esperienza estranea alla scuola.
Il rapporto tra scuola e azienda non è un rapporto tra teoria e prassi, ma tra una teoria-prassi scolastica e un pensiero e agire aziendale, l’azienda non deve essere vista come un “luogo protetto” che permette allo studente di simulare una competenza o frammenti di azione sociale non sempre comprensibili allo studente. Nell’alternanza scuola–lavoro due realtà, due organizzazioni sociali e tecniche si mettono a confronto e ciò permette allo studente di vivere criticamente l’esperienza. Bisogna sfatare l’idea che in tale esperienza la scuola assume un ruolo di subordinazione rispetto all’azienda.
A tal fine nell’alternanza scuola-lavoro è necessario che:
Se la scuola non è in grado di assumere questo ruolo sociale e tecnico, ma delega alla azienda il progetto e abbandona lo studente in un processo organizzativo più o meno complesso vanifica il fine stesso del percorso e tradisce la sua stessa centralità.
Per concludere: se la scuola non è in grado di dare risposte concrete ai bisogni espressi dai giovani, si è destinati al fallimento anche se si elaborano tecniche nuove o si rinnovano linguaggi.
Bisogna prendere atto che (sebbene in modo più o meno contradditorio, più o meno consapevole, più o meno conflittuale) i giovani studenti richiedono non un sapere diverso, ma un diverso sapere.
I giovani sono cambiati e di fronte alle loro paure, bisogni, povertà, analfabetismi ed emarginazione si rivela sempre un desiderio di nuovo, una voglia di capire, una forza ad agire, una attenzione alla scoperta. La scuola deve cambiare, è tempo che cambi, se non vuole vivere in un mondo a cui non è in grado di dare risposte.
Un mio sogno: non più Consigli di Classe ( su cui molti sono i docenti che sono concordi nell’affermare che così come sono condotti hanno poco senso ), ma un organismo interdisciplinare completamente nuovo (da rifondare e da ripensare),in cui non si giudicano allievi, ma si verificano e si revisionano progetti sulla base del successo o dell’insuccesso formativo, sulla base di dare risposte ai bisogni espressi dagli allievi, sulla base di costruire un percorso formativo razionale.