In allestimento
La descrizione del volume fatta da Clotilde potrebbe ingenerare l’idea che da tante voci diverse e in così stringate sintesi sia venuto fuori un patchwork eterogeneo e forse anche un po’ confuso.
La rigorosa ripartizione in tre aree, afferenti ciascuna ad un focus ben definito, è già di per sé un’ottima guida utile a fugare ogni sospetto del genere. Ma per meglio delineare la coerenza interna e l’unitarietà del volume metteremo brevemente in evidenza quel fil rouge che emerge chiaramente dalla lettura di ogni singolo contributo.
Tanti infatti sono i punti coincidenti, le riflessioni, le conclusioni che emergono e per così dire si “rincorrono” da un saggio all’altro, a testimonianza, se ce ne fosse bisogno, che alcune evidenze si impongono quasi da sé.
IL PIACERE - È la prima cosa, forse la più insolita, che vogliamo sottolineare. Così dice Luigi Berlinguer : «E poi il gioco. E perchè no? il gioco. Basti pensare alla Finlandia, all’enorme peso attribuito appunto al gioco, alla componente ludica, nell’estensione della giornata scolastica, dalla dottrina oggi contrapposta al fenomeno di casa nostra dei “compiti a casa”. Due indirizzi, due esperienze: una differenza radicale, vissuta con ostilità dalla nostra cultura. Un’altra mentalità scolastica, quindi, un’altra concezione. La Finlandia, tutta l’Europa nordica, oggi in testa nelle graduatorie di efficienza, meritano certo uno studio approfondito dei risultati conseguiti…». L’ importanza del “piacere” viene ribadita da più parti e a più voci, a partire dalla sua fondamentale importanza per l’ organizzazione di contesti di mutuo apprendimento e di confronto creativo. Non a caso Recalcati (2014) con la sua Ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento è tra le citazioni più ricorrenti. Ascoltiamolo: «Senza desiderio di sapere non c’è possibilità di apprendimento soggettivato del sapere; senza transfert, trasporto, erotizzazione, non si dà possibilità di un sapere legato alla vita, capace di aprire porte, finestre, mondi»
LA LABORATORIALITÀ - Leggendo in filigrana i capitoli uno per uno, vi troviamo l’attenzione per una metodologia didattica comune, che si esprime soprattutto in una dimensione operativa, laboratoriale e sociale. Significa, per l’insegnante, porsi accanto agli alunni come facilitatore delle conoscenze e non come trasmettitore delle stesse, per “sporcarsi le mani” insieme a loro. E ancora, come ci dicono Camuri e Ronco, citando Francesca Gobbo (2000), si tratta di un vero e proprio imperativo sul piano dell'iniziativa didattica: “la preliminare e necessaria progettazione di un Laboratorio che nel contempo avvii la trasformazione di un gruppo classe in un gruppo motivato di ricerca e individui, al di là dei confini della scuola, nello spazio del territorio limitrofo, luoghi sociali e istituzionali in cui poter scoprire ed esercitare l'artigianalità intellettuale di un lavoro di indagine e di conoscenza”. Questo è valido per le Scienze Umane e Sociali come per l’Alternanza Scuola-Lavoro, per le Scienze Naturali e le Lingue Straniere come per l’Arte e la Musica, ma anche per l’Italiano e la Matematica, le Lingue Classiche e la Storia…., e i nostri Autori ce ne danno chiara dimostrazione. LA TRASVERSALITÀ - La necessità dell’integrazione tra saperi emerge anche là dove si tratta dello specifico disciplinare, a partire dalla difficoltà a superare l’isolamento delle singole discipline che determina uno scollamento fra conoscenze (particolari) e realtà (generale). Karl Popper, nel 1956, sosteneva che «non ci sono discipline; né rami del sapere, o, piuttosto, di indagine: ci sono soltanto problemi e l’esigenza di risolverli». Il quadro dell’insegnamento che ci si presenta attualmente, e più che mai nella scuola secondaria, è invece quello di una offerta poliedrica e sfaccettata dello scibile umano nelle sue diverse forme e conquiste, con accentuazioni diverse dovute ad attitudini di alunni e insegnanti. La scuola - se ha una funzione primariamente formativa e non deve porsi come obiettivo una presunta professionalizzazione - dovrebbe cercare di evitare sbilanciamenti. Ma il modello di trasmissione del sapere è ormai poco adatto a una società complessa e globalizzata, dove tutto è interconnesso e collegato. Il modello di insegnamento imposto dalla specializzazione disciplinare conduce infatti a un vero paradosso: in campo musicale, il compito di guida nell’esecuzione è affidato a colui che conosce tutti gli strumenti, e, in virtù di questa conoscenza generale, il direttore d’orchestra riesce ad armonizzare e far collaborare i solisti più diversi e i suoni più disparati. Nella scuola delle discipline, invece, a che cosa assistiamo? Tanti grandi solisti eseguono la loro partitura, lasciando all’alunno il compito di armonizzare tutti gli assolo: all’alunno, quello che ne sa di meno! Un modo per superare la parcellizzazione disciplinare è quello di cambiare atteggiamento generale : seguendo un detto di Michel de Montaigne, Edgar Morin propone di mirare a produrre “teste ben fatte” piuttosto che “teste ben piene”. Questo significa usare le discipline, almeno inizialmente, come mezzi per affrontare da più aspetti i diversi problemi. Bisognerebbe che le discipline (nel loro specialismo) acquisissero consapevolezza di non essere “monadi” autosufficienti, acquisissero cioè consapevolezza di un orizzonte di senso comune per potere interagire le une con le altre (intervenendo alla risoluzione di problemi). Questo significa avviare un percorso che pone attenzione al modo di apprendere: non è un problema di contenuti, ma di ri-apprendere a pensare. Ora, senza volerci addentrare qui in riflessioni troppo dettagliate quali le differenze tra multi-trans-inter-disciplinarità, possiamo comunque a ragione affermare che il tipo di approccio appena descritto percorre tutte le pagine del nostro volume, non con astratte teorizzazioni bensì con espliciti esempi e riferimenti operativi.
LA DIDATTICA PER COMPETENZE - Questa tematica che sembrerebbe ormai ovvia e scontata, non è ancora abbastanza praticata, e noi gente di scuola sappiamo bene come sia difficile tradurre il modello teorico di competenza nella pratica scolastica e soprattutto trovare un perché che vada oltre la burocrazia ministeriale e la routine degli adempimenti formali. Inquadrata e motivata a grandi linee nei saggi di Tagliagambe e Stefanini, la necessità dell’ insegnamento per competenze emerge soprattutto come consapevolezza di ciò che bene ci dice Perrenoud (2003): «L’approccio per competenze è forse solo l’ultimo mutamento di un’antichissima utopia: fare della scuola un luogo in cui ognuno apprenda liberamente e intelligentemente cose utili per la vita. Di che cosa avranno bisogno i giovani? Di saperi. Senza dubbio. Ma di saperi viventi, da mobilitare nella vita lavorativa ed al di fuori del lavoro, suscettibili di essere trasferiti, trasposti, adattati alle circostanze, condivisi, integrati, l’idea della competenza non afferma se non la preoccupazione di fare dei saperi scolastici strumenti per pensare e per agire, al lavoro e al di fuori di esso». Parliamo, come ci dice Annamaria Ajello, (in Spinosi 2010).di un apprendimento acquisito in profondità… Non è quindi apprendere per competenze, ma apprendere diventando competenti. Senza volermi soffermare qui in stucchevoli ripetizioni di cose appena dette: noi crediamo che occorra recuperare il contesto di valore che aveva connotato il dibattito culturale e politico della fine degli anni Novanta sulla interconnessione tra saperi, curricolo, competenze e lavoro di squadra, in nome del successo formativo di tutti.
CONFRONTO INTERNAZIONALE - Un altro importante aspetto considerato in tutti i contributi riguarda il confronto con le altre culture, in primo luogo quelle Europee. Ci si trova qui davanti a due condizioni diverse: la prima riguarda gli insegnamenti comuni a più culture quali quello della lingua madre, della Lingua Straniera, delle Letterature, della Matematica, delle Scienze Naturali e della Storia; una seconda condizione può riguardare invece gli insegnamenti a noi peculiari come quello della Filosofia o delle Scienze Umane e Sociali così come appaiono in alcuni tipi di scuole. In ambedue i casi si tratta di prospettive educative di grande spessore culturale, di cui è importante tener conto in modo differenziato.
FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI - La necessità di una ristrutturazione maggiormente produttiva ed efficace del settore, portata a sintesi nell’Appendice Seconda, viene riconosciuta in tutti gli interventi come il vero nodo da sciogliere innanzi tutto per realizzare una scuola di qualità, e per potere poi realmente tendere all’innovazione. Fortunatamente si registra in questo ultimo anno una rinnovata attenzione - con la più recente normativa a margine della "Buona Scuola" - sulla formazione degli insegnanti, anche se si profila il timore che sia resa poco "gradita" ai destinatari, gravata com'è, per adesso, di pastoie burocratiche di non facile ... digestione! Siamo convinti - e ne diamo testimoniaza in queste pagine - della necessità assolutamente prioritaria di innescare nel settore della formazione un processo di miglioramento continuo e verificabile, durevole nel tempo, che garantisca ai docenti una professionalità in continuo divenire
L’ASPIRAZIONE AL CAMBIAMENTO preannunciata dal titolo, infine, pervade ogni pagina, non certo come mera utopia, bensì calata nella sostanza della realtà scolastica, motivata e circostanziata con argomentazioni stringenti di persone che quella realtà conoscono bene e in cui vivono tutti i giorni.
Nel concludere questo mio breve intervento è per me gradito, oltre che doveroso, tornare al ricordo di Anna Sgherri Costantini cui abbiamo dedicato questo libro che davvero - come è detto in epigrafe - “ci sarebbe piaciuto molto poter scrivere con Lei”.
Vogliamo credere fermamente che, malgrado i contesti così profondamente mutati, le affascinanti vie dell’innovazione della scuola, che abbiamo percorso con Lei, siano ancora aperte davanti a noi e che questo nostro lavoro sia un piccolo tassello di un nuovo, grande dibattito nel nostro Paese.
A Lei dunque ancora una volta il nostro grande e affettuoso GRAZIE!
Se dovessi ripercorrere brevemente la mia esperienza professionale attraverso alcune fasi storiche, non mi sarebbe difficile trovare alcuni “topic”, momenti chiave che hanno caratterizzato la “ricerca” di molti insegnanti che hanno creduto e credono nel loro agire educativo.
L’ESORDIO o la necessità della programmazione.
Anni 80 : (Falcucci) - la scuola della programmazione - Bloom - Vertecchi - Maragliano - Bruner - Piaget - Vygoskij - Lumbelli -Pontecorvo. Le infinite discussioni tra obiettivi-contenuti/ tra unità didattiche e moduli (e la sofferenza e insofferenza di molti docenti tra la libertà di insegnamento e la camicia di forza della programmazione) Tutto poi è stato assimilato, rielaborato e digerito ma... aggiungo, l’organizzazione del lavoro, la pratica sociale, la comunità educante..... cosa è cambiato?
L’ILLUMINAZIONE o la scoperta della progettualità.
Anni 90 – (Berlinguer /De Mauro) - la scuola come progettualità. Senza un progetto, senza un percorso finalizzato la programmazione è cieca, occorre inserire la programmazione in un contesto progettuale più ampio, da qui il superdocente e la critica del docente elaboratore (il famoso e famigerato distacco) che si pone al di sopra, al di fuori della banale quotidiana prassi educativa, ma mi ripeto, l’organizzazione del lavoro, la pratica sociale, come cambiare per gli insegnanti il lavoro in classe?
LA DISFATTA o il ritorno alla scuola selettiva.
Anni 2000 – (Moratti, Gelmini), scuola del merito, la meritocrazia, premiare i migliori, la scuola che premia chi è già socialmente premiato ed esclude chi è già socialmente escluso, non mi dilungo.
IL NARCISISMO o la riforma delle riforme la Legge 107/2015.
Oggi - La buona scuola -(Giannini) - curioso aggettivare positivamente una riforma prima ancora di averla verificata/valutata sul campo: concetti come competenze, trasversalità, verticalità, orizzontalità, modularità, alternanza scuola-lavoro si affermano nel linguaggio formativo, ma quanto e come cambia nella scuola l’organizzazione del lavoro, la prassi sociale, la relazione sociale tra docenti e allievi, tempo e spazio formativo ?
Abbiamo assimilato, adottato, elaborato nuovi linguaggi, ma la prassi sociale non è cambiata in modo significativo e lo dimostra il breve excursus storico, mentre oggi la scuola vive in un contesto scolastico sempre più difficile e faticoso.
Vorrei chiarire il mio pensiero con un famoso paradosso americano. Un consiglio comunale americano delibera di abbattere la sede comunale ormai in disfacimento per costruirne una nuova; clausola è che la sede nuova deve essere ricostruita riciclando il più possibile il materiale della sede vecchia, ma si aggiunge che la sede vecchia non può essere distrutta finché non sia costruita la sede nuova.
Questo paradosso può spiegare in parte il motivo del fallimento di alcune riforme scolastiche che hanno solo puntato sull’aggiornamento-rinnovamento delle competenze tecniche dei docenti, sottovalutando la dimensione della competenza sociale. Se si vuole rinnovare veramente la scuola bisogna partire dal presupposto che le tecniche sono connesse al sociale e se non si analizza prioritariamente la funzione sociale del docente ogni mutamento meramente tecnico è destinato al fallimento, cioè se si giustappone la competenza tecnica a una ipotesi astratta di prassi/competenza sociale la dimensione tecnica si dissolve in una simulazione/ mascheramento di novità.
La competenza sociale del docente è quella coscienza/consapevolezza di assumere un ruolo sociale, ruolo che agisce come interfaccia tra le istanze/bisogni che emergono e provengono dal contesto sociale (il mondo esterno), e la gestione di quella rete di rapporti interpersonali entro la propria struttura scolastica (docenti, allievi, genitori e tutti gli altri soggetti che operano nell’istituzione scolastica),che si traduce e si implementa, in ultima analisi, entro una definita competenza tecnica.
Per competenza sociale intendo, quindi, quella prassi sociale che permetta all’insegnante:
La concezione sociale dell’attività educativa è il presupposto su cui si costruiscono certe misure tecniche e a cui corrispondono categorie concettuali nuove.
Da ciò ne deriva che senza un reale mutamento dell’organizzazione sociale del lavoro all’interno della scuola non vi è possibilità di cambiamento: tutte le volte che si prospettano cambiamenti nelle competenze tecniche senza modificare il modo di lavorare sociale (dimensione che richiede risorse finanziarie significative, e non c’è riforma senza risorse).
E’ vero anche che la funzione sociale va al di là dell’opera del singolo docente, ma questo non giustifica che si debba rinunciare; significa invece che l’intervento tecnico deve investire un campo molto più vasto di quello rappresentato unicamente dal rapporto educativo (quale scuola e in quale contesto sociale).
La componente tecnica deve ricevere stimoli dai problemi di una società in trasformazione e i nuovi modelli sociali in atto determinano il comportamento, i tipi di relazione interpersonali, la collocazione sociale e professionale dell’individuo, i suoi bisogni e le sue potenzialità. E’ la dimensione sociale che dà concretezza all’agire tecnico dell’insegnante e che permette di analizzare bisogni, risorse, criticità e debolezze del progetto educativo.
In una società caratterizzata da macro-fenomeni quali:
la scuola si deve porre come istituzione riaggregante e antagonista, cercando il più possibile di dare risposte di coscienza sociale agli strati più deboli e soprattutto ai giovani.
Allora come deve cambiare la pratica sociale in vista di un diverso ruolo tecnico?
Alcuni elementi imprescindibili possono essere:
Tutto ciò mette in discussione l’organizzazione del lavoro attuale nella nostra scuola come
Bisogna scardinare una metodologia astratta della prassi scolastica ed esigere e richiedere nuove forme di razionalità, definendo ogni tecnica in un reticolo di relazioni interpersonali, bisogna dissolvere il timore dei docenti di lavorare insieme come se fosse una utopia o peggio che il lavorare collettivamente implicherebbe un lavoro maggiore a livello del singolo (anzi è vero il contrario).
E’ in quest’ottica che è possibile assumere ed implementare progetti sociali formativi che oggi “circolano” nella scuola come leve per una nuova tecnica educativa e curriculare “didattica laboratoriale, inclusività, apprendimento cooperativo, e non ultimo alternanza scuola/lavoro”.
Tali progetti (che tendono ad essere dirompenti rispetto ad una metodologia e ad una organizzazione della attività didattica tradizionale), se da una parte intendono dare una risposta ai nuovi bisogni sociali, dall’altra modificano al suo interno una prassi sociale basata su meta-norme logiche indipendenti dalle determinazioni della funzione sociale.
Inclusività e didattica cooperante (se non vogliono restare solo sogni o illusioni per pochi docenti idealisti) devono aprire scenari/panorami organizzativi a livello strutturale completamenti nuovi.
Non più lo studente passivo, ma attante, non più il docente depositario di un sapere ripetitivo, ma conduttore del lavoro di gruppo, non più il sapere assimilativo, ma scoperta, scambio concettuale, arricchimento interpersonale. Il gruppo diventa il nuovo soggetto che cresce nella crescita del singolo, il singolo si riconosce in quel sapere collettivo e ognuno si sente responsabile della crescita del gruppo.
Questa dimensione come si può vedere non è solo un problema di competenza tecnica, ma risponde a una funzione e nuova competenza sociale.
Tutto ciò vale anche per il progetto di alternanza scuola-lavoro: se questo si realizza in una ottica di attività didattica tradizionale risulta fallimentare se non addirittura una esperienza estranea alla scuola.
Il rapporto tra scuola e azienda non è un rapporto tra teoria e prassi, ma tra una teoria-prassi scolastica e un pensiero e agire aziendale, l’azienda non deve essere vista come un “luogo protetto” che permette allo studente di simulare una competenza o frammenti di azione sociale non sempre comprensibili allo studente. Nell’alternanza scuola–lavoro due realtà, due organizzazioni sociali e tecniche si mettono a confronto e ciò permette allo studente di vivere criticamente l’esperienza. Bisogna sfatare l’idea che in tale esperienza la scuola assume un ruolo di subordinazione rispetto all’azienda.
A tal fine nell’alternanza scuola-lavoro è necessario che:
Se la scuola non è in grado di assumere questo ruolo sociale e tecnico, ma delega alla azienda il progetto e abbandona lo studente in un processo organizzativo più o meno complesso vanifica il fine stesso del percorso e tradisce la sua stessa centralità.
Per concludere: se la scuola non è in grado di dare risposte concrete ai bisogni espressi dai giovani, si è destinati al fallimento anche se si elaborano tecniche nuove o si rinnovano linguaggi.
Bisogna prendere atto che (sebbene in modo più o meno contradditorio, più o meno consapevole, più o meno conflittuale) i giovani studenti richiedono non un sapere diverso, ma un diverso sapere.
I giovani sono cambiati e di fronte alle loro paure, bisogni, povertà, analfabetismi ed emarginazione si rivela sempre un desiderio di nuovo, una voglia di capire, una forza ad agire, una attenzione alla scoperta. La scuola deve cambiare, è tempo che cambi, se non vuole vivere in un mondo a cui non è in grado di dare risposte.
Un mio sogno: non più Consigli di Classe ( su cui molti sono i docenti che sono concordi nell’affermare che così come sono condotti hanno poco senso ), ma un organismo interdisciplinare completamente nuovo (da rifondare e da ripensare),in cui non si giudicano allievi, ma si verificano e si revisionano progetti sulla base del successo o dell’insuccesso formativo, sulla base di dare risposte ai bisogni espressi dagli allievi, sulla base di costruire un percorso formativo razionale.
L’alternanza scuola lavoro è uno degli strumenti per rompere con il modello tradizionale di fare scuola fondato prevalentemente, ed in alcuni casi esclusivamente, su una didattica trasmissiva.
Essa è elemento centrale e strategico del nuovo fare scuola.
Per lo studente si tratta di un’esperienza che cambia radicalmente il suo modo di intendere lo studio, in particolare lo aiuta ad analizzare i problemi VERI della realtà da diverse prospettive, lo abitua alla prudenza, alla pratica del dubbio e questo è un esercizio che modifica anche la relazione con l’insegnante e con i saperi che vengono interrogati per quanto hanno da dire nell’interpretazione della realtà.
Il rapporto tra il dentro e il fuori della scuola è stato ed è un elemento strutturale e fondante il curricolo. L’obiettivo è far entrare i giovani nelle maglie complesse della vita della comunità e contestualmente far interagire le istituzioni con i giovani, chiamarle a mostrarsi, a spiegare che cosa fanno, guidando gli studenti alla comprensione dei problemi di governo della città.
Questo si può realizzare all’interno di patti educativi in cui scuola, istituzioni e famiglie vengano coinvolte concretamente, ma soprattutto in cui i giovani abbiano la possibilità di essere protagonisti, di vedere direttamente e di mettersi in gioco.
Data la dimensione curricolare dell’attività di alternanza, le discipline sono necessariamente contestualizzate e coniugate con l’apprendimento: ciò comporta l’analisi delle condizioni di praticabilità di esercizio dell’autonomia scolastica di adeguare i contenuti alle esigenze del contesto.
Questi aspetti sono determinanti per le proposte e le attività dei Dipartimenti.
La progettazione di un curricolo che riconosca come uno dei suoi pilastri l’alternanza deve ben tenere presente il valore orientante e professionalizzante dei saperi, in modo da considerare l’esperienza pratica come un valido riscontro di contesti teorici. In prima istanza, occorre che i docenti dell’intero consiglio di classe individuino nelle aree disciplinari di riferimento quei nuclei fondanti, quei contenuti che possono coinvolgere e interessare lo studente, in quanto risultano traducibili in esperienze concrete e in contesti di realtà sperimentabili.
Il valore aggiunto per il Consiglio di Classe che si impegna nel percorso di Alternanza Scuola Lavoro sta:
Per chiudere vorrei sottolineare che i temi dell’ inter e trans-disciplinarità, della laboratorialità, del rapporto con il territorio, di una nuova organizzazione didattica, sono da moltissimi anni all’attenzione dei docenti prima del Liceo delle Scienze sociali e poi dei Licei delle Scienze umane e dell’opzione economico sociale. Abbiamo cercato di comprendere quali siano i nuclei fondanti di ciascuna disciplina e quale poteva essere l’asse portante di questo tipo di licei che in Italia, a differenza di altri Stati, ha bisogno ancora di trovare una sua identità ben definita.
In questi anni abbiamo sperimentato percorsi innovativi legati alla contemporaneità, al territorio, allo sviluppo di competenze, all’integrazione delle discipline e dei saperi. Abbiamo insegnato ai nostri studenti a riconoscere e a saper affrontare le categorie della contemporaneità e della complessità.
Proprio quando l' Alternanza Scuola Lavoro viene fatta bene, e la scuola non la delega ad altri , ma la accompagna e la inserisce in un progetto formativo condiviso, appaiono i nuovi problemi. Problemi di competenze e problemi di organizzazione.
Gli studenti si calano in un'esperienza professionale di cui l' insegnante ha in genere solo conoscenze di seconda mano, e magari antiche e vaghe, e a cui rischia addirittura di non poter partecipare da vicino: tutti gli insegnanti hanno molte classi e ogni momento eventualmente libero dall'impegno in una di esse è indispensabile per affrontare le mille emergenze della vita quotidiana di un istituto. Insomma, i ragazzi vanno e noi stiamo qua.
Potrebbe sembrare addirittura una metafora “fisiologica” dell'educazione, ma così non è. Se la chiamiamo “alternanza“ non stiamo parlando del momento in cui i giovani lasciano il nido. Stiamo parlando invece di quello “stare sulla soglia” su cui si fondavano, fin dall'inizio, le esperienze di stage formativo : un processo di andate e ritorni da seguire, accompagnare, su cui e a partire dal quale sollecitare rielaborazioni critiche.
Quindi nell'alternanza gli insegnanti dovrebbero “esserci” il più possibile, anche per essere in grado di accorgersi se c'è qualcosa da aggiustare o qualche occasione da sfruttare meglio. Superare gli ostacoli organizzativi è importante , ma forse è ancora più importante superare quelli culturali, che vedono prevalere nella scuola le spinte della separatezza tra esperienze, competenze e discipline. Con l' idea diffusa quanto arbitraria che solo un corso di laurea interamente dedicato a una sola disciplina e alle sue articolazioni, e una mono-abilitazione ad esso strettamente congruente, siano i requisiti validi culturalmente (e quasi “moralmente”) per insegnare. C'è invece bisogno di affermare che anche per insegnare bene una materia non si può essere solo insegnanti di quella materia. Bisogna anche provare a fare i conti con tutto quello che c'è intorno, con i mestieri e le esperienze umane che coinvolgono quell'ambito di conoscenze, o che ne vengono illuminate.
E questo non vale solo per le materie cosiddette professionali ma per tutte.
Lo splendido resoconto didattico di Franco Lorenzoni I bambini pensano grande ci fa vedere come per insegnare qualsiasi contenuto sia indispensabile fare esperienze concrete e perfino fisiche e manuali. Una figura limitata e sedentaria che si trincera dietro il suo cosiddetto specialismo non convince nessuno, e men che meno i ragazzi.
Nella mia formazione ho avuto due esperienze privilegiate. La prima fu quando, con un gruppo di scout e compagni di scuola, dentro Firenze alluvionata, scoprimmo che la cultura e l'arte non erano le astrazioni che ci facevano soffrire in classe, ma erano un motore concretissimo che organizzava lavoro manuale, chimica, fisica, filologia e capacità di decidere. I turni di lavoro alla Biblioteca e al Vieusseux ci mandarono a caricare e stendere le pagine come in un opificio tessile, a pulirle e asciugarle come in una lavanderia, a proteggere con i fogli di carta assorbente i testi antichi, a spruzzare disinfettante in tenuta da Ghostbuster, a portare, come in una bottega artigiana,attrezzi e pennelli ai restauratori veri, che erano ragazzi poco più grandi di noi ma che sapevano dove mettere le mani.
La seconda , proprio agli inizi del mio lavoro di insegnante, fu una stagione da un fotografo, in cui imparai a usare gli strumenti delle immagini: senza di quello, anche far passare gli strumenti della parola e della scrittura mi sarebbe stato molto più difficile.
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Ecco una carrellata di immagini della giornata allo Schiaparelli, in aula magna nella mattinata e in un'aula LIM per i lavori pomeridiani