Anna Maria Ajello
Nella seconda metà degli anni Settanta, era molto vivo il dibattito sulla riforma della scuola secondaria di secondo grado e in quel periodo si avvicendavano progetti di riforma rivisti e rimaneggiati dai vari partiti.
In questo clima si colloca la proposta del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali di inserire nel curricolo della scuola secondaria di secondo grado quattro “blocchi problematici”, ciascuno in un anno di questo livello scolare. Ecco come motivavano gli autori la necessità di far entrare le scienze sociali nei curricoli:
“Le scienze sociali devono perciò diventare una componente autonoma della cultura scolastica..Esse soltanto sono in grado di offrire al giovane una base adeguata per l’analisi e la comprensione del mondo contemporaneo” (CSS, 1977, p.18)
Questa proposta non è stata recepita per diverse ragioni, che vanno dalla difficoltà di un inserimento così lontano dalla pratica tradizionale (blocchi problematici e non “materie”), alla necessaria formazione dei docenti per questa funzione nuova, alle resistenze anche ideologiche che una cultura idealistica di matrice gentiliana opponeva alla funzione formativa generale di quelle discipline.
Questo se vogliamo considerare le ragioni sul piano concettuale; accanto ad esse ci sono state anche quelle più concrete e legate a specifici interessi. E’ il caso della resistenza degli istituti magistrali ( di cui una quota non piccola erano scuole paritarie) che sentivano a rischio la propria stessa esistenza se si fossero realizzate innovazioni di quel tipo che avrebbero richiesto altri e diversi investimenti sui docenti. Questa resistenza era rappresentata dalla stessa querelle sulla dizione “scienze umane” e non “scienze sociali” poichè la prima permetteva di limitare l’insegnamento alla pedagogia e alla psicologia secondo i modi tradizionalmente presenti.
Il riconoscimento di quel bisogno formativo che era all’origine della proposta del CSS negli anni successivi è stato largamente e sostanzialmente disatteso anche se tentativi di introduzione di contenuti sociali sono stati di tanto in tanto avanzati.
E’ il caso dell’educazione finanziaria che, su iniziativa di organismi e fondazioni bancarie, oltre che della stessa Banca d’Italia, è stata proposta, già nella primaria e soprattutto nella scuola secondaria di primo e secondo grado, con attività extra-curricolari gestite in prevalenza da esperti del settore.
E’ opportuno riflettere su queste proposte per la loro impostazione e per gli effetti prevedibili in termini di formazione delle nuove generazioni.
L’inserimento di contenuti economico-finanziari, come per esempio, la moneta, le banche, i prestiti, i muti, gli investimenti etc, hanno avuto il pregio di squarciare il velo, per così dire, e mostrare l’accessibilità di aspetti largamente estranei alla cultura scolastica e più in generale alla cultura civica diffusa.
Si tratta in vero di una funzione compensativa che quegli organismi hanno rivestito rispetto ad un compito evaso dalla scuola o piuttosto da chi ha avuto responsabilità di proposte e innovazioni nel campo dei curricoli.
D’altra parte l’accesso a quei contenuti si è reso via via più necessario proprio per i cambiamenti radicali che si sono avuti nel mondo produttivo e più in generale nella società civile: si pensi, per fare un solo esempio, all’importanza di avere una visione prospettica rispetto al proprio futuro pensionistico per ciascun lavoratore, una volta che sia cessata la prospettiva del “posto fisso” per tutta la vita professionale.
Da un diverso punto di vista tuttavia si può considerare la questione dell’approccio teorico che è implicito nell’ introduzione di questi contenuti che sfugge completamente alla consapevolezza diffusa dell’opinione pubblica e spesso anche dei docenti e che è invece oggetto di dibattito intenso in sede specialistica (cfr JSSE, 2013, Davies, Lundholm, 2012).
Se consideriamo la prospettiva da cui muove l’educazione finanziaria infatti, è evidente la finalità Informativa/formativa del cittadino potenziale acquirente di prodotti finanziari che deve essere così tutelato da rischi (e talora da raggiri) quando compie delle scelte economico-finanziarie importanti che possono talora pregiudicare il proprio futuro. Un simile obbiettivo è altamente apprezzabile e direi insostituibile.
C’è però un elemento che ripensando proprio alla proposta di inserimento delle scienze sociali nei curricoli viene alla luce; si tratta del fatto che i fenomeni complessi che riguardano l’economia, come ad esempio, l’inflazione o i diversi tipi di crisi economica, non si possono comprendere con le sole nozioni economiche, perché si deve far riferimento anche ad altri aspetti che sono psicologici, sociali, culturali e politici.
In altre parole, se ci si limita ai soli elementi economici molti fenomeni non sono compresi.
E’ quanto è stato dimostrato da alcuni ricercatori finlandesi (Lofstrom, van den Berg, 2013) che hanno esaminato i modi con cui i manuali in uso nelle scuole spiegavano la crisi economica. Proprio l’atteggiamento, per così dire neutrale e asettico, senza implicazioni politiche, con cui la crisi veniva presentata, faceva sì che si riducessero le possibilità di comprensione da parte degli studenti finlandesi che solitamente invece raggiungono alti punteggi nelle prove standardizzate internazionali.
E’ interessante far riferimento alla crisi economica che ha caratterizzato dal 2009 le vicende di molti paesi occidentali, perché consente di mettere in luce caratteristiche comuni nelle concezioni dei giovani; tali aspetti solitamente non sono indagati in modo cross-culturale per la loro forte connotazione contestuale che ne oscura la possibilità di confronto.
Sarebbe molto lungo riassumere le diverse percezioni della crisi da parte dei giovani che sono state ricavate dalle ricerche condotte in questi anni; preferisco accennare ad alcuni elementi che possiamo trarre da alcune ricerche condotte con gli studenti della scuola secondaria di secondo grado. Vorrei sottolineare che tali ricerche contrariamente al solito, dove si usano questionari a scelta multipla, sono state condotte con un questionario a risposta aperta. Ciò ha complicato l’individuazione dei sistemi di analisi, ma ha reso evidenti dei tratti non emersi in precedenza.
Si chiedeva a studenti (di 2° e 4°classe) di licei e di istituti tecnici in cui era presente l’insegnamento dell’economia di indicare le cause della crisi economica, i rimedi possibili, i riflessi sulla loro vita quotidiana e le fonti delle loro informazioni in merito. Per quanto riguarda le risposte, in generale si nota una diffusa ignoranza sulle cause della crisi, ma soprattutto si rilevano modalità di elaborazione piuttosto primitive, nel senso ad esempio di indicare un solo elemento come causa della crisi ( “il governo”, “i politici incompetenti o ladri” “le banche” genericamente intese) come se la spiegazione di un fenomeno sociale potesse ricondursi ad un solo fattore che lo genera.
Nella proposta dei rimedi si rilevano diffuse concezioni ribellistiche esposte a soluzioni populistiche o autoritarie, senza un’articolazione temporale degli interventi, o con riferimenti ad aspetti istituzionali.
Di seguito propongo un esempio che fa riflettere:
D. Secondo te, quali sarebbero le contromisure che il nostro governo dovrebbe adottare per fronteggiare questa crisi economica?
R. “Allora, tra le prime sicuramente dovrebbero abbassare gli stipendi dei politici, perché comunque secondo me gli stipendi non vengono dati in base al lavoro che uno fa perché comunque tipo gli operai faticano maggiormente di chi sta seduto a fare il politico, ma prendono molti meno soldi e questo secondo me è una cosa impensabile e ingiusta e quindi sicuramente questa è la prima cosa che devono fare…” (Viola, 5° anno liceo)
Questa concezione per cui il reddito da lavoro dovrebbe rispecchiare “la fatica che si fa” la possiamo ritrovare con parole diverse nell’intervista seguente (cfr Berti, Bombi 1981:132):
“D. Se il giornalaio paga i giornalini a 400 lire dopo a che prezzo potrebbe venderli ?
R. 200
D. A meno?
R. Eh sì D. Come mai a meno?
R. Perchè glieli dà a 400 quello lì che li fa e costa di più farla, una roba, glieli fa e glieli dà e dopo lui vende a meno
D. Non ho capito bene vuoi spiegarmi meglio?
R. Li vende a meno perché..
D. Mi dicevi che quello li fabbrica…
R. Sì perché lui fa, scrive, fa la carta, scrive là e fa le figure, fa tutto quello che deve andare nel giornalino..
D E mi dicevi che lui prende più soldi del giornalaio?
R. Sì D. Perché R. Perché lui fa ..e .. è una roba, è difficile farlo; il giornalaio, se glieli dà non è difficile a venderli” Giorgio (7; 8 )
E’ evidente che Giorgio incontri le maggiori difficoltà nel rispondere ad una questione che forse non si è mai posto, così come Viola probabilmente non ha mai riflettuto, né le è stato proposto di farlo, sulla crisi economica, ma stupisce che sia analogo il richiamo al reddito da lavoro come legato alla fatica e alla connotazione (tipica certo dell’anti-politica attuale) del lavoro del politico come “stare seduto” .
Ci sono molti altri esempi di questa evidente ignoranza del funzionamento dei meccanismi non solo economici ma istituzionali, ci basta qui sottolineare per brevità che la carenza che si indicava nel 1977, come fondamento per l’inserimento delle scienze sociali nei curricoli della scuola secondaria di secondo grado, ha già prodotto i suoi danni.
Quello che si riconosce infatti, con tutta evidenza, è un diffuso analfabetismo civico, nel senso di esprimere una profonda ignoranza dei meccanismi di funzionamento istituzionale che mette in una luce sinistra lo sviluppo democratico del nostro Paese, in cui una larga parte di giovani, alle soglie dell’esercizio del diritto di voto, indipendentemente dallo studio a scuola dell’economia, mostra concezioni così primitive da essere più esposti ai canti delle “sirene” che potrebbero manifestarsi sulla scena politica.
Riferimenti bibliografici
A.E. Berti A.S. Bombi (1981) Il mondo economico del bambino Firenze La Nuova Italia
Consiglio Italiano per le Scienze Sociali (CSS) 1977 Scienze Sociali e riforma della scuola secondaria Torino Einaudi
P. Davies, C. Lundholm (2012) Students’ understanding of socio-economic phenomena: Conceptions about the free provision ofgoods and services. In Journal of Economic Psychology,Vol 33, 78-89
J. Lofstrom, M. van den Berg (2013) Making sense of the financial crisis in economic education: An analysis of the upper secondary school social studies teaching in Finland in the 2010’s. In Journal of Social Science Education, Vol 12, Number 2, p. 53-68
Journal of Social Science Education, Vol 12, N.2 (2013) Crisis and Economic Education in Europe