Si terrà a Roma, il prossimo 2 dicembre 2015, dalle ore 14.00 alle 19.00, nell'aula Ponzo dell'Istituto di Psicologia, in via dei Marsi 78, un seminario di riflessione e studio dal titolo
L’iniziativa, per la quale è stato richiesto il patrocinio del MIUR, nasce prioritariamente dal desiderio di onorare la memoria della professoressa Anna Sgherri Costantini, già Ispettrice Centrale del Ministero della Pubblica Istruzione, e infaticabile animatrice di esperienze didattiche nelle nostre scuole.
SISUS, che ha avuto il piacere e l’onore di annoverarLa tra i propri Soci Fondatori e di giovarsi della Sua preziosa esperienza nella formazione dei docenti, ne ha fatto la Presidente Onoraria unitamente ad un’altra prestigiosa figura della cultura e della scuola italiana, la professoressa Clotilde Pontecorvo.
A poco più di un anno dalla Sua scomparsa, SISUS promuove questa iniziativa non a scopo meramente celebrativo o commemorativo, ma piuttosto – come certamente a Lei stessa sarebbe piaciuto – per fare ancora una volta formazione nel Suo nome, con la certezza che quanto abbiamo appreso e sperimentato nelle nostre scuole sotto la Sua guida (come coordinatrice ed esperta nel Progetto Brocca, nelle sperimentazioni autonome e nei progetti di formazione in particolare per la Filosofia e per la Storia) sia pienamente valido e fecondo per e nella scuola di oggi.
Per questo abbiamo concepito l’iniziativa come un pomeriggio di riflessione e studio, con uno sguardo memore al passato ma più ancora con l’attenzione consapevole alla scuola di oggi e di domani. Essendo SISUS Ente qualificato per la formazione dei docenti, a richiesta fornirà l’attestato di partecipazione per le ore impegnate in quella che vuole essere una vera e propria “lezione di Buona Scuola”.
Testimoni e “attori” del pomeriggio di lavoro provengono sia dal mondo della Scuola che dell’Università, come anche dal MIUR, tutti luoghi che hanno visto e apprezzato l’impegno attento e costante di Anna in direzione di una didattica in sé generatrice di competenze, nella sostanza, prima ancora che queste diventassero oggetto esplicito di attenzione tuttora non sempre consapevole. Il Programma è in via di stesura definitiva, e sarà diffuso quanto prima su questo sito.
Ci auguriamo che, nonostante le difficoltà logistiche, siano in tanti i nostri soci, nonché gli amici e gli estimatori, che non vorranno mancare all’appuntamento.
ROMA, Università "La Sapienza" Dipartimento di Psicologia via dei Marsi, 78
ore 14.00-14.30 - Registrazione dei partecipanti
ore 14.30 - Saluti
ore 15. 15 - Il contesto della “Buona Scuola” Paolo Corbucci, dirigente Direzione Generale per gli Ordinamenti scolastici del Miur
ore 15.45 - La sperimentazione nelle scienze sociali: un laboratorio di esperienze di autonomia
ore 16.45 - Le buone pratiche nell’insegnamento di Storia e Filosofia
ore 17.45 - La formazione del docente di Filosofia e Scienze Umane oggi
ore 18.45 – Chiusura dei lavori
Nella mia qualità di Presidente onorario dell’Associazione SISUS sono molto grata a tutti i soci per avermi assegnato il compito di introdurre la giornata di studio e di ricordo della nostra comune amica Anna Sgherri. Lascio agli altri il compito di presentarne in modo esauriente la figura umana e professionale. Io mi limito a ricordare due momenti rilevanti in cui è avvenuto tra lei e me uno scambio proficuo per le scienze sociali.
Il primo incontro è avvenuto nel 2000 nella commissione che doveva stabilire le linee guida per l’insegnamento delle scienze sociali e che era composta, oltre che dal personale del MIUR, da amici della odierna SISUS e da professori delle aree disciplinari interessate, indicati dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali. Da quella commissione uscì nel febbraio di quell’anno un documento fondativo molto significativo: si ribadiva il fondamento storico-antropologico dell’insegnamento liceale delle scienze sociali e la sua collocazione nell’area scientifica.
Un altro importante incontro con Anna Sgherri l’ho avuto a Giovinazzo nel 2009 nel convegno annuale della Rete Passaggi e di SISUS, quando abbiamo elaborato insieme l’indirizzo economico-sociale come alternativa all’indirizzo di scienze umane (a forte impostazione pedagogica) proposto dal MIUR con l’allora Ministro Maria Stella Gelmini. In quell’occasione elaborammo collettivamente una proposta curricolare per l’indirizzo alternativo che conservava la filosofia originaria, elaborata dagli insegnanti e tradotta in realtà didattiche da docenti aderenti alla SISUS.
Nel 2007 insieme a Lucia Marchetti raccogliemmo un buon numero di esperienze didattiche realizzate nella scuola dai nostri associati in un volume (pubblicato da Marsilio Editore) dal titolo “Trent’anni dopo le scienze sociali nella scuola”. Nell’occasione di Giovinazzo scherzammo con Anna Sgherri che se lei era stata la madre spirituale e operativa dei Licei delle Scienze Sociali avendo coordinato fin dal 1999 corsi di formazione suddivisi in centri regionali, presenti in tutto il territorio nazionale; io potevo essere considerata la madrina avendo steso la prima indagine sulla presenza delle scienze sociali nella scuola italiana (commissionatami nel 1974 dal Consiglio Italiano delle Scienze Sociali) e avendo partecipato come giovane ricercatrice alla stesura del volumetto collettivo “Scienze sociali e riforma della scuola” (pubblicato da Einaudi nel 1975).
Mi è gradito in questa occasione ricordare il contributo teorico e operativo dell’allora Ministro Luigi Berlinguer, unico tra i titolari del MIUR, che si sono succeduti negli ultimi 15 anni, che si è posto il problema della necessità di un’analisi critica approfondita dei saperi da affidare all’insegnamento scolastico. Per questo nel febbraio del 1997 egli costituì una commissione di 44 esperti di diverse aree disciplinari e professionali che fu poi chiamata la Commissione dei saggi. Chi scrive ha avuto poi l’onore di partecipare al gruppo di lavoro ristretto (composto dai colleghi Paul Ginzburg, Giovanni Reale, Luisa Ribolzi, Mario Vegetti e Silvano Tagliagambe con il coordinamento di Roberto Maragliano e il supporto tecnico di Vittorio Campione) che mise a punto il documento finale. Tale documento iniziò a circolare fin dall’ottobre del 1997, ma fu approvato dalla commissione riunita in riunione plenaria solo il 14 novembre del 1997.
È forse un’epoca lontana per i più giovani tra voi ma voglio sottolineare che quel documento suscitò notevoli entusiasmi tra gli insegnanti più qualificati per finire però nel dimenticatoio dai ministri successivi.
Anche in quel documento trovava posto il ruolo formativo dell’insegnamento liceale delle scienze sociali, come strumento essenziale per promuovere la conoscenza della contemporaneità nella sua attuale articolazione sociale e globale, come ci ricorda Anna Sgherri in un suo scritto del 2007 dove scrive anche che un tale Liceo “rappresenta un modello di scuola a misura degli studenti e dei docenti, di coloro cioè che costituiscono la forza e la vitalità di una comunità educativa prima di tutto autonoma e responsabile delle proprie scelte.”
È mio compito, questa sera, introdurre e fare un coordinamento generale dei lavori.
Consideratemi dunque il fil rouge della serata, quasi una voce fuori campo. Non cederò pertanto alla tentazione – che pure sarebbe grandissima – di abbandonarmi all’onda dei ricordi, tanti, di carattere professionale, ma anche personali (non ultimo il ringraziamento dell’immenso dono che mi ha fatto di partecipare alla festa per il mio pensionamento insieme alla cara amica Lucia Marchetti! Non credo che potrò mai dimenticare l’emozione che provai nel giardino dell’ “Ainis”, a Messina, quell’11 giugno del 2009! Né la gratitudine per la sua affettuosa e generosa testimonianza resa in quel contesto…). Qui lascerò spazio alle tante e qualificate voci che, meglio di me, sapranno ricordarne la figura e l’opera, e non ruberò loro altro tempo. Mi piace solo prendere in prestito alcune espressioni di un bellissimo contributo di Giancarlo Mori , che è stato preside del liceo Ariosto di Ferrara dal 1990 al 2006, e con Lei – e con tutti noi qui presenti – ha condiviso battaglie, entusiasmi, e tanto duro lavoro:
«Ci vuole una biografia di spessore come quella di Anna Sgherri per leggere i segni dei tempi. …
Riflettere sul suo profilo professionale e raccontarne la trama complessa e coinvolgente richiede di non cadere in automatismi mentali e in trappole emotive che produrrebbero una sindrome da Antologia di Spoon River. Al contrario, analizzare il contributo di Anna Sgherri alle politiche del riformismo scolastico può diventare un utile esercizio di contrasto alla diffusa attitudine al pensare riduzionistico, quando si parla di scuola. »
Mi piace riportare queste poche frasi perché esprimono il senso di questo seminario, che abbiamo voluto non solo e non tanto “commemorativo”, ma anche, e soprattutto, proiettato in avanti operativamente, perché è così che a Lei sarebbe piaciuto.
Perché la lezione di Anna, intrisa di “buone pratiche”, come sicuramente emergerà dagli interventi che seguiranno, è di grandissima attualità didattica non solo nell’oggi, ma sicuramente anche per la scuola di domani.
Chi ha condiviso con Anna, anche solo per breve tempo, progetti, obiettivi, passioni, sente forte dentro di sé la responsabilità di dare loro vita ulteriore attraverso azioni concrete. Questo sentimento della continuità accompagna i grandi maestri e Anna merita di essere ricordata come maestra di vita e di saggezza per le tante cose che ha saputo insegnare nel corso della sua intensa vita professionale.
Mi ricordo ancora quando l’ho conosciuta in una fredda mattina invernale in una riunione all’IRRSAE Toscana sulla dispersione scolastica. All’inizio fu diffidente, sembrava scrutarti per capire chi fossi, quale fosse il tuo metodo di lavoro, il tuo impegno, le tue competenze. Non concedeva la Sua amicizia al primo incontro. Sembrava dura, rigida. In realtà aveva solo carattere.
A distanza di anni ci ritrovammo a condividere progetti sperimentali e di formazione sempre e comunque al servizio delle scuole. I suoi insegnamenti erano preziosi e unici per la loro matrice culturale e professionale; nulla era lasciato al caso e trascurato, ma ogni parola, ogni indicazione era dettata dal rispetto dell’istituzione che rappresentava e dell’uditorio al quale si rivolgeva.
Si è rivolta con entusiasmo e grande determinazione alla formazione dei docenti, ritenendo la vita d’aula il cuore pulsante di ogni rinnovamento intenzionalmente volto a conferire dignità alla professione docente. Non temeva di affermare, in ogni circostanza, che il processo riformatore non è solo quello di cui si discute nelle sedi politiche, ma soprattutto quello che investe la vita quotidiana delle realtà scolastiche e accademiche.
Di qui le numerose ardite avventure intellettuali da lei promosse, coordinate e condotte nell’ambito della formazione dei docenti in servizio che ripeteva essere non solo destinatari di aggiornamento contenutistico, ma veri e propri ricercatori e sperimentatori. Credeva negli insegnanti, li sapeva motivare, dare loro fiducia e, con severità e rigore estremo ma anche con amorevole accoglienza, sapeva trarre da ciascuno il meglio.
La formazione per lei era investimento, era crescita, era sviluppo professionale, era impegno costante. Non si tirava mai indietro quando bisognava esplorare una zona di confine, ne era affascinata, ma nello stesso tempo, non si faceva travolgere dai facili entusiasmi, ma tutto veniva ricondotto al rigore epistemologico delle discipline.
Quanto ci manca Anna e quanto manca all’Italia, alla Scuola, alla Società. Tuttavia il Suo rigore e il Suo amore per la scuola ci debbono sostenere e allora tre espressioni di Anna mi piace ricordare: la frase di un Preside che ogni mattina, sedendosi alla sua scrivania, diceva “ogni giorno ha la sua pena”, ma non per questo smetteva di sedersi alla sua scrivania; la seconda: l’impegno è mettere i gomiti sul tavolo e la terza: non servono solo quelli che dipingono la Cappella Sistina, ma anche coloro che raccolgono i calcinacci. Anna era tutto questo e così la vogliamo ricordare e consegnare alle future generazioni.
Elena Bertonelli
Ringrazio Amelia Stancanelli per avermi chiamata qui per ricordare Anna Sgherri.
Dei tempi ormai lontani non tutto ricordo. Ma è difficile dimenticare Anna non solo come amica e compagna di lavoro, ma anche per il suo rigore, per la sua forza e per la sua competenza. Il richiamo alla sua memoria ci fa pensare alla pluralità dei suoi sguardi, tenendo conto di una generazione che si è ritrovata in una esperienza comune. Una esperienza che ha segnato svolte profonde nella vita e nella organizzazione della scuola, nel pensare la scuola, nel fare la scuola.
Legittimo quindi l’orgoglio di far parte di una leva di “costruttori” capaci di osservazione, di riflessione e di modalità di approccio. Tutto ciò senza rinchiudersi in gruppi elitari, lavorando invece nel segno della sobrietà e del metodo. Ma anche con la responsabile consapevolezza della necessità di operare e introdurre nel pensiero e nella pratica della scuola, visioni, modi e temi nuovi da assumere nella loro delicata complessità.
La stagione dell’autonomia, come sanno bene Luigi Berlinguer, Giuseppe Cosentino e Giovanni Trainito, è stato un laboratorio ampio e coinvolgente, che guardava soprattutto al futuro, mentre valorizzava e rendeva onore a categorie, a suggestioni e visioni, che appartengono alla migliore tradizione pedagogica.
“L'autonomia – ha scritto Anna – non deve essere intesa né come autoreferenzialità, né come una forma rimodernata di splendido isolamento. L'autonomia deve promuovere il confronto, la cooperazione, la discussione dei problemi comuni, la circolazione delle esperienze validate”.
Punto di arrivo, punto di snodo e movimento. Perché, specialmente nella scuola, come del resto in ogni altro settore della vita, non è data la possibilità di “fermare la macchina”. Mi pare questo il senso e lo stile di una lunga navigazione, per riprendere l’immagine, tanto cara ad Anna, del “veliero sempre proteso verso la ricerca e l'esplorazione di nuove terre”.
Un’esperienza, questa che ha visto e ha avuto tanti protagonisti, che ha impegnato ciascuno di noi in un’opera collettiva, faticosa ed esaltante, al servizio del Paese e della sua prospettiva democratica.
Ciascuno di noi ha lavorato e realizzato, portando il suo mattone. Sono queste le caratteristiche che a me pare si debbano riconoscere a una persona straordinaria come Anna Sgherri: volume di gioco, qualità di prodotto, esemplarità di stile.
Io ho avuto il piacere di lavorare con Anna in una impegnativa attività condotta fianco a fianco. L’autoreferenzialità era da lei considerata - e lo scrisse - una morbosa affezione, un danno, un freno.
“Insieme” non era per Anna un semplice modo di produrre una merce, ma un modo necessario di stare al mondo. Perché nell’insieme c’è il riconoscimento del valore imprescindibile di ciascuno e quindi di tutti. E la scuola deve sentire l’urgenza dell’insieme, perché la scuola è insieme, l’insieme delle esperienze e dei progetti, dei sogni e delle vittorie. Ma può essere anche il campo del riflusso e della sconfitta culturale e morale di un Paese. Se la scuola avanza, avanza il Paese nella sua interezza.
Anzi, solo se la scuola avanza, può avanzare un Paese, una comunità, un popolo.
A me piace, in questa circostanza, sottolineare di Anna un tratto di natura antropologica, che non è stato ininfluente nel suo lavoro e nel suo essere “costruttrice”: la sua ligurità, intesa come appartenenza alla sua Liguria, è stata anche una grammatica di sobrietà e di essenzialità. Sono doti che sono portata a elogiare pubblicamente – anche se so di correre qualche rischio – essendo anch’io proveniente dalla Liguria, dall’Alta Val di Vara, da quella Spezia medaglia d’oro della Resistenza. Di quella Resistenza intorno alla cui storia ha tanto lavorato la nostra Anna.
La mia testimonianza su Anna Sgherri non può essere così ampia come quella dei colleghi che mi hanno preceduto per il semplice motivo che, diversamente da loro, ho avuto occasione di conoscere l’ispettrice soltanto negli ultimi anni della mia attività lavorativa, e precisamente nella seconda metà degli anni novanta del secolo passato. Un periodo breve ma intenso, caratterizzato dalle riforme sulla scuola avviate e realizzate dal Ministro Berlinguer.
Nell’aprile del 1996, dopo la nomina a direttore generale del Ministero della P.I., fui assegnato alla direzione generale dell’istruzione classica, scientifica e magistrale, resasi vacante per il collocamento a riposo del compianto Romano Cammarata. Dopo appena un mese il Ministro Berlinguer, insediatosi a viale Trastevere, mi incaricò di dirigere il suo Gabinetto congiuntamente alla direzione classica.
In questa duplice veste di direttore generale e di capo di gabinetto, ho seguito lo svolgersi del processo riformatore e così ho conosciuto e lavorato con tutte le persone che di volta in volta ne venivano interessate e coinvolte. Anna Sgherri è stata un’importante protagonista di quel processo per la parte riguardante la sua attività professionale di ispettore tecnico nel settore storico-sociale, e nell’attuazione delle iniziative relative all’autonomia scolastica, e spesso veniva chiamata a collaborare direttamente con il Ministro.
Ricorderete sicuramente che uno dei primi atti del processo di riforma ha riguardato proprio lo studio della storia, e precisamente la modifica della suddivisione annuale del programma di storia negli istituti di istruzione secondaria di primo e di secondo grado con la previsione dello studio del novecento nell’ultimo anno. Per la relativa attuazione, avviata in tempi brevi dopo appena pochi mesi dall’inizio del Ministero Berlinguer, furono adottati due atti contestuali, a dimostrazione che le riforme richiedono interventi di diversa natura. Un decreto ministeriale (D.M. 4 novembre 1996, n. 682) che formalizzava la suddetta suddivisione nelle scuole secondarie e una direttiva ( n. 681 del 4 novembre 1996) che impartiva istruzioni per lo svolgimento di attività di formazione in servizio finalizzate all’acquisizione da parte dei docenti di storia delle metodologie e degli ausili più idonei all’insegnamento della storia più recente.
Tutti ricordano i dibattiti, le preoccupazioni, le critiche a questa iniziativa, ma anche le ragioni che la giustificavano.
In proposito ritengo utile leggere alcuni brani della direttiva ministeriale sull’insegnamento di Educazione Civica che riguardano lo studio del Novecento: “La necessaria valorizzazione dell'insegnamento della storia, anche del suo periodo più recente, è finalizzata a permettere un'analisi serena degli eventi, perché i ragazzi possano coglierne il senso e la problematicità, e perché possano comprendere, con equanimità e con obiettività, i fattori, le vicende anche drammatiche, le intenzioni, le prospettive.
La storia recente non consente forse quel distacco che la storia passata sembra assicurare: tuttavia essa è altrettanto, e forse più, indispensabile per consentire ai giovani di farsi un'idea non faziosa e non distorta del presente e per indirizzare le loro energie verso un futuro che sia il più possibile scevro da equivoci e da perniciosa ignoranza.”
Non posso affermarlo con certezza anche perché la memoria non mi aiuta, ma ritengo che queste espressioni siano il frutto del pensiero di Anna, perché di solito i ministri si avvalevano del contributo degli ispettori, e il ministro Berlinguer era tra quelli che vi ricorrevano spesso.
D’altra parte, poiché la Direzione classica aveva il coordinamento delle Direzioni generali del ministero sull’insegnamento della storia,anch’io mi avvalevo della collaborazione dell’ispettrice Sgherri, cosa che mi ha consentito di apprezzarne l’intelligenza, la vasta cultura, l’operosità, il garbo e lo stile non comune.
Voglio ricordare, prima di terminare la mia breve testimonianza, un importante progetto che ha visto l’ispettrice Anna Sgherri protagonista principale, in campo nazionale ed internazionale. Si tratta del progetto “Il 900. I giovani e la memoria” voluto fortemente dal ministro Berlinguer e realizzato negli anni scolastici 1998/99 e 1999/2000, mediante l’assegnazione di specifici fondi della legge 440 del ‘97. Il coordinamento ministeriale del progetto fu affidato alla direzione classica che lo realizzò con il contributo scientifico di Anna Sgherri e la collaborazione amministrativa del dott. Luigi Catalano e della dott.ssa Anna rosa Cicala.
Il progetto, inizialmente riservato agli studenti delle classi terminali degli istituti di istruzione secondaria superiore, e successivamente esteso agli studenti delle scuole secondarie di primo grado, intendeva sollecitare una riflessione sul contesto storico in cui le leggi razziali nacquero e sulle conseguenze a cui dettero origine gli eventi ad esse collegate e prevedeva, come conclusione dell’itinerario formativo, la visita ad uno dei campi di sterminio nazisti.
La circolare ministeriale n.411 del 9 ottobre 1998 invitava le scuole a partecipare all’iniziativa presentando uno specifico progetto contenente l’obiettivo educativo a cui era finalizzato e la sua capacità di produrre significative ricadute all’interno dell’intera comunità scolastica. I progetti delle scuole venivano sottoposti alla valutazione di una commissione provinciale che provvedeva ad inviarli, con un ordine di priorità, al Ministero presso l’ufficio del coordinamento che, cosa rara, veniva espressamente menzionato nelle suindicate persone che lo componevano.
Ho detto prima che è stata protagonista del progetto anche in campo internazionale perché ricordo che partecipò ad un incontro dei Paesi dell’unione Europea sul tema della memoria storica dei giovani e che in quell’incontro ebbe molto a discutere per affermarne la validità e l’opportunità di estenderlo negli altri paesi dell’Unione.
Non posso affermare di aver ricordato in maniera adeguata l’intesa attività svolta in quegli anni dall’ispettrice Sgherri. Vi sarebbe altro da dire anche perché ha fatto parte del gruppo degli ispettori impegnati nell’attuazione dell’autonomia scolastica, attività anch’essa affidata al coordinamento della direzione classica e magistralmente organizzata e diretta dal collega Cosentino.
Sono stato molto lieto dell'invito, rivoltomi dalla preside Stancanelli, a partecipare a questa iniziativa in onore ed in ricordo di Anna Sgherri, che si propone di confrontare, non so se con qualche malizia, la “Buona scuola” di Anna con l' attuale ipotesi di riforma.
Con Anna ci siamo incontrati in un momento professionale particolarmente significativo per entrambi - era la fine degli anni ottanta- momento che coincise con la fase delle cosiddette “sperimentazioni” di “ordinamento e struttura”, previste dall'art 3 del DPR n 419 del 1974 (era uno dei famosi “decreti delegati”), promosse dalla Direzione dell'istruzione Classica, scientifica e magistrale in vista di future riforme dell'ordinamento liceale, fase che personalmente ricordo con nostalgia - e non solo perché eravamo tutti molto più giovani - ma per la passione e l'impegno di molti dei protagonisti di allora e per quella convinzione diffusa di essere protagonisti di un tentativo di cambiamento dal basso dei vecchi percorsi liceali e dell'istituto magistrale, ritenuti bisognosi di aggiornamenti nei contenuti e nei metodi.
E, proprio vero che ogni generazione è convinta di essere “per la prima volta” protagonista del cambiamento e di operare “svolte storiche” e “ rivoluzioni copernicane”!
Io avevo appena vinto il concorso a dirigente e, venendo da precedenti esperienze professionali tutte giuridiche - contenzioso e disciplina negli anni '70 - fui proiettato, come dirigente della sperimentazione, nel mondo vero della scuola, del dibattito sui curricoli, del confronto, anche aspro ma costruttivo, in cui le posizioni non erano mai unidirezionali ed “assertive” ma, come si direbbe oggi, ci si “metteva veramente la faccia”, con incontri diretti con dirigenti e docenti che avevano lo spazio e l'opportunità per discutere realmente proposte e soluzioni per i processi di innovazione (attraverso “seminari di studio” e produzione di materiali), utilizzando a tal fine anche lo strumento dell'aggiornamento su rete.
Anna aveva anche lei vinto da poco un concorso ispettivo - il primo con la nuova normativa - che aveva superato il modello un po' autoritario, anche se di grande prestigio, dei vecchi ispettori centrali (penso a Tomassino, alla Berselli, a Santoro) ed aveva selezionato un gruppo di ispettori tecnici periferici - figura fino ad allora sconosciuta almeno nelle scuola secondaria - di grande professionalità ed entusiasmo, formatisi sui valori della scuola “partecipata” dei decreti delegati - siamo alla metà degli anni '80 - e convinti che le riforme non siano mere espressioni di “ingegneria istituzionale” e dunque non debbano “calare dall'alto” ma, al contrario, siano processi che vedano l'incontro tra l' esperienze delle scuole - che riflettono sulla loro azione didattica - ed un personale “esperto” - in primis i nuovi ispettori ma anche università ed associazioni professionali, nonché, all'epoca,gli IRRSAE - capace di stimolare le innovazioni proposte ma anche riconoscere e valorizzare, sistematizzandole, le “migliori pratiche”, rendendole in tal modo trasferibili ad altri contesti, seppure con i necessari adattamenti.
Ricordo ancora l'entusiasmo, la professionalità e l'impegno di Anna, di Elena Bertonelli, di Lucia Ciarrapico, di Chiara Croce, di Antonio Portolano, di Luciano Favini, di Sandra Perugini Cigni, di Marta De Vita, di Anna Piperno e di Clavarino e di tanti altri che crearono un clima veramente irripetibile.
Ma ricordo anche tanti presidi e professori che erano protagonisti alla pari di questo dibattito dalla Giancotti alla Miola a Mori, allo stesso Rembado, tanto per citarne alcuni.
Furono quelli gli anni in cui si sviluppò, attraverso le sperimentazioni di cui all'art 3 del DPR 419/1974, in coerenza con lo spirito dei decreti delegati, un processo di superamento del vecchio liceo gentiliano, introducendo nuovi percorsi di studio - tra tutti ricordo il liceo linguistico, prima di allora solo privato, ed il liceo pedagogico, psicopedagogico e delle scienze umane e sociali - ma, soprattutto, si proposero curricoli più ricchi e più flessibili, con il rafforzamento dell'area linguistica e matematico-informatica, organizzati per obiettivi di apprendimento - in relazione ai quali sviluppare l'autonomia didattica e di ricerca - e non per programmi rigidi. Negli stessi anni, a conferma di un “clima generale”, ci furono le sperimentazioni di Caruso nell'Istruzione tecnica, sviluppate poi da Trainito, e di Martinez nell'istruzione tecnico professionale (“Progetto 92”).
Gli esiti di queste complesse esperienze furono ricchi di luci, soprattutto sotto il profilo delle motivazioni e della ricerca educativa ma anche di ombre, pur se non ci fu un vero bilancio finale per l'intervento di successive iniziative ministeriali di sistema (Riforme Brocca e Berlinguer). Certamente pesò allora la mancanza di un sistema di valutazione, poi introdotto da Berlinguer, capace di intervenire tempestivamente su derive autoreferenziali che, in alcuni casi resero perfino incoerenti i percorsi curricolari rispetto agli esiti attesi, tanto più in presenza del valore legale dei relativi titoli di studio (penso ai licei linguistici negli istituti magistrali).
Ma tuttavia ritengo che il ruolo di accompagnamento e supporto svolto da quegli ispettori, con incontri frequenti con gruppi di dirigenti e di docenti, diede vita ad una esperienza di grande spessore, in cui i temi della didattica, delle competenze, dei “nuclei fondanti” delle discipline e del loro statuto, dell'autovalutazione, divennero centrali nel dibattito delle scuole più avanzate e lasciarono una eredità di elaborazioni fondamentali per i successivi interventi “riformatori” costituiti prima dal “progetto Brocca” - i Piani di studio del biennio sono del 1991, quelli del triennio del 1992 - e poi dall'intervento complesso di Berlinguer (legge 30, autonomia, parità e Invalsi) - interventi tutti purtroppo non realizzatisi compiutamente per il successivo cambiamento del quadro politico.
Ricordo in questi anni lo straordinario impegno di Anna, teso a fare sintesi continua tra le proposte del Ministero e le richieste della scuola, senza indulgere né nella difesa incondizionata degli obiettivi assegnati dal “centro”, né nelle eventuali derive autoreferenziali delle singole scuole ma, al contrario, attenta alle esigenze reali degli apprendimenti, interpretando correttamente l'autonomia delle scuole come una “funzione” orientata al successo formativo.
Fu in quella fase che, con alcuni colleghi e con l'Irrsae Marche, promosse e realizzò un' importante sperimentazione, che andrebbe ancor oggi studiata, sulla misurazione del differenziale tra le competenze possedute dagli alunni all'inizio e alla conclusione del “biennio Brocca” (Progetto “Prometeo”). Fu, credo, una delle prime esperienze di valutazione non dei livelli assoluti delle competenze possedute dagli alunni in un determinato momento ma del “miglioramento” da essi realizzato, durante il biennio, rispetto ai livelli di partenza.
Vorrei ricordare al riguardo che già i Programmi del progetto “Brocca”, tenendo conto proprio delle esperienze delle sperimentazioni “autonome” erano articolati per Finalità, Obiettivi di apprendimento e Indicazioni specifiche per le singole discipline, superando in tal modo i vecchi rigidi programmi ministeriali che predefinivano contenuti e tempi dei curricoli.
La preside Stancanelli, nostra cortese ospite, mi ricordava che ci siamo conosciuti all'incontro organizzato con Anna ed altri ispettori in una sala del ministero dei beni culturali, la famosa “sala dello Stenditoio”, quando in piena estate, credo fosse giugno, si decise di far partire in 56 scuole il progetto Brocca sin dal settembre successivo. Ciò fu in realtà possibile proprio perchè quelle scuole venivano quasi tutte dalle precedenti sperimentazioni ed avevano pertanto collaudati strumenti di governance ed esperienze mature nell'elaborazione, gestione e autovalutazione del curricolo.
La traumatica interruzione del processo di riforma che era stato così efficacemente portato a sintesi da Berlinguer alla fine degli anni '90, e soprattutto il mancato esplicito chiarimento circa le ragioni del dissenso tra due anime della sinistra ha avuto un peso assai negativo sulle motivazioni di tutti i dirigenti e i docenti che nelle riforma Berlinguer aveva effettivamente e largamente creduto, (penso all'avvicendamento con De Mauro nell'ambito di un Governo di centrosinistra), e, a mio avviso, sono per certi versi ancora alla base anche del conflitto oggi in atto sulla riforma Giannini.
Forse bisognerebbe che ci fosse un vero chiarimento senza continuare a contrapporre tesi reciprocamente del tutto assertive ed autoreferenziali.
Ricordo ancora l'amarezza di Anna per la brusca interruzione di un 'esperienza così ricca di speranze e di prospettive!
A proposito della “lezione” di Anna per fare una “buona scuola”, farò ora un brevissimo riferimento alla fase attuale - cosa che in fondo ci richiede implicitamente il titolo del nostro incontro odierno - per capire in che modo il suo “metodo” potrebbe risultare ancora utile per “inverare” nella didattica reale le proposte della riforma della legge 107.
Sono convinto innanzitutto che il quadro di riforma dell'attuale Governo, generosamente difeso pubblicamente da Luigi Berlinguer, sia in effetti figlio di quella stessa stagione di cambiamento prima ricordata, che mirava ad attribuire all'autonomia delle scuole un ruolo centrale nel definire curricoli flessibili ed adeguati alle concrete domande formative degli alunni, tenendo conto dei contesti.
Una significativa continuità va, a mio avviso, del resto riscontrata nell'obiettivo di fondo di tutti i processi di riforma di questi anni - dalla Conferenza nazionale della scuola del '90 di Mattarella alla legge 107 della Giannini - e cioè quello di promuovere una scuola che superi la tradizionale impostazione metodologico didattica - cattedratica, uniforme e trasmissiva dei saperi - per sviluppare invece un insegnamento più “personalizzato”, metodiche interattive e laboratoriali, capaci di promuovere competenze reali (testa ben fatta anziché testa piena avrebbe detto Edgar Morin), peraltro più coerenti anche con gli attuali apprendimenti in ambiente tecnologico. Ciò comporta una diversa organizzazione della didattica, che nasca dall'esigenza di collegare gli insegnamenti formali, informali e non formali, e attribuisca al docente un ruolo di professionista, mediatore tra i saperi e gli apprendimenti, capace di “dare senso” agli insegnamenti attraverso una corretta analisi disciplinare, che consenta non solo l'utilizzo delle mappe cognitive di ciascuna disciplina ma tutti gli altri elementi del loro “statuto” - “aspetti metodologici, storici, linguistici”, vedendo nelle discipline, come ricordava Frabboni, una sorta di“cannocchiali” differenziati dell'unica realtà. Discipline intese in sostanza come esiti di apprendimenti sociali che promuovano gli apprendimenti individuali.
L'obiettivo è l'acquisizione di competenze da intendersi non solo come competenze professionali ma come la capacità di padroneggiare ed utilizzare le conoscenze operative in contesti diversi. Ciò presuppone il carattere collegiale e il metodo cooperativo nell'insegnamento, aspetti ripresi del resto dalla legge 107 dopo il passaggio parlamentare.
Ma c'è di più. Accanto alla finalità della scuola di trasmettere i saperi da una generazione all'altra, c'è sempre più l'esigenza di trasmettere i valori, di promuovere l'identità dell'alunno e nel contempo lo sviluppo del suo senso di appartenenza rispetto alle diverse comunità (integrazione) e rispetto a sé stesso (interventi per l'integrazione e la legalità, contro bullismo, e omofobia).
Vanno ricordatie poi le nuove domande cui la scuola deve rispondere, dell'esigenza di un più stretto collegamento scuola lavoro e di più efficaci rapporti con il territorio.
In questa prospettiva la riforma Giannini mi sembra si collochi in piena continuità rispetto non solo ai principi in precedenza elaborati ma anche alle stesse concrete disposizioni normative ricavabili dai provvedimenti in passato adottati (si pensi al regolamento sull'autonomia).
Trovo anzi al riguardo un pò ingenerosa, e per certi aspetti controproducente, la ricorrente enfasi “nuovista”, assertiva di un' ennesima “svolta Copernicana”, che è emersa, almeno in passato, in molti commenti, nonostante l'evidente continuità dell'impianto chiaramente riconducibile a quello del regolamento sull'autonomia (DPR n 275/1999), se non addirittura a molti principi delineati nella Conferenza nazionale della Scuola del 1990 promossa dall'allora ministro Mattarella.
Il punto vero è allora quello di capire se, rispetto agli obiettivi sostanzialmente condivisibili della riforma, in gran parte coerenti con quelli di Berlinguer, ci siano nell'attuale legge e nei primi atti applicativi indicazioni concrete che dimostrino la consapevolezza delle criticità emerse in passato su analoghi obiettivi e la capacità di indicare soluzioni credibili per superare tali criticità. Al riguardo credo che la riforma Giannini, pur nella rilevata sostanziale continuità con gli obiettivi del processo di innovazione in atto da molti anni, presenti ancora alcune criticità, già peraltro emerse nel mondo della scuola, come quelle relative alle soluzioni insufficienti adottate per il precariato, inadeguate rispetto al fabbisogno effettivo di docenti nelle scuola, alla enfatizzazione del ruolo dei dirigenti scolastici, peraltro non solo non corrispondente ad effettivi poteri reali, ma, soprattutto, in contrasto con la riaffermate collegialità e cooperatività dell'attività docente, alle discutibili scelte sulla formazione iniziale (troppo lungo il tempo della formazione, troppo divisi i ruoli dell'università e della scuola, non risolto il problema del rapporto tra abilitazione e ruolo). Suscitano anche perplessità la carenza di risorse e di apparati organizzativi per assicurare l'effettiva generalizzazione dell'insegnamento dell'inglese - si pensi alle precedenti negative esperienze, per i medesimi motivi, del Clil nelle superiori e dei docenti specializzati alle elementari - della matematica rafforzata, della musica, dell'arte, delle scienze motorie, delle tecnologie ecc. e di tutte le altre discipline, tenuto altresì conto che l'organico dell'autonomia, oltre ad essere formato in questa prima fase dai docenti delle Graduatorie ad esaurimento - titolari di classi di concorso spesso meno richieste - è comunque destinato prioritariamente alle supplenze brevi, i cui stanziamenti sono stati contestualmente ridotti.
Lo stesso, pur positivo, rafforzamento dei percorsi scuola lavoro - già peraltro previsti da normative precedenti - non sembra aver del tutto risolto il problema delle risorse per l'intera platea degli alunni interessati (circa un milione e mezzo nei tre anni, per 200 ore nei licei e 400 negli istituti tecnici e professionali) e soprattutto deve affrontare il problema della effettiva disponibilità generalizzata delle imprese (non c'è ancora l'albo delle imprese disponibili).
Ma al di là di questi aspetti”amministrativi” e finanziari, che riguardano sostanzialmente i profili di “ingegneria istituzionale”, un brevissimo approfondimento merita soprattutto l'aspetto curricolare dell'ampliamento dell'offerta formativa che, a mio avviso, è trattato dalla legge più alla stregua di una integrazione di discipline (più educazione linguistica ed alfabetizzazione informatica, introduzione dell'insegnamento musicale e finanziario, della storia dell'arte e dell'educazione motoria) che come un problema di ricerca per la definizione dei “nuclei fondanti” e delle competenze attese relativi a ciascuna disciplina ed all'insieme delle discipline, in vista di una vera interdisciplinarietà, funzionale a definire l'apporto che ogni disciplina deve coerentemente offrire al raggiungimento del profilo di uscita e degli obiettivi di apprendimento di ciascun tipo di istituto. Il metodo di Anna puntava appunto, al di là delle diverse proposte legislative di riforma, ad un'attenta analisi delle varie componenti dello statuto delle discipline, in particolare ovviamente di quelle storiche, filosofiche e delle scienze umane e sociali, in modo da promuovere le condizioni più favorevoli per creare una rete di supporto ai docenti, ai fini della formazione e della ricerca educativa sugli aspetti metodologici, pedagogici e di nuova didattica delle discipline, in una prospettiva di unitarietà ed identità del curricolo di ciascuna scuola.
Questa azione veniva realizzata - e molti di voi ne siete stati testimoni - attraverso periodici incontri, seminari, progetti di ricerca, interventi di monitoraggio (ricordo ancora il Progetto Prometeo), che adattavano processualmente gli obiettivi proposti dal ministero alla concreta realtà emergente dal confronto svolgentesi all'interno delle reti di scuole.
Ciò dava sicurezza ai docenti ed evitava quei fenomeni di “inadeguatezza” o di adesione solo formale che hanno caratterizzato molti processi di innovazione.
In questa direzione, nell'attuazione della legge 107, penso bisognerebbe lavorare molto con le scuole, con le università e con le associazioni professionali, creando una grande “comunità” di ricerca educativa.
Nel concludere vorrei infine ricordare le doti umane di Anna che anche nelle occasioni più difficili - e non ne sono mancate - è stata per tutti un punto di riferimento per la sua competenza ma anche per la capacità di cogliere con equilibrio i punti di criticità del processo, senza tuttavia arrendersi anche nelle situazioni più complesse, ma al contrario infondendo entusiasmo, motivazioni e senso di appartenenza ad un gruppo. Credo che questa piccola, intensa, “comunità”, che si è ritrovata oggi nel ricordo di Anna costituisca in questo senso una sua preziosa eredità, coerente con la sua profonda affettività ed il suo interesse per gli altri, che coniugava con il rigore e la riservatezza, attenuati tuttavia da un'ironia mai cinica.
Anna Maria Ajello
Nella seconda metà degli anni Settanta, era molto vivo il dibattito sulla riforma della scuola secondaria di secondo grado e in quel periodo si avvicendavano progetti di riforma rivisti e rimaneggiati dai vari partiti.
In questo clima si colloca la proposta del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali di inserire nel curricolo della scuola secondaria di secondo grado quattro “blocchi problematici”, ciascuno in un anno di questo livello scolare. Ecco come motivavano gli autori la necessità di far entrare le scienze sociali nei curricoli:
“Le scienze sociali devono perciò diventare una componente autonoma della cultura scolastica..Esse soltanto sono in grado di offrire al giovane una base adeguata per l’analisi e la comprensione del mondo contemporaneo” (CSS, 1977, p.18)
Questa proposta non è stata recepita per diverse ragioni, che vanno dalla difficoltà di un inserimento così lontano dalla pratica tradizionale (blocchi problematici e non “materie”), alla necessaria formazione dei docenti per questa funzione nuova, alle resistenze anche ideologiche che una cultura idealistica di matrice gentiliana opponeva alla funzione formativa generale di quelle discipline.
Questo se vogliamo considerare le ragioni sul piano concettuale; accanto ad esse ci sono state anche quelle più concrete e legate a specifici interessi. E’ il caso della resistenza degli istituti magistrali ( di cui una quota non piccola erano scuole paritarie) che sentivano a rischio la propria stessa esistenza se si fossero realizzate innovazioni di quel tipo che avrebbero richiesto altri e diversi investimenti sui docenti. Questa resistenza era rappresentata dalla stessa querelle sulla dizione “scienze umane” e non “scienze sociali” poichè la prima permetteva di limitare l’insegnamento alla pedagogia e alla psicologia secondo i modi tradizionalmente presenti.
Il riconoscimento di quel bisogno formativo che era all’origine della proposta del CSS negli anni successivi è stato largamente e sostanzialmente disatteso anche se tentativi di introduzione di contenuti sociali sono stati di tanto in tanto avanzati.
E’ il caso dell’educazione finanziaria che, su iniziativa di organismi e fondazioni bancarie, oltre che della stessa Banca d’Italia, è stata proposta, già nella primaria e soprattutto nella scuola secondaria di primo e secondo grado, con attività extra-curricolari gestite in prevalenza da esperti del settore.
E’ opportuno riflettere su queste proposte per la loro impostazione e per gli effetti prevedibili in termini di formazione delle nuove generazioni.
L’inserimento di contenuti economico-finanziari, come per esempio, la moneta, le banche, i prestiti, i muti, gli investimenti etc, hanno avuto il pregio di squarciare il velo, per così dire, e mostrare l’accessibilità di aspetti largamente estranei alla cultura scolastica e più in generale alla cultura civica diffusa.
Si tratta in vero di una funzione compensativa che quegli organismi hanno rivestito rispetto ad un compito evaso dalla scuola o piuttosto da chi ha avuto responsabilità di proposte e innovazioni nel campo dei curricoli.
D’altra parte l’accesso a quei contenuti si è reso via via più necessario proprio per i cambiamenti radicali che si sono avuti nel mondo produttivo e più in generale nella società civile: si pensi, per fare un solo esempio, all’importanza di avere una visione prospettica rispetto al proprio futuro pensionistico per ciascun lavoratore, una volta che sia cessata la prospettiva del “posto fisso” per tutta la vita professionale.
Da un diverso punto di vista tuttavia si può considerare la questione dell’approccio teorico che è implicito nell’ introduzione di questi contenuti che sfugge completamente alla consapevolezza diffusa dell’opinione pubblica e spesso anche dei docenti e che è invece oggetto di dibattito intenso in sede specialistica (cfr JSSE, 2013, Davies, Lundholm, 2012).
Se consideriamo la prospettiva da cui muove l’educazione finanziaria infatti, è evidente la finalità Informativa/formativa del cittadino potenziale acquirente di prodotti finanziari che deve essere così tutelato da rischi (e talora da raggiri) quando compie delle scelte economico-finanziarie importanti che possono talora pregiudicare il proprio futuro. Un simile obbiettivo è altamente apprezzabile e direi insostituibile.
C’è però un elemento che ripensando proprio alla proposta di inserimento delle scienze sociali nei curricoli viene alla luce; si tratta del fatto che i fenomeni complessi che riguardano l’economia, come ad esempio, l’inflazione o i diversi tipi di crisi economica, non si possono comprendere con le sole nozioni economiche, perché si deve far riferimento anche ad altri aspetti che sono psicologici, sociali, culturali e politici.
In altre parole, se ci si limita ai soli elementi economici molti fenomeni non sono compresi.
E’ quanto è stato dimostrato da alcuni ricercatori finlandesi (Lofstrom, van den Berg, 2013) che hanno esaminato i modi con cui i manuali in uso nelle scuole spiegavano la crisi economica. Proprio l’atteggiamento, per così dire neutrale e asettico, senza implicazioni politiche, con cui la crisi veniva presentata, faceva sì che si riducessero le possibilità di comprensione da parte degli studenti finlandesi che solitamente invece raggiungono alti punteggi nelle prove standardizzate internazionali.
E’ interessante far riferimento alla crisi economica che ha caratterizzato dal 2009 le vicende di molti paesi occidentali, perché consente di mettere in luce caratteristiche comuni nelle concezioni dei giovani; tali aspetti solitamente non sono indagati in modo cross-culturale per la loro forte connotazione contestuale che ne oscura la possibilità di confronto.
Sarebbe molto lungo riassumere le diverse percezioni della crisi da parte dei giovani che sono state ricavate dalle ricerche condotte in questi anni; preferisco accennare ad alcuni elementi che possiamo trarre da alcune ricerche condotte con gli studenti della scuola secondaria di secondo grado. Vorrei sottolineare che tali ricerche contrariamente al solito, dove si usano questionari a scelta multipla, sono state condotte con un questionario a risposta aperta. Ciò ha complicato l’individuazione dei sistemi di analisi, ma ha reso evidenti dei tratti non emersi in precedenza.
Si chiedeva a studenti (di 2° e 4°classe) di licei e di istituti tecnici in cui era presente l’insegnamento dell’economia di indicare le cause della crisi economica, i rimedi possibili, i riflessi sulla loro vita quotidiana e le fonti delle loro informazioni in merito. Per quanto riguarda le risposte, in generale si nota una diffusa ignoranza sulle cause della crisi, ma soprattutto si rilevano modalità di elaborazione piuttosto primitive, nel senso ad esempio di indicare un solo elemento come causa della crisi ( “il governo”, “i politici incompetenti o ladri” “le banche” genericamente intese) come se la spiegazione di un fenomeno sociale potesse ricondursi ad un solo fattore che lo genera.
Nella proposta dei rimedi si rilevano diffuse concezioni ribellistiche esposte a soluzioni populistiche o autoritarie, senza un’articolazione temporale degli interventi, o con riferimenti ad aspetti istituzionali.
Di seguito propongo un esempio che fa riflettere:
D. Secondo te, quali sarebbero le contromisure che il nostro governo dovrebbe adottare per fronteggiare questa crisi economica?
R. “Allora, tra le prime sicuramente dovrebbero abbassare gli stipendi dei politici, perché comunque secondo me gli stipendi non vengono dati in base al lavoro che uno fa perché comunque tipo gli operai faticano maggiormente di chi sta seduto a fare il politico, ma prendono molti meno soldi e questo secondo me è una cosa impensabile e ingiusta e quindi sicuramente questa è la prima cosa che devono fare…” (Viola, 5° anno liceo)
Questa concezione per cui il reddito da lavoro dovrebbe rispecchiare “la fatica che si fa” la possiamo ritrovare con parole diverse nell’intervista seguente (cfr Berti, Bombi 1981:132):
“D. Se il giornalaio paga i giornalini a 400 lire dopo a che prezzo potrebbe venderli ?
R. 200
D. A meno?
R. Eh sì D. Come mai a meno?
R. Perchè glieli dà a 400 quello lì che li fa e costa di più farla, una roba, glieli fa e glieli dà e dopo lui vende a meno
D. Non ho capito bene vuoi spiegarmi meglio?
R. Li vende a meno perché..
D. Mi dicevi che quello li fabbrica…
R. Sì perché lui fa, scrive, fa la carta, scrive là e fa le figure, fa tutto quello che deve andare nel giornalino..
D E mi dicevi che lui prende più soldi del giornalaio?
R. Sì D. Perché R. Perché lui fa ..e .. è una roba, è difficile farlo; il giornalaio, se glieli dà non è difficile a venderli” Giorgio (7; 8 )
E’ evidente che Giorgio incontri le maggiori difficoltà nel rispondere ad una questione che forse non si è mai posto, così come Viola probabilmente non ha mai riflettuto, né le è stato proposto di farlo, sulla crisi economica, ma stupisce che sia analogo il richiamo al reddito da lavoro come legato alla fatica e alla connotazione (tipica certo dell’anti-politica attuale) del lavoro del politico come “stare seduto” .
Ci sono molti altri esempi di questa evidente ignoranza del funzionamento dei meccanismi non solo economici ma istituzionali, ci basta qui sottolineare per brevità che la carenza che si indicava nel 1977, come fondamento per l’inserimento delle scienze sociali nei curricoli della scuola secondaria di secondo grado, ha già prodotto i suoi danni.
Quello che si riconosce infatti, con tutta evidenza, è un diffuso analfabetismo civico, nel senso di esprimere una profonda ignoranza dei meccanismi di funzionamento istituzionale che mette in una luce sinistra lo sviluppo democratico del nostro Paese, in cui una larga parte di giovani, alle soglie dell’esercizio del diritto di voto, indipendentemente dallo studio a scuola dell’economia, mostra concezioni così primitive da essere più esposti ai canti delle “sirene” che potrebbero manifestarsi sulla scena politica.
Riferimenti bibliografici
A.E. Berti A.S. Bombi (1981) Il mondo economico del bambino Firenze La Nuova Italia
Consiglio Italiano per le Scienze Sociali (CSS) 1977 Scienze Sociali e riforma della scuola secondaria Torino Einaudi
P. Davies, C. Lundholm (2012) Students’ understanding of socio-economic phenomena: Conceptions about the free provision ofgoods and services. In Journal of Economic Psychology,Vol 33, 78-89
J. Lofstrom, M. van den Berg (2013) Making sense of the financial crisis in economic education: An analysis of the upper secondary school social studies teaching in Finland in the 2010’s. In Journal of Social Science Education, Vol 12, Number 2, p. 53-68
Journal of Social Science Education, Vol 12, N.2 (2013) Crisis and Economic Education in Europe
Antonio Ronco
Don't worry! , dice il sottotitolo, non preoccuparti, perché si può fare, può essere una buona esperienza formativa e chi la fa da anni sostiene che poi è molto difficile rinunciarvi.
Perché? Perché lo stage formativo è dotato di potenza intrinseca: riesce a coniugare insegnamento e apprendimento, la scuola e il territorio, il tempo e lo spazio, i saperi e l'esperienza, l'organizzazione scolastica e i percorsi formativi, le diverse sfere della personalità, cognitiva, affettiva e sociale, insomma è un pezzo di formazione a cui ogni studente, ma anche ogni insegnante deve avere l'opportunità di accedere.
E si può fare con gradualità, cominciando con quel che si ha a disposizione, persone, strutture, denaro, ecc...
Don't worry! dunque!
Questa è la sintesi, in quarta di copertina, di questo volumetto edito dal M.I.U.R. nel lontano 2001 a cui era giunto il gruppo di lavoro del Liceo delle Scienze Sociali. Risulta subito evidente come lo stage non fosse un momento in aggiunta al curriculum ma la componente strategica dell'autonomia.
Lo stage veniva pensato da noi tutti come momento di discontinuità da una scuola ripetitiva, lontana da azioni di senso e da fonti di passione.
Lo stage veniva pensato, proposto e realizzato in molte realtà della "Rete di scuole Passaggi" non come momento di "apprendistato" ma come"percorso di formazione" per giovani e adulti, alunni e docenti e figure esterne al mondo scolastico facenti parte di quel tessuto civile-sociale della comunità territoriale della scuola.
Questo percorso, pensato come formazione in itinere, era ritenuto, ed ancora oggi lo può essere, come un percorso per tutti dove nel "fare cooperativo" è possibile cogliere e costruire quei saperi alla base delle conoscenze e quelle riflessioni di senso sulle trasformazioni della contemporaneità.
Stage quindi come opportunità per accompagnare i giovani in situazioni e realtà esterne alla scuola dove poter cogliere le problematiche del mondo sociale contemporaneo con la riflessione sulle teorie e studi socio-storici-antropologici.
Ritenevamo e riteniamo che questa fosse e sia la strada per comprendere e cogliere i punti di forza e di debolezza sul mondo di oggi.
Per questo nella breve esperienza, ma intensa e piena di entusiasmo, sono stati realizzati stage in convenzione con Enti pubblici e privati come Comuni, Provincie, Camere di commercio, Ass.Industriali, Istituti penitenziari, Sindacati, Teatri, Case Editrici, Scuole, Università, scuole di Danza, di Musica, Ass. di volontariato, Emergency, Libera, Reti Televisive, Redazioni di quotidiani, Supermercati, Centri per gli Immigrati, Centri Missionari in zone di guerra, scambi culturali col mondo arabo e tanti altri ancora.
Questi scambi, questi percorsi di conoscenza, di saperi e di sviluppo di competenze sono solo alcuni fra i tanti e li cito come esempio per evidenziare la ricchezza del fare scuola in quel "modello" di liceo che Anna Sgherri ci stimolava a realizzare. Oggi è opportuno ricordare come tanti siano stati i motivi che hanno determinato la fine di questa esperienza. Motivi che non sto qui ad analizzare ma che non posso tacere fra questi la nostra incapacità ad allargare le nostre esperienze a più scuole possibili.
Questa presa d'atto non distoglie, però, la nostra convinzione di quanto lo stage sia un percorso formativo e di conoscenza dei saperi dove le singole e diverse "discipline" necessitano di un loro ripensamento e così gli insegnanti addetti, sia sul piano dei contenuti che della loro realizzazione didattica. Una buona organizzazione degli stage diventa un momento dove il "fare lezione" significa sempre più entrare in relazione con singoli individui, siano essi alunni che soggetti esterni alla scuola, dove il fare, il conoscere e l'apprendere è sempre momento di scambio reciproco e così successivamente il momento del "valutare" significa fare insieme una diagnosi per poter formulare e verificare ipotesi corrette di lavoro.
In ultimo voglio ulteriormente chiarire quanto lo stage sia lontano da quella infelice affermazione "alternanza scuola lavoro", affermazione impropria in una visione didattica pedagogica.
Oggi, la normativa dello stage, previsto dalla ultima legge, nelle classi terze di ogni tipologia di scuola, può e ci auguriamo che diventi la chiave per organizzare un nuovo modo di "fare e vivere la scuola". Una scuola fatta per "promuovere", una scuola basata su rapporti di cooperazione scientifica, su conoscenze, capacità e competenze per tutti noi cittadini.
Lo sforzo per noi di Passaggi, e per chi ha vissuto quei momenti, è stato quello di praticare una educazione civica dove si lavorava con gli studenti e non per gli studenti, dove il respirare in un luogo di libertà ci permetteva di sbagliare e di compiere errori. Dove l'apprendimento era continuo e frutto di partecipazione di tutti, dove le relazioni, senza mai far venir meno la responsabilità educativa, erano di soggetti, ciascuno con le proprie caratteristiche, in ricerca.
Per concludere oggi penso che lo stage formativo, a cui noi abbiamo lavorato, sia un momento di scuola di tutti e per tutti e che sia anche una concreta sintesi nel solco della migliore tradizione pedagogica didattica del 1900. Quella tradizione che raccoglie le esperienze delle Scuole Nuove, l'organizzazione ragionata montessoriana, l'idea dell'alunno attivo e pensante, i suggerimenti pratici del fare insieme di Freinet, del rigore e dello sforzo di una scuola di Barbiana, di una organizzazione autonoma ed di laboratorio come quella di Scuola Città Pestalozzi e come l'esercizio finale del corso di studi di staineriana memoria.
Queste sono solo alcune delle voci di riferimento a cui voglio aggiungere la pratica di ricerca nei laboratori adulti del Movimento di Cooperazione Educativa.
Grazie Anna per averci dato l'opportunità di realizzare, per quel poco tempo che è stato possibile, un liceo con aspirazioni europee (oggi aggiungerei nella positività delle aspirazioni di questa comunità) e modello di riferimento per tutta la scuola italiana.
L'educazione, come la partecipazione democratica, richiede tempi lunghi e noi siamo fiduciosi che tutto ciò avverrà.
Giacomo Camuri
Non è facile restituire il profilo di un'esperienza che nell'arco di pochi anni ha attraversato con il fremito dell'innovazione un considerevole numero di Scuole secondarie. Non lo è per la varietà delle istituzioni scolastiche coinvolte e per la particolarità del processo che ha accompagnato la creazione di un sistema reticolare che, sorto dapprima attorno all'attivazione ministeriale di Scuole Polo, si è poi sviluppato autonomamente, generando altre reti di Scuole, la rete Passaggi con i suoi Convegni e via via reti più circoscritte a specifici ambiti territoriali. La semplificazione risulterebbe rischiosa sopratutto a fronte dei risultati prodotti dalle sperimentazioni locali.
Parafrasando il titolo di un fortunato saggio pubblicato negli anni Quaranta da una filosofa americana, Susanne Katherine Langer, Philosophy in a new Key, si potrebbe asserire che l'opera collegialmente compiuta nei tempi e nei luoghi designati dall'esperienza del lavoro in rete rappresenti l'espressione più genuina e originale di un'idea di “formazione in una nuova chiave”. Se il “simbolismo” costituiva per Susanne Langer la cifra comune alle più diverse manifestazioni della mente indagate dalla logica e dalle scienze umane e pertanto la categoria fondante d'ogni possibile interpretazione dei comportamenti collettivi, il “contemporaneo”, quale categoria della complessità, tema scelto per il Convegno di Sezze del 2006, una complessità colta a tutti i livelli dell'esperienza e del sapere, diviene per Anna Sgherri e per chi ha con lei condiviso l'invenzione del disegno epistemologico del Liceo delle Scienze Sociali, l'idea portante di un percorso formativo che negli scenari di un “oggi” soggetto a cambiamenti rapidi e tumultuosi ha come fine il raggiungimento di una piena autonomia di conoscenze e di azioni.
Da qui l'urgenza di non disperdere le molte sperimentazioni in atto sopratutto negli Istituti Magistrali e di convogliarne le risorse, una volta venuta meno la loro mission istituzionale, verso la costruzione di un indirizzo di studi che, facendosi carico di implementare l'offerta culturale della Scuola italiana, fosse nel contempo capace di ripensare sia in ambito di riflessione teorica che in contesti di didattica laboratoriale, i grandi temi che innervano il “presente” di ogni assetto sociale: l'identità e i mutamenti, la comunicazione e i linguaggi, la stabilità e i conflitti, la normalità e le devianze, l'apprendimento e i sistemi educativi, il lavoro e l'imprenditorialità, l'economia e le risorse, la legalità e i diritti, la cittadinanza e le politiche. Un progetto, quello del Liceo delle Scienze Sociali, che mai avrebbe potuto realizzarsi senza la partecipazione attiva e diretta della compagine degli insegnanti chiamati a mettersi in gioco e a mettere in gioco competenze e conoscenze professionali in relazione con l'emergere di nuovi bisogni educativi, con il delinearsi di adolescenze irrequiete e incerte, con il venire innanzi di mondi, da una parte, tecnologicamente innovativi e affascinanti per le frontiere della ricerca, ma, dall'altra, geopoliticamente mutevoli per le guerre in corso, per gli squilibri delle risorse, per i grandi flussi migratori. La formazione all'autonomia in un tempo di processi di globalizzazione forse irreversibili non poteva e non può tuttora che richiedere da parte delle singole istituzioni scolastiche, dei collegi docenti, dei dipartimenti, dei consigli di classe - pur sulla base di linee guida condivise a livello nazionale - l'assunzione di capacità di progettazione autonoma di percorsi curricolari aperti e solidamente orientati.
Non per caso nel concetto di “Passaggi” si è riconosciuta la prima rete dei Licei delle Scienze Sociali costituitasi su un ampio tratto del territorio nazionale all'indomani della cessazione da parte del Ministero dell'Istruzione delle Scuole Polo e ben definito è risultato fin dall'inizio il suo programma di lavoro e di studio:“la società in classe”. Nell'impianto del Liceo delle Scienze Sociali centrale è sempre stato il ruolo assegnato alla classe nell'insieme delle sue componenti: non più luogo di trasmissione di saperi codificati in discipline isolate entro canali comunicativi rigidi e gerarchizzati ma laboratorio di apprendimenti condivisi e costruiti nella progettualità e nella valorizzazione delle capacità e delle competenze dei singoli, studenti e insegnanti, tutti diversamente ubicati, come recitava il Convegno di Trieste del 2010, “Sulla soglia” di un futuro già in parte presente e decifrabile nel quadro di una puntuale “Lettura della contemporaneità”, come ancora ricorda il tema dibattuto a Perugia nel Convegno del 2005.
Nell'ottica di una didattica laboratoriale disposta a misurarsi con il “presente” della vita adolescenziale, con i problemi imposti dalle trasformazioni sociali, con le acquisizioni tecnico-scientifiche e con le risorse offerte dai territori il Liceo delle Scienze Sociali ha saputo far emergere in tanti momenti di quotidianità scolastica la dimensione metodologica delle discipline stimolando un approccio propositivo a conoscenze altrimenti percepite come serbatoi di nozioni chiuse in se stesse, aridamente incapaci di dialogare con gli interessi e le ragioni di chi potrebbe imparare con piacere ad apprendere.
“Innovare nella Scuola si può”, si diceva nel Convegno di Messina nel 2008, creando contesti di senso, come suggeriva il sottotitolo “Da un'esperienza di frontiera un paradigma di scuola possibile”, pianificando azioni di ricerca concreta nei luoghi e negli spazi dove l’incontro con le “storie del presente” mobilitano narrazioni che aiutano i giovani a sentirsi protagonisti della propria formazione. E' difficile pensare a classi, giunte al termine del quinquennio del Liceo delle Scienze Sociali, amorfe, demotivate. All'inizio .dei primi anni si era soliti incontrare gruppi classi spesso fragili, disorientati, ma la strategia del coinvolgimento in una pratica dell'apprendere per poter apprendere ha sempre innescato processi virtuosi di motivazione alla collaborazione e alla fruibilità di apporti personali forieri di nuove conoscenze.
Con lo spostamento del baricentro, non solo ovviamente le discipline in classe ma, come si è venuti a rimarcare a Latina nel Convegno del 2013, “la società in classe”, l'intero comparto degli insegnamenti è stato indotto ad aprirsi, pur con qualche naturale difficoltà e resistenza, a una visione sistemica del curricolo che ha comportato aperture e convergenze di punti di vista, confronti e sinergie interdisciplinari, incremento e rivisitazione dei contenuti dei saperi posti in gioco: saperi che hanno di volta in volta stimolato l'incontro con altre professionalità reperibili nei mondi della ricerca, del lavoro, delle istituzioni e del terzo settore.
L'attenzione posta sul “contemporaneo”, la società nel suo declinarsi di istituzioni, modelli cultuali, risorse energetiche, capacità produttive, patrimoni culturali, innovazioni scientifiche, ha richiesto sin dai primi passi del Liceo delle Scienze Sociali la ridefinizione di una prospettiva di fondo, di un'angolazione teorica che potesse rispondere all'esigenza di una lettura “critica” della contemporaneità. Come educare al “contemporaneo”, come esserne “contemporanei” senza correre il rischio di divenire oggetto di troppe e facili fascinazioni?
Il Convegno di Ferrara, con cui nel 2004 si veniva a costituire la rete “Passaggi”, rilanciava al centro della riflessione didattico-pedagogica la questione fondativa per un Liceo della contemporaneità, il problema cruciale per Anna Sgherri: “l'asse storico-antropologico”. Una prospettiva che nel saldare la Scuola secondaria ai risultati più recenti e innovativi di alcuni ambiti della ricerca, per altro poco frequentati negli studi liceali, come la sociologia, la psicologia, le neuroscienze e l'antropologia culturale ha saputo far attecchire nel circuito di una didattica progettata per connessioni interdisciplinari ed esperienze sul campo, secondo il modello di uno “stage formativo”, lo stile cognitivo proprio di un'interpretazione de-costruzionista del “presente”. Si potrebbe dire con le parole di Giorgio Agamben tratte da un breve saggio del 2008, Che cosa è il contemporaneo?, che il Liceo delle Scienze Sociali ha fatto propria la lezione di “coloro che hanno cercato di pensare la contemporaneità” e che “hanno potuto farlo solo a patto di scinderla in più tempi, di introdurre nel tempo una essenziale disomogeneità”. Scrive Agamben, “chi può dire: 'il mio tempo', divide il tempo, iscrive in esso una cesura e una discontinuità; e tuttavia attraverso questa cesura, questa interpolazione del presente nell'omogeneità inerte del tempo lineare, il contemporaneo mette in opera una relazione speciale con i tempi” (pp. 22-3). La contemporaneità, questa la definizione proposta da Agamben che ben restituisce il senso del lavoro compiuto dalle Scuole in rete, “è una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze”, vi aderisce “attraverso una sfasatura e un anacronismo”. L'attenzione posta, anche grazie all'attività di stage, alle “storie del presente”, rivelatrici della problematicità del quotidiano, delle tensioni, delle fratture, dei paradossi, dei contrasti e delle contraddizioni, è stata, e lo deve essere ancora, una componente fondamentale dell'educazione alla contemporaneità, che altro non è che formazione all'autonomia, perché, dice ancora Agamben, “coloro che coincidono troppo pienamente con l'epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere lo sguardo fisso su di essa” (9-10). Uno sguardo che necessita di mediazioni, di attraversamenti, di confronti, di dialogo, di sconfinamenti, come hanno a più riprese e a diverso titolo messo a fuoco i Convegni di Lucca (“Vedere attraverso … con le scienze nel cuore”, 2007), di Giovinazzo (“La Scuola davanti alle emergenze del sistema”, 2009), di Verbania (“Crescere, apprendere partecipare. I nuovi adolescenti: studenti digitali e futuri cittadini europei”, 2011), di Rovereto (“Il Liceo delle Scienze Umane. Un nuovo dialogo tra umanisti e scienziati”, 2012).
Lucia Marchetti
Nel cercare di ricostruire e delimitare il campo di lavoro di Anna nell’ambito delle scienze umane e sociali mi sono avvalsa prevalentemente di un suo scritto del 2007 dal titolo "Un processo verso l’autonomia": le tappe a livello ministeriale in cui si traccia il percorso, direi parallelo, che a partire dai primi Anni Settanta ha caratterizzato sia l’affermarsi delle scienze sociali come saperi necessari per la formazione generale di un cittadino sia l’autonomia come processo che doveva derivare dalla sperimentazione di nuovi curricoli e doveva innovare profondamente la scuola.
“Gli anni ’70 hanno prodotto nella società italiana in generale, e specificatamente nella scuola, non solo una potente spinta al cambiamento, ma anche una genuina esigenza di riallacciare i rapporti con il proprio passato e con esperienze culturali innovative che il lungo predominio dell’idealismo gentiliano aveva bruscamente interrotto. P.212
“A mio parere, l’aspetto più significativo e importante dell’indirizzo, infatti, è da ricercare nella costruzione paziente e meditata, passo per passo, dell’autonomia, intesa come ipotesi di cambiamento radicale del concetto stesso di scuola; comprendendo in questo termine sia i processi culturali che vi si attivano, sia le modalità di relazione interpersonale che si propongono, sia il rapporto con la società in genere, sia, infine, il modello organizzativo e didattico improntato alla consapevole partecipazione dei soggetti e alla flessibilità nell’uso degli strumenti adottati per realizzare gli obiettivi culturali e di formazione umana e civile degli studenti. Il Liceo delle Scienze Sociali, sotto questo punto di vista, è stato fin dall’inizio un vero e proprio Laboratorio di esperienze di autonomia." Pp.211-212 .
Il ruolo che Anna assegna alle Scienze Umane e Sociali e poi nel Liceo prima delle Scienze Umane e Sociali (la sperimentazione che nasce in alcune scuole nel 1974) e poi nel liceo delle scienze sociali del 2001 è proprio quello di essere un Laboratorio di esperienze di autonomia. In questo quadro individuo tre direzioni di analisi del suo lavoro che mi sembrano rappresentare la cifra della sua azione, sempre fortemente intrecciate:
Sul tema dei saperi parlerà Annamaria Ajello che ha partecipato alle fasi di discussione nei primi Anni Settanta quando il Consiglio Italiano per le scienze Sociali insediò una commissione che elaborò un progetto per l’introduzione delle scienze sociali nel quadro della riforma della secondaria e pubblicato da Einaudi nel 1977 con il titolo "Scienze sociali e riforma della secondaria"; gli autori erano personalità prestigiose della cultura del tempo e Pietro Rossi individuava “nell’assenza delle scienze sociali, una delle carenze fondamentali della formazione culturale fornita dalla secondaria e affermava che un’ipotesi di inserimento doveva collegarsi a una riforma complessiva tanto della struttura quanto dei contenuti”
Dice Anna nello stesso nel testo citato: “In sostanza,l’inserimento non doveva risolversi in un’operazione di carattere aggiuntivo, ma doveva avvenire nell’ambito di una riorganizzazione complessiva del patrimonio culturale che si intendeva trasmettere alle nuove generazioni. Nonostante il lungo tempo trascorso, il messaggio lanciato allora dal Consiglio italiano delle scienze sociali non appare per nulla appannato”. p.213
Una seconda via che ha visto Anna impegnata in prima persona riguarda la costruzione di un curricolo relativo alle scienze umane e sociali e del contestuale modello organizzativo. Questa via percorre sia i processi (altalenanti) della sperimentazione di struttura (Decreto.419) che fin dal 1974 introduce nella secondaria un indirizzo di Scienze Umane e sociali e affida alla comunità del collegio docenti la possibilità di elaborare un curricolo non coincidente con quello in ordinamento, sia l’avvento dei Programmi Brocca della fine degli Anni Ottanta che tentano di ricondurre le diverse sperimentazioni ad un quadro unitario, sia le trasformazioni della Scuola magistrale e dell’istituto magistrale, sia i processi dell’autonomia.
Anna ha percorso tutte queste strade con un ruolo di stimolo e di raccordo e rilancio di progetti e di idee, ma ciò che risalta dalle sue azioni e dal suo scritto è l’attenzione costante ai processi di rinnovamento degli statuti disciplinari e delle modalità della didattica ma, soprattutto, la rilevanza che attribuisce alla collaborazione tra scuole e Ministero, una collaborazione non sempre lineare, nella quale Anna spesso si batte per far valere le acquisizioni e le richieste delle scuole. Ma per circoscrivere il campo al lavoro fatto sul curricolo di Scienze Sociali dalla fine degli Anni ’90: non si parla più da tempo di studi sociali per tutti, ma di un indirizzo, anzi di un Liceo di Scienze Sociali che viene collocato tra gli altri licei secondo l’ipotesi organizzativa prevista dalla Legge di riordino dei cicli predisposta dal ministro Berlinguer e viene offerta agli ex istituti magistrali la possibilità di chiedere la sostituzione dei corsi in ordinamento con questo curricolo considerato come una sperimentazione autonoma assistita.
Al proposito dice Anna:
“Come si può osservare analizzando attentamente il curricolo e l’abbondante materiale prodotto in questi anni dagli insegnanti, il Liceo delle Scienze sociali non è frutto di coincidenze casuali,seppure felici ,ma l’esito di un lungo cammino di studio e di ricerca cooperativa in cui sono confluiti più elementi, di riflessione teorica,di esperienza sul campo, di attenzione ai mutamenti sociali e culturali,di comparazione con gli analoghi processi in atto nell’Unione Europea,infine di attrazione per una scuola diversa, dove si fa cultura e non solo la si studia passivamente”. P.224-225
Nel 1999 il Ministero, su richiesta del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, istituisce un Gruppo di lavoro nazionale per elaborare un profilo formativo e gli assi culturali del nuovo indirizzo di Scienze sociali, il cui oggetto è la società complessa la cui chiave interpretativa viene identificata nel taglio storico-antropologico. Il documento che ne risulta discusso e approfondito negli Anni 2000 in Conferenze di servizio e in seminari in tutto il paese organizzati attorno a scuole-polo. Era questo un modello organizzativo che preludeva alla costituzione delle Reti. Nel 2004 nasce la Rete Passaggi che avrà un ruolo fondamentale nella costruzione del curricolo e nella formazione dei docenti. Di questa esperienza bella e fruttuosa parleranno Giacomo Camuri e Antonio Ronco, Giacomo sul curricolo e il suo rapporto con l’autonomia, Antonio sul ruolo strategico dello stage.
Dal 2004 al 2013 la Rete organizza convegni i cui titoli danno la misura delle problematiche che vengono affrontate.
Di essi Anna (con Clotilde) è l’anima che sostiene con costanza e sollecitudine le fatiche dei docenti e ne sostiene le scelte in modo dialettico.
Dice Anna nella conclusione dello scritto sopra citato:
“Al centro dell’attenzione sono state poste le risorse umane rappresentate dai docenti, dalle loro capacità progettuali e dalle buone pratiche che hanno cominciato a circolare on line e in presenza ,in occasione di micro-Seminari organizzati da alcuni Istituti opportunamente dislocati sul territorio nazionale
La rete di scuole pertanto ha messo in atto un modello nuovo di cooperazione professionale e di crescita individuale che ha continuato ad esistere e a produrre effetti positivi, anche quando il Ministero ha interrotto il flusso dei finanziamenti .
Nonostante che le prospettive per il futuro istituzionale del Liceo delle Scienze sociali siano ancora incerte, esso rappresenta un modello di scuola a misura degli studenti e dei docenti, di coloro cioè che costituiscono la forza e la vitalità di una comunità educativa, prima di tutto autonoma e responsabile delle proprie scelte, in grado di interagire con la società, ma anche di usare la ragionevolezza nell’azione didattica. Ed esso ha rappresentato anche un momento di intesa e di collaborazione tra centro e periferia ,tra Ministero e scuole che vorremmo rivedere presto operante”. Pp.226-227
Le cose sono andate in modo un po’ diverso, ma non è qui il caso di approfondire.
Qui vogliamo onorare una dedizione alla scuola di una persona che ha interpretato la sostanza del senso civile, la responsabilità del proprio compito, la passione per i temi della formazione e della cultura e una grande curiosità per gli altri, per gli insegnanti e per il loro sapere.
Ho conosciuto l’ispettrice Anna Sgherri durante il corso di formazione per presidi di prima nomina, ad Alghero, e da allora la sua presenza ha accompagnato tutto il mio percorso professionale. Non solo come sua collaboratrice nei tantissimi progetti che ha realizzato, ma anche come amica.
Al di là delle qualità umane che hanno accompagnato la sua professione, è il ricordo delle sue competenze che rimane indelebile.
Ha segnato con la sua presenza attenta, colta e perseverante un periodo importante e fecondo della storia della scuola italiana.
Conclusasi l’epoca delle sperimentazioni cosiddette selvagge, l’Amministrazione centrale aveva cercato di guidare un processo autonomo di riorganizzazione e moltiplicazione delle sperimentazioni, dettandone soltanto le linee generali e sostenendo il processo di formazione ed aggiornamento degli insegnanti o direttamente o attraverso le Associazioni disciplinari o attraverso le scuole stesse , investite del ruolo di Poli di aggiornamento didattico. Fino a quando è stato possibile farlo.
Sono stati anni straordinari, di grande fermento innovativo ed è sul terreno delle scuole che Anna Sgherri ha speso la sua intera attività professionale.
Era sua ferma convinzione che la scuola non abbia il compito dell’elaborazione teorica e non deve produrre materiali compiuti di tipo accademico, ma deve testimoniare la realizzazione delle “buone pratiche “ didattiche, i percorsi attraverso i quali realizza gli obiettivi educativi e formativi che programma.
Per questo il punto di forza del suo impegno di tanti anni è stata la fiducia nella professionalità dei docenti. La certezza che sia possibile sviluppare forme alte di professionalità a partire dalle competenze esistenti.
Fiducia non scontata e non banale perché quella dei docenti non appare come una professione. Non ci sono percorsi formativi e di carriera, il merito è irrilevante, non c’è valutazione dei risultati, né un sistema decisionale chiaro, esiste una falsa collegialità, senza responsabilità di controllo e di gestione.
L’insegnante veniva individuato come un professionista che apprende facendo e perciò:
sceglie, programma, organizza, valuta: all’interno di un contesto collaborativo, in un gioco di squadra che amplifica e valorizza le competenze, in un circuito continuo di riflessività esperta che restituisce alla professione dignità, responsabilità, bellezza.
Era certa, Anna, che le scuole avessero la possibilità di crescere autonomamente attraverso la riflessione sulla didattica e sull’immenso materiale grigio che veniva via via prodotto.
Raccogliere, censire, riannodare fili e parlare ad alta voce, doveva significare per gli insegnanti riprendere la progettualità educativa, ridiventare protagonisti di un cambiamento di cui oggi si sono impadronite altre agenzie formative, con la fermezza di chi, come professionista serio, è capace di riflettere sui dati informativi ed interpretarli, sa costruirsi forme di autocontrollo dell’azione professionale e di ascolto e di guida delle esigenze del territorio.
Ha così consegnato alle scuole un patrimonio di esperienze, di riflessioni, di modelli operativi, di procedure che ancora non ha esaurito la sua capacità di produrre innovazione.
Era la storia il suo settore specifico di competenza ed a rileggere oggi i documenti delle tantissime iniziative di cui è stata promotrice e coordinatrice, si rimane stupiti della straordinaria modernità dei temi affrontati che avevano sempre al centro la didattica e quindi gli alunni. Così Anna scriveva nel n. 5 della collana “Quaderni” del MPI “Dalla memoria al progetto”. Eravamo nel lontano 1994
“…. un reale processo di cambiamento dei contenuti, ma anche – e soprattutto - nelle metodologie di trasmissione del sapere (in senso lato) richiede un cambiamento nel ruolo e nelle funzioni dei docenti … ciò presuppone un’inversione di tendenza nel modo con cui è stato gestito l’aggiornamento negli ultimi venti anni, ponendo al centro della progettualità della formazione in servizio i docenti, le scuole, il territorio, inteso come sede in cui i bisogni formativi s’incontrano con le risorse a disposizione e con i servizi che presiedono al loro soddisfacimento.
Le condizioni essenziali, seppure non esaustive, per attivare e sostenere l’impegno dei docenti sono costituite dalla presenza di “materiali” che siano di supporto e guida all’attività didattica, dal funzionamento di un circuito che faciliti il confronto e la socializzazione delle esperienze e da figure o funzioni di assistenza che orientino il processo di autoformazione senza imposizioni di contenuto o di coordinamenti esterni...”
E questo della produzione di “ materiali” socializzabili era diventata una sfida che tutti avevamo accettato sottoponendoci al suo controllo ed al suo giudizio rigoroso. Era molto esigente, infatti. Aveva una visione sempre alta degli obiettivi, ma anche molto buon senso, una carica di umanità e di esperienza che le consentiva di stabilire realisticamente le mete da raggiungere.
Conosceva i limiti delle situazioni e delle persone, ma puntava sulle potenzialità, sull’entusiasmo conoscitivo che non l’abbandonava mai e che ha continuato a coltivare anche dopo la pensione con la sua attività di docente universitaria.
La collaborazione con Anna è stata per me motivo costante in tutti questi anni per sostenere con tutte le energie possibili i processi in campo, di cui, nella solitudine del singolo territorio, si possono smarrire le ragioni generali e perdere gli obiettivi, anche di breve periodo, perché le difficoltà ambientali e le inevitabili conflittualità, anche interne al Collegio dei docenti, tendono a risucchiarti nelle realtà parziali e negli interessi particolaristici.
E’ stata una guida sicura ed affidabile, riuscendo anche a sostenere le incertezze di linea apolitica che a volte hanno fatto ondeggiare l’azione della Direzione Generale.
Il contesto in cui si collocava l’impegno organizzativo e finanziario del M.P.I, in particolare la Direzione generale Classica Scientifica e Magistrale, come ho anticipato, era quello di un sostegno forte all’innovazione didattica, quale richiesto dalla diffusione su tutto il territorio nazionale delle sperimentazioni dei nuovi quadri orari e dei Programmi del Progetto “Brocca”, dal nome del sottosegretario che ne aveva curato lo studio e la stesura. Perciò le scuole italiane furono coinvolte in un serrato giro di aggiornamento nelle varie aree disciplinari, secondo il metodo dei seminari di aggiornamento e produzione.
Anche per l’area storica il M.P.I. mise in atto un’organizzazione complessa, che ha il suo riferimento più importante ed autorevole nella Direttiva Berlinguer del 1996.
Il rinnovamento della didattica della storia ed il ripensamento dei programmi del biennio e del triennio della scuola secondaria superiore, furono affidati all’elaborazione delle associazioni disciplinari ed al contributo delle scuole coordinate da alcune scuole “Polo”scelte nell’ambito nazionale.
La collaborazione del Liceo Scientifico Majorana di Latina, allora da me diretto, relativamente alla didattica della storia ha avuto inizio negli anni '90. Il Liceo era stato scelto come "Polo" per l'aggiornamento della didattica della storia, nell'ambito dei Piani Nazionali di Aggiornamento.
Sempre nel settore delle discipline storico-sociali, la scuola aveva accumulato anche una buona competenza nell’ambito della Valutazione poiché aveva partecipato all'elaborazione del test d'ingresso ed uscita dal biennio - progetto "Prometeo", in collaborazione con l'IRRSAE Marche .
L’intero impegno organizzativo dei tantissimi Seminari allora organizzati si è retto sull’ipotesi che il miglioramento della qualità dell’azione didattica dell’insegnante dell’area storica si realizzasse attraverso:
- una più precisa conoscenza delle finalità e degli obiettivi di apprendimento e di insegnamento della disciplina
- una riflessione critica sui programmi e sulla programmazione
- la conoscenza delle caratteristiche del lavoro didattico in rapporto al tempo ed alle dinamiche di apprendimento degli allievi
- la conoscenza ed il confronto delle esperienze condotte da altri insegnanti in situazioni analoghe alla propria.
Si è puntato in maniera fondamentale sulla professionalità dei corsisti, considerati essi stessi “esperti”….. non più l’aggiornamento per un gruppo di insegnanti, ma il lavoro di produzione degli insegnanti per la diffusione dell’innovazione… (Collana Quaderni M.P.I.n.5,1995)
Man mano che i corsi si moltiplicavano si rinsaldava l’ipotesi progettuale che si arricchiva di nuovi obiettivi, soprattutto per la soluzione dei problemi relativi alla circolazione dei materiali prodotti, che costituiva il cruccio costante di Anna.
Per chiarire meglio il senso dell’esperienza di formazione ed aggiornamento realizzata, si riportano le parole stesse di Anna, sempre nell’introduzioni al n. 5 della collana Quaderni del M.P.I.:
“L’impegno prodigato in questi anni dalla Direzione generale per l’Istruzione Classica, Scientifica e Magistrale … ha consentito di elaborare un’ipotesi di formazione in servizio tendente a moltiplicare ed estendere nel tempo gli effetti di ogni azione attraverso la circolazione dei materiali prodotti a questo specifico scopo.
… Il progetto di formazione che qui proponiamo si basa sulla convinzione che in futuro qualsiasi strategia mirata all’aggiornamento dovrà tener conto non solo dell’alto numero di persone a cui rivolgersi, ma anche dell’opportunità di considerare il docente non un semplice destinatario dell’azione, bensì il soggetto di un processo a cui partecipa attivamente e nel quale interviene sia in fase di progettazione che di costruzione del proprio percorso formativo. …
Il progetto prevede il ricorso ad un materiale di supporto che partendo da un “pacchetto” iniziale, si arricchisca di altri modelli didattici operativi e di strumenti utili all’azione quotidiana via via che le attività si estendono e si ramificano.
… è opportuno ipotizzare un modello organizzativo in cui le occasioni di incontro per la produzione di materiali, lo scambio di esperienze, la riflessione su nuove tecniche metodologico-didattiche, la valutazione di strumenti innovativi, anche tecnologici, e - in ultimo - l’approfondimento dei nuovi campi della ricerca storiografica, siano possibili in tempi ragionevoli e con un’adeguata assistenza tecnico-scientifica.
Tale modello presuppone un’integrazione di risorse e di competenze diverse, afferenti ad Enti ed a Soggetti, istituzionali e non, a vario titolo interessati ai problemi connessi all’insegnamento della storia nelle scuole superiori.”
Programmazione, modularità, costruzione di percorsi, selezione delle rilevanze, laboratorio di storia, costruzione di ipertesti, multimedialità e-learning sono state le operazioni metodologiche e tecniche che hanno arricchito le competenze professionali dei docenti facendoli uscire dalle routines che mortificano l’immaginazione e spengono l’entusiasmo.
Possiamo così riassumere in breve le attività svolte
• I corsi di formazione nazionali per il rinnovamento della didattica della storia e la pubblicazione degli atti (la collana Quaderni del Ministero della Pubblica Istruzione) e degli ipertesti (CD allegati)
- Dalla memoria al progetto: i corsi di formazione di Latina
- Progetto Le storie estreme del ‘900 corsi di formazione / aggiornamento ( Latina, Brescia ,Varese, Bari)
- Memoria e insegnamento della storia contemporanea, I luoghi della memoria,nell’ambito del potenziamento dello studio della storia del ‘900
- progetto interdirezionale, in collaborazione con IMSLI, Istituto Luce, Treccani, SIS- (Milano, Roma, Stresa)
• I corsi di formazione per
- L’attuazione dei Programmi Brocca
- I curriculum verticale di storia (Latina Ferrara )
- Per i tutor provinciali di Storia e la Riforma Berlinguer – (Palermo, Torino, Brescia,Pozzuoli, Brindisi, Latina, Catania)
• Pubblicazione del sito www.Aretusa.org, contenente i contenuti delle principali esperienze svolte, sito oggi dismesso ma rintracciabile.
• Rinnovamento della Didattica della storia attraverso le nuove tecnologie:
- Insegnare storia: CD multimediale in collaborazione con l’Università degli studi di Bologna e la direzione del prof. Ivo Mattozzi. Questo CD è stato distribuito a tutti gli ex Provveditorati agli studi per l’aggiornamento dei tutor di storia delle Commissioni provinciali
- Produzione di un Prototipo multimediale sulla base della documentazione dell’ISTITUTO LUCE (anno 98 – 99)
• Il progetto Sconfinando e la collaborazione con INDIRE per la formazione degli insegnanti neoassunti.
Quest’ultimo progetto è stato il più complesso ed ha richiesto un’organizzazione lunga e su più livelli ed è quello sul quale conviene riflettere più a lungo per le proiezioni che potrebbe avere sul presente.
Il pacchetto doveva contenere materiali formativi destinati ad un’ipotetica utilizzazione per l’autoaggiornamento attraverso l’e-learning, con preciso riferimento ad una piattaforma di formazione interattiva. Le finalità del lavoro da svolgere erano state così individuate:
e gli Obiettivi così descritti
Ed allora gli insegnanti si sono cimentati nella costruzioni di moduli e di percorsi, hanno costruito ipertesti, hanno collaborato con Università, Enti di ricerca, Associazioni storiche, Istituzioni … ed è sicuramente questa ricchezza e molteplicità di esperienze che ha consentito ad Anna Sgherri di collaborare con l’On Violante per l’organizzazione della Giornata della memoria e del gruppo di lavoro sulle Storie estreme del ‘900 nel quale è stato selezionato il gruppo più ristretto scelto per il viaggio a Jad Vashem.
La collaborazione con l’Indire ha consentito di
Poi c’è stato un lungo silenzio durante il quale Anna ha continuato a supportare il lavoro della “Città dei filosofi” e del costituendo Liceo delle scienze sociali.
Oggi c’è bisogno di una nuova scommessa politica che nutra l’immaginazione e sorregga l’azione.
Uscire dal guado, ricomporre i segmenti smarriti del presente, restituire senso all’azione.
Questo la scuola lo può realizzare e questa speranza è giustificata e rilanciata dall’esperienza di questo passato così lontano così vicino.
Maurizio Villani
Che cos’è la “Città” dei filosofi
La “Città dei filosofi è una delle più importanti iniziative pensate e realizzate da Anna Sgherri nel corso della sua attività di dirigente dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione, volta all’aggiornamento e alla formazione in servizio dei docenti di filosofia. Se si avvia una ricerca su Internet per sapere che cosa sia, digitando “Città dei filosofi” si trova la seguente definizione: La Città dei filosofi è il nome di un gruppo di progetto, composto da insegnanti di filosofia di scuola superiore, provenienti da tutta Italia. Formatosi per iniziativa della Direzione classica del Ministero della Pubblica Istruzione, si riunisce periodicamente, sotto il coordinamento dell’ispettrice Anna Sgherri, per riflettere sui processi di innovazione nella didattica della filosofia. Il gruppo ha prodotto materiali di supporto per l’autoaggiornamento degli insegnanti relativi alla programmazione didattica e all’analisi dei testi .
La definizione è corretta e coglie alcuni aspetti salienti dell’iniziativa: il lavoro di gruppo, la dimensione della ricerca sia disciplinare sia didattica, la produzione di materiali destinati all’aggiornamento degli insegnanti.
Anna Sgherri ha sempre sostenuto che la “buona scuola” (espressione divenuta di moda in questi tempi) la fanno i “buoni insegnanti”: docenti, nel nostro caso di filosofia, che devono essere innanzitutto ricercatori. La natura della loro ricerca è duplice: da un lato devono approfondire le conoscenze disciplinari (soprattutto attraverso il confronto con i testi dei grandi autori); dall’altro devono affinare le competenze didattiche, consapevoli che una cosa è la disciplina accademica e altra cosa è la filosofia insegnata. Il rapporto tra due entità comporta una mediazione che si traduce nella pratica quotidiana in aula in cui i contenuti culturali si misurano con i problemi della definizione degli obiettivi, dei metodi, delle verifiche che sostanziano il processo di insegnamento-apprendimento.
Cenni storici
I seminari ministeriali di formazioni della “Città” dei filosofi hanno avuto inizio nel 1994 con il primo incontro a Ferrara, al Liceo classico “Ariosto”, scuola polo per la filosofia. In realtà c’era stato un precedente, non ancora riconducibile al progetto della “Città” dei filosofi: si tratta del Corso di aggiornamento sui Programmi Brocca, che Anna Sgherri aveva organizzato a Santa Margherita ligure nel 1992 . Tutti i successivi Seminari si sono tenuti a Ferrara e sono documentati dalla pubblicazione degli Atti: sono complessivamente otto incontri che vanno dal 1994 al 2002. A questi va aggiunto il Seminario di Firenze (2009-2010) che, pur non rientrando più nel Progetto della “Città” dei filosofi, ne ha continuato fedelmente l’impostazione.
Cito alcuni dei temi trattati nel corso degli anni: I nuovi media nella didattica della filosofia, I filosofi antichi nel pensiero del Novecento, La scrittura filosofica, Il concetto di felicità nel pensiero filosofico, Moduli di filosofia nel biennio, La filosofia e i saperi scientifici. In bibliografia riporto tutte le pubblicazioni promosse dalla “Città” dei Filosofi
Il modello di formazione per docenti di filosofia in servizio
Sulla struttura dei seminari vorrei soffermarmi perché il merito maggiore del Progetto della “Città” dei filosofi consiste, a mio avviso, nell’aver progressivamente messo a punto un modello di formazione per docenti di filosofia in servizio. Si tratta di un modello rigoroso e funzionale che si articola in quattro fasi:
1. il seminario inizia con la trattazione del tema prescelto, fatta docenti universitari, cui si affianca un Discussant che imposta la mediazione didattica della relazione accademica (a questa fase normalmente sono dedicati i primi due giorni di attività);
2. il secondo momento vede la costituzione di gruppi di lavoro, formati da insegnanti liceali e coordinati da docenti dello staff del seminario. Il compito loro assegnato è quello di progettare percorsi, a partire dagli input teorici discussi in precedenza (è l’impegno dei tre giorni successivi). Il lavoro di progettazione mette al centro le operazioni di lettura e comprensione dei testi dei filosofi, opportunamente scelti e contestualizzati in relazione alle particolari esigenze della didattica;
3. nella terza fase i percorsi progettati sono sperimentati nelle classi dai docenti che li hanno messi a punto nel lavoro seminariale (la sperimentazione avviene nel corso dell’anno scolastico seguente);
4. l’ultima fase consiste nel ritorno, l’anno successivo, dei docenti sperimentatori, che sono chiamati a discutere e valutare quali risultati ha dato l’inserimento dei percorsi nella programmazione didattica delle loro classi. La verifica dei risultati è una fase necessaria per valutare la riuscita del progetto e per correggere e migliorare l’impostazione del modello di formazione. L’obiettivo è quello di estendere i progetti sperimentali a un crescente numero di docenti in modo da favorire dal basso un rinnovamento della didattica della filosofia.
Manifesto della “Città” dei Filosofi
Mi avvio alla conclusione richiamando un ultimo punto. Come ogni città-stato che si rispetti, anche la “Città” dei Filosofi si è data una Costituzione in cui i fondatori hanno sintetizzato i principi cui si deve ispirare l’insegnamento filosofico. È il Manifesto della “Città” dei Filosofi scritto nel maggio del 1997. Nonostante gli oltre 18 anni passati, esso conserva anche oggi una grande attualità. Qui di seguito è riportato integralmente. Qui mi limito a segnalare i passaggi più notevoli di quel documento, che si articola in cinque punti e tre conclusioni.
Nei cinque punti della prima parte si indicano “i tratti irrinunciabili dell'insegnamento filosofico”, così riassumibile: La filosofia vive nei testi, educa al confronto critico, si apre ai diversi saperi, è meta-riflessione e abita nella città. Nelle conclusioni finali si afferma, motivandola, la forte valenza formativa della filosofia, e per questo motivo se ne chiede l’insegnamento in tutti gli indirizzi della secondaria superiore; si sottolinea poi che chi la insegna deve avere competenze specifiche, acquisite attraverso un curriculum di studio adeguato.
[Ferrara, maggio 1997]
A conclusione dell'attività di riflessione sull'insegnamento della filosofia svolto nell'ambito dei seminari coordinati dal Ministero della Pubblica Istruzio¬ne negli anni 1992-97, i docenti richiamano l'attenzione sui tratti irrinunciabili dell'insegnamento filosofico.
1. La filosofia vive nei testi: porre il testo filosofico, nella sua storicità, al cen¬tro dell'insegnamento, consente di "dialogare" con i filosofi, di riconoscere la pluralità degli stili di pensiero e delle tradizioni concettuali, di individuare i nodi del dibattito filosofico, di cogliere i rapporti tra la pratica filosofica e la realtà storica.
2. La filosofia abitua al confronto critico: conoscenza e comprensione filosofica educano al riconoscimento del punto di vista dell'altro, della differenza.
3. La filosofia si apre ai diversi saperi: condivide problemi, mostra le connessioni, riflette sugli statuti, codifica i metodi, sottolinea valori e limiti. La presenza dell'insegnamento filosofico nel percorso formativo permette di comprendere appieno il significato delle discipline e il senso della cultura.
4. La filosofia è meta-riflessione: non si esaurisce nei suoi contenuti e contesti dichiarati perché si offre, nel contempo, come riflessione storico-critica e come attitudine problematica.
5. La filosofia abita nella città: in uno scenario caratterizzato da complessità e rapidi mutamenti, elabora ed offre chiavi di lettura della realtà e apre all'uso critico di nuovi linguaggi e strumenti.
Questa prospettiva conduce alle seguenti conclusioni:
- la filosofia ha una forte valenza formativa: sollecita un atteggiamento critico e problematico, orienta al metodo della ricerca, abitua ad argomentare con rigore, dispone a costruire relazioni tra i saperi, arricchisce la dimensione comunicativa nel processo di insegnamento-apprendimento;
- l'insegnamento della filosofia è un'opportunità che non può essere negata a nessuno studente e pertanto deve essere presente in tutti gli indirizzi;
- l'insegnamento della filosofia non è improvvisazione, ma richiede competenze specifiche, acquisite anche attraverso un curriculum di studio adeguato, capacità di progettazione e selezione, disponibilità al confronto con la situazione scolastica, attenzione alle possibilità offerte dai diversi strumenti, metodi, linguaggi.
Bibliografia dalle pubblicazioni
degli Atti dei Seminari di formazione per docenti di filosofia, coordinati Anna Sgherri
AA. VV., Il sapere filosofico e gli altri saperi - Atti del Seminario per docenti di filosofia, S. Margherita Ligure, 1992.
I Quaderni della “Città” dei Filosofi 1 ) AA. VV., La "città " dei filosofi. Seminario di formazione per Docenti, (Li¬ceo Classico Statale "L. Ariosto" Ferrara, ottobre 1994), Ferrara-Roma 1996 («Quaderno» n. 12), pp. 80. 2)
AA. VV., I nuovi media nella didattica della filosofia. Materiali prodotti dai Seminari di formazione per docenti (Ferrara, ottobre 1995 e maggio 1997), a cura di Rosanna Ansani, Laura Bolognini, Mario Pinotti, Maurizio Villani, Ferrara-Roma 1998 («Quaderno», n. 12/1), pp. 56, cui è allegato un ipertesto de La Città dei filosofi su CD intitolato Limiti e possibilità nella conoscenza in Kant curato da Mario Pinotti. 3)
AA. VV., I filosofi antichi nel pensiero del Novecento. Atti del corso re¬sidenziale di aggiornamento sulla didattica della filosofia (Ferrara, 17-22 no¬vembre 1997), a cura di Emidio Spinelli, Ferrara-Roma 1998 («Quaderno», n. 12/2), pp. 200. 4)
AA. VV., La scrittura filosofica. Generi letterari, destinatari, finalità e for¬me della scrittura filosofica. Atti del corso residenziale di aggiornamento sulla di¬dattica della filosofia (Ferrara, 16-21 novembre 1998), a cura di Fabio Minazzi, Ferrara-Roma 1999 («Quaderno», n. 12/3), pp. 320. 5)
AA. VV., Moduli per l'insegnamento della filosofia nel biennio del riordino dei cicli scolastici. Atti del corso residenziale di aggiornamento e materiali didattici (Fer¬rara. 1999-2000), a cura di L. Bolognini, M. Villani, Ferrara-Roma 2000 («Qua¬derno», n. 12/4), pp. 308. 6)
AA.VV., Il concetto di felicità nel pensiero filosofico. Atti del corso residenziae di aggiornamento sulla didattica della filosofia (Ferrara, 2000). a cura di Rosanna Ansani, Maurizio Villani, Ferrara-Roma 2001 («Quaderno», n. 12/5), pagg. 398. 7)
AA. VV., Filosofia e saperi scientifici. Seminario di formazione per docenti di filosofia (Ferrara, 2001), a cura di Rosanna Ansani, Laura Bolognini, Maurizio Villani, Ferrara-Roma 2003, («Quaderno», n. 12/6), pagg. 269. 8)
AA. VV, Nuovi moduli di filosofia nel biennio. Seminario ministeriale di formazione e materiali didattici (Fer¬rara. 1999-2000), a cura di L. Bolognini, M. Villani, Ferrara-Roma 2004 («Qua¬derno», n. 12/7), pp. 308.
AA.VV., La filosofia e i saperi scientifici. Seminario nazionale (Firenze, 2009-2010), a cura di G. Polizzi, D’Anna, Messina-Firenze 2011.
Sparta Tosti
Una testimonianza
Il mio contributo a questo convegno verterà sulla mia esperienza di corsista e di “insegnante ricercatore” nei progetti di formazione attivati da Anna Sgherri. Vorrei iniziare riportando una testimonianza su un laboratorio storico realizzato diversi anni fa in una classe del Liceo Majorana di Latina:
Nello scrivere qualche riga sull’esperienza del laboratorio storico sulla “grande trasformazione” mi sono improvvisamente reso conto di alcuni elementi che non avevo ovviamente focalizzato al tempo (ben 12 anni fa…). Innanzitutto che tale laboratorio aveva un carattere di eccezionalità (lo testimonia il solo fatto che oggi io scriva queste righe) e che dietro di esso si celava una figura silenziosa ma di fondamentale importanza. Non ricordo se ho conosciuto di persona la prof.ssa Anna Sgherri o meno. Benché non abbia chiara memoria della persona non dimentico quello che il laboratorio è stato e quello che ha significato per me. La sua influenza sul biennio finale della scuola secondaria superiore non può che confermare la straordinarietà della persona che ne è stata l’ideatrice e ne ha curato la diffusione.
Per rispondere al meglio alla domanda su cosa avesse significato per me lavorare a questo progetto mi sono preso del tempo per rileggere il testo finale. Nonostante il tempo passato e la mia attuale occupazione (ben distante dall’analisi storica) il testo oltre a trasmettermi molti ricordi mi ha ancora una volta incuriosito con i suoi molti spunti di riflessione. Penso di essere stato, insieme al mio compagno e amico Andrea Zerbinati, il più coinvolto nella ricerca. L’aver partecipato a ogni fase (raccolta delle testimonianze, controllo della storiografia locale e nazionale, elaborazione dei grafici, editing) mi pone in una posizione privilegiata per analizzare tale esperienza a 360°. Nella speranza di mantenere queste poche righe leggibili vorrei esprimere solo due ordini di considerazioni.
La prima considerazione è di natura tecnica. Un lavoro del genere trasmette in maniera organica la “metodologia” della ricerca storica. Partecipare ad un progetto del genere, se opportunamente guidati (e non “trainati” passivamente) porta a rielaborare in maniera personale e focalizzare in modo preciso e puntuale le fasi della ricerca storica. Tali concetti metodologici passano dall’essere astratti ad avere una loro realtà fattuale. Ovviamente questo comporta non solo la padronanza della metodologia ma anche il “rispetto” per il lavoro storiografico praticato da altri nonché la capacità di trovare le “falle” in un ragionamento storico/storiografico fatto da altri. Lo sviluppo di una capacità critica è, nella mia opinione, il risultato più significativo.
La seconda considerazione è di natura affettiva. Il laboratorio sulla grande trasformazione non verrà dimenticato da me (e penso da tutti i miei compagni) perché è stato un progetto che ha coinvolto il nostro territorio e le nostre famiglie. Ci ha aiutato a comprendere meglio aspetti della realtà che ci circonda ogni giorno e come questa realtà si è formata e plasmata nel tempo. La storia locale si è legata alla grande storia favorendo interconnessioni inaspettate e sorprendenti. Il piacere di ritrovare nelle grandi analisi storiche gli stessi elementi che si sono osservati sul territorio (magari attraverso la testimonianza di familiari) si unisce al piacere di ripercorrere gli stessi sentieri storiografici percorsi da altri autori prima di noi (a volte anticipandoli).
Tutto questo è il frutto dell’impegno degli insegnanti che hanno implementato questa tipologia di progetti nelle varie scuole (nel mio caso la Prof.ssa Tosti) e del coordinamento di professionisti straordinari come la prof.ssa Anna Sgherri. Se uno degli obiettivi più nobili dell’uomo è quello di cercare di costruire qualcosa che gli sopravviva penso che esso è stato raggiunto in questo caso.
Pavia 24 novembre 2015
Chandra Bortolotto
Le righe di Chandra Bortolotto, un ex alunno del Liceo Majorana di Latina ora medico radiologo,da sole, possono riassumere l’importanza rivestita da Anna Sgherri nel rinnovamento dell’insegnamento della Storia nella scuola italiana.
1. Il modello di formazione di Anna Sgherri
I corsi di formazione per docenti di Storia coordinati da Anna Sgherri avevano come scopo il rinnovamento della didattica negli istituti superiori in una disciplina che soffriva di mancanza di autonomia (ancella della Filosofia o dell’Italiano…) caratterizzata, nella maggioranza dei casi, da un “insegnamento trasmissivo e manualistico” (De Bernardi).
L’occasione dell’organizzazione di seminari di formazione in questa direzione è stata determinata, in una prima fase, dalla sperimentazione dei programmi Brocca e successivamente dal Decreto ministeriale Berlinguer del 4 novembre 1996 che ha introdotto delle modifiche nella ripartizione dei contenuti della disciplina in ogni ciclo scolastico per lasciare un più ampio spazio alla storia del Novecento. Decreto che “nonostante la modestia dei cambiamenti” ha focalizzato l’attenzione sulla questione dell’insegnamento della Storia “stimolando un dibattito che, pur nei toni non sempre pacati ha avuto il modo di rendere visibile il complesso dei problemi collegati all’insegnamento della Storia e, in conseguenza di ciò, di mettere in moto un processo di rinnovamento metodologico - didattico che, per la sua complessità, non aveva avuto precedenti significativi nella scuola italiana” .
I programmi Brocca hanno sottolineato la finalità formativa della disciplina, individuata nell’educazione degli studenti alla consapevolezza del metodo storico (c.f.r. indicazioni didattiche “programmi Brocca-Storia”) che, nell’interazione con i contenuti, viene considerato asse privilegiato della didattica; in tale direzione si evidenzia l’importanza del laboratorio storico come “luogo” privilegiato per una didattica veramente formativa della Storia, e il metodo della ricerca alla base dell’ area di progetto interdisciplinare, come elemento innovativo fondamentale della sperimentazione Brocca.
Nei progetti di formazione, di ricerca e sperimentazione Anna Sgherri ha sempre tenuto conto delle finalità formative della disciplina stando attenta, sin dalle prime esperienze, a creare un modello di formazione in servizio “efficace e generalizzabile “ nella convinzione che il vero protagonista della formazione fosse “lo stesso docente” considerato non come un semplice destinatario dell’azione bensì il soggetto di un processo nel quale partecipa attivamente e nel quale può intervenire sia nella fase di progettazione che di costruzione del percorso, visto anche nell’ottica della “formazione permanente”.
Il clima che Anna Sgherri riusciva a creare nei gruppi di lavoro inoltre ha favorito rapporti di amicizia alla base di un proficuo scambio di esperienze e contribuito a realizzare collaborazioni interessanti anche “a distanza”. Ricordo con piacere la collaborazione con Franco Cecotti dell’INSMLI di Trieste per mini laboratori su documenti del 1934 riguardanti Latina, da lui trovati nel corso di una ricerca in una scuola elementare di Gorizia e la realizzazione di un’area di progetto su “Il concetto di frontiera: luogo di scambio o limite invalicabile?” nella quale non solo ci ha fornito delle fonti bibliografiche ma si è prestato ad una lezione sul fronte orientale tenuta a Trieste nel corso di un viaggio d’istruzione legato a tale progetto, viaggio che ha visto anche la visita ai luoghi dell’esodo, Fiume compresa. Con altri colleghi c’è stato uno scambio di materiali didattici e di informazioni anche molto tempo dopo la conclusione dei progetti.
2. Le buone pratiche di Anna Sgherri:
a) il corso di formazione in servizio come laboratorio
Il laboratorio storico non è stato solo l’oggetto della riflessione e della pratica didattica ma ha avuto una applicazione concreta nei seminari di formazione e di “ricerca-azione”: alle relazioni di docenti universitari, scelti con cura nella dimensione del tema trattato, faceva seguito il lavoro di gruppo per la riflessione sulle “domande”, la definizione dei nodi problematici, il confronto sulle possibili soluzioni, sulle ipotesi didattiche, e sulle esperienze pregresse, fino alla messa a punto di materiali didattici per la diffusione nelle scuole. Il tutto finalizzato alla costruzione di un profilo professionale del docente di storia valido ed efficace.
In queste occasioni ho fatto esperienza di una “buona pratica” che teneva conto di elementi fondanti quali la progettualità, la ricerca, il superamento dei confini disciplinari, l’utilizzo delle fonti di varia natura, il rapporto con il territorio, l’attenzione alle nuove tecnologie, la socializzazione di quanto realizzato.
Ho avuto il privilegio di partecipare sia a corsi di formazione (vorrei sottolineare in particolare quello sui problemi dell’insegnamento della Storia nel biennio -Latina 1997-), sia a progetti di ricerca e sperimentazione, in cui si è realizzata in forma, direi ottimale, l’idea dell’ insegnante-ricercatore tanto cara alla nostra ispettrice. Su alcuni di questi vorrei soffermarmi perché hanno avuto importanti ricadute nella pratica didattica mia personale e della scuola in cui ho insegnato.
b) i progetti di ricerca e sperimentazione
1. Progetto pilota sull’introduzione di strumenti multimediali nell’insegnamento della Storia, Roma, ISTITUTO LUCE (1998)
Il progetto aveva come obiettivo la costruzione di un prototipo sperimentale di una banca dati sulla storia dell’Italia contemporanea. Più soggetti hanno lavorato alla sua realizzazione: per il Ministero della Pubblica Istruzione un gruppo di sei insegnanti coordinati dall’ispettrice Anna Sgherri; per l’Istituto LUCE due archivisti ricercatori coordinati dal direttore dell’Archivio Edoardo Ceccuti; per il centro MAAS (metodologie e applicazioni di Archivi storici) Gabriele D’Autilia e Marco Rendina. Si trattava di creare un primo esempio di una più ampia e complessa banca dati che il Ministero avrebbe messo a disposizione di tutte le scuole italiane per facilitare l’approccio degli studenti allo studio della storia del ‘900 e stimolarne l’interesse verso le fonti (tutte le fonti) e quindi “verso la ricerca e il metodo storico”.
I sei insegnanti sono stati divisi in due gruppi ed hanno lavorato insieme agli altri esperti, sulla base delle “direttive” sulla specificità del prodotto (praticamente un ipertesto da utilizzare attraverso la rete, con documenti di diverse tipologie, introdotti da brevi testi che ne avrebbero facilitato la lettura e la contestualizzazione). Tale Banca Dati avrebbe potuto essere utilizzata dall’insegnante per creare percorsi autonomi con la possibilità di implementarla proponendo altri documenti, segnalando fonti locali e contribuire così alla creazione di un grande archivio della storia locale e nazionale.
Sono stati progettati due percorsi: il primo riguarda il referendum del 2 giugno 1946, il secondo la ricostruzione economica del secondo dopoguerra (1945-1950). Nel giro di pochi mesi il prototipo ha visto la sua realizzazione tecnica a cura del Centro MAAS e, successivamente, è stato testato nelle scuole. Purtroppo l’iniziativa non ha avuto lo sviluppo preventivato, con rammarico della Sgherri e di tutti noi. L’esperienza, tuttavia, è stata formativa in quanto ha permesso di approfondire l’utilizzo delle fonti filmiche in correlazione con carte d’archivio, foto, manifesti, cartoline ecc.
2. Progetto Memoria e Insegnamento della storia contemporanea (Roma, Istituto Vittoria Colonna 1999 – 2002)
Il progetto, della durata di tre anni, ha coinvolto 20 insegnanti - ricercatori scelti fra i tutor di storia delle scuole di ogni ordine e grado di ogni parte d’Italia. Si è trattato di una ricerca e sperimentazione con il coordinamento scientifico di Anna Sgherri e la collaborazione di esperti dell’INSMLI e del LANDIS (che ne hanno seguito lo sviluppo in ben 5 seminari residenziali a Roma). La presenza di esperti nell’ambito della sociologia e della storia contemporanea, dell’uso delle fonti orali, filmiche, letterarie … ma anche di registi e di scrittori , il coinvolgimento degli insegnanti nella fase di progettazione e nella creazione dei materiali di supporto hanno dato una configurazione di eccezionalità all’esperienza che non è possibile, per ovvie ragioni di tempo, presentare nella sua complessità ed originalità.
L’ ipotesi fondante era quella di individuare la connessione tra memoria dei docenti e insegnamento della storia contemporanea affrontandone “il nodo problematico del rapporto tra storia, soggettività e memoria che vede l’insegnante non solo come elaboratore ed organizzatore dell’azione didattica, ma come soggetto e testimone di storia, che si confronta con l’esperienza e la soggettività di giovani generazioni, chiamate insieme a lui a costruire un progetto di conoscenza del passato” .
Il quadro di riferimento storico è stato individuato negli anni 50 -70 per le profonde trasformazioni avvenute in quel periodo nell’assetto sociale, politico e culturale dell’Italia, con l’ammodernamento dei consumi e degli stili di vita “agevolato dalla scolarizzazione e dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa” . La periodizzazione è stata scelta inoltre perché coincideva con gli anni della formazione culturale e professionale dei docenti allora in servizio e quindi funzionale ad una ricerca sugli intrecci tra memorie individuali, collettive e contesto storico.
Il lavoro è stato condotto in due direzioni:
una di tipo sociologico sul profilo dell’insegnante mediante interviste sia agli insegnanti ricercatori, raccolte con il registratore, e da questi ad altri (complessivamente 50) e mediante questionari somministrati nel corso del 3° seminario a 106 docenti tutor di storia provenienti da tutti i provveditorati d’ Italia. I risultati sono stati elaborati dalla sociologa Carmen Leccardi dell’Università Bicocca di Milano in collaborazione con Sonia Stefanizzi, dando origine a riflessioni interessanti unite a quelle sulla cesura della memoria generazionale verificatasi nel corso degli ultimi anni.
La seconda, attinente alla ricerca storica vera e propria, è stata condotta a partire da “esercizi di memoria” da parte dei ricercatori e la messa a punto degli ambiti dei laboratori da sperimentare in classe. Tutti i lavori di gruppo sono stati seguiti da esperti dell’INSMLI, del LANDIS, si sono avvalsi delle indicazioni di Giuliana Bertacchi sull’uso delle fonti orali e degli interventi di docenti universitari di Storia o di Sociologia(De Bernardi, Jedlowski, Lanaro, Crainz, D’Agostino, Cavalli) del regista Guido Chiesa e della scrittrice Rosetta Loy .
Si sono formati tre gruppi che hanno approfondito il contesto storico quale emergeva dall’intervento dei docenti universitari e dai dossier predisposti dagli esperti INSMLI e LANDIS, e lo hanno messo in relazione con quanto scaturiva dalle memorie soggettive dei componenti del gruppo. Si è poi proceduto alla progettazione del lavoro di sperimentazione in classe con l’individuazione dei percorsi sulla “grande trasformazione 1950-1970” basati su tre tematiche corrispondenti ai tre gruppi di lavoro : 1) Lavoro, 2) Città-campagna, 3) famiglia, con la messa a punto della procedura metodologica nell’elaborazione dell’attività in classe, a partire dal “presente” degli alunni.
Io ho fatto parte del gruppo Città/Campagna: al nostro ambito di indagine abbiamo dato il titolo “Dall’ultimo cavallo al Centro intermodale” , scaturito dagli esercizi di memoria del gruppo sulle trasformazioni sociali ed economiche di varie realtà d’Italia, quelle cioè dei territori da cui provenivamo (Savona, Trieste, Pozzuoli, Fasano e Latina).
I singoli componenti del gruppo hanno poi progettato e realizzato in classe i lavori di ricerca nella direzione di un confronto generazionale tra la percezione della città degli alunni e l’intreccio di più memorie “adulte” (familiari, extrafamiliari..) . I laboratori avrebbero trovato la loro conclusione nel confronto tra i dati emersi dalle testimonianze con quelli di altre fonti (fotografiche, filmiche, storiografiche).
I risultati dei laboratori realizzati con gli studenti sono stati presentati nell’ultimo seminario (23. 05. 2002) a cui hanno partecipato anche alcune delle classi coinvolte. Le sintesi di tali lavori sono inserite nella pubblicazione del MIUR citata.
3. Progetto di ricerca e sperimentazione“Sconfinando”: un modello di formazione integrata in rete (Latina, Liceo Majorana 2001-2005)
Il progetto è stato ideato e realizzato con la direzione scientifica dell’ispettrice Anna Sgherri, il coordinamento del D. S. del Liceo Majorana di Latina, prof.ssa Floriana Giancotti, e si è avvalso della collaborazione di più soggetti nella fase progettuale . Le finalità dell’iniziativa riguardavano la possibilità di migliorare la qualità dell’azione didattica degli insegnanti dell’area storico-filosofica, di diffondere nella pratica didattica l’uso degli strumenti multimediali, di sensibilizzare gli insegnanti alla pratica dell’aggiornamento a distanza e costruire dei criteri di orientamento per l’aggiornamento in rete per l’area storico-filosofica.
A tale scopo sono stati organizzati seminari e un gruppo di progettazione che ha denominato il progetto Sconfinando, per sottolineare appunto il superamento dei confini disciplinari, coinvolgendo altri 40 docenti-ricercatori che, lavorando “in presenza” e on line, hanno realizzato dei materiali utilizzabili per l’autoaggiornamento attraverso l’e-learning con preciso riferimento alla struttura di formazione interattiva fornita dall’INDIRE. Sono state identificate quattro aree di approfondimento corrispondenti a quattro gruppi di lavoro: 1) Etica e politica, uomini ed ambiente 2) Modernità e postmodernità 3) Le schiavitù antiche e moderne 4) Identità e differenze.
I gruppi hanno lavorato in una stretta integrazione tra elaborazione didattico-culturale, utilizzo costante del supporto telematico, produzione di materiali secondo lo stile della comunità di apprendimento in rete. Hanno cioè sperimentato una modalità di autoaggiornamento collaborativo supportato dalle tecnologie della comunicazione, sviluppando in tal modo pratiche utilizzabili nel contesto più ampio della formazione dei docenti in Italia.
Il materiale prodotto è stato consegnato al Ministero secondo una strutturazione già pronta per la rete ma, per suggerimento di Anna Sgherri accettato da tutti, non è stato “firmato” individualmente. Gli autori tuttavia si sono proposti come tutor per un utilizzo assistito in rete con momenti in presenza, nei corsi di formazione organizzati da INDIRE. La proposta però non è stata formalizzata e il “pacchetto” non ha avuto l’utilizzo preventivato.
Successivamente sempre nell’ ambito di “Sconfinando”, con la direzione scientifica di Anna Sgherri e il coordinamento on line di Sparta Tosti, si è costituito un gruppo di lavoro più ristretto, che ha collaborato fino al 2007 con INDIRE per la produzione di materiali di studio ed attività per la formazione a distanza di insegnanti di Storia, Filosofia ed Italiano in un’ottica interdisciplinare. Il progetto Sconfinando, considerato da Anna Sgherri “l’ultima frontiera dell’attività del Majorana perché ha tentato di superare le ultime barriere della scuola tradizionale, l’isolamento scolastico delle discipline e la rigida interazione fisica in classe” , testimonia, ancora una volta, l’apertura dell’ispettrice verso un concreto rinnovamento della scuola attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie.
4. Progetto “Un itinerario della memoria: educare attraverso i luoghi” (2002-2003, Roma Istituto Maria Montessori)
Il progetto di formazione e ricerca si è articolato in tre moduli “itineranti” (dicembre 2002: Roma; gennaio 2003: Ferrara Carpi Fossoli; aprile 2003: Trieste; novembre – dicembre 2003: seminario conclusivo a Fiuggi). Si è trattato di “un viaggio della memoria” per sollecitare i docenti a riflettere sulla complessità del nesso luogo-storia-memoria e a ridefinirne la connessione in una prospettiva didattica; si è svolto secondo il modello di formazione già illustrato: interventi di esperti, visite ai luoghi, laboratorio degli insegnanti ricercatori. Ricollegandosi alle attività di formazione sui “vari olocausti” del ‘900 o, come preferiva dire l’ispettrice Sgherri, sulle storie estreme avviate dal progetto I giovani e la memoria (voluto dal ministro Luigi Berlinguer nel 1998 in occasione del 60° anno anniversario della promulgazione delle leggi razziali in Italia) ha approfondito la possibilità di educare attraverso un itinerario della memoria.
Il viaggio “della memoria” ha coinvolto un gruppo che potremmo definire “stabile” di venti insegnanti delle scuole superiori di ogni parte d’Italia, al quale si sono uniti altri insegnanti provenienti dalle scuole dei vari luoghi che hanno costituito le tappe del percorso. Essi sono stati coinvolti nel lavoro di riflessione organizzato per gruppi, nella prospettiva della scoperta del “luogo come fonte storica ancora viva, come esperienza di formazione diretta, come filo rosso della continuità fra passato e presente” . L’indagine tuttavia non è stata rivolta solo ai luoghi della Shoah ma anche a quelli che hanno visto la violenza nazifascista (le Fosse Ardeatine e il carcere di via Tasso, ora Museo Storico della Liberazione a Roma) o i luoghi delle “memorie divise “ della zona della frontiera orientale.
Durante il percorso si sono formati tre gruppi di lavoro che hanno effettuato riflessioni, ricerche e proposte didattiche in merito a: “ Riflessioni teorico-concettuali” (gruppo n. 1),” Il Luogo della memoria ri-conosciuto” (gruppo n.2), “Dal luogo conosciuto al luogo ritrovato” (gruppo n.3) . Io ho fatto parte del gruppo n. 3 e presentato una proposta su “Memorie oltre la memoria di fondazione a Latina: Ebrei e Profughi”.
3. Le buone pratiche nella storia insegnata: l’esperienza del ” Majorana” di Latina
Gli input di Anna Sgherri hanno trovato un terreno favorevole nel Liceo scientifico sperimentale di Latina,”Ettore Majorana”, nato proprio con una vocazione all’innovazione presente in tutti gli ambiti disciplinari con un’attenzione particolare alla storia. Il Liceo, infatti, è stato “scuola polo” per le innovazioni didattiche nell’insegnamento della storia, organizzando corsi seminariali sia a livello nazionale sia provinciale. La sperimentazione del Liceo ha visto l’organizzazione di molti laboratori storici in orario curricolare ed extracurricolare. Per una “demo” delle attività ho ritenuto opportuno effettuare due scelte: una relativa al biennio del progetto autonomia scientifica - asse biologico-fisico-chimico - e una del triennio della sperimentazione Brocca scientifico-tecnologico:
a) Un laboratorio tra Storia e Scienze della Terra: Le tracce della presenza dell’uomo nel territorio pontino: dalle grotte alla città
La sperimentazione dell’Autonomia scientifica (con i caratteri della flessibilità, interdisciplinarità, territorialità, progettualità, modularità, l’introduzione delle compresenze e dell’insegnamento dei Linguaggi non Verbali e Multimediali) prevedeva, per il primo anno, delle attività di approfondimento pluridisciplinare modulate sulla curvatura di indirizzo. Il progetto deciso nell’ambito del “dipartimento d’indirizzo” è stato denominato “Indagando la natura” ed aveva come finalità l’acquisizione del “valore della tutela e della valorizzazione delle risorse del territorio” e “rafforzare l’identità personale attraverso la ricostruzione del passato del proprio ambiente” e come obiettivo l’acquisizione dei fondamenti della metodologia della ricerca e della capacità di integrare teoria e pratica attraverso attività laboratoriali. In questa direzione le attività del progetto in esame, realizzato nell’anno 2003-2004 dagli insegnanti di Storia e Scienze, si sono svolte in due moduli (uno da settembre a dicembre con un focus storico, l’altro da gennaio a marzo con un focus sulle Scienze della Terra), in orario aggiuntivo, il giovedì.
L’acquisizione dei fondamenti della metodologia della ricerca e della capacità di integrare teoria e pratica, considerato fondante dell’indirizzo biologico e fisico – chimico “Levi Montalcini”, ha puntato in entrambi i focus su una ricerca che prevedesse anche indagini di campo. Tali indagini si sono svolte con il supporto di un esperto paletnologo-archeologo (il dott. La Rosa) per i luoghi che hanno visto la presenza dell’homo heidelbergensis (sito di Quarto della Cinfonare) prima e poi dell’ uomo di Neandertal (Circeo e territorio pontino) e successivamente la nascita della città di Satricum. Ma anche le trasformazioni del paesaggio con lo studio della cartografia e l’indagine geologico morfologica del territorio sono state effettuate con la guida di un geologo (il dott. Perotto). Il progetto si è concluso con la creazione di un “dossier di ricerca” attraverso la rielaborazione degli appunti, la costruzione di schemi e/o schede di sintesi, dossier utile “a chi vuole iniziare una ricerca relativa alla preistoria nel territorio di Latina” . Ed, in effetti, è stato utilizzato dalla stessa classe, in terza, come base per un successivo lavoro guidato dalle stesse insegnanti Tosti e Malagola (la sperimentazione del Majorana prevedeva la verticalizzazione dell’insegnamento) in vista della partecipazione ad un concorso nazionale per la valorizzazione di siti archeologici, promosso dal comune di Perugia e dalla sovrintendenza ai beni culturali dell’Umbria nell’ambito della attività di “Archeofestival”. Il lavoro ha vinto la selezione per il Lazio.
C’è da aggiungere che l’attività ha avuto dei risvolti anche nello sviluppo delle abilità di scrittura (saper prendere appunti, rielaborarli..) e ha coinvolto anche un segmento di otto ore in compresenza Italiano-Linguaggi non verbali e multimediali per la costruzione di un fumetto sull’evoluzione dell’uomo a partire dal libro di Lewis “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene”.
Il progetto è stato selezionato per essere presentato e discusso, insieme ad altri, in un seminario nazionale a Fiuggi organizzato dal MIUR e dal GISCEL- SLI nell’ambito dei “laboratori di scrittura – scrivere in contesti disciplinari diversi”, alla presenza di insegnanti provenienti da ogni parte di Italia e del prof. Tullio De Mauro.
b) Laboratorio storico “Città/campagna e la grande trasformazione -il caso Latina-” È il laboratorio cui si riferisce la testimonianza dell’alunno Chandra Bortolotto ed è stato realizzato negli anni scolastici 2001- 2002 e 2002-03 dalla classe IV – V G dell’indirizzo Scientifico-Tecnologico “Brocca” del Liceo Majorana di Latina e si ricollega al progetto “Memoria e insegnamento della Storia contemporanea”, trattato in precedenza.
Concluso il "laboratorio adulto", infatti, i gruppi di lavoro degli insegnanti-ricercatori hanno individuato le possibili applicazioni didattiche nelle rispettive realtà scolastiche. Sono stati elaborati dei percorsi connotati da una pratica didattica attiva, capaci di rendere lo studente protagonista dell’esperienza; non solo, ma il tipo di approccio sperimentato dai docenti e le fasi della ricerca sono stati riproposti nei confronti degli allievi e delle allieve, nell'intenzione di produrre un duplice effetto: la consapevolezza nei giovani di essere "dentro la storia" e insieme il senso di una trasmissione che sia produzione condivisa di sapere tra generazioni differenti, nell’ottica del recupero della memoria generazionale.
La “Grande Trasformazione” è stata indagata mediante l’utilizzazione delle testimonianze orali (familiari ed extrafamiliari), fotografiche, letterarie e filmiche, messe a confronto con fonti della storiografia locale e nazionale per la ricostruzione del contesto sia a livello del territorio di appartenenza sia del contesto nazionale.
Si è partiti dalla percezione della città da parte degli alunni, quasi tutti figli o nipoti di migranti e, attraverso le memorie dei genitori, dei nonni e di alcuni testimoni , si sono ricostruiti i cambiamenti degli anni in esame, individuando dei marcatori della trasformazione in riferimento agli aspetti sociali, economici, (indicativo il confronto tra una fabbrica degli anni ’50 e un’industria multinazionale degli anni ’70) ed urbanistici (una fonte importante è stato un libro “bianco” di denuncia della speculazione edilizia). La ricerca si è avvalsa di alcuni saggi di storiografia locale per il confronto con i dati emersi dalle testimonianze orali, l’analisi di film nei quali si potevano individuare i caratteri della trasformazione (locale e nazionale). Diversi manuali scolastici per lo studio dello scenario nazionale e europeo hanno consentito di inserire la riflessione sul “caso Latina” in un contesto più ampio.
Una sintesi del Laboratorio esaminato è risultata prima classificata al Concorso su ricerche di storia locale, indetto dall’Amministrazione Provinciale per le scuole superiori nel 2003.
Concludo il mio intervento, riportando le parole di Anna Sgherri che in qualche modo si ricollegano alla testimonianza iniziale: le buone pratiche sono un buon presupposto per scrivere un nuovo e avvincente capitolo nella storia della scuola italiana. Perché dietro ogni iniziativa, ogni progetto, ogni ricerca, ogni avventura intellettuale, ci sono stati -e continuano ad esserci- docenti con un ampio orizzonte culturale che hanno voluto dare ai loro allievi il gusto della conoscenza e il suo valore per l’uomo, in ogni tempo e in ogni luogo.
Nel 1999, proprio il Ministro Berlinguer, costituì un Gruppo di lavoro nazionale con il compito di elaborare un documento contenente riflessioni in merito alle possibili indicazioni circa l’eventuale introduzione della filosofia in tutti i bienni della scuola secondaria superiore.
A seguire sono nati dei gruppi di ricerca ed io ho fatto parte del gruppo di ricerca dell’IRRE TOSCANA, gruppo coordinato da Anna.
Mi sono divertita, con il collega di filosofia Fausto Moriani, nel mettere a punto un modulo pluridisciplinare su Pitagora ed i pitagorici. Anna apprezzò molto il lavoro che a suo dire avrebbe permesso a tutti gli istituti, anche professionali, di affrontare l’“avventura intellettuale” di sperimentare moduli di filosofia.
Anna mirava a far sì che il lavoro svolto all’interno dei gruppi di ricerca, servisse a chiarire anche a studenti e famiglie, il ruolo della filosofia nella formazione della personalità.
Bene, chi ha avuto la fortuna di essere guidato da Anna nel Liceo delle Scienze Sociali, è diventato docente ricercatore e pertanto docente in continua formazione.
Ed oggi? Che tale esperienza è conclusa, cosa è previsto per la formazione dei docenti oggi? Docenti di filosofia e scienze umane?
Per parlare della formazione del docente di Filosofia e Scienze Umane oggi cedo la parola a
• Carla Guetti, Direzione Generale per gli Ordinamenti scolastici del Miur
• Luigi Mantuano, docente di Filosofia e Scienze Umane
• Maria Teresa Santacroce, docente di Filosofia e Scienze Umane
Racconto a epilogo aperto di Anna Sgherri
Si pubblica con l’autorizzazione dell’Autore per gentile concessione del LICEO “ARIOSTO” DI FERRARA
Ci vuole una biografia di spessore come quella di Anna Sgherri per leggere i segni dei tempi.
La sua stagione di lavoro ha conosciuto rilevanti processi di trasformazione dei quali si sono rese protagoniste le minoranze attive dei docenti e le scuole dell’innovazione. Per molti professionisti dell’istruzione la sua attività ha rappresentato il volto inedito di un’ Amministrazione scolastica che ha valutato criticamente il tradizionale centralismo burocratico per trasformarsi, non senza contraddizioni e nuove inerzie, in strumento di elaborazione partecipata delle politiche formative del paese.
Riflettere sul suo profilo professionale e raccontarne la trama complessa e coinvolgente richiede di non cadere in automatismi mentali e in trappole emotive che produrrebbero una sindrome da Antologia di Spoon River. Al contrario, analizzare il contributo di Anna Sgherri alle politiche del riformismo scolastico può diventare un utile esercizio di contrasto alla diffusa attitudine al pensare riduzionistico, quando si parla di scuola.
Se la consapevolezza che il futuro del paese comincia sui banchi di scuola diventa un indirizzo politico di governo, allora il tempo è maturo per tentare di realizzare disegni di trasformazione del sistema educativo. Accadeva negli anni Novanta, in un contesto che cercava di ridisegnare il rapporto tra istruzione e società e nel quale Anna Sgherri individuava le condizioni idonee per una presenza incisiva, in coerenza con la sua formazione politico-culturale. Perché Anna Sgherri ha creduto appassionatamente nella scuola pubblica. L’avverbio, trasformato in aggettivo, ha caratterizzato tutta la sua attività professionale. Appassionati sono stati i suoi interventi per valorizzare il ruolo delle scuole e sostenere il difficile mestiere degli insegnanti. Aveva un concetto alto di comunità scolastica, pensata come, sono parole sue, laboratorio di idee, centro di discussione e di confronto, sede di elaborazione di progetti innovativi che investano anche la realtà sociale in cui l’istituzione è radicata.
Non deve sorprendere che, su questi temi, si sia trovata anche in minoranza. Talvolta, in solitudine. E’ la condizione che accomuna i veri innovatori. In minoranza, ad esempio, rispetto ai suoi stessi colleghi, se interpreti della cultura degli adempimenti e delle procedure e se propensi a condurre gerarchicamente le relazioni scolastiche. Ma anche nei confronti di presidi che concepivano in termini leaderistici la nuova funzione di dirigente scolastico, mortificando, a suo parere, l’obiettivo della costruzione di un’ autorevole leadership educativa e trascurando l’esigenza di realizzare modelli di organizzazione scolastica a responsabilità condivisa. Infine, quando incontrava realtà scolastiche nelle quali il clima di lavoro tra i docenti, la cura degli apprendimenti, le relazioni con il territorio, non corrispondevano alla sua idea di scuola come capitale sociale e formativo.
La sua indole affrontava le difficoltà come avesse fatto proprio il detto segnare dove arriva l’ombra è come segnare dove arriva la luce. Un modo per dire: andiamo avanti noi che ci crediamo. Considerava naturale ascoltare, assentire, dissentire, non limitandosi a mormorare.
Certamente la determinazione con cui la classe politica guidava il cambiamento aveva legittimato le minoritarie posizioni degli innovatori presenti nelle scuole e contenuto la diffidenza o l’ostilità dei docenti più tradizionalisti. La maggiore agibilità politica semplificava ma non riduceva i compiti del gruppo di regia dei processi di cui faceva parte Anna Sgherri. Era tempo non più di sollevare i problemi, ma di porli. Era anche chiaro che, per realizzare il cambiamento, occorreva coinvolgere e convincere. Serviva evitare una malintesa difesa della tradizione culturale che, con le parole di Gustav Malher, andava interpretata come custodia del fuoco, non adorazione della cenere. Né si poteva sottovalutare che le politiche di innovazione avrebbero creato problemi alle scuole, perché è come chiedere ai marinai di riparare la nave mentre sono in navigazione. Ma la vera novità politica, la svolta radicale, consisteva nell’avvio del processo di decentramento del sistema di istruzione, con l’affermazione del nuovo paradigma dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. Pertanto dalla fine degli anni Ottanta al duemilauno si presentava al mondo della scuola l’occasione per svolgere un ruolo attivo nella trasformazione del sistema formativo. Naturalmente non poteva bastare la partecipazione senza aggettivi. Per garantire una discussione all’altezza dei difficili problemi da affrontare, faceva la differenza lo spessore delle idee che si confrontavano. Condizioni che non si sono sempre realizzate.
Per migliorare la qualità del lavoro in classe occorre promuovere buone politiche di aggiornamento del personale scolastico. Anche allora questa convinzione non mancava di sostenitori, nella classe politica come nell’Amministrazione. Tra loro Anna Sgherri che, per le sue riconosciute competenze, venne incaricata del coordinamento scientifico di tre aree di rilevanza culturale e curricolare come le scienze umane e sociali, la filosofia e la didattica della storia e del Novecento. Non erano certamente mancate in passato iniziative finalizzate all’aggiornamento del personale e all’innovazione metodologico-didattica. Si erano privilegiati, di fase in fase, i contenuti culturali, le metodologie, i modelli di organizzazione degli spazi educativi. Grande assente era un disegno complessivo delle politiche formative e il governo dei processi di innovazione per cui, le esperienze fatte dai docenti, finivano per essere episodiche e frammentarie. Forse per questo i risultati raggiunti erano stati piuttosto modesti. Non era ancora maturata la consapevolezza, molto presente in Anna Sgherri che, sono parole sue: Se il nodo strategico dell’innovazione è rappresentato dal docente, quale risorsa umana e professionale nella quale investire per dare impulso e guida al processo complessivo, anche la strategia dell’aggiornamento deve caratterizzarsi per un forte coinvolgimento del soggetto e per una sua attiva partecipazione alla progettazione del proprio itinerario di formazione. Per questo si era cominciato a promuovere il cambiamento inaugurando uno stile che accompagnava le persone, sosteneva i processi, valorizzava le istituzioni scolastiche. Il nuovo modello organizzativo delle reti territoriali delle scuole che iniziava ad avere una ragionevole ed efficace diffusione, era l’espressione di una strategia che, rispetto al passato, sollecitava il protagonismo delle scuole rendendole sempre più affidate a se stesse. Un modello a basso tasso di competizione, dialogante e cooperante. Per questa ragione sui cantieri di lavoro di Anna Sgherri avrebbe ben figurato il cartello Qui si abita l’autonomia.
Un vero e proprio laboratorio di ricerca culturale e didattica: questo sono stati i seminari dell’indirizzo di scienze sociali. Con dichiarate finalità istituzionali, perché in stretta relazione con le politiche ministeriali impegnate a porre temine al ciclo storico dell’istituto magistrale, e quindi a favorire l’elaborazione di un nuovo asse culturale per l’indirizzo di studi.
Scegliendo di agire sulla base delle ragioni del perché piuttosto che delle ragioni dell’altrimenti si è consumata un’autentica rottura epistemologica rispetto alla tradizione e all’egemonia gentiliane. Il risultato del coraggioso fuggire avanti è stato un percorso di scienze sociali tra i più avanzati indirizzi di studio dell’area liceale, insieme al grande merito di avere sprovincializzato il dibattito culturale. Con impostazione weberiana Anna Sgherri aveva intuito che per indurre al cambiamento era necessario creare un quadro interpretativo totalmente altro dal precedente. E importante è stato il contributo dei docenti delle scuole dell’innovazione, professionisti per i quali la declinazione di formazione era conoscere insieme.
Ma può piovere all’insù? Viene da pensarlo a valutare le conseguenze provocate dal mutamento di quadro politico avvenuto nel duemilauno, con la messa in discussione del lavoro fatto e l’affermarsi di un conservatorismo educatamente inespressivo che rimetteva in circolazione soluzioni passatiste. Vecchie monete che, col tempo, avevano perso di peso. Da allora l’innovazione è stata trattata con parole d’aria e di vento. C’erano tutte le condizioni perché prevalesse un clima di autocommiserazione e di ripiegamento su se stessi. Non fu così per Anna Sgherri. Nel suo caso non si trattava unicamente di correttezza istituzionale, valore peraltro da lei costantemente praticato. Era determinata nel pensare che i buoni insegnanti sono in grado di salvare anche le riforme scolastiche mediocri o cattive. Non solo. Le norme dell’autonomia avrebbero consentito di mettere in sicurezza i principali spazi didattici e organizzativi delle scuole. Ma, per come le scuole percepivano l’autonomia, le considerazioni di Anna Sgherri rappresentavano un generoso auspicio piuttosto che una realistica previsione. Infatti l’autonomia non era riuscita a farsi apprezzare dagli insegnanti e le sue norme non facevano parte della cassetta degli attrezzi scolastici. Principalmente, perché i suoi caratteri di vera e propria riforma istituzionale, avrebbero avuto bisogno di sostegno, soprattutto nella fase di prima realizzazione. In altri termini, l’autonomia si relaziona con la cultura della lunga durata. Così, dopo il duemilauno, in assenza di un contesto favorevole, ha vissuto come il fiore sul vulcano.
Tra i soggetti che hanno collaborato a lungo con Anna Sgherri, un ruolo attivo lo ha svolto il liceo Ariosto, in particolare perché sede dei seminari della Città dei filosofi. Per Anna Sgherri un’avventura intellettuale che si sviluppava nella città in cui l’Ariosto aveva cantato le audaci imprese. Ne è prova il Manifesto della Città dei filosofi del millenovecentonovantasette, che ha avuto larga diffusione e ampie adesioni. Un distillato di intelligenza professionale e di preparazione culturale che rivela lo sguardo sottile con cui si possono analizzare le dinamiche dell’apprendimento in quella disciplina. Scritto con un linguaggio essenziale e comunicativo come capita soltanto alle dichiarazioni che sono il risultato di una costante attività riflessiva e di un’attenzione alla qualità del lavoro d’aula. In controtendenza rispetto a certa produzione dello stesso periodo, anche d’autore, che, a leggerla, si rischiava un leggero effetto urticante. L’integrazione tra le competenze dell’insegnamento liceale e di quello accademico, ha caratterizzato interamente l’iniziativa. Un itinerario che ha approfondito temi classici del dibattito filosofico e della didattica della filosofia, ma ha percorso anche piste di ricerca piuttosto originali. Ad esempio l’insegnamento della filosofia al biennio della secondaria, i nuovi media nella didattica della filosofia, una filosofia per i bambini della scuola primaria. Gli appuntamenti annuali della Città dei filosofi hanno rappresentato un riferimento per una comunità di docenti liceali che vedeva, nei seminari ferraresi, un’occasione di crescita professionale. Favorita dal singolare contesto che Anna Sgherri aveva saputo far maturare. In ogni caso la costruzione di percorsi didattici da verificare nel lavoro in classe, costituiva per tutti i partecipanti uno spazio di confronto non abituale per la qualità culturale raggiunta. Era forte in Anna Sgherri la convinzione che bisognasse lasciare ogni traccia possibile, perché ciò che non è testimoniato e trasmesso, è destinato a non entrare nella memoria collettiva. Per questa ragione l’intero percorso dei seminari è stato documentato con molta cura nella collana dei Quaderni del Ministero dell’Istruzione. Un racconto della capacità delle scuole di produrre cultura e appassionarsi alla ricerca. La forte attenzione alla curvatura didattica degli approfondimenti culturali era un obiettivo così organico ai seminari ferraresi da determinarne la stessa modalità organizzativa e di conduzione. E’ risultato sempre problematico accertare il grado di trasferibilità e di ricaduta dei prodotti della Città dei filosofi. La via empirica dell’ascolto e dell’osservazione ha tuttavia restituito apprezzamenti e condivisioni, a cominciare dalle richieste di partecipazione, sempre superiori alle disponibilità, e dalla volontà di molte scuole di essere inserite nel circuito di distribuzione dei materiali dei seminari. Tutte ragioni che dovrebbero concorrere a evitare che i quaderni della Città dei filosofi finiscano semplicemente per essere conservati in un certo numero di silenziose biblioteche scolastiche.
Non vi è alcun dubbio che Anna Sgherri abbia sempre curato ogni sua iniziativa senza risparmiare energie intellettuali e fisiche, pertanto non è sensato chiedersi in quali di esse si riconoscesse maggiormente. Tuttavia non si è persa la memoria di lei che percorreva gli spazi del liceo Ariosto in cui si svolgevano i lavori dei seminari ferraresi con l’espressione di chi sente sul proprio viso le carezze dell’aria di casa.
C’è un modo semplice e certo per suscitare un clima eracliteo di aspro scontro dialettico: avviare una discussione sull’insegnamento della storia. Quella contemporanea garantisce maggiore vivacità di interventi. Capita perché la storia ha un’inevitabile dimensione pubblica e un discutibile uso politico, infatti il suo apprendimento non riguarda solo i contenuti e i metodi di una disciplina, ma concorre alla formazione civile e valoriale dei cittadini. Puntualmente nel millenovecentonovantasei si sollevarono critiche feroci per l’entrata in vigore del decreto ministeriale sul Novecento. Nessun argomento contrario venne risparmiato, incluso il danno alla storia dei secoli precedenti, per avere riservato al Novecento l’anno finale del ciclo secondario. In un acceso contesto in cui un colpo di lingua rompe le ossa, anche ad Anna Sgherri era toccato fare la sua parte per non ridurre tutto ad un confuso brusio del pensiero. Era soprattutto il mondo extrascolastico che voleva dire qualcosa. Ma, aveva qualcosa da dire? Prevaleva l’ idea che bastasse essersi seduti per qualche anno sui banchi di scuola per sentirsi autorizzati ad intervenire sulle strategie dell’apprendimento storico. In alternativa, avere frequentato il liceo, ma quarant’anni prima. Un paese di tante piccole volpi e di pochi porcospini. Un contesto che si prestava alle considerazioni di Archiloco, secondo il quale la volpe sa molte piccole cose, ma il porcospino sa una cosa grande. Ciò nonostante le iniziative per innovare metodi e contenuti della storia, hanno avuto uno sviluppo incalzante. A partire dal millenovecentonovantatre Anna Sgherri aveva avviato i seminari nazionali di Latina che affrontavano le metodologie della ricerca storica e della didattica. Nel millenovecentonovantasei, con il progetto ministeriale La storia del Novecento, nascevano in ogni provincia le commissioni di storia, con il compito di sostenere l’innovazione didattica nei territori, anche attraverso la formazione di nuove figure tutoriali. Contemporaneamente si sperimentavano, a partire dagli istituti professionali, i nuovi programmi di storia. In sostanza, la stagione dell’insegnabilità del Novecento era cominciata. E, tra le rilevanze storiche di quel secolo, la Shoah. Anna Sgherri si occupava del tema dal millenovecentonovantotto, in un gruppo di coordinamento nazionale ed era stata designata membro di un’organizzazione internazionale con sede a Stoccolma. In questa città si svolgeva nel duemila il Forum sull’Olocausto con la partecipazione di quarantasette paesi da tutto il mondo. Lei rappresentava l’Italia come capo-delegazione. Non passava un anno e il Parlamento italiano istituiva, con legge, la giornata della Memoria, che era stato il principale impegno sottoscritto dalla delegazione italiana nel documento finale di Stoccolma. Per risultati di questa rilevanza, molti avrebbero vantato crediti. Non Anna Sgherri che non mutava l’orizzonte del proprio lavoro. C’era bisogno di dimostrare ai molti perplessi che anche lo studio di un secolo così caratterizzato da storie estreme come il Novecento, liberato dai condizionamenti ideologici e analizzato attraverso differenti interpretazioni storiografiche, avrebbe fatto bene agli studenti. Soprattutto occorreva proseguire nella formazione-aggiornamento degli insegnanti, ai quali chiedeva disponibilità e preparazione specifica, perché il modello della ricerca, portato fino alle soglie della didattica quotidiana, presuppone un coerente stile professionale che si costruisce nel tempo con la fatica e lo studio anche personale. Obiettivi ambiziosi che andavano sostenuti intrecciando, come si fece, approfondimento, ricerca, didattica. Anna Sgherri non si limitava a sollecitare stili collaborativi, ma li praticava con convinzione. Ogni suo seminario era, in effetti, una mobilitazione di soggetti culturali, professionali, istituzionali, ciascuno dei quali portatore di contributi spesso originali, ma, soprattutto, di interpretazioni plurali. Tutto questo andava a rafforzare l’autonomia didattica di ciascun docente e contribuiva a superare la didattica tradizionale, dalla lezione frontale al libro di testo.
Ma i tempi della scuola non coincidevano con i tempi della politica. Era questo il cono d’ombra sui cantieri dell’innovazione, la cui consapevolezza minava l’ottimismo della volontà di Anna Sgherri. Platone aveva usato parole severe nei confronti dei processi di crescita guidati dall’impazienza, tanto da paragonare i loro esiti alla sterilità dei giardini delle feste di Adone. Era per i tempi naturali. Quelli che non sono stati concessi alle scuole. Che, sollecitate in un primo tempo a dare rapida attuazione ai cambiamenti, in seguito si sentivano imporre di fermarsi e di tornare indietro. Turbolenze politiche come fattore strutturale, dal momento che, anche in un tempo post-ideologico, un’idea di scuola è pur sempre un’idea di società. Così i cambiamenti del mondo scolastico non procedono mai per salti, secondo la teoria delle catastrofi, ma a spirale. Si va avanti, poi indietro, poi avanti, dove l’andare avanti è tornare indietro per andare avanti. Un ritmo analogo a quello delle processioni spagnole. Vito Mancuso sostiene che le istituzioni e i sistemi, così come capita agli individui, contengono più di quello che appare in superficie. C’è da credergli, perché nella scuola è molto il sommerso positivo, che Anna Sgherri interpretava come fase ciclica del fenomeno carsico educativo. Per questo invitava a guardare i processi di innovazione con lo sguardo rivolto all’orizzonte. Ma a cosa serve darsi un orizzonte dal momento che, anche ad inseguirlo, non lo si raggiunge mai? A continuare a camminare. Perché quello che conta-aveva scritto-è avere chiara la direzione e credere nella forza delle idee. Camminare dunque spinti dalla curiosità intellettuale come forza allegra, che è sempre alla ricerca di nuovi inizi per affermare i valori del territorio educativo.
Il sentire laico di Anna Sgherri non poteva cedere alla tentazione di considerare del tutto consolidati gli esiti della sua attività. E forse solo la sensibilità poetica può immaginare che quando la neve sarà sciolta, si andrà in cerca del sentiero tracciato. Ma, e se? E se la stagione dei cantieri dell’innovazione non si fosse interrotta? E se l’autonomia didattica avesse avuto tempo a disposizione? E se le minoranze attive dei docenti non fossero state delegittimate? E se….. Vero. La storia non si può fare con il se, tuttavia un racconto virtuale e parallelo può diventare un esercizio utile a valutare il presente e, magari, a capire che le persone di quella stagione cercavano, come fanno i poeti, di cantare il domani. Oggi sembra essere tornata l’attenzione sui temi dell’istruzione. Giusto in tempo per ricordarsi che non si costruisce senza punti di riferimento. D’altra parte circola una storia singolare: si racconta che, proprio mentre crescevano le difficoltà per le scuole, accadeva qualcosa di simile a ciò che succede poco prima della grande migrazione. Gli uccelli migratori si cercano i compagni di viaggio per condividere e superare meglio le difficoltà della rotta. E si sa che le storie più belle sono proprio quelle a epilogo aperto.
Ferrara 27 ottobre 2015
Giancarlo Mori
preside del liceo Ariosto dal 1990 al 2006
There are two Ripenings – one – of sight
Whose forces Spheric wind
Until the Velvet product
Drop spicy to the ground –
A homelier maturing –
A Process in the Bur –
That Theeth of Frost alone disclose
In far October Air 1[E. Dickinson, “Poesie”, Ed. Bompiani 1978]
Non faccia meraviglia ritrovare Anna Sgherri nelle riflessioni sulla scuola che riescono ancora ad intrigare, al di là di un pomeriggio speciale nella quale la sua figura è ricordata: la memoria di questa giornata è solo la parte visibile di una memoria che, con sfumature anche molto diverse, penso può durare ancora nel lavoro di quanti l’hanno conosciuta e frequentata, ritrovandola nell’azione quotidiana, anche e soprattutto quando certe esperienze sono terminate e molte idee e intenzioni sono sembrate smarrite o diventate irriconoscibili.
A me è successo proprio questo. La forma particolare della mia formazione come docente ha infatti trovato un senso solo alla fine del mio lavoro, come sistemazione di una serie di presentimenti e decisioni parziali, che non avevano trovato una loro “cornice” in un’immagine unitaria.
Mi ero laureato (e piuttosto bene) in filosofia della religione. La mia prospettiva chissà dove sarebbe arrivata se non fosse stato per uno shock educativo del tutto inaspettato: fare il “moniteur” su base CEMEA nei campeggi per i figli dei dipendenti ENI e poi ITALSIDER (nella Sila Grande, nell’anno del colera) e infine OLIVETTI. Sopravvissuto, sono stato insegnante di Lettere nelle Scuole medie della periferia romana e poi di Psicologia/Pedagogia in un I.P.S.A.C.I romano (sempre di periferia, con le famigerate Tor Sapienza, Torre Angela, Tor Bella Monaca): pensavo di trovare un equilibrio tra “pratica selvaggia” con i bambini di Bagnoli, Taranto, Torre Annunziata e studi “classici” da integrare con psicologia. Sono approdato, infine, in un Liceo romano delle Scienze Sociali, all’inizio della sperimentazione a livello nazionale.
Il mio incontro con Anna Sgherri è avvenuto all’inizio di questa elaborazione finale, a partire da un convegno a Montecatini.
Indicherò solo alcuni fra i tratti finali decisivi della mia formazione che devo a lei, traendoli dalle ultime pagine della mia biografia professionale:
Le “buone pratiche”, condivise nella prospettiva sostenuta da Anna Sgherri, mi hanno portato direttamente nel cuore di quello che ritengo essere stato uno degli aspetti più avveniristici e illuminati nel tentativo di riforma della scuola: portare le scienze sociali all’interno dei Licei e delle Scuole superiori, istituendo un “asse” antropologico che comprendesse l’Antropologia culturale, la Sociologia, la Psicologia sociale (dette “Scienze sociali”) accanto al Diritto, all’Economia, alle Scienze dell’educazione, alla Storia e alla Filosofia. Si potrebbe obiettare che anche discipline come Diritto, Economia e Storia – e soprattutto Pedagogia – sono esempi di scienze sociali a pieno titolo e si potrebbe esser certi dell’assenso generale. Senza quelle “scienze sociali” lì, però, tutte le altre (con la sola eccezione di Pedagogia che ha improntato di sé l’asse magistrale) non avrebbero avuto la forza di orientare l’asse culturale dei curricula scolastici nei quali erano inserite.
Quella del “Liceo delle Scienze sociali” è stata dunque un’operazione culturale originale di altissimo livello, che cercava di corrispondere ad un bisogno consapevolmente avvertito nella cultura italiana degli ultimi quarant’anni almeno: avvertito e recepito anche istituzionalmente con la sperimentazione, benché la sintesi finale avrebbe disatteso le prospettive che sembravano essersi aperte. Si era aperto un po’ troppo …? Temo proprio di sì, anche se questo forse Anna Sgherri non l’avrebbe trovato così importante: i processi culturali non dipendono dal narcisismo dei desiderî. Chi però l’ha provata, quell’apertura, non poteva che restarne catturato quali che fossero stati i risultati immediati. Di questo non posso che essere grato a chi attorno ad Anna – in una grande diversità di approcci e punti di vista – ha fatto girare un po’ di varietà e complessità come tratti imprescindibili di un orizzonte scolastico.
Come si fa ad essere lenti nella scuola se i programmi sembrano fatti apposta per mettere fretta al docente con ansia da prestazione, per insinuare sospetto nel dirigente efficientista e perplessità nelle famiglie, per coltivare irresponsabilità nello studente cinicamente opportunista?
Una bella quadratura del cerchio: era una re-visione di ciò che debba intendersi con “programma”, “programmazione”, “progettazione”, una revisione del modo individualista di lavorare, così funzionale alla condizione di isolamento, di cui spesso il docente di scuola superiore poi si lamenta. Anna non suggeriva altro se non questo: andare piano con gli studenti. Cosa intendeva di preciso?
Credo sia un bene che non l’abbia mai detto esplicitamente, per quel che ne so. Nello sforzo di interpretare quel suo dire mi è sembrato che volesse intendere l’adeguamento dell’insegnamento ai ritmi dell’apprendimento, soprattutto se esso riguarda quella generale modalità del pensare che abbiamo imparato a chiamare “complessità”. Altre volte mi è sembrato che intendesse privilegiare la lettura e la discussione dei testi classici della filosofia e delle scienze sociali, insomma un soffermarsi ad arricchire l’ “enciclopedia” dello studente: tutte cose che richiedono lentezze imprevedibili e autodisciplina, così insolite in un’organizzazione del sistema formativo che sembra svolgersi all’insegna di “efficienza = rapidità = rassicurazione”. Mi è sembrato, infine, che volesse invitare a riflettere sulla necessità d’insegnare le modalità di pensiero che sono sottese nelle diverse discipline e perseguite dalle diverse figure intellettuali, nei metodi e nei problemi ad esse correlativi: come pensa e come lavora uno storico? un sociologo? un antropologo? un giurista? un matematico? un critico letterario? Lo studente lo scopre automaticamente studiando la singola “materia”? O non lo scopre, piuttosto, “cogliendo sul fatto” il lavoro intellettuale sul campo e, nello stesso tempo, andandone a scovare le ragioni anche nelle pagine degli argomenti e degli autori di riferimento? Prima di confrontarmi con Anna Sgherri e il suo gruppo avrei optato per la prima risposta.
Anche qui una novità inaudita per un Liceo: l’introduzione, nel curriculum, dell’osservazione diretta della realtà come “costruzione sociale”, fatta di bisogni, processi decisionali, lavoro d’interpretazione multidisciplinare, a contatto con un territorio che materializza le conoscenze possibili, le rende reali. Nessuna “alternanza scuola-lavoro”: piuttosto un’elaborazione curricolare attorno ad un’esperienza osservativa direttamente gestita insieme – dagli studenti e dagli adulti vygotzkianamente “di sostegno” – per andare oltre il semplice “guardare”, verso l’ “osservare”. Il “lavoro” dello studente di un Liceo delle Scienze sociali sarebbe stato propedeutico al “lavoro intellettuale come professione”.
Ci si metta nei panni di un docente la cui competenza si estende fra le pagine di libri e registri e la cui immagine di sé è quella dell’intellettuale “tutto mente”: la sua pratica è tutta nella esecuzione di un programma che, quando non promana dall’alto di una circolare o di un’ordinanza, viene comunque dall’alto dell’indice degli argomenti del manuale che ha scelto. E costituisce un tradimento, sempre, perfino del sacrosanto principio gentiliano, “il metodo è il maestro”. Ci si metta nei panni di un docente che si sente “aggiornato” perché è capace di fare riferimenti alla vita di tutti i giorni attraverso (quando gli va bene) le analogie che può intuire trattando certi argomenti o autori molto attuali. Non dovrebbe essere difficile vestirsi: sono panni che abbiamo indossato un po’ tutti. Ebbene, quell’opera di “riferimenti a …” era ed è sempre qualcosa di astratto, qualcosa che parte da un libro e dentro un libro ritorna, dopo esser passato per la mente didattico-centrica del docente.
Ci si metta nei panni di un docente liceale: come è vestito ordinariamente? L’immagine prevalente è quella di un guardaroba che ha tuttora molto in comune con quello dell’impiegato, con un certo ammodernamento del “look” dovuto alla rivoluzione sessantottesca dei jeans e delle scarpe di gomma. Ma quanti di quei docenti liceali sarebbero disposti a sporcare del “lavoro sul campo” quei vestiti ordinarî, quelle borse, quelle cravatte, quelle sciarpe, quelle scarpe con i tacchi, quelle camicie, quelle giacche?
Ecco. Anna mi ha chiesto questo: di “risciacquare le idee nel Tevere e nell’Aniene”, come nel Garigliano, nel Po, nel Mincio, nel Fiora, nel Tirso, nel Pescara, nell’Adige, nell’Arno. Non era un’opzione manzoniana, era un’operazione – semplice nella sua concezione, complessa nella sua attuazione e nelle sue conseguenze – di meticciamento curricolare di didattica (un bisogno del docente) e bisogni “altri”.
Anna mi ha chiesto di mettere alla prova le idee e i metodi “pulitini” dell’agire didattico individuale, provando a scendere per le strade con i “miei” studenti (che quelle strade sanno a volte – ma non sempre – meglio di me e che spesso ignoriamo entrambi…), uscendo dalla scuola-presepio verso la scuola-società. E di tornare con i vestiti mentali sgualciti, per l’impatto con una realtà non più guardata solo con occhio “puro”, con apollineo e imperiale distacco. Sporchi della polvere del dubbio, della sorpresa, della difficoltà a “costruire” una comprensione che non fosse solo la conclusione logica di un ragionamento “page to page”.
Anna Sgherri mi ha chiesto di rendere complesso il mio lavoro di docente, senza fare del termine “complessità” l’ultimo velo patetico e retorico dell’imperiale vestito scolastico …
Paolo Cinque
I modi sono due del maturare –
Uno è visibile
E la sua forza rotea come sfera,
Finché il frutto vellutato
A terra cade, carico d’aromi –L’altro, più intimo
È tormento del mallo –
Solo i denti del gelo
Lo disserrano nell’aria
Dell’ultimo ottobre.[trad. di G. Errante, Bompiani 1978]