Rosetta Zan – 30 marzo 2007
(intervento non revisionato dall'autore)
Viene presentato del materiale visivo:
La mia relazione sarà di didattica, cercherò di proporre delle riflessioni calate nel contesto scolastico. Il titolo della relazione è il mito dell’errore come indicatore di difficoltà. Il ruolo dell’errore a scuola.
Comincio con un prologo, tratto da “L’insegnamento come attività sovversiva” un testo molto attuale, prendo una parte di questo brano dove attraverso tipologie di medici si presentano diverse tipologie di insegnanti. C’è il primario che ha chiamato i suoi collaboratori che iniziano a relazionare, ascolta i più anziani e poi si rivolge al più giovane che confessa di essere stato sfortunato perché ci sono tre pazienti morti. Dovremmo parlarne, cosa ne dice? E di cosa sono morti? Non lo so, comunque avevo dato loro buone dosi di penicillina. Bene, risponde il primario, il sistema tradizionale della cura valida per se stessa? Non esattamente capo, ho pensato che li avrebbe fatti stare meglio, stavano male e so che la penicillina fa stare meglio, quindi gliel’ho data. Bene, penso che lei abbia fatto bene. Sì, ma i morti, capo? Oh! Quelli figlio mio, cattivi pazienti! E non c’è niente da fare quando ci si trova davanti a dei cattivi pazienti!
La provocazione è evidente, la metafora della medicina è molto usata nella didattica della matematica, anche con dei limiti, ma ha dei punti di forza, perché la scena ci colpisce e ci sembra ovvio in quel contesto, che la cura si adatti al paziente e non viceversa.
Però questa metafora suggerisce anche che una possibile causa dell’insuccesso possa essere una diagnosi errata di fronte a una cura ottima. Questa diagnosi errata è dovuta a errata interpretazione dei sintomi, ma ancora prima a un livello di osservazione parziale o inadeguato.
La metafora della medicina ci aiuta ad analizzare il problema delle difficoltà a scuola, è interessante sapere qual è l’approccio tradizionale alle difficoltà, come funzione per eventualmente mettersi in discussione, proprio poggiandosi sulla nostra metafora della medicina. In particolare sull’importanza di quei processi di osservazione e di interpretazione che precedono l’intervento.
In effetti nell’intervento tradizionale, la difficoltà è la malattia, il recupero che l’insegnante mette in atto, cioè l’azione didattica di tutti i giorni è la cura; i sintomi sono essenzialmente gli errori, l’intervento attacca questi sintomi, si correggono gli errori e non solo, si rispiegano gli argomenti, spesso si mostra come si deve fare e si mette in guardia da errori tipici. In definitiva l’intervento è quasi automatico per l’insegnante, potremmo sintetizzare che quello che si cerca di fare è ottenere la risposta corretta.
Qual è l’osservazione, è basata sull’errore, ma più in generale sui processi risolutivi inadeguati, perché se un ragazzo non risponde, ha fatto errori, c’è una mancanza di risposte corrette che è un segnale forte per l’insegnante che c’è qualcosa che non va. Qui abbiamo una dimensione temporale, l’intervento dell’insegnante si cala nello stesso contesto, questo sembra lì per lì abbastanza naturale, ma in fondo sarà quello che cercherò di mettere in discussione.
Ora questo passaggio dall’osservazione all’intervento è effettivamente veloce, quasi automatico per noi insegnanti, come se in mezzo non ci fosse niente, ma non è così, in mezzo c’è l’interpretazione, anche se non ne siamo consapevoli, ma interpretazioni diverse ci condurrebbero a interventi diversi. Allora qual è l’interpretazione sottintesa al tipo di intervento descritto, ad esempio si rispiegano gli argomenti, ma quali? Quelli che l’insegnante in quanto esperto ritiene necessari e/o sufficienti; l’interpretazione sottintesa è che se lo studente sbaglia o non dà risposte corrette è perché non ha conoscenze o abilità necessarie, non sa abbastanza di quel contesto.
Il quadro dell’intervento tradizionale a scuola, vede in realtà un processo di intervento solo come ultima parte di un processo di osservazione e di interpretazione che insisto rimane per lo più implicito. Cominciamo dal processo di osservazione, allora il ruolo dell’errore è tale che c’è identificazione tra errore e difficoltà, come dire che la presenza di errore è segnale di difficoltà, ma è vero anche che l’assenza di errore non garantisce che difficoltà non ci siano. Popper, lo voglio citare, sostiene che evitare errori è un ideale meschino, cioè porsi quest’obiettivo come ideale è meschino.
Se non osiamo affrontare problemi così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà sviluppo della conoscenza, in effetti è dalle nostre teorie più ardite incluse quelle che sono erronee che noi impariamo di più, nessuno può evitare di fare errori, la cosa più grande è imparare da essi. Se noi facciamo domande troppo facili, minimizziamo e non ci sarà sviluppo. Quindi la presenza di errori è inevitabili, e l’assenza garantisce davvero che tutto va bene? e qui mi viene in mente Gardner in Educare e comprendere, che parla del compromesso delle risposte corrette, cioè ci si accontenta del compromesso delle risposte accettate come corrette, così facciamo finta che se hai risposto bene hai capito, in tempi brevi conviene a tutti e due.
Le prove cosiddette oggettive: in alcune interviste si evidenziano diversi gruppi di allievi, quelli che hanno dato risposte corrette e sanno motivare il perché, quelli che insomma hanno capito.
Quelli che hanno dato risposte corrette ma dimostrano una scarsa comprensione di quello che hanno fatto, ma anche quelli che hanno dato risposte sbagliate, ma dimostrano di aver capito.
Ora la cosa di per sé non sarebbe grave, tutte le volte che si misura qualcosa ci sono degli errori, il problema è l’entità dell’errore. In questa ricerca più della metà degli allievi appartiene agli ultimi due gruppi.
Quindi questa identificazione tra errore e difficoltà viene messa in crisi, sia che la presenza di errore sia sintomo di difficoltà, sia che l’assenza di errore garantisca che tutto vada bene. A proposito dell’errore, come possa essere risorsa didattica a scuola, riferisco di una ricercatrice italo americana Raffaella Borasi che ha dedicato a ciò diversi articoli, lei contesta la metafora della medicina della difficoltà, propone nuove metafore per l’errore che sono indicative. Parte dalla metafora del perdersi in una città. Configura tre diversi scenari, il primo sono in una città, devo andare a un appuntamento importante, devo essere lì, mi perdo e naturalmente vivo questo fatto in senso negativo, come un ostacolo che non ha niente di positivo neanche dal punto di vista emozionale.
Secondo scenario, sempre perdersi in una città, ma in un contesto diverso, mi sono trasferita da poco in una nuova città, sto tornando dal lavoro e mi perdo, non c’è più la frenesia, la fretta del primo scenario, può essere un’occasione per imparare a muovermi, ci vedo qualcosa di positivo.
Ancora diversa la situazione se invece mi perdo in una città dove sono turista, se mi perdo lì niente di male, anzi proprio perdendomi riesco a trovare delle vie, dei posti che nella guida non erano indicate.
Questa metafora applicata all’errore stia ad indicare che anche a scuola l’errore può essere vissuto in modi totalmente diverse, può dare sensazioni diverse, con diverse esperienze di apprendimento e in modo collegato tra pensiero ed emozione può essere collegato a emozioni molto diverse, di scoperta piuttosto che di frustrazione o di rabbia.
Suggerisce due modi tipici di vivere l’errore, ad esempio l’errore tipico: sommando due frazioni, spesso viene fatto di sommare i numeratori e sommare i denominatori, diventa il punto iniziale di un percorso di apprendimento. Le domande che si possono fare, quando succede? in quali casi e perché? e così via… ritornando a noi, tutto questo mette in crisi l’approccio usuale alle difficoltà, già a livello di osservazione, ma andando avanti sulla riflessione dell’intervento di recupero tradizionale, volevo soffermarmi sull’ultimo aspetto in modo pragmatico, cioè al di là delle critiche sull’identificazione errore/difficoltà, la critica che io muovo non è di tipo ideologico, mi pongo la domanda: questo intervento, così come è descritto, funziona?
Perché se fosse saremmo tutti contenti. In realtà questo intervento funziona con gli allievi bravi, cioè con quelli che non ne hanno bisogno,ma per coloro a cui è dedicato, questo intervento è fallimentare: correggo gli errori, rispiego, faccio vedere come si fa, ma in genere non funziona. La mia ipotesi è legata a un’osservazione sull’errore che pretende di essere oggettiva, ma a mio parere non può esserlo e che ignora completamente la complessità del processo di recupero, inoltre è un intervento locale, circoscritto al contesto errore/fallimento, e è discutibile addirittura anche la scelta degli argomenti, che l’insegnante in quanto esperto, ritiene sufficienti per produrre una risposta corretta.
Per l’oggettività che in matematica è sentita molto, l’errore come indicatore oggettivo, ora dire che l’errore è oggettivo è un conto, ma dire che è un indicatore oggettivo di difficoltà è una cosa diversa. Se mi si dice di fronte a un compito quel ragazzo ha sbagliato quella cosa lì, ma io dico in quale contesto è stato commesso l’errore, se è stato commesso in una verifica chi è che ha costruito la verifica? Chi ha deciso le domande, gli obiettivi,cosa c’è di oggettivo nei vincoli che si impongono agli allievi? Il tempo, il numero degli esercizi, la calcolatrice sì o no, queste scelte stanno a monte degli errori degli allievi e mettono in crisi l’idea che l’errore sia effettivamente oggettivo.
Inoltre quando si passa dall’osservazione dell’errore all’intervento di recupero non è che qualsiasi errore io intervengo, in realtà nel passaggio dall’osservazione al recupero l’insegnante valuta la gravità dell’errore. Ho fatto più volte l’esperienza di far valutare gli errori agli insegnanti, chiedendo sempre qual è il più grave o il meno grave, con una scelta ben fatta, una decina di errori, tutte le volte riesco che a trovare che un errore è considerato contemporaneamente il più grave di tutti e il meno grave di tutti. La cosa interessante è che quando gli insegnanti argomentano, le loro argomentazioni sembrano assolutamente legittime, ma quello che viene fuori è che queste valutazioni poggiano su valori diversi, per esempio il ragazzo che usa male le parentesi viene considerato poco grave perché è solo questione di linguaggio o molto grave perché non lo padroneggia. O ancora il comportamento è poco grave perché non ha studiato, molto grave per lo stesso motivo. Molto più spesso accade che valutazioni diverse da parte degli insegnanti corrispondono a interpretazioni diverse. Per sfatare ancora una volta il mito dell’oggettività dell’errore, mi voglio soffermare sull’idea che l’osservazione standard basata sull’errore ignora la complessità del processo di recupero, a scuola abbiamo come minimo l’insegnante e l’allievo, ma in realtà abbiamo molte altre cose e più allievi, comunque nel recupero accade che l’insegnante vuole e fa di tutto affinchè l’allievo modifichi il proprio comportamento, questo cambiamento è il recupero. Ovviamente è l’allievo che deve modificare il comportamento, è un piccolo particolare, ma fa la differenza, conseguenza naturale di questa complessità è un’osservazione che scivola dall’errore a quelli che io chiamo i comportamenti fallimentari. Devo definire cos’è un problema e per farlo prendo una definizione di Duncker, il problema sorge quando un essere vivente ha una meta ma non sa come raggiungerla, questo distingue il problema dall’esercizio e suggerisce il fatto emozionale che se non si ha una meta, uno scopo un obiettivo, una situazione non può essere problema. Nell’apprendimento della matematica, ma non solo, si possono riconoscere diversi tipi di problemi, interni alla disciplina, un problema di geometria, un’equazione di terzo grado, ma anche problemi esterni alla disciplina, prendere una sufficienza a un compito, fare bene un’interrogazione, una stessa situazione può far nascere in individui diversi o anche nello stesso individuo, diversi obiettivi e quindi diversi problemi, ma anche nessun obiettivo e quindi nessun problema, cosa voglio dire in contesto scolastico, che lì la maggioranza dei problemi sono eteroposti, cioè è l’insegnante o il libro di testo che consegna il problema all’allievo. Uno stesso compito può quindi richiamare obiettivi diversi nell’insegnante che lo sta dando e nell’allievo che lo riceve, ci sono ricercatori che dicono che un problema di matematica diventa nel momento in cui lo passo agli studenti, un problema più di natura sociale, dimostrare al professore che ho capito, prendere la sufficienza, riuscire a ottenere il motorino o l’uscita per stasera, quindi la situazione sembra la stessa, ma gli obiettivi si sono trasformati nel passaggio. Un bambina alla domanda, cosa ti fa venire in mente la parola problema, risponde, mi fa venire in mente il problema di una storiella corta dove finita la storia, bisogna risolverla e quando non riesco a concentrarmi sul problema, capisco: ecco perché lo hanno chiamato problema. Nel caso della scuola, non è intrinseco alla scuola, i problemi si possono far nascere, se i problemi sono posti da altri, abbiamo più soggetti che hanno diversi obiettivi, qui serve la definizione di successo/fallimento. Se il soggetto non raggiunge la meta possiamo parlare di fallimento, non globale, morale, ma per quel soggetto rispetto a quella meta. Anche questa è una definizione soggettiva, non legata alla situazione, ma a quella persona particolare.
Se un ragazzo voleva prendere otto alla verifica e prende sette, lì c’è un fallimento, ma se voleva prendere la sufficienza e prende sei, per quel ragazzo si tratta di un successo, questo per sottolineare il fatto che in questa ottica non ha senso definire se non lo rapporto all’obiettivo posto dal soggetto. E allora ci siamo quasi, perché possiamo parlare di comportamenti fallimentari come di comportamenti che portano al fallimento, dopo ciascuno di noi è tentato a cercare i comportamenti responsabili del fallimento.
Gli esempi sono le attribuzioni di fallimento ben studiate in psicologia, ho preso l’insufficienza al compito perché era difficile, la professoressa ce l’ha con me, perché non me l’hanno passato, perché mi sentivo male. Tra tutti questi c’è quello che posso modificare, perché sono io che l’ho attivato. Ma nella scuola è l’insegnante che riconosce il fallimento e individua i comportamenti fallimentari di un altro soggetto che è l’allievo. L’insegnante vuole che l’allievo modifichi il suo comportamento fallimentare, di un fallimento riconosciuto dall’insegnante. In questa alternanza le cose si complicano, perché è l’allievo che deve modificare il suo comportamento. Se l’allievo si è posto altri obiettivi o non se ne è posto nessuno, non necessariamente condivide il fallimento e se non lo riconosce per quali motivi dovrebbe cambiare il comportamento. Esempio se un insegnante ha un obiettivo interno alla matematica, mentre l’allievo si pone un obiettivo esterno alla matematica, siamo nel caso esposto prima. Se l’allievo voleva dare la risposta giusta, prendere un buon vuoto, non riconoscerà mai di aver sbagliato, se ad esempio il risultato torna, ma il procedimento è sbagliato, per l’insegnante ci sono degli errori, per lo studente no, perché l’obiettivo è stato raggiunto. L’errore c’è ma non si è trasformato nello studenti in un fallimento, quindi non cambierà il proprio comportamento. Inoltre i comportamenti fallimentari non è detto che siano condivisi, ma l’allievo vorrà cambiare quei comportamenti che lui stesso riconosce come fallimentari.
Se l’allievo ha copiato male da un compagno bravo e non ha avuto la sufficienza, l’insegnante dirà che non ha studiato, lui saprà che non ha saputo copiare, quindi non deve studiare di più, ma imparare a copiare.
Nelle risposte a caso, frequenti in matematica, l’errore per l’allievo è aver dato quella risposta e non un’altra, per l’insegnante sta nell’aver risposto a caso.
Implicazioni di tutto questo stanno nel riconoscere la difficoltà intrinseca al recupero, cioè che ci sono soggetti diversi e l’importanza fondamentale è che questi soggetti condividano obiettivi, che l’insegnante abbia chiari almeno i suoi obiettivi, di esplicitarli e di conoscere gli obiettivi alternativi dei propri allievi. Sul discorso del locale/circoscritto riporta il fatto che l’intervento dell’insegnante sia in genere nello stesso contesto in cui si è verificato l’errore rimanda al problema dell’interpretazione dell’errore, di solito noi diciamo che si sbaglia perché non si sa abbastanza di quel contesto, a mio parere ha poco senso dire è giusto o sbagliato, riprendendo la metafora della medicina, non mi interessa che la cura sia giusta o sbagliata, mi interessa di guarire.
L’interpretazione non è giusta o sbagliata, ma è un’ipotesi di lavoro per l’insegnante, necessaria, non si può non interpretare se si vogliono dare indicazioni didattiche. Come ipotesi di lavoro è molto importante sapere che si sta interpretando e non osservando, perchè se non funziona si può tornare indietro e con un’osservazione più mirata costruire un’interpretazione alternativa con interventi alternativi.
Quindi bisogna avere un repertorio di possibili interpretazioni, molto spesso invece le interpretazioni si limitano a dire: non ha studiato, non ha capito, non è capace; non si va al di là di ciò. Di interpretazioni possibili ce ne sono tante e sono all’interno del quadro che ha tracciato Nicoletta Lanciano nel suo intervento sull’apprendimento come attività costruttiva in cui l’allievo è cosciente e interprete dell’esperienza, persona attiva che partecipa alla costruzione della propria conoscenza.
Voglio fare un esempio che mi piace particolarmente, ed è la differenza tra pensiero logico e pensiero narrativo, questa ci riporta all’idea di differenti razionalità, differenti modi di affrontare la realtà. Riprendo le parole di Bruner: il pensiero logico-scientifico si occupa di categorizzare la realtà, di ricercare cause di ordine generale applicando argomentazioni dimostrative, però questo pensiero appare inadeguato a interpretare fatti umani, a mettere in relazione azioni/intenzioni, desideri, convinzioni e sentimenti e a coglierne il significato. L’interpretazione dei fatti umani è invece resa praticabile da un tipo differente di pensiero che caratterizza una differente modalità di approccio al mondo, appunto il pensiero narrativo. Questi due tipi di pensiero sono irriducibili, ma complementari e mi sembra che un contesto in cui la presenza di questi due tipi di pensiero ci permetta di spiegare i comportamenti degli allievi, sia quello dell’attività di risoluzione di problemi, non solo nella scuola elementare, ma anche nella scuola media e superiore. Farò un esempio per la scuola elementare, nell’ottica dell’interesse che può avere anche per gli studenti il comportamento dei bambini. Il problema in genere ha un contesto poi c’è una domanda, noi diamo il problema perché secondo noi quello sviluppa il pensiero logico, però a tutti i livelli il contesto è molto ricco, ha riferimenti al vissuto familiare, in altre parole la ricostruzione della situazione è permessa dal pensiero narrativo che poi sosterrà il pensiero logico, questo è quello che vorremmo succedesse, per ricostruire la situazione. Questo è un problema dato per riconoscere l’intuizione probabilistica nei bambini di seconda terza elementare: ogni volta che va a trovare i nipotini, la nonna porta un sacchetto di caramelle di frutta, chiede loro di prenderle senza guardarle, oggi ci sono 3 caramelle al gusto di arancia e 2 al gusto di limone, se Matteo prende le caramelle per primo è più facile che gli capiti quale gusto e perché? Siccome era stato per verificare le intuizioni probabilistiche, i ricercatori stabilivano che chi rispondeva sbagliato non le possedeva. Rispondere sbagliato qui vuol dire, magari rispondere esattamente alla prima, ma dare un’argomentazione non logica alla seconda. Quindi un bambino che risponde all’arancia, perché se la prendeva al limone ne rimaneva una sola, questa viene considerata un errore e un segnale di mancanza di intuizione.
Secondo me non si tratta di errore perché in questo caso c’è una pessima formulazione del testo, che spinge è vero verso un pensiero narrativo, ma lo fa talmente tanto che spinge i bambini a completare una storia. Mi viene in mente il libro di Eco, Se passeggiate nei boschi narrativi, e mi viene da dire che questi bambini si perdono nei boschi narrativi, e così si offusca il pensiero logico che si vorrebbe attivare e può essere che per trovare un finale adeguato dal punto di vista narrativo, si mettano in atto processi molto più elaborati di quelli necessari per produrre la risposta esatta. Voglio però sottolineare una mia convinzione, per non essere fraintesa, il pensiero narrativo può sostenere fortemente ed è del tutto necessario nella soluzione dei problemi di tipo logico, ma bisogna stare molto attenti alla formulazione del testo del problema. Così capita che problemi totalmente assurdi vengano recuperi solo dal pensiero narrativo, là dove il pensiero logico non ce la farebbe. Ad esempio: avrete forse sentito parlare del problema assurdo dell’età del capitano, un problema famoso che ha dato tanto da mangiare ai ricercatori, cioè su una barca ci sono 20 montoni, 4 capre, 2 pecore, quanti anni ha il capitano? Dato alle scuole elementari, la maggior parte dei bambini risponde scegliendo tra le operazioni quelle che portano a un risultato plausibile. È stato provato da un insegnante che non ricordando il testo esattamente lo prova in modo un po’ diverso, in un prato ci sono 20 pecore, 7 capre, 2 cani, quanti anni ha il pastore? Questi i risultati: tra 16 bambini 14 fanno 20+7+2 e rispondono il pastore ha 29 anni; un bambino afferma che non si può rispondere per mancanza dati, e un altro risponde che ha fatto un ragionamento particolare, se il pastore ha due cani per così poche bestie, uno dei due cani forse gli serve perché non vedente, quindi deduco che abbia sui settant’anni. Qui è il discorso inverso, è il discorso narrativo che ce la fa dove quello logico è vinto e rende dignità a una domanda che non l’avrebbe assolutamente.
Sono alla fine, ricordo l’importanza di un repertorio di interpretazioni possibili ed è cruciale la collaborazione dei nostri studenti, perché sono loro che ci possono dire su quello che sta succedendo, importante quindi sviluppare attività metacognitive e è cruciale stabilire una buona comunicazione e per noi insegnanti è importante imparare a far domande di cui non conosciamo la risposta. Ma domande del tipo come hai ragionato? cosa stai pensando? di queste non conosciamo la risposta.
Ho iniziato con un prologo e finisco con un epilogo ottimistico, quando il primario si rivolge all’ultimo dottore chiedendo dei suoi pazienti per ottenere la risposta che sono in via di guarigione, senza aver dato la penicillina e scoprendo per uno che i dolori alle gambe derivavano dalle scarpe correttive, mentre la diagnosi iniziale era stata amputazione. Quando il primario chiede i valori delle analisi che hanno fatto capire il problema, il medico risponde di non averne avuto bisogno, è bastato guardarlo camminare. Mi dica dell’altro paziente, bene quello è stato dimesso, ho trovato la causa dell’allergia, voi dicevate che era di causa alimentare proponendo il digiuno assoluto, invece, allora chiede il primario, quale macchinario ha usato, lei non finisce di stupirmi, mi dica chi le ha dato tutte quelle informazioni… a dir la verità, risponde tranquillo il medico, non ho usato grandi macchinari e le informazioni me le ha date lui, ma come è possibile? Come ha fatto, esordisce il primario, e come gliele avrebbe date? Semplice, risponde il medico, quando gliele ho chieste!
Rosetta Zan