LA DIVERSITA' FRA SCIENZA E SOCIETA'
Marcello Buiatti – 30 marzo 2007
(intervento non revisionato dall'autore)
La presentazione ppt della relazione (clicca su "Full" per vedere a tutto schermo):
Io vi parlerò dell’evoluzione di alcuni concetti della biologia, che sono importanti per la vita di tutti i giorni e in particolare per la nostra vita con gli altri, per il nostro comportamento.
Mi sono dato il titolo biologia, società e ambiente, perché la biologia come tutte le scienze è fatta da persone che non sono isolate in una cupola di vetro ma stanno con gli altri e influenzano e sono influenzati, stanno in un contesto. Noi biologi studiamo la vita e gli esseri umani sono vivi.
Comincio con le origini, l’umanità come la conosciamo ora viene da sessanta settanta mila anni fa, siamo tutti partiti dall’Africa, e abbiamo cominciato verso i 40 mila anni fa a diventare artisti, nel senso che vedo degli oggetti intorno a me, elaboro questa immagine e la cambio e poi proietto l’immagine mia, non l’oggetto su materia esterna, che è l’inizio della progettazione.
Il progetto è vivo, ma poi se produco ad esempio un computer, questo poi è morto, cioè non può più cambiare dopo che è stato nel mio cervello. Questo è simile al dipingere o allo scolpire e solo noi essere umani siamo capaci di fare questo in modo non stereotipo, cioè che non si tramanda di generazione in generazione.
Noi abbiamo avuto diverse capacità adattive, la capacità di astrazione, abbiamo modificato l’ambiente secondo il progetto inventandoci nuove strategie di adattamento. Poi abbiamo inventato lo scambio di oggetti e poi abbiamo inventato ahimè! la moneta e lo scambio virtuale, e questo rischia di diventare molto pericoloso perché non usiamo più la moneta per lo scambio, ma lo scambio in quanto tale.
La mia scienza, la genetica comincia nella seconda metà dell’800 in piena rivoluzione industriale, in piena crescita dell’utopia meccanica, sotto sta il concetto che il mondo sia costruito e smontabile a pezzi. Questo concetto ha influenzato molto la mia disciplina fino a poco tempo fa. La biologia influenza l’ambiente con le tecnologie, ma di più con i concetti sulla vita. I vantaggi e i pericoli che vengono dalla biologia sono anche dovuti agli oggetti che inventiamo e ai cambiamenti che possiamo fare, ma moltissimo derivano dall’effetto che queste cose hanno su quello che voi pensate di voi stessi. Lo spirito del tempo, il contesto sociale influenza l’effetto di ricerca, voi ci chiedete di cercare certe cose anche inconsciamente e ogni esperimento può essere interpretato in tanti modi.
Questo è caratteristico della biologia, perché gli esseri viventi sono multiversi e cioè hanno diverse facce che sembrano contraddittorie e non lo sono, in quanto sono complementari.
I concetti che vi diamo sono in parte determinati da quello che ci chiedete, a me genetista mi chiedete in particolare il gene dell’immortalità, che non c’è, o il gene per l’intelligenza o per il cancro o per l’infedeltà coniugale e noi … ve lo diamo per essere da voi amati.
Lo spirito del tempo, di questo tempo, comincia ufficialmente nel 1847 quando è pubblicato questo Manifesto dei medici materialisti in cui si dichiara l’equivalenza dei sistemi viventi a quelli non viventi, questo è una affermazione strumentale per poter usare anche con gli esseri viventi dei metodi di indagine che avevano già funzionato molto bene per la fisica e per la chimica, il cosiddetto metodo riduzionista, da non confondersi con l’ideologia riduzionista che è altra cosa. È un metodo potente, semplice e utile perché si basa sulla semplificazione, davanti a un oggetto complesso ad esempio uno di voi, mi riesce difficile studiarlo allora lo scompongo a pezzettini e poi lo assemblo e penso che ora ho capito tutti voi. Quindi si parte dall’ipotesi che voi siate una somma di pezzettini indipendenti, e infatti Mendel che è il nostro socio fondatario primario, che è un fisico, lui adottò questo metodo per studiare l’ereditarietà per primo, lui voleva tirar fuori delle leggi matematiche, scelse una pianta appositamente, il pisello e scelse dei caratteri con varianti ben distinti: giallo o verde ma mai intermedio, perché se le varianti sono ben netti poso contare quante ce ne sono in ogni generazione e tirare fuori leggi matematiche probabilistiche. Lui le ha studiate, ma i mendeliani trassero dei concetti universali da esperimenti che Mendel stesso considerava portassero a verità locali. Perché la scienza in genere ha verità locali, poi ne discuteremo. I geni sono indipendenti uno dall’altro, i varianti e i geni si assortiscono casualmente, ogni carattere corrisponde esattamente agli ordini che gli danno i geni che purtroppo ancora è la concezione prevalente che noi abbiamo di noi stessi, cioè noi pensiamo di essere determinati dai geni che abbiamo e che siano indipendenti uno dall’altro, cioè additivi come si dice.
Il dogma centrale è una cosa scritta nel 1958 da Francis Crick scopritore di una delle forme del DNA cristallizzato, e affermava che l’informazione è scritta nel Dna, viene trascritta in modo del tutto fedele in un’altra molecola simile e poi viene tradotta in modo fedele in un’altra molecola ancora che sono le proteine che ci autocostruiscono, uso apposta questo termine. Questo è anche per il dogma centrale, i nostri geni sono indipendenti uno dall’altro noi siamo il risultato totalmente deterministico dell’effetto dei geni che però si assortiscono casualmente di generazione in generazione, per cui c’è un’antinomia tra determinismo e caso e infatti si chiama determinismo stocastico in gergo nostro. Perché saremmo fatti come una macchina, fatti di pezzi indipendenti assemblati secondo un certo progetto, facilmente conoscibile, il famoso disegno intelligente, ma su questo non entriamo, comunque è un disegno meccanico e deterministico senza nessun grado di libertà. Le conseguenze di questo tipo di ragionamento sono tante e importanti, gli esseri viventi quindi sono come le macchine, possono essere oggetti non soggetti, non reagiscono e non cambiano il loro progetto, come la macchina si può sfare ma non diventare altro, progettati, modificati, venduti, cambiati senza influire sugli altri, prendere un gene da una pianta e metterlo in un animale e non succede niente, l’animale sta bene, almeno lo crediamo, se tutto avviene così io posso predire come sarà l’organismo e cambiarlo di conseguenza.
Ovvio che le conseguenze ideologiche sono molto importanti, pesanti, perché gli esseri umani sono diversi nel fisico e nelle menti solo per il diverso DNA, non sono influenzati dall’ambiente, perché dati i geni io sono così, nessuno ha colpa o merito dei suoi atti perchè se ti capitano i geni d’assassino non ci sono colpe, e quindi la collettività umana non ha ruolo, perché io sono io e non determinato dai miei simili e allora l’unico modo per migliorare la vita è ovvio, è cambiare i programmi, i geni, una volta buttavamo via quelli con i geni cattivi, anzi lo facciamo ancora, vedi le guerre etniche, molte persone sono uccise sulla base delle loro caratteristiche cosiddette razziali.
Bisogna eliminare ovviamente gli altri, perché io no, io sono il migliore, io decido, e se vedete, le razze sono state definite con caratteri fisici astutamente mescolati con caratteri comportamentali che non c’entrano niente tra di loro, così l’asiatico parrebbe avaro, gli africani sono flemmatici. Mentre l’europeo, il bianco è sanguigno, muscolare, capelli lunghi e fluenti, occhi azzurri, gentile, acuto, con capacità intellettive, si copre con vestiti ed è governato da leggi. Nasce l’eugenetica che voi sapete che è appunto quello che si faceva prima di inventare l’ingegneria genetica, cioè l’uomo può scegliere il modello ottimale di uomo per cui nella vita, questa è una convinzione che purtroppo molti hanno ancora, che l’evoluzione sia un “progresso” lineare che punta ad avere un unico tipo di animale o un unico tipo di uomo o di pianta ottimale, come succede per l’industria che fa macchine, quella sì che tende ad avere il miglior modello sul mercato per avere un omogeneo modello di macchina. Quindi il concetto di ottimo come il meglio è un concetto che viene dalla produzione e che indicherebbe come anche gli esseri viventi devono cercare di esprimersi tutti uguali e tutti ottimi.
Tutto questo ragionamento è nei nostri giornali, nelle informazione e nelle nostre menti, cioè bisogna andare verso il progresso, è là in fondo dobbiamo solo andarci, per costoro siamo un computer, tutto è scritto nel DNA e deve essere ottimale affinché si stia bene. Questo è stato prevalente fino alla fine del secolo scorso, dal 1995 è stato prevalente nelle discipline biologiche che le cose non andavano così come recitava il metodo riduzionista, la semplificazione.
Nel terzo millennio è stato scoperto, nella fase procariotica, cioè organismi senza nucleo, che piante animali uomini sono profondamente diversi e hanno diverse strategie di adattamento. Nei genomi il nostro famoso DNA, ci sono informazioni per fare strumenti e gli organismi hanno sviluppato una serie di organismi diversi che permettono una forte ambiguità nella loro espressione. Cioè, noi abbiamo nella testa, che se ho il gene degli occhi neri, mi vengono per forza gli occhi neri e per quel gene lì è anche vero, ma noi sappiamo oggi che i nostri geni sono ambigui, cioè un gene può dare origine all’informazione per dare 38 mila proteine diverse e non le dà insieme ma su segnale esterno, quindi lì ho tanti strumenti, ma la scelta di quale usare non dipende dal Dna, ma dai segnali e altra cosa, i sistemi viventi sono organizzati a rete di elementi che comunicano tra di loro, non sono indipendenti, perché in questo momento, ad esempio, ci stiamo tutti cambiano l’un l’altro, fisicamente, il nostro cervello sta cambiando le sinapsi, ascoltatele muovere nel vostro cervello, io ve le faccio muovere e voi state reagendo.
Infatti il nostro genoma, il DNA che abbiamo in ogni cellula ha dentro soltanto 23 mila geni, il paramecio, genere di protozoi infusori, ce ne ha 40 mila. Quindi se sono 23 mila e danno centinaia di migliaia di proteine finite è evidente che sono ambigui, cioè ogni gene ne dà più d’una. I geni veri e propri sono solo 1,5% del nostro DNA, tutto il resto non è fatto di geni, perché c’è altra roba che regola i geni, e questo è dato dai segnali che vengono dall’esterno e che cambiano il mio programma, non era possibile che fosse scritto nel mio DNA cosa avvenisse mentre smanacciavo così, perché non c’ero mai stato. Allora è sui batteri che noi basiamo l’adattamento su sistemi che ci permettono di cambiare per restare vivi. Il nostro scopo è quello di continuare la vita, per farlo dobbiamo continuamente cambiare il programma e ognuno di noi possiede strumenti per riconoscere quale parte di variabilità usare in ogni momento. I batteri si adattano cambiando il loro DNA e lo fanno con estrema rapidità perché hanno un solo cromosoma e tempi di generazione intorno ai dieci/ venti minuti. Per cui se c’è una buona mutazione che gli capita quella si esprime immediatamente, mentre noi non siamo così, abbiamo due copie per ogni gene per cui se uno di questi muta in modo positivo non si vede perché è coperto dall’altro e abbiamo vite molto lunghe, quindi noi non possiamo cambiare solo geneticamente, ma abbiamo altri potenti strumenti che ci permettono di cambiare continuamente durante la vita.
Noi tutti esseri umani abbiamo gli stessi geni identici, in varianti diverse, siete rimasti colpiti da questa affermazione? Perché confondete geni con varianti dei geni, io ho gli occhi neri, fra di voi c’è chi li ha azzurri, ma sia io sia voi abbiamo il gene del pigmento del colore degli occhi in varianti diverse. Il 40% dei nostri geni stanno anche nelle piante, fanno funzioni diverse, ma sono gli stessi geni.
Come funziona questa modulazione, se ho caldo, sono troppo vestiti devo attivare un migliaia di geni per sudare nelle cellule dove sudo, ogni mia cellula ha una serie di sensori che attraversa la membrana e che sta anche fuori, sente il caldo manda un segnale ad un’altra proteina e così via in una sorta di staffetta, fino a che il segnale non arriva a monte dei geni per sudare e lo attivano. I geni sono ambigui perché si spezzano in tanti pezzetti prima di fare le proteine, ora i nostri neuroni fanno delle punte di energie questo comporta che i geni colpiti da queste scosse facciano proteine diverse da quelle che facevano se io non vi stessi parlando, cambia l’organizzazione delle sinapsi, noi non sappiamo cos’è i pensiero, sappiamo comunque che più che altro è basato su cambiamenti.
Ogni conformazione, cioè forma, in biologia significa funzione, conformazioni diverse vogliono dire funzioni diverse. Per esempio queste qui sono due formulazioni diverse in una dà la sindrome della mucca pazza, in un’altra non la dà. È la stessa proteina identica, solo che cambia forma. Siamo tutti organizzati a rete, significa che se io modifico uno degli elementi che costituiscono la rete, questo si ripercuote sugli altri, quando faccio così con la mano mi modifico tutto e non soltanto la mano. Le interazioni tra individui da noi sono molto importanti, è una scoperta recente, il comportamento che noi abbiamo verso i nostri simili, non modifica i geni, ma l’espressione dei nostri geni. È stato dimostrato con le topoline mamme che sono molto coccolone e altre che non lo sono, allora le figlie delle coccolone lo sono anche loro e così via, la coccolosità non è ereditaria, ma implica il fatto che viene attivato dal coccolo e sono più vispi e contenti e coccoleranno in futuro, si trasmette per via culturale il livello di “funzionamento della macchina”. È un campo aperto questo molto interessante, come quello dei neuroni specchio che ci danno la comunicazione, molto importante per capire come siamo fatti. Ecco la nostra strategia di adattamento non è fondata più sui geni, perché noi abbiamo solo 23 mila geni, ma cento miliardi di neuroni nella corteccia cerebrale che possono dare un milione di miliardi di connessioni diverse, il che significa che il contenuto di informazioni potenziale nel nostro cervello è infinitamente più grande di quello del DNA. Il cervello può cambiare molto rapidamente e ci cambia rapidamente, perché quando sudo dal terminale al cervello c’è uno scambio rapidissimo. Il nostro cervello alla nascita ha le sinapsi quasi random, casuali e si organizza dopo su segnale esterno, se non sono stati avviati segnali un topolino può restare cieco fin dalla nascita, dopo è sotto il dominio di particolari geni.
La variabilità genetica della nostra specie, che ha sei miliardi e mezzo di individui, è nettamente inferiore alla variabilità genetica degli scimpanzé, siamo molto meno diversi tra di noi. Perché? ci sono due ragioni, che siamo espansi soltanto cinquanta mila anni fa e non abbiamo potuto avere tante mutazioni in pochi anni, ma soprattutto è un altro, noi dall’Africa ci siamo espansi e in genere gli animali si adattano alle nuove situazioni, noi non facciamo questo perché usiamo il cervello come generatore di variabilità, per cui noi cambiamo l’ambiente, non abbiamo bisogno di selezionare gli individui che sono più adatti a quello specifico ambiente, infatti si gira senza nessun problema da un ambiente a un altro. Noi abbiamo selezionato culture adatte ai diversi posti, infatti abbiamo più di settemila lingue nonostante stiano andando in estinzione rapida come la nostra intelligenza del resto. Questo ci cambia la concezione delle famose razze, lo voglio dire con chiarezza, noi abbiamo pochissima variabilità e è impossibile distinguere guardando i nostri genomi se io sono un asiatico, africano, paupasiano. Ho certo dei caratteri distintivi, ma sono molto pochi. Il termine razza non ha significato biologico, perché non posso distinguere sono diverso da un africano per il colore della pelle, ma non per i gruppi sanguigni, forse sono più vicino a un africano che a uno svedese, io ho sangue asiatico antico, sono mescolato ed è impossibile attribuirmi a una razza. Se vedete un etiope e fate conto che non è scuro, ha i nostri stessi lineamenti, e il colore di pelle è così perché protegge dal sole, è selezionato il nero come protettivo.
Nella vita non vince il migliore, ma il più plastico, quello che se la cava, perché per vivere bisogna cambiare programma. Dolly è la riprova di questo, è morta giovane, del suo agnellino si è persa traccia e tutti gli animali clonati esistenti nel mondo, circa centottanta, nessuno di loro stava bene, perché hanno potuto utilizzare pochi geni adulti, gli altri sono bloccati e non si possono sbloccare perché si rompono.
Dal 1964 da esperienze serie fatte sulle rane da un certo Gordon, completamente dimenticato, lo sappiamo che questo non si poteva fare e ci stiamo battendo per qualcosa che non esiste. Al di là dei nostri principi religiosi, sono anni che lo dico, noi continuiamo a batterci pro o contro la clonazione, qualcosa che non va fatto perché gli uomini così nati starebbero male.
Quindi abbiamo quelli che la vorrebbero fare perché ricercano il modello ottimo e quelli che non la vogliono per motivi religiosi, si scannano per una cosa che non esiste. La stessa cosa vale per l’ingegneria genetica, perché noi tutti siamo convinti che ci siano OGM da tutte le parti, ma se io chiedo i pomodoroni del mercato sono OGM o no? Un buon 90 % mi dice di sì. E invece no, non ci sono OGM, piante geneticamente modificate, in Italia non ci sono, tutti sono convinti che sia una tecnologia avanzatissima che sta dando molti prodotti e invece è una tecnologia che ha funzionato con i batteri, ma non ha funzionato né con le piante, né con gli animali, infatti si veda l’insulina in commercio da molto tempo e questo batterio è tenuto in contenitori ed è una macchina molto più semplice della nostra, ha molto poca ambiguità. Ma nelle piante e negli animali non funziona soprattutto perché poi dopo piante e animali non stanno bene, non producono e infatti non c’è nessun prodotto animale per uso alimentare che sia stato geneticamente modificato perché gli animali muoiono se li modifichiamo in modo drastico. Nelle piante dal 1986 ci sono due prodotti solo e sono resistenza diserbanti e resistenza insetti con due tipi di geni soltanto, una tecnologia fallimentare dal punto di vista scientifico, certo non dal punto di vista dei brevetti e dei guadagni, ma che è tutta un’altra cosa, non è scienza avanzata questa, questa è precedente a tutto quello di cui vi ho parlato oggi. Questi esperimenti si è smessi di farli perché questa è la mamma, questo è il figlio è più grande, quindi il figlio di una mucca è un muccone, ma sta male, muore presto ed è sterile. Questo esperimento è stato fatto invece da noi sulle piante, si vede che inserito un gene di ratto in una pianta cosa le succede, interagisce e fa qualcosa di imprevedibile e che non funziona sul piano produttivo, almeno in questo caso. L’ingegneria genetica attuale è rimasta a prima che scoprissimo queste cose, ma tutti pensano che si possa fare di tutto, perché purtroppo stiamo andando incontro a un preoccupantissimo effetto di virtualizzazione, cioè noi non stiamo discutendo sulla realtà, ma sulle parole, se OGM sì o no, clonazione sì o no, mentre dovremmo discutere sul perché non funzionano e perché alcune piante sono coltivate anche se non funzionano? Perché sono mezzo di penetrazione commerciale nel terzo mondo, così nei paesi in via di sviluppo stanno distruggendo l’agricoltura e aggravando pesantemente la fame, perché la soia coltivata in Brasile non la vedono i brasiliani, ma è esportata per darla da mangiare alle nostre mucche, è un’operazione commerciale e industriale, per produrre roba che mai tornerà in brasile, dunque noi continuiamo a discutere di cose virtuali, è un periodo brutto che mi angoscia perché domina ancora quell’idea del progresso ottimale. Noi usiamo un solo livello, esempio massimo di virtualizzazione, il PIL, che è essenzialmente massa di circolazione monetaria, che aumenta quando c’è un terremoto, una guerra, quando il servizio sanitario non funziona, non necessariamente ha a che fare con il benessere e pure ogni comune toscano vuole che li si faccia il PIL, può servire per le elezioni, questo vuole la gente e questo è molto preoccupante, perché così ci suicidiamo proprio nel modo in cui ci trattiamo gli uni con gli altri.
Marcello Buiatti
Spazi - tempi – modi dell’apprendere e del fare scuola
Nicoletta Lanciano – 30 marzo 2007
(intervento non revisionato dall'autore)
Mi presenterò con il lavoro, ho una provenienza matematica e mi sono formata come allieva di Lucio Lombardo Radice e di Emma Castelnuovo e fin da subito mi sono anche occupata di didattica dell’astronomia, appartengo al MCE, che come vedrete rappresenta in realtà gran parte della mia radice culturale di ricerca.
Viene presentato del materiale visivo:
Noi abbiamo a portata di mano un laboratorio naturale che è il cielo, lo sprechiamo un po’ e questa grande emozione che dà il cielo, porta già attraverso l’osservazione ad affermare ciò che scriveva Lucrezio, “tutti d’altronde siamo del seme del cielo”, era questa una conoscenza che veniva dall’empatia.
Oggi gli astrofisici dicono che siamo fatti di stelle: la pelle, il sangue, le ossa sono fatti di materiale che all’inizio non esistevano, c’erano solo l’idrogeno e l’elio, dove è che poi si sono formati tutti gli altri elementi che compongono il cielo, la terra, i nostri corpi? Si sono formati nelle stelle, quando sono esplose hanno dato elementi nuovi, gli elementi pesanti: si è aggiunto l’ossigeno, il calcio, il carbonio e poi altre stelle sono esplose, fino a che si è formata una stella il Sole e vicino la Terra e lì la vita.
“Noi siamo fatti di stelle”, la nostra origine è nel cielo, qualcosa di profondo ci unisce a questa parte della natura, ci rimanda alle radici di noi stessi. A questo cielo possiamo guardare con tanti occhi diversi, guardare attraverso il mito ci porta a vedere delle figure nel cielo, ma come spesso accade i racconti mitici ci rimandano a una organizzazione geometrica, spaziale. Se l’Orsa Maggiore indica il Nord, è perché questo sta nella sua storia che è raccontata in versi e nel mito.
Così delle conoscenze tipiche delle scienze esatte, possiamo parlare anche attraverso il mito greco latino. In particolare Ovidio racconta di questa avventura, della ninfa Callisto trasformata in orsa. È possibile guardare con occhio tecnico alle costellazioni, ma anche con tanti altri linguaggi.
Del mito si sono occupati diversi artisti, con la pittura e la scultura, con il pensiero narrativo, la poesia presente nei testi antichi che è uno dei modi di parlare di scienza.
“Pensare per storie” è uno dei grandi laboratori del Circolo Bateson (1) e effettivamente anche nell’educazione scientifica ha un gran peso. Le storie per me riguardano il cielo, la mitologia, o anche problemi di tipo geometrico o matematico.
Imparare a parlare deve rispondere a qualche necessità, è un cosa molto seria, si continua a imparare perché ci interessano i linguaggi anche specifici. Il cielo forse ha questa possibilità di essere approcciato da tanti punti di vista diversi, invita effettivamente a cercare una serie di linguaggi appropriati: questo può essere agevolato per il fatto di aver incontrato il cielo effettivamente.
Questo stile può riguardare anche la geometria. Vi chiedo di pensare, ciascuno di voi, se trova nella sua memoria un piacevole ricordo di geometria, ognuno per conto suo. La parola geometria vi fa venire in mente un fatto, una scena, qualcosa di piacevole. Poi vi chiederò qualcosa. Sto lavorando con alcuni insegnanti in un progetto di astronomia e geometria in città e su questo vi mostrerò delle cose.
In questo momento lavoro sul fare scuola fuori dalle aule e sulla città. Uno degli elementi metodologici, io mi occupo di formazione degli insegnanti o di studenti universitari, è nel momento di presentarsi, non solo dicendo io sono tizio, ma per esempio presentarsi attraverso un proprio ricordo, attraverso la memoria alla maniera di Proust, cioè ricercare nella memoria involontaria non scolastica, cercare nella nostra storia, ad esempio cercare qualcosa di piacevole: così come nella vita, anche nell’apprendimento si tende a dimenticare ciò che è stato per noi spiacevole e si ricorda ciò che è piacevole.
Così poi possiamo provare a condividere qualcosa di piacevole. Mi capita spesso di chiedere un ricordo di geometria, sollecitato dall’osservazione dei mosaici di Villa Adriana vicino Roma, come vedete questi pavimenti sono una fucina di conoscenze e di sapere geometrico. Ma è possibile guardare allo stesso luogo, alle stanze degli ospiti di Villa Adriana anche con i testi della letteratura, come da questo della Yourcenar tratto da Memorie di Adriano (2), che parla di qualcosa che è emozionalmente forte, da leggere proprio lì, nella Villa. (lettura).
Questo luogo diventa luogo di studio geometrico, ma possiamo anche parlarne con altri linguaggi. Questi mosaici romani del II secolo d.C. sono fatti a mano e pieni di piccoli errori, è interessante la ricerca di queste piccole asimmetrie, che nulla tolgono alla bellezza dell’oggetto, anzi danno senso di movimento. La ricerca dell’errore e della presenza di differenze in quello che sembra microscopicamente uniforme, e appare invece come asimmetrico quando si va oltre la prima visione d’insieme, quando lo si analizza nei dettagli: questo guardare per strutture (il macroscopico e in dettaglio) è un atteggiamento scientifico interessante da costruire. Così mi è accaduto nella Basilica di San Paolo, il pavimento sembra regolare, poi con il tempo, (ma bisogna darsi un tempo,altrimenti non ci si accorge di niente), ma se si cerca un contatto empatico, quello “stare con le cose”, non come il turista giapponese che guarda e fugge, allora possiamo scoprire in strutture microscopicamente regolari e ricche di simmetrie, delle difformità che ci fanno sentire l’opera di un artigiano, il lavoro fatto con la materia e con le mani.
È così che capiamo quanto la natura ci è maestra, ma i tempi sono lunghi, sono i tempi del capire. Perché mi interessa la natura e la città, cioè l’uscire dalle aule? perché nella ricerca didattica ci occupiamo ovviamente delle difficoltà.
La scuola lavora solo nel microspazio, spazio fatto di quaderni, di cubetti, di solidi fatti con il cartoncino, di disegni, ma nel microspazio si guardano le cose dall’esterno, io sono esterno, gli oggetti li vedo completamente e li raggiungo, se penso a un altro tipo di spazio, un’aula, una piazza, quello che noi chiamiamo il mesospazio, posso avere diversi punti di vista, posso percorrerlo sia con gli occhi, che muovendomi, posso vedere le cose che cambiano in relazione al mio punto di vista, ma posso allargare l’attenzione ancora di più al macrospazio, ad esempio il Lazio, l’Europa: di questi spazi dobbiamo farci un’idea mentale. I bambini spesso chiedono quando viaggiano dove si trovano, se è passata una città o una regione, chiedono se il Lazio sta dentro Roma o fuori, se sta nell’Italia. Altrimenti bisognerebbe avere una visione dall’alto, dal satellite per vedere questo. Non è così banale, cercare immagini totali, qui è potente la necessità di astrazione, qui lo sguardo non mi aiuta più e per pensare questo spazio è il pensiero che deve intervenire.
Poi c’è uno spazio ancora più grande, il megaspazio, quello in cui solo l’immaginazione può aiutarmi; se dico il Sistema Solare o la nostra galassia, io non ho un punto di vista da cui lo posso vedere interamente, ho un unico punto di vista ed è interno a questo. Sono sul pianeta Terra quindi posso mettere insieme immagini, ma lavoro con spazi immensi di cui devo costruire immagini mentali.
Ora mi piacerebbe chiedervi se i vostri ricordi di geometria appartenevano al microspazio, quanti? (Molti) E quanti ricordi erano di uno spazio più grande e dello spazio grande e nel cosmo? ancora tre. La forte preponderanza del microspazio è davvero un inciampo nella nostra vita anche scolastica, eppure basta poco per considerare una spazio più grande.
A Roma ci sono molte meridiane a tangente, alcune sono molto famose, ma anche l’obelisco di piazza San Pietro è uno gnomone di una linea meridiana, verso la fontana di destra: questa è una meridiana che funziona con l’ombra, l’altra in S.ta Maria degli Angeli, ha la luce che entra. Questa differenza è su un piano simbolico profondo, lavorare con l’ombra o con la luce, non è così neutra questa scelta. Con le ombre guardo per terra e dò le spalle alla luce, mentre nell’altro caso lavoro in uno spazio tridimensionale e mi rivolgo alla luce.
Per questo lavoro spesso nel Pantheon, spazio curvo circolare e sferico, e per questo penso valga la pena uscire dalle aule e considerare come spazio educativo anche altro.
E’ piacevole entrare nel Pantheon, in uno spazio curvo, dato che nella nostra cultura tutte le case, le strade le architetture sono squadrate, noi viviamo nel trionfo dell’angolo retto. Andiamo in questi luoghi anche nella convinzione che il bello educhi al bello. La bellezza ha molto a che fare con la matematica, accenno soltanto all’intervento di Michael Atiyah, intervenuto al Festival della matematica a Roma, nel sostenere che nel proprio lavoro ha sempre cercato di unire il bello e il vero e quando proprio ha dovuto scegliere tra le due ha scelto il bello. Ad Atiyah si chiedeva cos’è bello in matematica e come la bellezza si rapporti alla verità, la bellezza è legata all’eleganza, alla chiarezza, semplicità che controlla la complessità, originalità e sorpresa, profondità, importanza e tutte queste caratteristiche noi, dal di dentro della matematica, le riconosciamo anche nella matematica.
Possiamo dire che una figura è bella ed elegante, che una figura aiuta il ragionamento e quindi il pensiero. Concludeva quindi “la bellezza è dentro di noi, la verità è fuori di noi” e la bellezza può essere una guida per capire qual è la verità.
Un altro aspetto della mia ricerca sull’educazione è legato alla questione del mettersi in gioco in prima persona: anche con i miei studenti universitari sempre trovo comunque il modo di invitarli a sedersi per terra, c’è un prato quasi ovunque per fortuna, e così possono dire che non pensavano proprio di trovarsi a quell’età a sedersi nel prato a sporcarsi le mani; a volte mi raccontano che era dalle elementari che non tagliavano con le forbici o non accendevano una candela.
Io penso che questa sia un’emergenza della nostra epoca, un problema serissimo: i ragazzi sviluppano la falange che serve per il mouse, i videogiochi, il cellulare e il resto del corpo si atrofizza. Questo è problematico, perché quando poi si pensa che si possa fare a meno di camminare, odorare, guardare, poi ci si accorge che questo non è vero. Non dobbiamo perdere la manualità. Questo ha a che fare con il metodo, riproporre il laboratorio tra gli adulti, se voi siete una rete cercherete di fare qualcosa insieme. Sappiamo che non basta scriversi, né parlarsi: è fondamentale mangiare insieme, passare del tempo insieme, fare delle cose insieme.
Perché alcune strutture non funzionano? Perché non ci si capisce nel merito, perché non si fa nulla insieme, non si diventa coppia, famiglia, amici se non si coltiva l’essere in relazione. Possibile che la scuola sia così cieca, così perversamente uguale a se stessa nel tempo? Ci si lamenta da sempre dei collegi dei docenti, ma non si riesce a mettere fantasia, a uscire dalle convenzioni, perché dobbiamo stare tutti seduti sulle sedie, senza guardarci, non facciamo mai un cerchio. Perché non cerchiamo i posti dove questo sia possibile? Il mettersi in gioco in prima persona è indispensabile.
Nella scuola di solito si danno giudizi, propongo invece spesso di sospendere il giudizio, in particolare di non interpretare mai i contenuti emotivi che vengono portati: è fondamentale la capacità d’ascolto attivo dell’adulto verso gli allievi e imparare dagli errori propri e altrui, esplicitare e condividere le difficoltà che non devono restare sottointese in quanto se restano tali rischiano di diventare ostacoli alla conoscenza.
Io lavoro spesso con gli adulti, ma vi propongo alcune riflessioni che sono valide a tutti i livelli di età.
Spesso faccio una domanda: noi siamo qui adesso, e io vi dico che il Nord è alle mie spalle, e vi chiedo di indicare con un braccio ben teso nello spazio dove si trova la Norvegia? voi dove pensate che sia nello spazio tridimensionale intorno a noi ?
Ecco vuoi alzarti in piedi e mostrare a tutti dov’è per te la Norvegia? Seguo il tuo braccio teso: che cosa c’è là, se buco il muro e penso che sia notte vedo di sicuro qualche stella, vi piacerebbe vedere la Norvegia lassù? Sarebbe un bel film, ma non è vero.
Perché si crea l’immagine che un paese che è più a Nord di dove ci troviamo noi sia appeso lassù? Forse perché siamo abituati a lavorare con le carte geografiche, che hanno un alto e un basso: ma in realtà tutti i paesi sono sotto il piano del nostro orizzonte. Se noi dobbiamo immaginare qualsiasi cosa a nord, a sud, a ovest è sempre sotto il piano dell’orizzonte, perché siamo su una sfera. Ecco che il destabilizzare questo è indispensabile per capire di astronomia che è basata sulla sfera della Terra e sulle sue relazioni con la sfera del cielo. E’ utile abituarsi a lavorare con la sfera, e a scuola non ci si arriva mai alla sfera ! Questa difficoltà (di tendere il braccio verso l’alto) deve essere condivisa come elemento ricco che permette di stanare alcuni possibili errori; questo lavoro serve a far emergere quegli ostacoli che vanno esplicitati in una relazione didattica.
Vengo all’ascolto, alla pedagogia dell’ascolto che nel MCE è mutuata dalla psicoanalisi, a noi giunta attraverso Alessandra Ginzburg, una psicoanalista che negli anni ’80 si riferiva a I. Matte Blanco e alla sua teoria dell’emozione come madre del pensiero. L’ascolto degli adulti verso i bambini e poi dell’insegnante verso l’allievo. Leggo un piccolo brano di Alessandra per una revisione critica di Piaget. “le fasi che Piaget considerava evolutive non cessano mai di esistere per l’inconscio che vi ricorre abitualmente in occasione di emozioni particolarmente intense … una concezione che fa dell’emozione la madre del pensiero, ribaltando l’immagine riduttiva offerta dalla psicologia, in particolare quella di orientamento cognitivo molto in voga nella scuola …”(3)
È una rivoluzione epistemologica: Piaget sosteneva che tra i bambini in età scolare non si sviluppava mai una vera discussione tra pari: questo abbiamo imparato a vedere che non è vero, in particolare penso a Ludovica Montoni che ha scritto questo libro “I bambini pensano difficile” (4) ed è lei che ha portato anche nelle scuole di Reggio Emilia, la pedagogia dell’ascolto. Dall’ascolto, arrivava negli anni ’80, quello che chiamavamo le ipotesi fantastiche, le particolari ipotesi che un bambino fa, in una relazione di ascolto positiva, sugli eventi naturali o misteriosi che caratterizzano la realtà. Spesso queste ipotesi ci rimandavano ai filosofi presocratici, ad un grande contatto con la natura. È un ascolto che fa prendere in considerazione le concezioni iniziali di chi apprende che sono sempre concezioni relative non esaustive che poi si arricchiranno nella conoscenza. Ma le concezioni sono quasi sempre relative. In astronomia, ad esempio, si dice che è sbagliato dire che è inverno quando la Terra è più lontana dal Sole: è giusto, però, se non è vero per noi è vero invece per l’emisfero Sud. Anche affermazioni di questo genere non sono errori, dietro c’è un pensiero, qualcosa di più complesso e articolato, se ha un suo campo di validità che può essere ampliato.
Tutto questo avviene nel laboratorio adulti, fase necessaria della formazione degli insegnanti. Per insegnare a scrivere mi cimento con l’emozione della pagina bianca. La mancanza del fare in prima persona quello che insegna, spesso è lamentato dagli allievi, qui c’è un problema ora molto sentito specie nella scuola superiore. Quando una persona non lavora su di sé, rispetto alle cose che insegna, se non va a teatro a vedere le tragedie, chi insegna latino e greco, anche per vedere come le presentano gli artisti di oggi, chi non vede l’arte ma l’insegna, chi non guarda il cielo insegnando astronomia, viene sgamato dagli studenti e perde credibilità, e questo accade specie nelle scuole superiori. Infatti gli insegnanti della scuola primaria si mettono per terra con i ragazzini, le cose le fanno. Ma quando mai un’insegnante di italiano del liceo dice ho scritto questo o si mette in alcuni degli inciampi che propone ai suoi allievi? Il lavorare con la natura impone in qualche modo di metterci di fronte ai fenomeni da osservare nel momento in cui avvengono: devo aspettare per esempio il sorgere della Luna.
Forse non sempre è possibile, però perché quando diamo un tema, l’insegnante non si mette anche lui a scrivere. Questo coinvolge il corpo a scuola: in tempi recenti le neuroscienze hanno messo in evidenza che quando un corpo è in movimento le due parti del cervello collaborano in modo efficace. La parte fantastica e creativa interagisce con quella riflessiva, gli apprendimenti sono potenziati. Più aree cerebrali vengono attivate, più si fissa la conoscenza. Attivare tanti recettori oltre la vista, fa sì che appunto la conoscenza si incorpori in modo diverso nelle persone, per questo preferisco le immagini dinamiche a quelle statiche in geometria.
Proporre ciò è più faticoso e bisogna averlo provato su di sé, sapere che funziona su di sé. Attivare il corpo, dal cantare insieme, al misurare, all’avere approcci di tipo vario è importante e utile nello sviluppo delle conoscenze.
In tutte le discipline c’è questa responsabilità dello scegliere cosa insegnare, come fare questa scelta? tutti i programmi hanno comunque qualcosa in cui ci sono delle scelte. Ci sono alcuni parametri che possono guidare la scelta: una scelta è legata a ciò che si sa e si conosce, non si insegna quella che di non si sa l’esistenza, anche se non occorre una conoscenza totale e esaustiva; poi c’è quello che noi pensiamo sia educativamente importante, cioè abbia senso in un certo contesto e questo va rivisto continuamente ed è legato al contesto, però la scelta del senso, esplicitare il senso di ciò che si farà, cioè che abbia senso almeno per chi insegna; poi penso fortemente, che sia opportuno insegnare ciò che appassiona chi insegna. Voglio rivendicare la passione di chi insegna come elemento fondamentale, se noi pensiamo a chi riconosciamo come maestro, quando dico Lucio Lombardo Radice è stato un mio maestro è perché era assolutamente appassionato di quello che faceva, che era intanto aiutare noi studenti a capire le nostre passioni, lui ne aveva una, era l’algebra astratta e ci provava a trascinarti lì, lo fece anche con me, ma capì subito che doveva aiutarmi ad andare verso il cielo. Quello è il maestro: lui era un algebrista, lui conosceva con passione, non vale la pena essere maestri non appassionati e penso che sia importante per i giovani incontrare delle persone con delle passioni forti, in un’epoca di “passioni tristi”, come scrivono gli autori di un bellissimo libro (5): proponiamo passioni forti.
Le aule quindi non bastano, sono un accidente della nostra cultura, della nostra scuola, altre culture fanno scuola stando sotto un albero o nel cortile peripatetico di Atene. C’è la natura, la città, tanti altri spazi. Per allargare lo spazio al macrospazio, è importante pensare il mondo da tanti punti di vista diversi e anche dal punto di vista degli altri, degli stranieri, di chi arriva qui da lontano o vive in altri paesi. La corrispondenza scolastica è una delle tecniche di Freinet che ci porta a far venire nelle nostre aule il mondo da fuori.
Noi facciamo corrispondenza scolastica con i cieli dell’Argentina, (6) e attraverso i messaggi che ci arrivano vediamo tutto alla rovescia e questo ci costringe a interrogarci sulle nostre radici e su quelle degli altri, di tutti gli altri che sono altri, rispetto a noi, per età, sesso, luogo di nascita, come portatori di cultura, e per fare questo è necessario entrare nelle radici della nostra cultura e queste radici sono in gran parte nel cielo.
(1)^ Circolo Bateson www.ips.it/musis/pensare
(2)^ N. Lanciano, Villa Adriana tra cielo e terra, Apeiron ed, 2003
(3)^ A. Ginzburg, Educazione e psicoanalisi: un percorso di ricerca nel gruppo romano MCE, Cooperazione Educativa, n 9-10, 1991, p 5-13
(4)^ L. Muntoni, I bambini pensano difficile, Carocci ed, 2005
(5)^ M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Universale Economica Feltrinelli, 2003 (edizione francese)
(6)^ sito del CARFID, progetto “Sotto lo stesso cielo” http://w3.uniroma1.it/Carfid/
Nicoletta Lanciano
IL PUNTO DI VISTA DEGLI STUDENTI (a cura di Franca Settembrini e Guido Ghiselli)
Presentazione slideshow (clicca sulle due freccette in basso a destra per vedere a tutto schermo):
Università degli Studi di Pisa http://www.unipi.it
Dipartimento di Scienze Sociali http://www.dss.unipi.it
Abstract
Per acquisire alcuni elementi conoscitivi sul grado di soddisfazione degli studenti rispetto al corso di studi intrapreso - il Liceo delle Scienze Sociali (LSS)- e sulle loro prospettive post-diploma, un gruppo di docenti del Liceo “Fermi” di Cecina (LI), coordinato da D. Bottazzoli e I. Marmina, ha elaborato un questionario strutturato, che nella primavera del 2006 è stato somministrato alle classi quarte e quinte di sette LSS toscani. Questa ricerca è parte di un più ampio progetto, nato nell’ambito delle attività di collaborazione tra scuola secondaria e Università promosse dalla Convenzione-quadro stipulata tra il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Pisa e alcuni LSS[1].
Il questionario utilizzato è suddiviso, nella sua versione più ampia, quella destinata alle classi quinte, in 4 sezioni, relative ai dati anagrafici (A), all’esperienza scolastica (B), agli orientamenti riguardanti la prosecuzione degli studi (C), ai timori e alle aspettative in merito al mondo del lavoro (D)[2].
La somministrazione dello strumento di indagine e l’immissione nella matrice dei codici numerici corrispondenti alle risposte delle domande a scelta multipla, nonché del contenuto delle risposte alle domande aperte, è stata curata dalle stesse scuole: l’esito di questo lavoro è costituito da 378 questionari immessi sui 480 previsti (78,7%). La percentuale risulta comunque ampiamente significativa delle linee di tendenza generali, soprattutto perché riguardanti la totalità di un’area, ovvero la costa toscana. Il Dipartimento di Scienze Sociali ha poi curato l’elaborazione statistica dei dati così raccolti, che sono stati sottoposti ad analisi mono e bivariata con l’ausilio del software S.P.S.S.
I dati anagrafici dei nostri soggetti confermano la ben nota prevalenza della componente femminile (oltre 80%) nei LSS ed evidenziano la sostanziale regolarità del percorso di studi, con il 90% degli alunni di quarta e l’85% di quinta che si suppone - in base all’età dichiarata - non abbiano subito bocciature. I genitori degli studenti coinvolti nell’indagine hanno per lo più conseguito il diploma di scuola secondaria inferiore (oltre il 40% per entrambi) o superiore (il 38% dei padri e il 40% delle madri), mentre solo una piccola minoranza risulta in possesso di una laurea, oppure priva della licenza media inferiore. Tra i padri, la classe occupazionale[3] prevalente è quella operaia urbana (33,5%), seguita dalla classe media impiegatizia (27%), mentre molte madri sono casalinghe (oltre il 40%) o impiegate (31%).
La maggioranza degli allievi, ricostruendo il processo decisionale compiuto al momento della selezione della scuola superiore, si attribuisce la principale responsabilità (“una decisione del tutto personale”) e riconduce la propria scelta a un interesse specifico per le discipline di indirizzo, anche se non mancano casi in cui la motivazione è stata la presunta maggiore facilità di questo tipo di liceo. La percentuale di studenti che dichiarano di aver acquisito a scuola una buona capacità di analisi critica della realtà è elevata (oltre il 70% di risposte “abbastanza” o “molto”), sostanzialmente analoga nelle classi quarte e quinte e nel complesso maggiore della quota di coloro che reputano che il liceo abbia soddisfatto le loro aspettative iniziali: in questo caso coloro che si dichiarano soddisfatti sono circa il 60% del totale, ma con una significativa diminuzione nelle classi quinte. Un’analoga differenza nel livello di soddisfazione emerge nelle risposte alla domanda che invita a fare un bilancio complessivo dell’esperienza compiuta nella scuola superiore: di nuovo, i più critici sono gli studenti di quinta. Da rilevare che il grado di soddisfazione è significativamente associato alle motivazioni originarie della scelta: tra gli insoddisfatti sono molto più numerosi coloro che hanno scelto “per ripiego”, oppure perché indotti dalle pressioni familiari, o nella speranza di intraprendere un corso di studi più facile di altri, oppure ancora perché attratti dalla possibilità di trovare più facilmente lavoro grazie al conseguimento di quel diploma. I soddisfatti, invece, prevalgono tra coloro che hanno scelto sulla base dell’interesse per le discipline di indirizzo, o con l’aspettativa di costruirsi una buona base di cultura generale. Anche tra questi studenti, comunque, vi sono alcuni “delusi”.
La maggiore delusione sembra riguardare - sia pure con rilevanti differenze tra una scuola e l’altra - le attività di stage: molti ragazzi lamentano, infatti, un basso grado di integrazione di tali attività sia con le discipline curricolari che, soprattutto, con la realtà lavorativa e formativa del proprio territorio. L’associazione con il livello di soddisfazione “globale” è statisticamente significativa: questo dato non autorizza certo a istituire alcun rapporto causale, ma sembra comunque suggerire di dedicare un’attenta riflessione sul ruolo che gli stage possono avere nel consolidamento, oppure nell’attenuazione, di atteggiamenti di fondo, relativi all’istituzione scolastica e al proprio percorso formativo, già maturati dagli studenti nel corso del biennio. Merita altresì di essere presa in considerazione l’ipotesi che tra gli allievi siano diffuse aspettative non realistiche sugli stessi stage, in particolare la convinzione che essi dovrebbero avere carattere schiettamente professionalizzante.
L’interesse per le scienze sociali risulta comunque nel complesso molto alto, anche in chi ha espresso valutazioni negative sul corso di studi intrapreso; la prospettiva disciplinare preferita è quella psicologica, seguita a distanza da quella pedagogica e sociologica. Invitati a esprimere il loro parere sui possibili miglioramenti dell’offerta formativa del Liceo, gli studenti seguono le preferenze prima ricordate, dimostrando invece scarsa consapevolezza dell’importanza delle discipline giuridico-economiche e di quelle matematiche-scientifiche: relativamente a queste ultime, bisogna rilevare che nelle classi quinte tale consapevolezza aumenta in modo significativo, pur rimanendo minoritaria.
Riguardo agli orientamenti per il futuro (sez. C), gli studenti delle quinte si dividono in due gruppi di uguale consistenza numerica: una metà sostiene di avere ricevuto informazioni sufficienti, mentre l’altra lo nega. In ogni caso, più del 70% dichiara di voler proseguire gli studi, ma molti di questi, oltre il 44%, escludono di iscriversi a facoltà in cui le scienze sociali abbiano un ruolo di rilievo. Degno di nota è il fatto - peraltro prevedibile sulla base delle ricerche sulle istituzioni formative e sulla mobilità sociale nel nostro paese - che la probabilità di intraprendere un percorso universitario dopo il diploma è una delle poche caratteristiche associate significativamente al titolo di studio, ma non alla classe occupazionale, dei genitori.
Verso quali facoltà universitarie si orienta la scelta dei nostri studenti? Le risposte si distribuiscono in maniera abbastanza omogenea tra i corsi appartenenti all’area artistica e umanistica (24,2%), quelli delle scienze sociali (29,7%) e quelli dell’area giuridico-economica (25,8%); l’area delle scienze mediche e infermieristiche e quella delle scienze naturali e matematiche risultano invece meno apprezzate. La richiesta di classificare in ordine di preferenza alcuni corsi universitari[4] ha prodotto una graduatoria guidata da Scienze della Formazione e seguita a piccola distanza da Psicologia, Scienze della Comunicazione, Sociologia e Scienze Politiche (a pari merito). La graduatoria si modifica, però - e non sempre in base a una percezione realistica - quando si tratta di valutare la spendibilità delle diverse lauree all’interno del mercato del lavoro: al primo posto, infatti, c’è Giurisprudenza, che gli studenti ritengono offra molte più opportunità lavorative rispetto ad altre lauree, tra cui anche quella in Economia.
Nella sez. D, relativa alle prospettive sul futuro e al concetto di flessibilità, sono di gran lunga più numerosi i quesiti a risposta aperta, i cui risultati sono stati sottoposti ad analisi di contenuto e trattati in alcuni casi anche secondo una logica quantitativa. Il concetto di flessibilità viene associato dai più a significati di ordine positivo, quali l’autonomia, l’adattabilità, l’indipendenza e la mobilità, anche se resta ambigua l’accezione precisa in cui quest’ultimo termine viene inteso. Precarietà, disoccupazione e mancanza di certezze prevalgono invece nelle interpretazioni negative. Tra le esigenze più sentite per la tutela del lavoro ‘flessibile’ gli studenti indicano la previdenza e la salute, seguite da stabilità, sicurezza economica e sussidi in caso di disoccupazione. Poco consapevoli appaiono, invece, rispetto alla necessità di un concreto aiuto nell’accesso al credito. Secondo la maggioranza degli studenti, le politiche governative e sindacali non riescono a dare efficaci risposte a queste problematiche, tanto che la maggiore risorsa cui affidarsi per il proprio nel futuro lavorativo è riposta nell’iniziativa e nella determinazione dell’individuo.
È diffusa negli studenti la percezione che il lavoro sarà una componente essenziale della loro esistenza, sia nel periodo propriamente lavorativo che in quello della pensione, su cui le prospettive sembrano molto fosche. È altresì presente la consapevolezza di essere una generazione meno fortunata rispetto a quella dei loro genitori, nonostante le più ampie possibilità di studio e di scelte che sono loro offerte (ma molti sono convinti del contrario). Molte delle argomentazioni risultano generiche e poco elaborate, ma non mancano osservazioni interessanti, soprattutto sul ruolo ambiguo dell’istruzione, sempre più necessaria ma anche fonte di false speranze e di aspettative deluse. Le principali conseguenze negative sono lo scoraggiamento e la demotivazione, che colpiscono per lo più a livello del singolo e non spingono all’aggregazione politica. Gli studenti restano comunque abbastanza ottimisti sul loro futuro, nella convinzione che dipenderà quasi tutto da loro stessi. Sui modi concreti di affrontare i problemi legati al lavoro ‘flessibile’ esiste però grande incertezza ed emerge l’aspettativa che siano le agenzie formative o i poteri pubblici, nelle loro varie articolazioni, a farsi carico delle conseguenze della precarietà.
Per maggiori informazioni sulla ricerca, si prega di contattare Franca Settembrini
franca.settembrini@sp.unipi.it
[1] Tale iniziativa ha avuto origine nel 2004. Nel dicembre 2006 avevano aderito alla Convenzione i seguenti Licei e Istituti: “Fermi” – Cecina (LI), “Pascoli-Rossi” – Massa; “Montessori” – Carrara (MS);”Rosmini” – Grosseto; “Chini” – Lido di Camaiore (LU); “Niccolini-Palli” – Livorno; “Forteguerri-Vannucci”- Pistoia; “Montale”- Pontedera (PI); “Peri”- Arcidosso (GR). La presente ricerca si inserisce altresì all’interno del P.R.I.N. Flessibilità e prospettive di vita, di cui è coordinatore scientifico il Prof. M. A. Toscano.
[2] La redazione di quest’ultima sezione è stata curata direttamente dal Dipartimento di Scienze Sociali.
[3] Secondo la definizione proposta da Antonio Cobalti e Antonio Schizzerotto in La mobilità sociale in Italia, Il Mulino, Bologna 1994.
[4] In questo caso, dunque, gli studenti non dovevano esprimersi sulla totalità dei corsi universitari disponibili, ma solo su un piccolo numero di essi (11), che sono stati selezionati in quanto, in sede di progettazione del questionario, sono stati ritenuti quelli più spesso scelti dai diplomati dei LSS. Questa ipotesi, come abbiamo visto, ha trovato riscontro nei risultati ottenuti attraverso l’analisi dei dati: circa l’80% dei soggetti ha riferito che nella scelta universitaria si orienterà verso facoltà appartenenti al gruppo umanistico, sociale, oppure giuridico-economico.
Rosetta Zan – 30 marzo 2007
(intervento non revisionato dall'autore)
Viene presentato del materiale visivo:
La mia relazione sarà di didattica, cercherò di proporre delle riflessioni calate nel contesto scolastico. Il titolo della relazione è il mito dell’errore come indicatore di difficoltà. Il ruolo dell’errore a scuola.
Comincio con un prologo, tratto da “L’insegnamento come attività sovversiva” un testo molto attuale, prendo una parte di questo brano dove attraverso tipologie di medici si presentano diverse tipologie di insegnanti. C’è il primario che ha chiamato i suoi collaboratori che iniziano a relazionare, ascolta i più anziani e poi si rivolge al più giovane che confessa di essere stato sfortunato perché ci sono tre pazienti morti. Dovremmo parlarne, cosa ne dice? E di cosa sono morti? Non lo so, comunque avevo dato loro buone dosi di penicillina. Bene, risponde il primario, il sistema tradizionale della cura valida per se stessa? Non esattamente capo, ho pensato che li avrebbe fatti stare meglio, stavano male e so che la penicillina fa stare meglio, quindi gliel’ho data. Bene, penso che lei abbia fatto bene. Sì, ma i morti, capo? Oh! Quelli figlio mio, cattivi pazienti! E non c’è niente da fare quando ci si trova davanti a dei cattivi pazienti!
La provocazione è evidente, la metafora della medicina è molto usata nella didattica della matematica, anche con dei limiti, ma ha dei punti di forza, perché la scena ci colpisce e ci sembra ovvio in quel contesto, che la cura si adatti al paziente e non viceversa.
Però questa metafora suggerisce anche che una possibile causa dell’insuccesso possa essere una diagnosi errata di fronte a una cura ottima. Questa diagnosi errata è dovuta a errata interpretazione dei sintomi, ma ancora prima a un livello di osservazione parziale o inadeguato.
La metafora della medicina ci aiuta ad analizzare il problema delle difficoltà a scuola, è interessante sapere qual è l’approccio tradizionale alle difficoltà, come funzione per eventualmente mettersi in discussione, proprio poggiandosi sulla nostra metafora della medicina. In particolare sull’importanza di quei processi di osservazione e di interpretazione che precedono l’intervento.
In effetti nell’intervento tradizionale, la difficoltà è la malattia, il recupero che l’insegnante mette in atto, cioè l’azione didattica di tutti i giorni è la cura; i sintomi sono essenzialmente gli errori, l’intervento attacca questi sintomi, si correggono gli errori e non solo, si rispiegano gli argomenti, spesso si mostra come si deve fare e si mette in guardia da errori tipici. In definitiva l’intervento è quasi automatico per l’insegnante, potremmo sintetizzare che quello che si cerca di fare è ottenere la risposta corretta.
Qual è l’osservazione, è basata sull’errore, ma più in generale sui processi risolutivi inadeguati, perché se un ragazzo non risponde, ha fatto errori, c’è una mancanza di risposte corrette che è un segnale forte per l’insegnante che c’è qualcosa che non va. Qui abbiamo una dimensione temporale, l’intervento dell’insegnante si cala nello stesso contesto, questo sembra lì per lì abbastanza naturale, ma in fondo sarà quello che cercherò di mettere in discussione.
Ora questo passaggio dall’osservazione all’intervento è effettivamente veloce, quasi automatico per noi insegnanti, come se in mezzo non ci fosse niente, ma non è così, in mezzo c’è l’interpretazione, anche se non ne siamo consapevoli, ma interpretazioni diverse ci condurrebbero a interventi diversi. Allora qual è l’interpretazione sottintesa al tipo di intervento descritto, ad esempio si rispiegano gli argomenti, ma quali? Quelli che l’insegnante in quanto esperto ritiene necessari e/o sufficienti; l’interpretazione sottintesa è che se lo studente sbaglia o non dà risposte corrette è perché non ha conoscenze o abilità necessarie, non sa abbastanza di quel contesto.
Il quadro dell’intervento tradizionale a scuola, vede in realtà un processo di intervento solo come ultima parte di un processo di osservazione e di interpretazione che insisto rimane per lo più implicito. Cominciamo dal processo di osservazione, allora il ruolo dell’errore è tale che c’è identificazione tra errore e difficoltà, come dire che la presenza di errore è segnale di difficoltà, ma è vero anche che l’assenza di errore non garantisce che difficoltà non ci siano. Popper, lo voglio citare, sostiene che evitare errori è un ideale meschino, cioè porsi quest’obiettivo come ideale è meschino.
Se non osiamo affrontare problemi così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà sviluppo della conoscenza, in effetti è dalle nostre teorie più ardite incluse quelle che sono erronee che noi impariamo di più, nessuno può evitare di fare errori, la cosa più grande è imparare da essi. Se noi facciamo domande troppo facili, minimizziamo e non ci sarà sviluppo. Quindi la presenza di errori è inevitabili, e l’assenza garantisce davvero che tutto va bene? e qui mi viene in mente Gardner in Educare e comprendere, che parla del compromesso delle risposte corrette, cioè ci si accontenta del compromesso delle risposte accettate come corrette, così facciamo finta che se hai risposto bene hai capito, in tempi brevi conviene a tutti e due.
Le prove cosiddette oggettive: in alcune interviste si evidenziano diversi gruppi di allievi, quelli che hanno dato risposte corrette e sanno motivare il perché, quelli che insomma hanno capito.
Quelli che hanno dato risposte corrette ma dimostrano una scarsa comprensione di quello che hanno fatto, ma anche quelli che hanno dato risposte sbagliate, ma dimostrano di aver capito.
Ora la cosa di per sé non sarebbe grave, tutte le volte che si misura qualcosa ci sono degli errori, il problema è l’entità dell’errore. In questa ricerca più della metà degli allievi appartiene agli ultimi due gruppi.
Quindi questa identificazione tra errore e difficoltà viene messa in crisi, sia che la presenza di errore sia sintomo di difficoltà, sia che l’assenza di errore garantisca che tutto vada bene. A proposito dell’errore, come possa essere risorsa didattica a scuola, riferisco di una ricercatrice italo americana Raffaella Borasi che ha dedicato a ciò diversi articoli, lei contesta la metafora della medicina della difficoltà, propone nuove metafore per l’errore che sono indicative. Parte dalla metafora del perdersi in una città. Configura tre diversi scenari, il primo sono in una città, devo andare a un appuntamento importante, devo essere lì, mi perdo e naturalmente vivo questo fatto in senso negativo, come un ostacolo che non ha niente di positivo neanche dal punto di vista emozionale.
Secondo scenario, sempre perdersi in una città, ma in un contesto diverso, mi sono trasferita da poco in una nuova città, sto tornando dal lavoro e mi perdo, non c’è più la frenesia, la fretta del primo scenario, può essere un’occasione per imparare a muovermi, ci vedo qualcosa di positivo.
Ancora diversa la situazione se invece mi perdo in una città dove sono turista, se mi perdo lì niente di male, anzi proprio perdendomi riesco a trovare delle vie, dei posti che nella guida non erano indicate.
Questa metafora applicata all’errore stia ad indicare che anche a scuola l’errore può essere vissuto in modi totalmente diverse, può dare sensazioni diverse, con diverse esperienze di apprendimento e in modo collegato tra pensiero ed emozione può essere collegato a emozioni molto diverse, di scoperta piuttosto che di frustrazione o di rabbia.
Suggerisce due modi tipici di vivere l’errore, ad esempio l’errore tipico: sommando due frazioni, spesso viene fatto di sommare i numeratori e sommare i denominatori, diventa il punto iniziale di un percorso di apprendimento. Le domande che si possono fare, quando succede? in quali casi e perché? e così via… ritornando a noi, tutto questo mette in crisi l’approccio usuale alle difficoltà, già a livello di osservazione, ma andando avanti sulla riflessione dell’intervento di recupero tradizionale, volevo soffermarmi sull’ultimo aspetto in modo pragmatico, cioè al di là delle critiche sull’identificazione errore/difficoltà, la critica che io muovo non è di tipo ideologico, mi pongo la domanda: questo intervento, così come è descritto, funziona?
Perché se fosse saremmo tutti contenti. In realtà questo intervento funziona con gli allievi bravi, cioè con quelli che non ne hanno bisogno,ma per coloro a cui è dedicato, questo intervento è fallimentare: correggo gli errori, rispiego, faccio vedere come si fa, ma in genere non funziona. La mia ipotesi è legata a un’osservazione sull’errore che pretende di essere oggettiva, ma a mio parere non può esserlo e che ignora completamente la complessità del processo di recupero, inoltre è un intervento locale, circoscritto al contesto errore/fallimento, e è discutibile addirittura anche la scelta degli argomenti, che l’insegnante in quanto esperto, ritiene sufficienti per produrre una risposta corretta.
Per l’oggettività che in matematica è sentita molto, l’errore come indicatore oggettivo, ora dire che l’errore è oggettivo è un conto, ma dire che è un indicatore oggettivo di difficoltà è una cosa diversa. Se mi si dice di fronte a un compito quel ragazzo ha sbagliato quella cosa lì, ma io dico in quale contesto è stato commesso l’errore, se è stato commesso in una verifica chi è che ha costruito la verifica? Chi ha deciso le domande, gli obiettivi,cosa c’è di oggettivo nei vincoli che si impongono agli allievi? Il tempo, il numero degli esercizi, la calcolatrice sì o no, queste scelte stanno a monte degli errori degli allievi e mettono in crisi l’idea che l’errore sia effettivamente oggettivo.
Inoltre quando si passa dall’osservazione dell’errore all’intervento di recupero non è che qualsiasi errore io intervengo, in realtà nel passaggio dall’osservazione al recupero l’insegnante valuta la gravità dell’errore. Ho fatto più volte l’esperienza di far valutare gli errori agli insegnanti, chiedendo sempre qual è il più grave o il meno grave, con una scelta ben fatta, una decina di errori, tutte le volte riesco che a trovare che un errore è considerato contemporaneamente il più grave di tutti e il meno grave di tutti. La cosa interessante è che quando gli insegnanti argomentano, le loro argomentazioni sembrano assolutamente legittime, ma quello che viene fuori è che queste valutazioni poggiano su valori diversi, per esempio il ragazzo che usa male le parentesi viene considerato poco grave perché è solo questione di linguaggio o molto grave perché non lo padroneggia. O ancora il comportamento è poco grave perché non ha studiato, molto grave per lo stesso motivo. Molto più spesso accade che valutazioni diverse da parte degli insegnanti corrispondono a interpretazioni diverse. Per sfatare ancora una volta il mito dell’oggettività dell’errore, mi voglio soffermare sull’idea che l’osservazione standard basata sull’errore ignora la complessità del processo di recupero, a scuola abbiamo come minimo l’insegnante e l’allievo, ma in realtà abbiamo molte altre cose e più allievi, comunque nel recupero accade che l’insegnante vuole e fa di tutto affinchè l’allievo modifichi il proprio comportamento, questo cambiamento è il recupero. Ovviamente è l’allievo che deve modificare il comportamento, è un piccolo particolare, ma fa la differenza, conseguenza naturale di questa complessità è un’osservazione che scivola dall’errore a quelli che io chiamo i comportamenti fallimentari. Devo definire cos’è un problema e per farlo prendo una definizione di Duncker, il problema sorge quando un essere vivente ha una meta ma non sa come raggiungerla, questo distingue il problema dall’esercizio e suggerisce il fatto emozionale che se non si ha una meta, uno scopo un obiettivo, una situazione non può essere problema. Nell’apprendimento della matematica, ma non solo, si possono riconoscere diversi tipi di problemi, interni alla disciplina, un problema di geometria, un’equazione di terzo grado, ma anche problemi esterni alla disciplina, prendere una sufficienza a un compito, fare bene un’interrogazione, una stessa situazione può far nascere in individui diversi o anche nello stesso individuo, diversi obiettivi e quindi diversi problemi, ma anche nessun obiettivo e quindi nessun problema, cosa voglio dire in contesto scolastico, che lì la maggioranza dei problemi sono eteroposti, cioè è l’insegnante o il libro di testo che consegna il problema all’allievo. Uno stesso compito può quindi richiamare obiettivi diversi nell’insegnante che lo sta dando e nell’allievo che lo riceve, ci sono ricercatori che dicono che un problema di matematica diventa nel momento in cui lo passo agli studenti, un problema più di natura sociale, dimostrare al professore che ho capito, prendere la sufficienza, riuscire a ottenere il motorino o l’uscita per stasera, quindi la situazione sembra la stessa, ma gli obiettivi si sono trasformati nel passaggio. Un bambina alla domanda, cosa ti fa venire in mente la parola problema, risponde, mi fa venire in mente il problema di una storiella corta dove finita la storia, bisogna risolverla e quando non riesco a concentrarmi sul problema, capisco: ecco perché lo hanno chiamato problema. Nel caso della scuola, non è intrinseco alla scuola, i problemi si possono far nascere, se i problemi sono posti da altri, abbiamo più soggetti che hanno diversi obiettivi, qui serve la definizione di successo/fallimento. Se il soggetto non raggiunge la meta possiamo parlare di fallimento, non globale, morale, ma per quel soggetto rispetto a quella meta. Anche questa è una definizione soggettiva, non legata alla situazione, ma a quella persona particolare.
Se un ragazzo voleva prendere otto alla verifica e prende sette, lì c’è un fallimento, ma se voleva prendere la sufficienza e prende sei, per quel ragazzo si tratta di un successo, questo per sottolineare il fatto che in questa ottica non ha senso definire se non lo rapporto all’obiettivo posto dal soggetto. E allora ci siamo quasi, perché possiamo parlare di comportamenti fallimentari come di comportamenti che portano al fallimento, dopo ciascuno di noi è tentato a cercare i comportamenti responsabili del fallimento.
Gli esempi sono le attribuzioni di fallimento ben studiate in psicologia, ho preso l’insufficienza al compito perché era difficile, la professoressa ce l’ha con me, perché non me l’hanno passato, perché mi sentivo male. Tra tutti questi c’è quello che posso modificare, perché sono io che l’ho attivato. Ma nella scuola è l’insegnante che riconosce il fallimento e individua i comportamenti fallimentari di un altro soggetto che è l’allievo. L’insegnante vuole che l’allievo modifichi il suo comportamento fallimentare, di un fallimento riconosciuto dall’insegnante. In questa alternanza le cose si complicano, perché è l’allievo che deve modificare il suo comportamento. Se l’allievo si è posto altri obiettivi o non se ne è posto nessuno, non necessariamente condivide il fallimento e se non lo riconosce per quali motivi dovrebbe cambiare il comportamento. Esempio se un insegnante ha un obiettivo interno alla matematica, mentre l’allievo si pone un obiettivo esterno alla matematica, siamo nel caso esposto prima. Se l’allievo voleva dare la risposta giusta, prendere un buon vuoto, non riconoscerà mai di aver sbagliato, se ad esempio il risultato torna, ma il procedimento è sbagliato, per l’insegnante ci sono degli errori, per lo studente no, perché l’obiettivo è stato raggiunto. L’errore c’è ma non si è trasformato nello studenti in un fallimento, quindi non cambierà il proprio comportamento. Inoltre i comportamenti fallimentari non è detto che siano condivisi, ma l’allievo vorrà cambiare quei comportamenti che lui stesso riconosce come fallimentari.
Se l’allievo ha copiato male da un compagno bravo e non ha avuto la sufficienza, l’insegnante dirà che non ha studiato, lui saprà che non ha saputo copiare, quindi non deve studiare di più, ma imparare a copiare.
Nelle risposte a caso, frequenti in matematica, l’errore per l’allievo è aver dato quella risposta e non un’altra, per l’insegnante sta nell’aver risposto a caso.
Implicazioni di tutto questo stanno nel riconoscere la difficoltà intrinseca al recupero, cioè che ci sono soggetti diversi e l’importanza fondamentale è che questi soggetti condividano obiettivi, che l’insegnante abbia chiari almeno i suoi obiettivi, di esplicitarli e di conoscere gli obiettivi alternativi dei propri allievi. Sul discorso del locale/circoscritto riporta il fatto che l’intervento dell’insegnante sia in genere nello stesso contesto in cui si è verificato l’errore rimanda al problema dell’interpretazione dell’errore, di solito noi diciamo che si sbaglia perché non si sa abbastanza di quel contesto, a mio parere ha poco senso dire è giusto o sbagliato, riprendendo la metafora della medicina, non mi interessa che la cura sia giusta o sbagliata, mi interessa di guarire.
L’interpretazione non è giusta o sbagliata, ma è un’ipotesi di lavoro per l’insegnante, necessaria, non si può non interpretare se si vogliono dare indicazioni didattiche. Come ipotesi di lavoro è molto importante sapere che si sta interpretando e non osservando, perchè se non funziona si può tornare indietro e con un’osservazione più mirata costruire un’interpretazione alternativa con interventi alternativi.
Quindi bisogna avere un repertorio di possibili interpretazioni, molto spesso invece le interpretazioni si limitano a dire: non ha studiato, non ha capito, non è capace; non si va al di là di ciò. Di interpretazioni possibili ce ne sono tante e sono all’interno del quadro che ha tracciato Nicoletta Lanciano nel suo intervento sull’apprendimento come attività costruttiva in cui l’allievo è cosciente e interprete dell’esperienza, persona attiva che partecipa alla costruzione della propria conoscenza.
Voglio fare un esempio che mi piace particolarmente, ed è la differenza tra pensiero logico e pensiero narrativo, questa ci riporta all’idea di differenti razionalità, differenti modi di affrontare la realtà. Riprendo le parole di Bruner: il pensiero logico-scientifico si occupa di categorizzare la realtà, di ricercare cause di ordine generale applicando argomentazioni dimostrative, però questo pensiero appare inadeguato a interpretare fatti umani, a mettere in relazione azioni/intenzioni, desideri, convinzioni e sentimenti e a coglierne il significato. L’interpretazione dei fatti umani è invece resa praticabile da un tipo differente di pensiero che caratterizza una differente modalità di approccio al mondo, appunto il pensiero narrativo. Questi due tipi di pensiero sono irriducibili, ma complementari e mi sembra che un contesto in cui la presenza di questi due tipi di pensiero ci permetta di spiegare i comportamenti degli allievi, sia quello dell’attività di risoluzione di problemi, non solo nella scuola elementare, ma anche nella scuola media e superiore. Farò un esempio per la scuola elementare, nell’ottica dell’interesse che può avere anche per gli studenti il comportamento dei bambini. Il problema in genere ha un contesto poi c’è una domanda, noi diamo il problema perché secondo noi quello sviluppa il pensiero logico, però a tutti i livelli il contesto è molto ricco, ha riferimenti al vissuto familiare, in altre parole la ricostruzione della situazione è permessa dal pensiero narrativo che poi sosterrà il pensiero logico, questo è quello che vorremmo succedesse, per ricostruire la situazione. Questo è un problema dato per riconoscere l’intuizione probabilistica nei bambini di seconda terza elementare: ogni volta che va a trovare i nipotini, la nonna porta un sacchetto di caramelle di frutta, chiede loro di prenderle senza guardarle, oggi ci sono 3 caramelle al gusto di arancia e 2 al gusto di limone, se Matteo prende le caramelle per primo è più facile che gli capiti quale gusto e perché? Siccome era stato per verificare le intuizioni probabilistiche, i ricercatori stabilivano che chi rispondeva sbagliato non le possedeva. Rispondere sbagliato qui vuol dire, magari rispondere esattamente alla prima, ma dare un’argomentazione non logica alla seconda. Quindi un bambino che risponde all’arancia, perché se la prendeva al limone ne rimaneva una sola, questa viene considerata un errore e un segnale di mancanza di intuizione.
Secondo me non si tratta di errore perché in questo caso c’è una pessima formulazione del testo, che spinge è vero verso un pensiero narrativo, ma lo fa talmente tanto che spinge i bambini a completare una storia. Mi viene in mente il libro di Eco, Se passeggiate nei boschi narrativi, e mi viene da dire che questi bambini si perdono nei boschi narrativi, e così si offusca il pensiero logico che si vorrebbe attivare e può essere che per trovare un finale adeguato dal punto di vista narrativo, si mettano in atto processi molto più elaborati di quelli necessari per produrre la risposta esatta. Voglio però sottolineare una mia convinzione, per non essere fraintesa, il pensiero narrativo può sostenere fortemente ed è del tutto necessario nella soluzione dei problemi di tipo logico, ma bisogna stare molto attenti alla formulazione del testo del problema. Così capita che problemi totalmente assurdi vengano recuperi solo dal pensiero narrativo, là dove il pensiero logico non ce la farebbe. Ad esempio: avrete forse sentito parlare del problema assurdo dell’età del capitano, un problema famoso che ha dato tanto da mangiare ai ricercatori, cioè su una barca ci sono 20 montoni, 4 capre, 2 pecore, quanti anni ha il capitano? Dato alle scuole elementari, la maggior parte dei bambini risponde scegliendo tra le operazioni quelle che portano a un risultato plausibile. È stato provato da un insegnante che non ricordando il testo esattamente lo prova in modo un po’ diverso, in un prato ci sono 20 pecore, 7 capre, 2 cani, quanti anni ha il pastore? Questi i risultati: tra 16 bambini 14 fanno 20+7+2 e rispondono il pastore ha 29 anni; un bambino afferma che non si può rispondere per mancanza dati, e un altro risponde che ha fatto un ragionamento particolare, se il pastore ha due cani per così poche bestie, uno dei due cani forse gli serve perché non vedente, quindi deduco che abbia sui settant’anni. Qui è il discorso inverso, è il discorso narrativo che ce la fa dove quello logico è vinto e rende dignità a una domanda che non l’avrebbe assolutamente.
Sono alla fine, ricordo l’importanza di un repertorio di interpretazioni possibili ed è cruciale la collaborazione dei nostri studenti, perché sono loro che ci possono dire su quello che sta succedendo, importante quindi sviluppare attività metacognitive e è cruciale stabilire una buona comunicazione e per noi insegnanti è importante imparare a far domande di cui non conosciamo la risposta. Ma domande del tipo come hai ragionato? cosa stai pensando? di queste non conosciamo la risposta.
Ho iniziato con un prologo e finisco con un epilogo ottimistico, quando il primario si rivolge all’ultimo dottore chiedendo dei suoi pazienti per ottenere la risposta che sono in via di guarigione, senza aver dato la penicillina e scoprendo per uno che i dolori alle gambe derivavano dalle scarpe correttive, mentre la diagnosi iniziale era stata amputazione. Quando il primario chiede i valori delle analisi che hanno fatto capire il problema, il medico risponde di non averne avuto bisogno, è bastato guardarlo camminare. Mi dica dell’altro paziente, bene quello è stato dimesso, ho trovato la causa dell’allergia, voi dicevate che era di causa alimentare proponendo il digiuno assoluto, invece, allora chiede il primario, quale macchinario ha usato, lei non finisce di stupirmi, mi dica chi le ha dato tutte quelle informazioni… a dir la verità, risponde tranquillo il medico, non ho usato grandi macchinari e le informazioni me le ha date lui, ma come è possibile? Come ha fatto, esordisce il primario, e come gliele avrebbe date? Semplice, risponde il medico, quando gliele ho chieste!
Rosetta Zan
Prof. Santoni Rugiu – 29 marzo 2007
(intervento revisionato dall'autore)
Da un lato mi è molto facile, da un lato molto difficile parlare del ruolo dell’insegnante. Dovrebbe essermi molto facile perché in realtà mi occupo di questo argomento da un numero di anni tale che non vi dico quanti sono per non spaventarvi. Insegnavo nella scuola ai tempi delle scuole puniche, come dice il figlio della prof.ssa Sgherri, ho passate un po’ tutte le scuole secondarie, ma in partenza non è che mi interessasse più di tanto il lavoro didattico che vi svolgevo, anche se cercavo di farlo al meglio. I miei interessi privilegiati erano altri, fuori della scuola. Mi occupavo di radio, di cinema, di teatro e dell’allora nascente televisione. Poi, per esperienze associative (la partecipazione al Movimento di educazione civica, MCC, al Movimento di Cooperazione educativa, MCE, ai Centri di avviamento all’educazione attiva, CEMEA) per altre più politiche (l’esperienza nella Commissione scuola del Partito socialista) sono stato indotto a occuparmi degli insegnanti e ad avere incarichi in un sindacato insegnanti., anzi per la verità, siccome venivo da una provenienza di un partito allora schierato a sinistra e rappresentavo gli insegnanti di sinistra, per prudenza mi avevano subito addetto agli ausiliari, agli aiutanti tecnici, che tuttavia mi hanno aperto sulla scuola una finestra, una aperçue come dicono i francesi, un punto di vista che altrimenti non avrei mai avuto, mostrandomi il fascio delle diverse influenze educative della scuola che non si esauriscono nel rapporto docente-alunno.
Mi incuriosì però soprattutto la figura dell’insegnante e sapere come fosse nato il professore di scuola secondaria (qualifica che non trova riscontro in altre lingue perché, per esempio, nei paesi ispanici, il maestro elementare si chiama professore e invece dalla scuola secondaria in su l’insegnante, compreso quello universitario, si chiama maestro. Il titolo di “dottore” è riservato anche e lì, come nei paesi anglosassoni, al doctor, agli scienziati, o quanto meno ai potenziali scienziati). Allora cominciai a interessarmi della figura dell’insegnante, da un punto di vista storico: la mia ottica era già quella dello storico dell’educazione. La prima scoperta fu che l’insegnante di scuola secondaria aveva acquistato una certa importanza soltanto nell’800, perché nella scuola dei secoli precedenti, l’insegnante era valutato molto meno dell’importanza di ciò che si insegnava, trionfando dall’epoca ellenistica la cosiddetta “teoria della disciplina formale” per cui ciò che valeva, ciò che si riteneva dotato di vera efficacia formativa erano i contenuti dell’insegnamento, non tanto la bravura didattica della persona che li trasmetteva. Si veda ancora l’esempio dei gesuiti che nel sedicesimo secolo introdussero una vera rivoluzione, non solo nella scuola secondaria ma in tutta la cultura pedagogica, con i loro fasti e nefasti, nei loro prestigiosi collegi assegnavano all’insegnamento quelli di loro meno dotati, perché i più bravi, i più dotati li facevano predicatori o confessori di qualche principe o di un re, in modo da orientare la politica, un po’ come in altre forme avviene ancora oggi.
Altri li mandavano missionari in terre lontane dove mettevano a frutto la loro la loro straordinaria capacità di apostolato nelle situazioni più difficili e ostili. Quelli che non avevano nessuna di queste doti spiccate, erano destinati ad insegnare nei collegi. Per aiutarli, esisteva la famosa Ratio studiorum gesuitica che descriveva punto per punto minuziosamente ciò che si doveva insegnare e come e quando, non c’erano scappatoie. L’insegnante correva come su un binario, doveva solo stare attento a non deragliare. Era più che altro un macchinario programmato per una certa funzione. Ben poco di nuovo e di originale si lasciava all’insegnante, al di là del suo ruolo di esecutore di istruzioni precise e inderogabili.
Dato che la maggior parte delle scuole era in mano agli ecclesiastici, le pochissime scuole pubbliche seguivano lo stesso format gesuitico, l’insegnante sempre contava poco. Infatti anche per questo motivo il mestiere dell’insegnante, fin dall’antichità è sempre stato pagato male. Tra gli insegnanti di retorica romani e greci, soltanto pochi avevano grande prestigio e conseguivano consistenti guadagni, perché formavano gli oratori, cioè gli uomini destinati a gestire il potere pubblico. Ma i maestri di grammatica e, peggio, quelli che insegnavano i rudimenti del sapere godevano di un basso prestigio sociale e di compensi modesti, quando non miseri: Le cose non migliorarono di molto quando Vespasiano volle in certo modo statalizzare la professione dell’insegnante.
Solo grazie all’illuminismo e alla rivoluzione culturale che ne conseguì, anche per le contemporanee prime spinte della nascente società industriale, alla fine del Settecento sorge il moderno problema dell’insegnante. Come dicevano i francesi, prima dell’800, tant vaut le maitre tant vaut l’école, in parole povere : la scuola vale quanto vale l’insegnante che la fa. Non può esistere una buona scuola in mano a insegnanti poco validi. Era un bel passo avanti: ma la professionalità dell’insegnante era ancora ben lungi dall’occupare un posto preminente. Il problema dei contenuti restava naturalmente importante, ma in qualche modo sussidiario alla bravura dell’insegnante. E qui nacque una nuova misura che tuttavia tardò moltissimo ad affermarsi pienamente. Voglio dire che neppure ai giorni nostri si è ancora affermato del tutto il concetto che la bravura dell’insegnante, non è tanto nella qualità delle conoscenze che possiede, che comunque devono esserci e buone, e nemmeno tanto nella capacità di connettere per sé le questioni del sapere in astratto, ma nella capacità di comunicazione in rapporto alle possibilità di ricezione degli alunni. Si può affermare che un insegnante molto bravo, molto comunicativo, anche se non adotta tecniche di persuasione più o meno occulte sfruttate oggi dalla pubblicità, cura l’organizzazione di un discorso, anche di un discorso didattico, prima di tutto calibrandolo su chi riceve questo ascolto.
Se la comunicazione didattica non è recepita, o è recepita male, secondo questo modello l’insegnante non è veramente bravo. Il vero insegnante non è soltanto colui che sa la materia insegnata, piuttosto colui che la sa meglio insegnare. In altre parole, la bravura dell’insegnante si giudica negli alunni. Già questo, se fosse già stato ben chiaro a tutti, ci avrebbe da tempo dovuto portare in Italia a prendere più seriamente il problema della formazione degli insegnanti primari e secondari. Gli altri paesi europei ed extraeuropei, si sono posti questo problema e l’hanno risolto sin dalla seconda metà dell’800; i paesi anglosassoni, l’Inghilterra, gli Stati Uniti primi del ‘900 avevano già in funzione i Teachers colleges, istituzioni di grado universitario ma autonomi rispetto alle facoltà, riservati alla formazione dei docenti per i diversi livelli di scuola e per le diverse discipline.
Le nostre facoltà universitarie non hanno mai avuto cura della formazione degli insegnanti. La prima ipotesi di una scuola che formasse gli insegnanti si ha dopo l’unità d’Italia. Il ministro Francesco. De Sanctis pensò che si dovesse fare come in Germania o come in Francia nell’Ecole normale, cioè delle scuole destinate proprio alla formazione e fondò a Pisa la Scuola normale superiore, la quale però fallì in breve, perché poteva accogliere pochi aspiranti insegnanti mentre il fabbisogno era elevatissimo e il gettito che quella scuola poteva dare era di poche decine, una goccia nel mare, quando invece l’apertura di tante centinaia di scuole su tutto il territorio del regno d’Italia, avrebbe richiesto decine di migliaia di nuovi insegnanti. Ma fallì anche come scuola normale perché i suoi docenti erano docenti universitari .
Così pure fallirono le cosiddette “Scuole di magistero” esistenti dal 1874 presso le facoltà di Lettere e di Scienze, in pratica corsi facoltativi di didattica per gli studenti che dopo la laurea si proponessero di insegnare nelle scuole secondarie. Ma erano basate sullo stesso vizio d’impostazione della Normale pisana: agli studenti aspiranti professori in quei corsi di formazione professionale specifica si insegnava ciò che era già stato insegnato nei curricoli dei diversi corsi di laurea, quasi come un ripasso svolto dagli stessi cattedratici o dai loro assistenti. Allora questo tipo di formazione si contraddiceva da sé. Quasi come un ripasso o un primo approfondimento di ciò che si è già studiato senza alcuna attenzione alle problematiche dell’apprendimento da parte degli alunni dei ginnasi-licei o degli istituti tecnici. Inoltre, le Scuole di magistero non ebbero lunga vita, anche perché non rilasciavano alcun titolo legalmente valido per i concorsi, ma solo un attestato finale di frequenza.
La Scuola Normale di Pisa invece non chiuse come chiusero le Scuole di magistero, ma cambiò presto lo scopo: non formazione degli insegnanti, ma degli studiosi, dei ricercatori. E questo fa ancora oggi egregiamente,però non formano insegnanti,. I docenti di didattica dei corsi che formano professionalmente gli insegnanti delle varie discipline insegnate a scuole, è bene che approfondiscano e facciano sperimentare la metodologia, il modo di concretizzare il loro sapere, e per questo possono essere utili anche seminari di discussione teorica con specialisti che insegnano all’università, ma non esauriscono affatto la vera preparazione di un futuro docente, perché il professore universitario, salvo eccezioni, è l’ultima persona adatta a formare gli insegnanti secondari, in quanto generalmente portatore inconsapevole del motto gentiliano “chi sa, sa anche insegnare”. Ma non è vero: si può essere pozzi di scienza e non sapere spiegare i passaggi più semplici e soprattutto non sapere suscitare il gusto per lo studio di questa o dell’altra disciplina e, viceversa, farla odiare precocemente. Chi sa, ha certo ottimi requisiti per essere un buon insegnante, ma non lo è ancora del tutto. Si può essere coltissimi nella biologia umana, essere un cannone in laboratorio per la ricerca giovani e poi non riuscire a comunicare ai ragazzi il fascino di certi studi e di certe scoperte. Uno studioso e un ricercatore eccellente non sempre sono buoni docenti, specie a livello secondario, se non sanno trasmettere il sapere e il piacere di conquistarlo nella forma dovuta a ragazzi preadolescenti e adolescenti.
Questa differenziazione esistente tra lo specialista di una materia e un insegnante che insegna la stessa materia, ovvero fra studioso e insegnante, noi non l’abbiamo ancora tutti accettata. Perciò non diamo una considerazione soddisfacente alla attività didattica. Qualche anno fa è nata la SISS, Scuola per la “specializzazione” ovvero per la formazione di insegnanti scuola secondaria, che ha avuto il grande merito di rompere un’inerzia che durava da centocinquanta anni circa, affrontando finalmente il problema della preparazione professionale dei professori secondari, però secondo me ha gli stessi difetti della scuola Normale di Pisa e delle vecchia Scuole di magistero preso le facoltà, di cui ho già detto. È finita anch’essa in mano dai docenti universitari. Così il professore di letteratura italiana, poniamo, specializzato, che conosce a menadito tutta la Divina Commedia e le altre opere di Dante nonché tutti i relativi commenti, agli studenti della SISS parla ovviamente di Dante, ma non sussidia l’aspirante insegnante di alcuni accorgimenti meno dotti ma più efficaci per presentare il poeta nella scuola secondaria, e poi dimentica che nei programmi scolastici esistono tanti altri autori studiati a scuola in un contesto completamente diverso, con gli studenti, che possono essere anche vocazionalmente diversi da quelli universitari e seguono un curricolo che ha tutt’altra logica e finalità.
Anche supposto che le SISS fossero una struttura positivamente funzionante e adeguata allo scopo, avrebbero adempiuto solo a una parte del loro compito, solo ad una parte della loro funzione istituzionale, perché oggi la formazione non può essere risolta una tantum e solo preliminarmente all’inizio della propria formazione. Poteva andare bene in una visione ottocentesca, quando la scienza, la ricerca, la tecnologia stessa si sviluppavano a ritmi talmente lenti da essere quasi statici, come era nella società precedente la rivoluzione industriale o poco più. Un medico che avesse imparato le nozioni di patologia e di clinica a venticinque anni, aveva buone garanzie di non aver bisogno di aggiornamento per tutta la sua attività professionale in campo sanitario. Ma oggi che nel giro di dieci anni si sconvolge e si rinnova il sapere medico, le tecnologie chirurgiche e diagnostiche, le applicazioni terapeutiche che richiedono, più che un aggiornamento, una riqualificazione. Cosa ne sarebbe di quel medico generale o specialista che non sentisse la necessità di riciclarsi almeno una volta ogni dieci anni? Per l’insegnante è la stessa cosa, c’è un’evoluzione nel ruolo dell’insegnante, sempre più si richiede da lui, molte nuove responsabilità gli si attribuiscono (basta pensare ai decreti Moratti ), in una parola si chiede sempre più senza che si sia pensato a offrirgli una preparazione adeguata. Purtroppo gli insegnanti italiani hanno a che fare con il Ministero della Pubblica Istruzione ( qualcuno l’ha chiamato della “pubblica distruzione”). Quel ministero nacque nel 1846, due anni prima dello statuto albertino, era ed è sempre rimasto, malgrado alcuni ritocchi innovativi, un organismo giuridico-amministrativo che procede per via burocratica:, tiene aperte le scuole, ne apre, le accorpa, le organizza, stabilisce la carriera giuridico-ecomomica degli insegnanti, stabilisce certi parametri, appunto, di carattere giuridico-amministrativo. Non ha l’attrezzatura, non ha la forma mentis. Oggi penso che il problema cruciale e centrale della valutazione sia molto cambiato. La logica dell’insegnamento che era selettiva, oggi è diventata anche troppo permissiva, assolutoria. Anche questo è un capovolgimento che l’insegnante ha vissuto nella scuola, cambiamento che non è stato fornito di nessuna capacità, di nessuna sensibilità nuova per farvi fronte. Quando si legge che negli esami di maturità, anche di quest’anno, esistono dei candidati con dei debiti formativi non assolti e che possono fare l’esame, il che equivale a dire che hanno già la maturità in tasca. Il ministro Fioroni, si dice, toglierà questa assurdità, ma lo fa con bisturi molto lento e leggero. Ma, si badi bene, a fronte del dogma “tutti a scuola”, c’è, preoccupante, l’alto numero degli abbandoni precoci e poi l’alta percentuale dei diplomati secondari e dei laureati che non trovano occupazione. Allora la selezione si è solo ritardata: ma selezionare un ventenne o un venticinquenne è peggio che selezionare un quindicenne.
La scuola selettiva dei tempi di don Milani, di Lettera a una professoressa e quella della contestazione sessantottina, oggi è completamente diversa. Allora un insegnante sapeva che doveva entrare nella logica della selezione. Oggi se uno si permette, non dico di bocciare, ma valutare negativamente, viene richiamato in modo acceso dai genitori dai dirigenti scolastici. Quindi, la mia speranza di vecchio, testardo osservatore del divenire della scuola e dell’insegnante è che gli insegnanti riescano a prendere in mano la scuola, che formino una associazione che gestisca la formazione e l’aggiornamento dei più giovani colleghi, sempre tenendo conto che ogni soluzione pedagogico-didattica è e lo sarà sempre più domani in continuo divenire. Capisco le difficoltà, capisco il quoziente utopico di ciò che dico, ma questa è la mia speranza e credo che non esista nessun altro ente o altro gruppo professionale che possa assumersi oggi questo carico. Credo di aver già detto molto e vi ringrazio.
APPRENDERE AD APPRENDERE
Alfonso Maurizio Iacono – 30 marzo 2007
(intervento non revisionato dall'autore)
La chiusura dell’intervento del Professor Buiatti sulla virtualizzazione è un punto che mi sembra di straordinario interesse in questo momento per ragioni diverse.
Perché è vero che noi abbiamo una difficoltà cognitiva a sapere distinguere tra i diversi livelli di realtà, problema che ha a che fare anche con la questione dell’apprendimento. Se tra studiosi ci si mette a discutere di geni e di carattere sicuramente troviamo un accordo, molto diverso da quello che avviene tramite mass media, dove ci viene detto che a ogni gene corrisponde un carattere e quindi risolviamo il problema lo modifichiamo e così avremo figli con gli occhi a pallini blu.
Questo ha a che fare con l’apprendimento, sono convinto che molto dipende dal punto di vista scientifico, dai codici che noi usiamo.
Per esempio io ho fatto un incontro con la filosofia alle scuole elementari, opponendomi al concetto che alla scuola elementare bisogna fare solo cose semplici e divulgative, secondo una buffa piramide con la quale si ascende al cielo. Molto dipende dai linguaggi e dalla padronanza con la quale sappiamo usarli, sono convinto che se si usano i miti filosofici con i bambini, si raggiungono livelli di profondità che con il linguaggio specializzato non si raggiunge. Io parto dal presupposto che i linguaggi sono tutti traducibili e tutti irriducibili, noi non possiamo avere il linguaggio totale, nè profondissimo, abbiamo diversi tassi di profondità legati al tipo di linguaggio che si usa.
Non ragiono in termini di alto e basso, perché i media tendono a farlo elevando il gap, si assiste a una crescita di ignoranza con l’aumento delle informazioni, ma all’interno per esempio di famiglie blindate, c’è più difficoltà in realtà di accesso al sapere.
Ad esempio mercoledì ho provato un esperimento, ho messo in scena la teoria, non raccontando storie, ma facendo camminare i concetti, è stato molto difficile, ma vedremo cosa accadrà.
Il vero problema è capire come noi diventiamo autonomamente padroni dei luoghi dove avvengono i significati. Per esempio Buiatti diceva che non è vero che noi ci programmiamo, in definitiva cosa ha fatto il professor Buiatti? Ha applicato quello che Nietzsche diceva a proposito della verità, cioè diceva che le verità sono metafore di cui abbiamo dimenticato l’uso, allora ci appaiono come delle verità assolute e le accettiamo quanto tali. Le scienze hanno oggi questo ruolo imposto, diciamo apodittico, l’ha detto l’esperto, e allora una verità diventa ovvia e scontata.
Il fatto che noi a scuola parliamo di debiti e di crediti, è un fatto metaforico certo, ma è dovuto al fatto che viviamo in una società dominata dal mondo economico bancario, così nella scuola questo è un linguaggio tecnico, ma in realtà è una metafora bancaria trasportata nell’apprendimento, e ancora peggio la dice sul fatto che noi le metafore non le padroneggiamo. C’è una caduta di senso critico quando noi naturalizziamo queste cose, le rendiamo scontate e ovvie, facciamo una valutazione su uno studente come fosse un estratto conto bancario. Alla lunga tutto questo incide.
Voglio sottolineare ora alcuni aspetti a cui tengo molto, parto da quel titolo al vostro convegno “Vedere attraverso” e addirittura quel quadro di Magritte del ’34. Voglio partire da una citazione di Paul Klee, dalla quale si comprende che il ruolo della pittura è rendere visibile, non riprodurre il visibile: “Si aprono dei mondi che appartengono anche alla natura, ma non tutti gli uomini lo possono penetrare con uno sguardo che è forse solo dei bambini, dei pazzi, degli uomini della società dei primitivi. Il regno dei non nati e dei morti, il regno di ciò che può e vorrebbe venire, ma non deve venire, un mondo intermedio. Lo chiamo così perché lo sento tra i mondi percettibili esteriormente ai nostri sensi e posso appellarlo intimamente e proiettarlo verso l’esterno in forme equivalenti. Sono in grado di guardarlo ancora o di nuovo come i bambini, i pazzi e i primitivi. E ciò che questi vedono e cercano è per me la più preziosa conferma, poiché noi vediamo tutti allo stesso modo, anche se da parti diverse e la stessa in generale e in particolare su tutta la terra, nessuna fantasticheria, ma una realtà dopo l’altra”.
Ora io ho voluto collegare questa citazione con alcune considerazioni che faceva uno dei più grandi psicoanalisti del ‘900 che è Donald Winnicott e che ha molto a che fare con l’apprendimento. Quello che ha detto Klee corrisponde a ciò che Winnicott ha scritto in un testo molto famoso “Oggetti transizionali e fenomeni transizionali”. Lì si parla di uno stato intermedio del bambino, tra l’incapacità da un lato e la crescente capacità di accettare la realtà. Tale stato intermedio ha a che fare con l’illusione che per Winnicott ha il valore cognitivo del riconoscimento della realtà, quindi l’illusione non è inganno, ma un costruire attraverso mondi una realtà.
Noi puritani pensiamo che l’illusione sia inganno, perché siamo determinati da una certa cultura, ma se così fosse ogni poesia sarebbe un inganno, ma la poesia è illusione che dà verità.
Winnicott studia la sostanza dell’illusione, quella che viene concessa al bambino e che nella vita adulta è parte intrinseca dell’arte e della religione e che tuttavia diventa il marchio della follia, allorché un adulto pone un eccesso di richieste alla credulità degli altri. Eraclito sosteneva che noi che non dormiamo e siamo svegli, condividiamo un mondo che è un modo della realtà che condividiamo insieme, ma se viviamo insieme in questo mondo condiviso non costruiamo senso critico, non apprendiamo, viviamo di pregiudizi, lo accettiamo così come è e chi ha qualcosa da dire passa per folle o per diverso.
Io credo che sia per Klee che per Winnicott non è questione di rapporto o di contrapposizione tra fantasia e realtà, è questione di spostamento del punto di vista, attraverso cui viene riconosciuta la realtà. Io mi sto muovendo su questa ipotesi, cioè penso che noi viviamo in un mare di mondi intermedi e voi me lo confermate, perché siete qui, ma starete pensando anche ad altro, sono mondi intermedi perché stanno concettualmente in relazione tra loro e perché ciascuno di esse non è una monade, non può vivere senza riferirsi a un altro mondo, è questo che ci permette di uscire da questi mondi, per esempio di pensare, come fa Buiatti, attenzione il modello che noi abbiamo del modello, del progresso è falso, perché è solo una metafora, un’idea, non è vero.
Noi possiamo venirne fuori solo se siamo in grado di simulare l’uscita, altrimenti non avremmo senso critico. Ad eccezione forse del sogno, ogni mondo costruisce la sua autonomia a partire dalla relazione con un altro mondo o universo di significato che a sua volta può essere percepito con la coda dell’occhio, ogni mondo fa riferimento a un altro mondo al quale somiglia e dal quale tende ad autonomizzarsi, ogni mondo trova la sua autonomia all’interno della relazione di almeno un altro mondo.
Voglio dire citando W. James, padre della psicologia, oggi fortemente recuperato, è lui che ci dice cos’è l’emozione, quando sento la paura prima mi batte il cuore e poi la capisco, è l’emozione che prevale e mi salva. Lui sostiene che il senso di qualcosa che noi pensiamo sia irreale, può venire soltanto se qualcosa è contraddetta da qualche altra cosa a cui pensiamo. Qualunque oggetto non contraddetto è ipso facto creduto e accettato come realtà assoluta. Il procedimento di accettare per esempio la realtà crediti/debiti come un fatto naturale, poi assoluto e poi non riusciamo più a vedere come cambiare le cose, dobbiamo essere coscienti dell’uso delle metafore, specie se le usiamo in un campo così delicato come quello valutativo. È impoverente che non lo si faccia mai.
La credenza in una realtà assoluta, per fare un esempio classico che nasce dalla filosofia, i prigionieri nella caverna di Platone che non hanno alcun mondo oltre quello delle ombre, anzi non hanno la differenza, non possono fare il confronto con altro, i prigionieri e loro le ombre non fanno passaggi, l’unico che lo fa è il prigioniero liberato che ha un arricchimento cognitivo. Le ombre sono la realtà che non viene discussa, noi ci portiamo dietro un concetto nel rapporto tra i saperi, che sta nella tendenza che noi abbiamo a identificare la verità con l’esattezza. Io non sono contro l’esattezza, ma non possiamo affermare che ogni verità sia vera solo se esatta.
Heidegger, discutibile per alcuni aspetti, ma valido per altri, nel ’38 aveva scritto in un saggio “L’epoca dell’immagine del mondo” che l’investigazione matematica della natura non è esatta perché calcola esattamente, ma deve farlo perché ciò che la vincola a calcolare in questo modo è il carattere dell’esattezza. È importante questo passaggio e noi viviamo l’esatto contrario, cerchiamo fondamenti continui.
Non il problema della verità è se mai la questione, ma il fatto che noi viviamo in un’ideologia dell’esattezza e dunque dobbiamo costruire una corrispondenza che ci confermi in questo.
Questa concezione nasce con la prospettiva, ecco il vedere attraverso, ma cosa vuol dire, nasce quando Leon Battista Alberti solleva il problema della metafora della finestra, proprio quella che ci porterà a windows, finestre del computer e che ci portiamo dietro fino alla finestra televisione e applica per la prima volta la geometria e quindi la matematica alla riproduzione del mondo. Siamo agli inizi del ‘400 ma dà risultati vertiginosi, è la prospettiva l’alta definizione che nasce allora come visione e pratica e che poi è diventata metodo assoluto.
Dato che ci dava una visione formidabile, altamente definita attraverso una finestra, poi tutta la pittura contemporanea ci ha fatto capire che la pittura non è prospettiva, perché non riproduce il mondo, ma non lo fa neanche la fotografia, perché è piena di punti di vista, l’aspetto cognitivo rilevante è quello della differenza.
Se mi permettete una citazione, un grande filosofo e poeta Coleridge che distingue tra due termini che sono la copia e l’imitazione, la copia è il trompe oeuil, cioè quella cosa di cui ti accorgi solo dopo che hai scoperto il trucco, non sei avvertito, se vedo una mela la devo toccare per capire che è di marmo e affermare che è una copia, mentre il grande pittore del Seicento che riproduce della frutta, non fa una copia perché qui prevale l’identità, mentre nella copia prevale la differenza. Ora l’elemento della differenza corrisponde al tema del passaggio e della percezione del passaggio, senza differenza non c’è conoscenza.
Le vacche direbbe Hegel sarebbero tutte eguali di notte se noi non percepissimo l’aspetto della differenza.
Torniamo a quel fatto che noi siamo abituati a identificare la verità con l’esattezza, Heidegger distingueva il concetto di rigore e quello di esattezza, ma possiamo davvero pensare che il sapere storico debba essere esatto? che ridotto il mondo a linea cifre abbiamo il potere di ridurre i saperi e le conoscenze a un unico metodo e a un unico modello? Quale esigenza pensiamo di soddisfare in questo modo, non desideriamo forse confermare le strategie della nostra cultura e della nostra storia, che però attribuiamo esclusivamente alle doti della natura? Non desideriamo rassicurare noi stessi sulla tenuta e sulla solidità del mondo? Questo bisogno dell’uno a tutti i costi, il cui corrispettivo alternativo è invece una molteplicità che io chiamo marmellata e che corrisponde molto al tutto eguale.
Non c’è un molteplice indifferente uguale negativo o un uno, secondo me c’è una molteplicità di mondi che si differenziano e si contrastano anche.
La questione della complessità è un tema che ci portiamo dietro, cito un grande biologo Conrad Hal Waddington, un maestro della scienza al bivio, per definire la nozione di complessità osservo che nessuno è ancora riuscito a darne una definizione significativa da permetterci di stabilire con esattezza il grado di complessità che caratterizza un dato sistema, cioè teorizza un’impossibilità metodologica che dovrebbe rasserenarci, è una botta all’onnipotenza, perché, nel caso delle scienze storico sociali, dove collocare il confine tra soggetto e oggetto, come interpretare i rapporti umani e le loro forme storiche di comunicazione e di riconoscimento.
Quale rilevanza hanno concetti come differenza, relazione, cornice, contesto nell’ambito di una riflessione sulla conoscenza. Intendo dire sono completamente dentro alla definizione epistemologica e alla sua operatività o sono i seminarietti che facciamo a lato nell’angolo buio e che non entrano poi nella pratica.
Perché attività come il gioco o la mimesi esprimono la natura complessa del nostro essere? Il gioco non è attività del tempo libero che noi consumiamo quando abbiamo finito di lavorare, è altro ovviamente, come diceva John Locke, l’occhio non può vedere se stesso e Vico nel riprendere questa osservazione e aggiungendovi che per fare ciò ha bisogno dello specchio, propose l’analogia fra l’occhio, la mente e la storia.
I filosofi, cito da Vico, trascurarono di studiare il mondo degli uomini, un mondo che poteva essere studiato proprio perché era stato fatto da loro stessi, la ragione di tale trascuratezza da parte dei filosofi, dipendeva dal fatto che la mente deve usare troppo sforzo e fatica per comprendere se stessa, come l’occhio del corpo che vede tutti gli oggetti fuori di sé e ha però dello specchio bisogno, per vedere se stesso. La difficoltà che prova la mente a indagare se stessa rende molto complessa la capacità di comprendere la storia da parte degli uomini, la storia che essi stessi hanno fatto. Non è vero, ci dice Vico, che siccome la storia è fatta dagli uomini allora la possiamo comprendere, l’operazione sia quindi facile.
Con l’analogia dell’occhio Vico ci conferma che l’approccio della storia non può che essere indiretto, egli arriva a dire che lo storico è tale solo se i fatti sono già accaduti e lui non ne è testimone, non sono i testimoni che possono fare la storia, il dramma dello storico ha questo limite, ma proprio questo limite gli permette di dare l’interpretazione di chi le cose le vede a distanza.
Vico non teorizza però la neutralità, ma che l’imparzialità deve nascere a partire da una interpretazione complessa che è data dall’analisi dei documenti, degli eventi di qualcosa che noi stessi come umani siamo riusciti a fare.
La domanda è questa: ma vale solo per la storia? Erwin Schrodinger fisico con forte propensione umanistica, in un saggio del 1947 scrive: “E’ difficile vedere il motivo per cui, nelle scienze fisiche si debba considerare un’eresia, quello che nelle scienze storiche è una cosa ovvia, cioè il trattare fatti e circostanze non accessibili all’osservazione diretta; gli storici fanno questo, che ciò sia inevitabile anche nella fisica ognuno lo deve ammettere, e ancora, mi sembra che nella fisica come nella storia, il risultato apprezzabile dei nostri sforzi sia di raggiungere un quadro d’insieme dell’argomento studiato, il soggetto interviene e organizza le cose. Un quadro che assume uno sviluppo sempre più chiaro, intuitivo e tale da rendere ben comprensibili i collegamenti di tutte le sue parti. Nella fisica, come nella storia, il nesso sarebbe interamente distrutto se ci credessimo obbligati, da scrupoli di verità, ad omettere tutto ciò che non è garantito da un giudizio immediato dei sensi o che deve essere sottoposto a dimostrazione. Oppure se ci sentissimo obbligati a formulare tutti gli enunciati in modo che possa essere percepito dai nostri sensi ciò che essi esprimono.”.
Pensate che sta parlando un fisico e l’analogia tra scienze fisiche e scienze storiche lo porta a mettere in discussione il confine tra osservatore e oggetto osservato.
Io non sto discutendo l’oggettività, ma un criterio assolutizzato di oggettività che è altra cosa.
Il Novecento riapre questo discorso, l’osservatore si rende conto che, sia pure in modo diverso, fa parte del contesto di osservazione. Dire questo non vuol dire perdersi nel peccato del soggettivismo più sfrenato, come spesso si pensa, perché siamo presi dall’idea che l’oggetto è qualcosa che non si tocca.
Il soggettivismo, il razionalismo, sono tutte balle, caratteristica del sapere scientifico è che deve essere pubblico, per esserlo deve essere sottoposto a verifica, non indiscutibile, ma dare i documenti ad altri per poter ricercare ancora.
Ora, Schrodinger scrive che rimane assodato che le recenti scoperte fisiche ci abbiano condotto fino a un confine misterioso che sta fra il soggetto e l’oggetto.
Questo confine non è affatto un confine preciso, ci siamo potuti rendere conto che non osserviamo mai un oggetto senza che esso sia modificato o influenzato dall’attività che abbiamo esplicato nell’osservarlo.
Ci siamo resi conto che l’urto dei nostri metodi raffinati di osservazione e di pensiero sui risultati delle nostre esperienze, ha infranto questo misterioso confine tra il soggetto e l’oggetto.
Emerge una cosa importante, cioè noi stiamo discutendo del fatto che è possibile pensare che c’è in qualche modo una relazione forte tra tutti i tipi di saperi. Relazione non di tipo positivistico, non si tratta saperi particolari di un sapere universale che qualcuno avrà in testa, un dio o chi sa chi e che quindi vengono omogeneizzati restando dentro l’immagine di una piramide.
Ogni sapere per questo ha cercato una sua epistemologia, mentre il presupposto in fondo implicito era che tutti dipendevamo dalla fisica, l’idea che ci fosse una omogeneità di fondo, anche nella epistemologia della ricerca, a cominciare dalla biologia.
Ogni sapere ha cercato la sua autonomia che io chiamo autonomia nella relazione, non è autoreferenzialità, non è solitudine, ma autonomia perché il grande problema del Novecento è stato quello di discutere contemporaneamente l’oggetto e le condizioni di conoscenza dell’oggetto.
Perché fatto scientifico non è solo come descrivi l’oggetto o lo interpreti ma le modalità dell’interpretazione, cioè quando e come faccio un’operazione di scelta.
Il biologo Steven Rose in questo bel libro, tradotto ora anche in italiano, “Il cervello del ventunesimo secolo” ha sottolineato la presenza di un confine semiaperto che separa il sé dal non sé, parla di cellule, rappresenta una delle caratteristiche principali della vita a partire dal livello cellulare. È l’immagine in cui un confine non separa ma unisce, nella sua forma più semplice questo sistema non richiede né cervelli, né sistema nervoso, quantunque necessiti di un sofisticato insieme di caratteristiche fisiche e chimiche, nelle sue forme più complesse, la presenza di confini e di contesti determina il modo di comportarsi e di agire e di modificare i propri programmi di azione che è ciò di cui in ultima analisi si occupano i cervelli.
I confini e i contesti sono appunto decisivi per la dotazione di senso di ogni apprendimento e di ogni comunicazione. La conoscenza di quella che Bateson chiama metacomunicazione, la distinzione fra mappa e territorio, la cornice come oggetto di conoscenza, essere avvertiti che c’è una cornice, è un presupposto necessario per quel tipo di apprendimento che utilizzando un’immagine kantiana potrebbe essere definita come l’uscita dalla minorità.
L’illuminismo era proprio questo per Kant e ce ne corre ancora per uscire dallo stato di minorità, si deve ancora compiere questo tipo di illuminismo.
Chi non percepisce quei confini in cui ciascuno viene a trovarsi, dando significato agli eventi e alle cose mette in pericolo la propria autonomia.
Se il contrasto fra differenze e realtà viene fatto sparire e gli uomini non percepiscono più i confini al cui interno essi operano, allora si rischia di tornare a essere quelli che erano i prigionieri della caverna di Platone, i quali vedono ombre e pensano che siano cose, non sanno che esistono mondi al di fuori dalla loro caverna, non conoscono uomini che vivono senza catene non hanno consapevolezza di essere prigionieri. Quando ritornerà il prigioniero liberato essi non gli crederanno, non crederanno che esistano universi differenti da quello della caverna e lo minacceranno di morte, di solito questo particolare la storia non lo racconta, ma lo racconta Platone.
Ora si parla della capacità di uscire dai contesti e di saperli vedere come dal di fuori, ed è quello che si sta perdendo in questo momento.
Immaginatevi la situazione in cui ci troviamo, la televisione che sta in casa, accesa 24 ore no stop, si guarda e non si guarda, poi si risponde al cellulare, magari si cucina, sembra tutto normale, e pure ciò è esattamente il contrario di quando leggiamo un romanzo, andiamo a teatro, al cinema, cioè entriamo in una situazione, ci aspettiamo delle cose e poi usciamo anche fisicamente dal luogo. Invece da queste situazioni “marmellata” noi non usciamo mai e questo problema sta diventando di tipo cognitivo e di formazione.
Piccole cose che non si vedono, ma che ci determinano la vita senza che ce ne accorgiamo. La capacità invece di saper vedere e uscire, è fondamentale perché è così che noi siamo capaci di essere due cose.
Per esempio noi crediamo e non crediamo nello stesso tempo, non è vero il senso cartesiano di verità, cioè che o crediamo o non crediamo, è una balla, noi facciamo insieme tutto questo, ad esempio ci coinvolgiamo e non ci coinvolgiamo.
Se vado a teatro, come dice Borges, mi abbandono alla finzione, cioè mi do un atto di verità proprio quando entro nella finzione, credo e non credo.
Ecco di nuovo il gioco, giocare è esattamente il doppio livello in cui noi ci troviamo, è come uno stare al confino ma carico di significato, come un interfaccia, viviamo questa dimensione.
L’azione da sola senza la capacità di uscire fuori da questi confini, rischia di diventare ripetitiva, cioè perde il senso di rottura, si naturalizza, si trasforma in comportamento e quindi inserisco la distinzione tra azione e comportamento.
L’azione è ciò che tu fai come individuo, nasce la tua storia individuale, invece il comportamento è l’elemento omologante, necessario nel senso che facciamo tutti le stesse cose ed è osservabile.
Kant definiva l’illuminismo come l’uscita dalla minorità, e intendeva con questo l’uso dell’intelletto senza la guida di un altro, ma per raggiungere questo stadio dell’autonomia collettiva e individuale è di importanza capitale che il mondo non appaia senza alternative.
È necessario come suggerisce Bateson, sapersi tirar fuori dai contesti, percepire la differenza, rendere esplicita la frase non detta “questo è un gioco”, metacomunicazione mentre giochiamo e intanto trasformarla.
Quando Primo Levi parla del lager, della zona grigia in Sommersi e salvati, quando parla dei musulmani, cioè di quelli che ormai sono andati in catatonia, ci segnala che i lager possono rappresentare un momento di riflessione rispetto alla dimensione del potere, punta estrema e crudele dei rapporti di privilegi. I lager sono totalizzanti e le società totalitarie non possono essere come i lager, perché fuori c’è un’opinione pubblica, c’è sempre qualcosa a cui ti puoi appellare, ma nel lager c’è la chiusura totale.
Il senso estremo del totalitarismo è dunque l’impossibilità di uscire dal contesto terribilmente fisico e atroce quale può essere un lager. Steven Rose fa notare che l’autonomia è precisamente quello che non si può realizzare, la ragione di ciò consiste nel fatto che lo sviluppo di ogni organismo avviene sempre in un contesto, l’autonomia è intesa come autoreferenzialità e isolamento, e non può essere disaccoppiato dall’ambiente. Qui c’è una corrispondenza perfetta di questa autonomia nella relazione, nel campo biologico con il problema etico sociale politico dell’apprendimento, di quella che io chiamo autonomia nella relazione, del fatto che si diventa autonomi soltanto modificando il contesto di relazione, ma mai annullandolo.
Uno dei miti della nostra società è quello dell’autonomia senza relazione, non è il mondo greco che ha posto questo, però in parte con la tradizione mistico cristiana e poi soprattutto con la ragione moderna il grande mito è stato l’autonomia senza relazione: Robinson Crusoe si trova nell’isola e ci fa credere che si ricostituisce il mondo a partire da zero, una storia che è edipica, tra maschi adulti che si scannano tra loro per il potere, vedi i fratelli Karamazov, Amleto, tutte storie di cui Freud ha parlato a lungo, in cui l’autonomia deve essere rotta o con la fuga o con l’omicidio. Ne nasce un’autonomia, come mito è ovvio, separata del tutto dalla relazione.
Già Marx aveva però rilevato che quando Robinson sogna di stare nell’isola deserta in realtà non è solo, perché utilizza molti oggetti che sono storie di lavoro cristallizzato, quindi non è una vera solitudine.
È possibile immaginare un’altra storia? Sì è possibile, è quella legata al concetto di riconoscimento, una tradizione che arriva a Winnicott e che parte dall’idea che perfino quando hai una relazione di potere che si trasforma in relazione di dominio sei costretto a essere riconosciuto dall’altro. Posizione di dominio è vero ma che comunque ti fa dipendere dall’altro.
Hegel ha costruito su questa idea la sua dialettica servo/padrone in sostanza, ci ha dato questo messaggio che è stato ripreso nel Novecento e un grande teorico dell’apprendimento quale Winnicott ha ripreso questo tema in altra chiave, nel rapporto madre/bambino, in cui è chiaro che il bambino costituisce la propria autonomia non in assenza della madre, ma simulando l’assenza perché con la coda dell’occhio, sa che la madre c’è e dunque la modifica. L’autonomia avviene come modifica storica della relazione, dove l’autonomia di un bambino si sviluppa in questa relazione con la madre. La capacità di imparare a camminare da soli, dipende dal fatto che siamo capaci di modificare la relazione con il mondo, essere consapevoli di questa modifica.
Questo è oggi un nostro problema, la difficoltà che viviamo a essere consapevoli delle nostre identità.
Parlare di perdita di memoria vuol dire sapere ciò che avviene a livello della comunicazione di massa, i mass media danno la notizia principale, mettiamo tsunami, dura cinque giorni, poi comincia a scemare sostituita da un’altra notizia più catastrofica o solo più recente e così ci devastiamo la mente e perdiamo il senso lungo della storia.
È un fenomeno che individuo bene con gli studenti universitari, c’è un restringimento sul piano della storia e questo è un pericolo grave, perché attacca le identità che sono costruite sulla nostra capacità di differenziarci noi stessi nei passaggi della nostra vita. Se questo si accorcia e viviamo in un eterno presente, in un’eterna adolescenza, oramai non invecchiamo più, frantumiamo l’identità e viviamo in una fase di grande povertà culturale che ha a che fare con le scienze naturali e con le scienze sociali.
Faccio un esempio, noi siamo nella fase della totale patologizzazione del normale, il patologico è vero che ci permette di leggere il normale, ma ora c’è un impoverimento delle passioni e delle emozioni, se non siamo più in grado di distinguere tra malinconia, tristezza e depressione. Finiamo con il pensare che ci vuole una pillola e un dottore per risolvere ogni problema, voglio precisare che non amo il dolore e difendo l’uso degli antidolorifici, ma dobbiamo comprendere, perché ci appartiene ciò che ha a che fare con il nostro dolore e con il nostro vissuto.
Io credo che ci stiamo avviando verso una grave crisi proprio nella formazione della identità e credo ancora più fortemente che la scuola debba interessarsi di questo, questo è alla base del rapporto tra apprendimento e autonomia, le due cose devono andare insieme. Ma in questa situazione di eterno presente noi siamo dipendenti, ed è lì che vedo il ritorno del mondo unico, anche se viviamo in democrazia, se abbiamo il pluralismo, e così via.
In ultimo c’è una distinzione a me cara su questo terreno, la riprendo da Foucault, è quella tra stati di dominio e stati di potere, sappiamo bene che i rapporti di insegnamento, come quello tra padre e figlio, o tra terapeuta e paziente, sono relazioni di potere e così vanno esplicitate, quello è il contesto. E pure il grande pericolo non è questo, il potere esiste e lo sappiamo, ma il pericolo è negli stati di dominio, quando le relazioni di potere vengono cristallizzate, quando un padre, un insegnante, un terapeuta fanno di tutto per operare perché le cose restino ferme, cioè fanno di tutto affinché il bambino che prova a camminare e cade resti nel girello, decidono per lui che non è pronto.
Consentitemi il paragone: siamo tutti nel girello, è dorato, accessoriato, bello, comodo, ma siamo tutti dentro, infilati in questo metaforico girello.
Noi dobbiamo consentire che la scuola sia formazione e non solo informazione, dato che di quest’ultima ne abbiamo in eccedenza.
La vera autonomia sta nella capacità di saper metabolizzare le informazioni, quando questa capacità è assente, io vedo in questa mancanza un grave pericolo ed è per questo che voglio affermare e difendere fortemente il concetto di formazione.
Alfonso Maurizio Iacono
Relazione finale di
Amelia Stancanelli (dir. scol. Liceo Ainis Messina)
E’ indispensabile una premessa, senza la quale il taglio di questo mio breve intervento non potrebbe essere correttamente inteso, perché molte cose sono cambiate in questo anno che ci separa dal seminario che abbiamo tenuto a Sezze.
E’ cambiato anzitutto lo scenario : ci è stato restituito il Ministero della Pubblica Istruzione; la riforma Moratti è stata - per quel che riguarda la scuola superiore - “congelata”. Le istanze che esprimevamo nel nostro documento conclusivo dell’ anno scorso dovevano essere - e sono state - riviste e ripensate alla luce di queste nuove e differenti realtà.
Siamo cambiati anche noi, ed in modo radicale : possiamo infatti a ragione sostenere di essere diventati soggetto “politico”. Questa è la sostanza più pregnante del nostro “farci rete”, realizzato - grazie alle possibilità aperte dal Decreto sull’ Autonomia Scolastica - dopo anni di gestazione di un movimento che è nato dal basso, sia pure sulla scorta dell’ esperienza proficua dei “poli” creati ed assistiti per i due anni 2000 e 2001 dal Ministero. E di ciò abbiamo avuto, in certo qual modo, una sanzione ufficiale : il 12 ottobre 2006 due esponenti della Rete (Luigi Mantuano ed io) siamo stati ricevuti in “Audizione informale” alla VII^ Commissione - Cultura - della Camera, presieduta dall’ on.le Pietro Folena, unitamente ai rappresentanti di una ventina circa di sindacati, associazioni e soggetti che a vario titolo si occupano di problemi della scuola, riguardo a possibili emendamenti da richiedere nell’ ambito della legge finanziaria. Malgrado le nostre richieste non abbiano avuto un seguito, e malgrado altre successive richieste di udienza non siano state - ancora - esitate, a nessuno può sfuggire l’ aspetto più significativo di questo fatto : la nostra Rete si è in tal modo accreditata, in una sede istituzionale, come interlocutore ufficiale. Cosa che, ci auguriamo possa ripetersi ogni qual vota sia necessario ascoltare la voce della scuola militante. E dunque oggi ci troviamo a ribadire molte cose a noi familiari, che hanno radici profonde, e sulle quali da più di un decennio riflettiamo con continuità e coerenza ma che sono da interpretare alla luce di uno spirito nuovo e in forza di questa nuova dimensione, non più solo culturale ma più che mai ed a buon diritto politica.
Se siamo d’ accordo su tutto questo, vi invito a riflettere insieme, ed in modo problematico, sul titolo che mi è stato assegnato, e che ho colto come una sfida positiva: che cosa ci dà il diritto di proporre come “modello” il Liceo delle Scienze Sociali? Un Liceo, cioè, che - non dimentichiamolo - ufficialmente “non esiste” nel panorama italiano (che molti anni fa il CENSIS definì ben a ragione “la scuola del paradosso”), tant’è che l’ ultima proposta di riforma ha potuto tranquillamente e semplicemente non nominarlo neppure, e che rilascia ancora il Diploma Magistrale (cioè la certificazione di un indirizzo dichiarato estinto dal 1997)!. Non credo, malgrado tutto questo, che il nostro sia un peccato di presunzione; sono convinta, piuttosto, che siano i fatti ad averci “accreditato”, e le nostra “buone pratiche” a farci forti di questo diritto.
Partiamo, per fare chiarezza, dal confronto con un altro indirizzo di studi che ormai rientra in qualche modo nell’ ordinamento, e che forse potremmo considerare un nostro “fratello maggiore”, il Sociopsicopedagogico Brocca. L’ innovazione del Liceo delle Scienze Sociali parte già dal nome, dal suo porre in primo piano la pluralità di contro alla parcellizzazione. Il passaggio è dalla centralità delle discipline alla centralità del problema, ed è di enorme rilevanza per la sua ricaduta sul curricolo e sul metodo che si richiede perché esso venga tradotto in pratica operativa. In questo passaggio c’e anche però il rischio della polverizzazione, nel voler porgere orecchio alla molteplicità di istanze, suggestioni, proposte, che ci vengono dal contesto, riguardo le quali la flessibilità stessa dell’ indirizzo ci induce in tentazione. E’ da qui che emerge forte la necessità di fare un progetto di scuola, non una scuola di progetti. Progetto di scuola che può realizzarsi – e abbiamo finora realizzato – grazie anzitutto ad un forte asse culturale nel quale trovare sostanza e punti di riferimento certi. E, non di secondaria importanza, grazie al “pensare plurale” che si realizza solo con il coinvolgimento di tutto il Consiglio di classe.
Scriveva l’ anno scorso ad alcune di noi Lucia Marchetti, in una di quelle lettere che, grazie all’ elettronica, contribuiscono a tenere vivo il nostro legame, e che significativamente intitolava “Titanici ma concreti” : «Noi non abbiamo solo costruito insieme un indirizzo, abbiamo anche delineato e praticato un’idea e un modo nuovo di fare scuola. .... Ci sono alcuni punti fermi, strategici e imprescindibili che fanno la differenza fra una buona scuola e una cattiva scuola, perché – dobbiamo dirlo forte – questa scuola deve cambiare, ma deve cambiare nel profondo, pena una deriva ormai da tempo cominciata. ... Allora io comincio lanciando un sasso, la mia idea sarebbe di scrivere insieme una specie di Carta della scuola di pochi essenziali punti in cui noi ci riconosciamo .... I punti non sono in ordine di importanza e vanno tutti declinati:
Declinare questi punti è appunto il lavoro che quotidianamente portiamo avanti nel nostro Liceo. Che è - malgrado tutto - ben altro che un fantasma, ma al contrario ha trovato grande riscontro negli interessi e nelle scelte dei giovani, perché, modellandosi sempre meglio, negli anni, sulle istanze della società, ha saputo dare ascolto alla pluralità delle culture e portare al suo interno il locale e il globale.
L’elemento di maggiore significatività del nostro percorso va visto non solo nel fatto di avere introdotto nella scuola gli studi sociali, praticamente assenti dal panorama scolastico italiano, ma di averlo fatto in un contesto di licealità, con lo scopo cioè non di fornire competenze professionali specifiche, bensì di dare ai giovani conoscenze e competenze adeguate ad una lettura critica della società complessa, per fornirli di una formazione flessibile, al passo con i tempi, che consenta loro l’inserimento in qualunque realtà di studio o di lavoro.
Questo nuovo modello trova i suoi punti di forza in alcuni elementi strategici insiti nel curricolo del Liceo delle Scienze Sociali :
“Nasce” in questo Liceo anche un nuovo modello di docente. Infatti la felice condizione del professionista riflessivo, che ogni sperimentazione esige, diventa la condizione stessa di vita per gli operatori delle Scienze Sociali. Un altro punto di forza di questa sperimentazione è rappresentato dal confronto fra docenti della scuola secondaria e docenti universitari, sollecitato dal Consiglio Italiano delle Scienze Sociali e perseguito anche dalla Rete che ne fa esplicita menzione nel proprio Statuto.
Non possiamo tuttavia nasconderci la difficoltà del lavoro degli operatori scolastici, il cui sforzo di autoformazione deve misurarsi con un contesto generale in cui è scarso l’interesse per gli studi sociali, considerati deboli e poco rilevanti sul piano scientifico, se non addirittura scomodi e dirompenti, e colmare, da un lato la disattenzione degli accademici e, dall’altro, i limiti della propria formazione universitaria, settoriale e disciplinare.
Non è certamente facile andare avanti sulla strada che abbiamo segnato.
Abbiamo visto in tutti questi anni come sia stato arduo mantenere i contatti, una volta venuti meno l’ input e il sostegno ministeriale. Eppure - magari perdendo per strada le frange più deboli, le realtà meno motivate e interessate - cocciutamente abbiamo perseguito il nostro scopo e siamo ancora qui, a guardare avanti. Il merito di avere potuto mantenere la circolazione delle idee e degli scambi tra noi si deve certamente in grandissima parte al sito dell’ Istituto “Manzoni” di Suzzara che ormai da tutti è considerato il sito ufficiale della rete, grazie soprattutto all’ infaticabile e pregevole lavoro di Alberto Facchini. Sentiamo però pressante l’ esigenza di potere gestire il sito in completa autonomia, e per questo abbiamo anche chiesto patrocinio e sostegno al Ministero, nello scorso mese di febbraio, senza peraltro avere a tutt’ oggi ricevuto alcuna risposta.
Il supporto dello spazio web e del sito si pongono come esigenza primaria, dal momento che il problema di “non perderci di vista” è basilare per la sopravvivenza della Rete. E’ importante inoltre che l’ iniziativa sia in ciascuno dei soggetti, al di là delle ovvie necessità di gestione e coordinamento affidate a pochi.
Altra fondamentale esigenza emersa in questi giorni di lavoro è quella di darci una autoregolamentazione che non mortifichi, ma al contrario valorizzi la ricchezza e molteplicità di espressioni nate dal lavoro all’ interno delle nostre scuole. Il nostro indirizzo infatti non può vedere venir meno in alcun modo la coerenza e la fedeltà all’ asse storico-antropologico che ne costituisce l’ ossatura, sulla base del documento nazionale, che tutti riconosciamo imprescindibile. E’ necessario, ancora e nuovamente, alla luce di tanti anni di lavoro, riflettere sui curricoli e sottoscrivere un patto formativo
che sia garanzia di traguardi comuni da raggiungere in termini di competenze e conoscenze per i nostri studenti.
Poiché siamo consapevoli - senza trionfalismi ma con la modesta certezza dell’ impegno profuso e dei risultati conseguiti - di avere costruito nella realtà italiana poli di eccellenza, il cui tesoro di esperienze non può e non deve andare disperso, è per noi indispensabile richiamare alcune irrinunciabili esigenze che abbiamo già avanzato nel nostro intervento alla VII^ Commissione, e che cercheremo di motivare nuovamente e sinteticamente, nella convinzione che siano più che mai attuali e pressanti :
1. Che venga dato un sostegno economico agli istituti che gestiscono le varie attività della Rete, così che possano essere nuovamente, e più incisivamente, centri propulsori della formazione e della ricerca. Ricordiamo che le sei scuole polo hanno avuto nei due anni citati una dotazione finanziaria di 50-60 milioni di lire ciascuna l’ anno, e che con questa cifra - certamente non ragguardevole - hanno organizzato capillarmente la formazione dei docenti in tutta Italia, da Imperia a Pantelleria. Ricordiamo ancora che quelle scuole hanno effettuato un monitoraggio dei curricoli delle scuole afferenti, cosa che oggi appare più opportuna e necessaria che mai, se è vero - come è vero - che si pone con forza il problema di “governare” l’ Autonomia in modo che sia strumento reale e coerente di libertà e non prenda la pericolosa deriva del disordine e dell’ anarchia.
Siamo consapevoli che la stagione dei “poli” è una esperienza conclusa, e tuttavia riteniamo che sia possibile individuare una strada nuova attraverso la quale riprendere il controllo dei processi. Sarebbe un grosso passo avanti nell’ intero panorama della scuola italiana, e non solo per il nostro Liceo.
2. Sulla scia di questa richiesta, forse utopica, ne avanziamo un’ altra non meno utopica ma non meno importante, e ugualmente riferibile alla scuola nel suo insieme : che venga reintrodotto l’ organico funzionale, ma con molta oculatezza, destinandolo a quelle scuole che si pongono come realtà “di servizio” per altri istituti, in modo che possano disporre di personale che presieda, con tempi di lavoro di un certo respiro, alla formazione dei docenti ed al coordinamento dell’ innovazione. Investire sulla formazione è infatti, come ben sappiamo, premessa indispensabile per ogni prospettiva di qualità.
In tema di formazione, inoltre ci pare sia giunto il momento di rivendicare alla Scuola un ruolo centrale nella formazione dei nuovi docenti, poiché riteniamo di poterla gestire insieme all’ università, e non certo, come avviene adesso, in posizione subalterna. Il lavoro di tante scuole che hanno saputo introdurre l’ innovazione e portarla avanti nella quotidianità va valorizzato e deve costituire risorsa per la comunità educante e per la società.
Riflettiamo, infine, sul problema da cui abbiamo preso le mosse: il modello del Liceo delle Scienze Sociali può essere generalizzabile nella realtà scolastica italiana? In altri termini, vogliamo rimanere sparuto drappello d’ èlite, o tentare di proporci come “laboratorio” di una scuola nuova e aderente ai tempi? Molti riscontri, e non solo la coscienza del lavoro svolto, ci dicono che questa seconda ipotesi è praticabile. Infatti la scuola che abbiamo creato - al di là delle specificità dei propri contenuti e delle proprie linee fondanti – risulta pienamente rispondente alle richieste non solo, come dicevamo, delle complessità e della globalizzazione, ma anche dai modelli di apprendimento che ormai, anche per l’ influsso dei molteplici agenti di formazione e delle nuove tecnologie, non sono più soltanto lineari, ma sequenziali e integrati. I punti di forza del nostro curricolo - compresenze, didattica integrata, stage formativo e confronto interattivo con il territorio - sono modelli di lavoro socializzabili come pilastri di una scuola di qualità.
Ma forse, a monte di – e malgrado - tutto quanto detto fin qui, siamo ancora al punto di dovere proclamare a gran voce il nostro diritto di esistere. Il ministro Fioroni ha dichiarato, per certi versi giustamente, che non vuole legare il proprio nome ad una “nuova” Riforma, perché troppe volte ambiziosi progetti sono miseramente naufragati. Ci auguriamo però che la “politica del cacciavite” non impedisca che si possano dare in tempi ragionevolmente brevi alla scuola superiore quelle risposte troppo lungamente attese. Una situazione di sperimentazione generalizzata che dura dal 1974 è decisamente eccessiva! Ci sono indirizzi – come il nostro, ma anche, per fare altri esempi, il Musicale, e, con qualche distinguo, il Linguistico – che forniscono un servizio insostituibile in rapporto ad alcune evidenti esigenza dell’ utenza e del mondo delle professioni, senza però vedere riconosciuta la legittimità di un titolo di studio congruente con i propri curricoli, perché non previsti “in ordinamento”.
Per quanto riguarda più da vicino il Liceo delle Scienze Sociali, auspichiamo una revisione di fondo di alcune linee di tendenza del precedente progetto “congelato” che per noi sono castranti e mortificanti. Auspichiamo che il progetto di scuola che abbiamo tracciato in anni di ricerca e lavoro, e che va a colmare un vuoto nel panorama della Scuola Italiana rispetto al panorama europeo venga inserito con la propria specificità ed identità nel contesto della Scuola Superiore, in modo da poter contare anche su una identità ed un riconoscimento sociale, superando questa immagine aleatoria e sfuggente che nei fatti il nostro indirizzo ancora mantiene nell’ immaginario dell’ utenza, al di là di ogni nostro impegno e fatica.
Auspichiamo ancora che nell’ individuazione dei diversi indirizzi liceali si vada alla definizione di obiettivi nazionali snelli ma densi e pregnanti, esaustivi ma non minuziosamente prescrittivi, e che questo compito venga affidato - di nuovo, e finalmente! - ad “addetti ai lavori”, primi tra tutti, naturalmente, gli operatori della scuola.
Pensiamo infine che “Passaggi” abbia oggi offerto le proprie credenziali per essere tra questi.
Grazie.
Amelia Stancanelli
L’esperienza del fare tra teoria e pratica
Il cambiamento nella relazione educativa
Franca Olivetti Manoukian – 29 marzo 2007
(intervento revisionato dall'autore)
E’ un po’ difficile per me parlare dopo il prof. Antonio Santoni Rugiu, un maestro, una persona tanto famosa per tutto quello che ha dato e che ha fatto nella scuola e per la scuola. Io non ho mai lavorato all’interno della scuola, non sono un operatore, né uno studioso della scuola e mi sento abbastanza “eccentrica”. Mi viene in mente il titolo di quel libro di Bruce Chatwin “Che ci faccio qui?”… ci faccio qualcosa perché sono – o forse vorrei essere - appunto come Bruce Chatwin un viaggiatore curioso e interessato a quello che succede in tanti luoghi diversi della società per cercare di capire in che mondo viviamo e come ciascuno di noi si colloca o può collocarsi.
Ringrazio molto gli organizzatori di questo convegno, Lucia Marchetti anche per gli apprezzamenti lusinghieri che ha espresso nei miei confronti ( e che non merito senz’altro). Ho una formazione di base di tipo sociologico e come consulente e formatrice, nell’ambito di un istituto che ho fondato circa trent’anni fa con altri colleghi (Studio APS), mi occupo del funzionamento delle organizzazioni e delle difficoltà che hanno le persone nelle situazioni organizzative. Ho lavorato all’inizio con aziende e in seguito con i servizi sociali e sociosanitari: con la scuola ho lavorato pochissimo. Propongo quindi delle riflessioni che vengono da uno sguardo limitato e parziale. Mi è piaciuto che la rete delle scuole che si occupano di Scienze Sociali sia stata chiamata “Passaggi”. Mi ha ricordato quel testo di Walter Benjamin che parla dei “passages” che sono stati costruiti a Parigi nel secolo scorso per mettere in comunicazione grandi vie: erano spazi che attraversavano interi caseggiati, prendevano luce dall’alto con ampie vetrate, erano arredati con ricercatezza, con marmi e bei negozi; costituivano un mondo in miniatura, un mondo in cui poteva passeggiare il flâneur una figura con cui mi identifico abbastanza, perché è colui che è attirato da quanto vede e guarda intorno a lui anche se non lo afferra e non lo padroneggia subito; non si lascia confondere nella folla anonima ma si sposta inquieto, senza affannarsi, seguendo il ritmo dei propri pensieri, delle proprie emozioni, può sostare senza fermarsi, può stare senza isolarsi, può errare per apprendere.
E’ in questo spirito che vi porto le riflessioni che sono in grado di sviluppare rispetto al titolo che mi è stato assegnato e che evidentemente sono molto marcate dall’impatto che ho avuto con le situazioni scolastiche con cui mi è capitato di lavorare in questi ultimi anni.
Vorrei proporvi una riflessione su questi tre punti.
I cambiamenti
Una prima ipotesi che propongo è che all’interno della scuola sia molto difficile collocarsi rispetto al cambiamento più generale del contesto sociale, ai cambiamenti epocali che sconquassano e travagliano la nostra società italiana e occidentale. Mi pare che si pensi al cambiamento in modo molto legato all’attività che si svolge, che lo si consideri entro la relazione educativa (almeno per quel che ho colto leggendo i vostri materiali) e quindi ci si rappresenta il cambiamento come interno, intrinsecamente connesso a processi interindividuali. Mi sembra che per gli insegnanti sia difficile rappresentare la propria attività, il proprio lavoro e l’esercizio del proprio ruolo nelle situazioni organizzative ed organizzate tenendo conto dei cambiamenti enormi che stanno attraversando il contesto sociale. In alcune iniziative di formazione che con alcuni colleghi stiamo facendo in questo periodo, una delle prime domande che poniamo agli insegnanti riguarda la descrizione, l’analisi del contesto lavorativo. Perché per accompagnare le persone nell’acquisizione di maggiori competenze professionali partiamo dal richiamare l’ attenzione al contesto? Perché se il lavoro non è mera esecuzione di procedure o di operazioni meccaniche su materiali predisposti per arrivare a prodotti standardizzati, richiede di collocarsi entro microcontesti relazionali che sono continuamente influenzati e marcati da quanto circola nel contesto più ampio.. E in una società che cambia in modo accelerato e vorticoso, non possiamo dare per scontate le interazioni tra il micro e il macro. Ora gli insegnanti descrivono il contesto lavorativo attraverso narrazioni o attraverso griglie analitiche che mettono in primo piano il singolo. Per descrivere il contesto si parte da se stessi : “io sono questo”, “sono un’insegnate curricolare, mi occupo da sempre di disagio”; “dopo nove anni di attività come insegnante di sostegno di area umanistica, torno a insegnare la mia materia…”; “Intanto il mio ruolo: sono stata per anni referente per l’educazione alla salute e la promozione del benessere nella mia scuola….”; “sono insegnante di inglese, quindi una delle insegnati del team docente; personalmente non ho avuto un mandato da colleghe per occuparmi di..”
Cito queste verbalizzazioni perché mi sembrano degli indizi che mettono in luce come il primo movimento che da parte di questi insegnanti si tende a fare è quello di portare all’attenzione degli altri se stessi e da lì eventualmente sottolineare delle difficoltà di rapporto con quello che accade all’esterno, con il contesto. E’ molto diverso dal vedere il contesto e se stessi nel contesto. E’ ben diverso mettere l’accento sul microcosmo individuale e interindividuale e da lì vedere che cosa succede fuori oppure, decentrandosi dalla propria collocazione, considerare innanzi tutto quello che si agita nel contesto più generale, che cosa lo caratterizza e come io mi colloco rispetto a questo, come lo interpreto. Nel contesto sociale più in generale sono oggi in atto dei cambiamenti molto, molto consistenti, cambiamenti di tipo demografico, economico, tecnologico, istituzionale, sopratutto culturale, che irrompono nella nostra quotidianità di vita e anche nelle situazioni scolastiche con grande forza, con grande violenza: sono cambiamenti che sconquassano, scompigliano, scombussolano il lavoro che fanno gli insegnanti, lo svolgimento delle varie attività scolastiche, premono e inquietano e sono anche all’origine, credo, di varie difficoltà che molti insegnanti hanno a collocarsi nel loro lavoro. Richiamo soltanto qualche esempio per dare maggiore concretezza a quello che sto affermando. Uno dei cambiamenti secondo me più consistenti con cui abbiamo a che fare nella nostra società riguarda la possibilità di vivere in una situazione sicura e tranquilla. Per le popolazioni del mondo occidentale la sicurezza è da decenni sinonimo di progresso; è collegata all’aver sconfitto le povertà endemiche, le epidemie, ma anche i soprusi dei signorotti locali, dei briganti, le lotte intestine…; è forse ancor più ricondotta al poter avere per ampie fasce di popolazione fonti di reddito e di lavoro sufficientemente garantite, spostando l’occupazione dall’agricoltura all’industria…; è sancita nei diritti tutelati dalle carte costituzionali….Credo sia sufficientemente condivisibile che per tutti la sicurezza sia un elemento apprezzato e ricercato con grandi investimenti.
Ebbene negli ultimi anni nella nostra vita vediamo accrescere i rischi, aumentano le incertezze (un famoso libro di Ulrich Beck “La società del rischio” lo ha illustrato con argomentazioni straordinariamente efficaci); viviamo sempre di più in situazioni che non sono prevedibili, rispetto alle quali non sappiamo cosa succederà; abbiamo molte, molte difficoltà a cogliere delle informazioni attendibili, a riuscire a immaginare che cosa avverrà anche tra pochi mesi rispetto alla condizione lavorativa, alla salute, alle decisioni amministrative, ecc. e ciononostante è sempre più forte la ricerca di sicurezza, la ricerca di essere tranquilli, di non avere troppi pensieri, di non avere troppe preoccupazioni, di essere rassicurati rispetto al proprio domani. A me sembra che questa ricerca di sicurezza sia molto forte un po’ a tutti i livelli e che sia anche continuamente minacciata dalle incertezze a cui ho già accennato e in particolare dal senso di perdita che si va sempre più diffondendo rispetto alla propria condizione sociale. La generazione che oggi ha un’età media rispetto alla generazione precedente ha realizzato e percorsi di ascesa sociale notevolissimi. Che cosa questa generazione può promettere alle generazioni future, che cosa vede per i propri figli? vede un futuro roseo? Vede un futuro tranquillo? Vede un futuro promettente? Sembra proprio di no. E forse gli insegnanti e la scuola sono ancor più direttamente esposti alle insicurezze che i genitori hanno rispetto ai modelli educativi, rispetto all’impostazione educativa in cui loro sono cresciuti e che viene considerato non più percorribile: la repressione, l’autoritarismo non vanno più utilizzati e allora a che cosa ci si può rivolgere? Più si sentono insicuri , più pretendono scuole “sicure”, che garantiscano una buona educazione e istruzione ai figli e che non aggiungano ulteriori motivi di angoscia a quelli che già hanno per il lavoro, per i rapporti familiari, per le competizioni e le spinte al successo, a cui non ci si può sottrarre. Forse non è un caso il ricorso crescente alle scuole private, spesso religiose… sembra che diano più garanzie. Alcuni presidi mi hanno raccontato che “bisogna chiamare la polizia”. Non credo sia una scelta tranquillizzante per i genitori. E da parte loro i genitori si danno da fare (quando non si sa che fare, spesso ci si dà da fare), moltiplicano le iniziative laterali, le attività intorno alla scuola dei figli. Nel ceto medio c’è la corsa alla ginnastica, lo sport, al tempo libero di tutti i generi, ai corsi di lingua e di musica, è come se non bastasse mai quello che si fa. Ma perché non basta mai? Perché non si è mai sicuri di quello che si fa e fra l’altro tutti questi investimenti che si fanno per cercare maggiori sicurezze, accrescono le disparità sociali perché alcuni si possono permettere una serie di interventi laterali, interventi di maggiore controllo nei confronti dei figli,altri non se lo possono permettere. Se si accrescono le disparità, aumenta a livello sociale la disuguaglianza, la reattività, la violenza, le insoddisfazioni e quindi aumenta l’insicurezza.
Un’altra componente importante dei cambiamenti più generali (che credo abbia influenza notevole per la quotidianità a scuola) è la spinta molto forte all’affermazione individuale. Molti segnalano che viviamo in un’epoca di individualismo esasperato, ma non mi addentro in disquisizioni su questo tema/problema. Resto su un piano più esperienziale, quello che è alla portata della riflessione sul nostro microcosmo quotidiano. Credo che ognuno di noi possa constatare come sia diffuso l’imperativo a farsi strada, a farsi la propria strada. Ciascuno deve riuscire; ogni individuo, ogni soggetto è chiamato a realizzarsi con successo sull’esterno o con soddisfazione per se stesso; è un dovere essere se stesso. In un libro interessante, Alain Ehrenberg, uno psicoanalista francese ha ricostruito la storia delle depressioni negli ultimi tre secoli e è arrivato ad affermare che la depressione oggi è la fatica di essere se stessi, perché non si è mai non solo quello che si vorrebbe essere, ma anche quello che si dovrebbe essere, cioè essere cittadini adeguati a quello che la società propone come modello di riuscita, di successo, di realizzazione di sé. Da qui molto spesso quello che le persone vivono come bisogno, viene richiesto come diritto. Che cosa è un bisogno? La parola rimanda ad una esigenza fisiologica, ma molti bisogni di sui si parla nella nostra società, non hanno nulla di fisiologico. A volte mi domando se non venga affermato un bisogno come quello di essere felici, che è proprio ben lontano dal poter essere soddisfatto. E comunque si usa questa parola per dare forza alle richieste che si avanzano e talvolta si arriva anche ad una sorta di equazione secondo la quale i bisogni sono diritti, che devono essere tutelati, garantiti da un’istanza pubblica, superiore ed esterna. Tutto questo porta al fatto che da parte dei singoli le attese nei confronti di coloro che nelle loro collocazioni istituzionali sono depositari delle risposte- e gli insegnanti sono tipicamente in questa posizione - diventano pretese, cioè attese che devono essere soddisfatte prima di ogni altra, più di tutte le altre con intensità e compiutezza. Questo rende molto difficile l’interazione tra cittadini e istituzioni, fra cittadini e operatori, fra cittadini e insegnanti, a tutti i livelli.
Terzo elemento che segnalo rispetto ai cambiamenti del contesto più generale - lo ha ben sottolineato il prof. Santoni Rugiu - è la iper - accelerazione di tutto quello che succede nella nostra società. Tutto ha dei ritmi molto veloci. Ma la scuola dov’è? nella scuola mi viene spesso detto che ci sono tempi biblici per ogni delibera, ogni atto amministrativo o procedura a cui non ci si può sottrarre. La scuola ha forse un cattivo rapporto con il tempo e soprattutto con il tempo così come è nella società, cioè un tempo ipercompresso, iperaccelerato, in cui tutte le cose sono già successe prima ancora di scoprirle, prima ancora che siano capite.
Concludo rispetto al primo punto. Ho essenzialmente proposto degli esempi, degli indizi, degli elementi parziali , ma spero anche per voi evocativi per arrivare a dire questo: mi sembra che per la scuola e per gli insegnanti che in essa lavorano, ci sia difficoltà di collocarsi in un contesto, di cogliere i cambiamenti che ci sono nel contesto e da qui di “vedere”, di rappresentarsi, di rendere presente che la scuola ha perso la sua centralità di istituzione che può trasmettere il sapere, garante della socializzazione del sapere presso le nuove generazioni.
Intorno alla scuola molte, varie agenzie influiscono molto di più della scuola sul sapere che si costruiscono i giovani. Credo che per ogni individuo che vive nella nostra società ci siano esigenze di apprendere anche in tempi molto rapidi delle competenze, anche per poter sopravvivere nei confronti di tante sollecitazioni contraddittorie che arrivano da tutte le parti. In modo affannoso, esasperato, spesso attraverso allineamenti conformistici, dipendenze anche ingenue, scissioni, ricerche di appartenenza… le famiglie, i ragazzi, i gruppi, si costruiscono delle competenze. In questo quadro movimentato e caotico la scuola che parte ha? che posizione prendono ad esempio gli insegnanti rispetto a tutto quello che succede su internet?
Mi raccontano che molti ragazzi per la ricerche che fanno in classe vanno su internet, portando poi dei contenuti o degli elaborati da “mettersi le mani nei capelli”. Bene! Non credo che sia ragionevole demonizzare internet; credo piuttosto che ci si possa interrogare su come gli insegnanti raccolgono, ascoltano l’iniziativa dei ragazzi,. con quali criteri interagiscono con questa realtà, con quali prefigurazioni, con quali supporti, con quali indicazioni, con quali aperture, con quali possibilità di interazioni, di dialogo….
Abbiamo un contesto che è in grande cambiamento. C’è bisogno di riflettere su come la scuola si colloca rispetto a questi cambiamenti e/o come li acquisisce quando irrompono con grande intensità. Fra l’altro questo discorso del contesto è molto evidente nella tanto auspicata progettualità “scuola – territorio” rispetto alle situazioni di disagio più e meno visibile. Qui ci sono divisioni e chiusure che si constatano ogni giorno perché i servizi continuano a rimandare le difficoltà dei bambini e dei ragazzi all’interno della scuola, mentre nella scuola si pensa che i servizi dovrebbero prendere in carico più vigorosamente, fornire diagnosi e linee di condotta, ecc.. Quando ci si attesta su queste posizioni tutto diventa molto difficile.
Le attese e la costruzione dell’identità professionale
Affronto il secondo punto su cui volevo richiamare la vostra attenzione. Le attese: perché mi pare interessante fermarsi sulle attese che i singoli e quindi anche gli insegnanti che lavorano all’interno della scuola, portano nelle situazioni lavorative? Perché la realizzazione del lavoro è molto collegata a quello che noi ci aspettiamo di ottenere in cambio di quello che offriamo, che mettiamo a disposizione, rispondendo alle richieste, alle aspettative che l’organizzazione e gli altri in genere hanno nei nostri confronti. Nei grandi cambiamenti l’incontro tra quello che gli altri si aspettano dal nostro lavoro e quello che noi ci aspettiamo ci venga riconosciuto, è molto complicato e squilibrato, fonte di insoddisfazioni e sofferenze, di conflitti e fraintendimenti.
Dalle organizzazioni lavorative in cui prestano la loro attività ,normalmente i singoli si aspettano di ricevere una retribuzione che certo vorrebbero adeguata e che spesso constatano insufficiente….Quanto più il contenuto del lavoro è immateriale e quindi poco misurabile con parametri esterni tanto più è difficile sentirsi ben retribuiti, ma è anche difficile perché le attese non riguardano soltanto una componente monetaria o monetizzabile: riguardano il riconoscimento di sé. Si chiede alla situazione di lavoro in cui si è collocati di avere dei riscontri positivi di quello che si fa , per poter avere delle conferme, delle risposte all’interrogativo esistenziale “chi sono?” . Non ho molto tempo e porto queste affermazioni in modo un po’ brutale. Spero di non essere fraintesa. In una società dinamica, in cui sono aperte molte opportunità, ma anche molti rischi l’identità non è più garantita dalla collocazione entro un gruppo sociale, dall’appartenenza a un ceto, ad un’istituzione, a una professione, a una famiglia. Le situazioni lavorative sono spazi in cui i singoli cercano conferme della propria identità lavorativa, e da lì identità sociale e personale, perché il lavoro è tuttora un ambito importante. E la ricerca di conferme è un’esigenza che dura tutta la vita perché è connessa alla costruzione della propria identità professionale e personale. Tradizionalmente all’interno della scuola la costruzione dell’identità professionale è stata mantenuta e sostenuta attraverso la proposta di modelli e di percorsi di adeguamento, di interiorizzazione di questi modelli. Come diceva il prof. Santoni Rugiu, sono stati proposti modelli di insegnanti eccellenti, bravi, non solo e non tanto perché conoscono la materia, ma perché sanno insegnare, insegnanti che hanno prerogative umane e competenze relazionali in grado di sviluppare una comunicazione intensa e significativa, fondamento di ogni apprendimento.
Di fronte a un modello di questo genere, gli insegnanti non possono non avere grosse difficoltà a riconoscere debolezze e mancanze. Riconoscere fragilità rispetto a questo modello eccellente equivarrebbe a sentirsi incapaci di essere e fare gli insegnanti. Ma in realtà oggi è inevitabile che si vivano moltissime fragilità perché sono venuti meno alcuni collegamenti centrali tra modello identitario e identificazioni, processi di identificazione che portano ad acquisirlo e rafforzarlo. Per costruire la propria identità, ciascuno di noi individua delle figure, delle persone della famiglia, persone vicine o più lontane che diventano dei riferimenti centrali, che si interiorizzano, dei modelli anche “ideali” a cui si vorrebbe assomigliare, perché si ammirano, perché ci si riconosce positivamente nei loro atteggiamenti….Ciascuno cresce e si realizza attraverso delle identificazioni che contribuiscono a formare e a rafforzare la propria identità. Con chi oggi possono identificarsi gli insegnanti nella costruzione dell’identità professionale? Con i loro insegnanti, a cui forse si sono inizialmente riferiti nelle motivazioni e nelle scelte di intraprendere la professione? Ma quegli insegnanti sono di un’epoca che non esiste più: non esiste più la società in cu sono cresciuti gli insegnanti degli insegnanti di oggi. Viviamo in un altro contesto e quindi l’identità che si appoggia sugli ideali-valoriali e sui modelli forniti dalla scuola tradizionale sono fragilissimi. A questo credo si possano ricollegare tanti vacillamenti, tante oscillazioni, interrogativi e frustrazioni. Quanti insegnanti pongono insistentemente a vari tipi di esperti la domanda “ma che cosa devo fare?” Avanzo l’ipotesi che la domanda reale sia piuttosto “chi sono io? che cosa ci sto a fare? chi sono nel rapporto con i ragazzi, chi sono nel rapporto con le famiglie?”.
Le famiglie interrogano pesantemente l’identità professionale degli insegnanti, perché non hanno più nei loro confronti quel rispetto e quell’alleanza che tradizionalmente gli insegnanti si aspettano di avere dai genitori. Il mondo è cambiato e non abbiamo più gli stessi puntelli per la costruzione dell’identità professionale e personale.
Soprattutto avvertiamo la debolezza e la labilità dei riferimenti se andiamo alla ricerca di modelli solidi, chiari e coerenti, stabili nel tempo e nello spazio e per questo certi e sicuri; se abbiamo prevalenti attese di riconoscimenti e di conferme rispetto a quanto abbiamo interiorizzato, e che oggi non è più proponibile. Circolano ancora molte attese di un’identità forte, data dall’avere una posizione elevata o dal fondarsi su modelli ideali…Ma negli ultimi decenni abbiamo scoperto che c’è anche un’altra strada di costruzione dell’identità ed è quella che viene descritta come bricolage , come piccoli aggiustamenti che ciascuno fa da sé attraverso materiali anche poco appropriati, in momenti casuali e fortunosi, presi un po’ al volo, in mezzo a contraddizioni e contrapposizioni, aggiustamenti provvisori che portano a ricercare altri incontri, altri supporti e riferimenti. E le identità forti appaiono sempre meno quello edificate su modelli forti, e sempre più quelle che sono in grado di attraversare le turbolenze in modo dinamico, adattandosi ai mutamenti e ritrovando le proprie coordinate di fondo. Riusciamo a costruirci delle identità forti perché le confrontiamo, le esponiamo e sperimentiamo nell’incontro con tante diversità e con tante differenze, con tanti altri che sono proprio “altri”: dal confronto con questa alterità scopriamo dei pezzi di noi stessi che faticosamente, attraverso rielaborazioni, anche dolorose, possiamo cercare di tenere insieme. È un processo di costruzione dell’identità che è complicato, incerto, perché non sappiamo i risultati che dà e che è difficile, sempre minacciato nell’incontro con l’altro, sopratutto con un altro distante. Si è esposti a giudizi svalutativi, stereotipati e sommari in cui non ci si può riconoscere e che fanno chiudere in difesa. Reazioni di questo genere sono tipiche di varie professioni relativamente “forti”- e penso ai medici o ai magistrati, ma credo anche gli insegnanti – che sono sostenute da istituzioni massicce, potenti e da saperi costituiti, altamente formalizzati , strutturati, visibili, depositati e conservati, generalmente riconosciuti e rispettati. Per questi professionisti per molti decenni hanno funzionato identificazioni con modelli professionali forti, istituzionalmente protetti, socialmente legittimati. Oggi ad esempio i medici si sentono attaccati e messi in discussione rispetto alla bontà delle loro valutazioni e scelte, nelle loro prerogative, nel loro stile comunicativo, nelle loro competenze e si preoccupano di “difendersi”. Non a caso si parla di “medicina difensiva”, che i medici praticano per cercare di sottrarsi il più possibile ad eventuali critiche, ad attacchi al loro operato….come se la modalità più adeguata per proteggere la propria identità fosse quella di prendere le distanze dalle richieste dei pazienti e delle loro famiglie. Mi domando se per gli insegnanti accada qualcosa dello stesso genere, se quando ci si sente fragilizzati rispetto alla propria identità, si prendono le distanze dagli allievi e dalle loro famiglie, mettendosi in una posizione di difesa. Le attese di riconoscimento in realtà possono trovare maggiori corrispondenze e opportunità se vengono ascoltate sollecitazioni e indicazioni che arrivano dagli interlocutori più disparati. Se si accolgono richieste contradditorie e incoerenti, se ci si avvicina al disordine si può anche di volta in volta inventare una propria collocazione, un proprio stile, una propria declinazione rispetto a valori che sono da scoprire e riscoprire. Il processo di costruzione della propria identità per bricolage è continuamente esposto a interruzioni e smentite, a situazioni che danno riconoscimento e ad altre che disconfermano. E’ un percorso tortuoso, ma è anche quello che ha più probabilità di avere continuità nel tempo e di apportarci conoscenze e ri-conoscenze.
Si ha difficoltà a sviluppare questo percorso costruttivo dell’identità, e qui vengo al terzo e ultimo punto, perché c’è difficoltà a riconoscere i rapporti.
I rapporti nei microcontesti di lavoro nella scuola
Spesso, ascoltando i discorsi degli insegnanti sento parlare di “centralità dell’alunno”, un po’ anche come se questa fosse una affermazione importante per orientare il lavoro che si fa a scuola. Un’ipotesi fondante del mio impegno professionale nella formazione è che la crescita delle persone avvenga entro tante relazioni educative, sempre ambivalenti e sempre di simmetriche. Perché si parla di centralità dell’alunno? Se intendiamo sviluppare degli apprendimenti, delle socializzazioni, se ci impegniamo in un lavoro educativo, credo che al centro vadano collocati i rapporti. La centralità non si sposta dall’insegnante all’alunno, ma vengono considerati i rapporti che tra loro esistono. Spesso nella scuola il rapporto è strutturalmente duale: uno schema che è rafforzato anche dall’ assetto logistico, credo ancora presente in molte classi; da un lato un tavolino con l’insegnante, e dall’altro i ragazzi tutti in fila, uno dietro l’altro in modo che non si vedano in faccia; posizioni e ruoli sono ben divisi tra chi parla e chi ascolta, chi interroga e chi è interrogato. Entro questi impianti strutturali è difficile sviluppare delle relazioni multiple. Nello schema duale si accentua la di-simmetria fra chi sa e chi non sa, tra chi ha e chi non ha, tra chi può e chi non può. Anche con gli operatori sociali più volte richiamo questo aspetto e cioè che se ci si propone di supportare e accompagnare le persone in situazioni di sofferenza e disagio, cioè lo psicologo, il medico, l’operatore sociale non possono stare dall’altra parte, porsi in posizione gerarchicamente superiore come depositari del sapere o del bene …accompagnare richiede di porsi a fianco.
Perché siano possibili e valorizzati rapporti multipli, non cristallizzati entro una dimensione duale, che rischia di chiudere, di mortificare e mutilare le possibilità di ascolto reciproco e di comprensione della complessità in cui si è tutti collocati, è importante porre attenzione a che le dissimmetrie di età, di esperienza, di sapere, di capacità operativa non diventino gerarchie invalicabili che sanciscono superiorità e inferiorità. E’ cruciale che le di simmetrie vengono considerate e vissute come mobili, provvisorie, legate a situazioni specifiche. Le dissimmetrie sono inevitabili in quanto siamo tutti diversi l’uno dall’altro, ma siamo anche differenti, abbiamo diversa capacità di influenzare e riuscire, di ottenere e realizzare e tutto questo sta nel gioco della vita organizzativa e lavorativa, familiare e sociale. Quando la dissimmetria viene sancita e si solidifica entro ruoli e gradi gerarchici le possibilità di comunicazione si entropizzano. Lo sperimentate con i funzionari ministeriali: chi sta là , al centro, in alto non può strutturalmente ascoltare chi sta in periferia, chi sta sotto. Per definizione spetta a chi sta in alto definire che cosa si deve fare, pronunciarsi su ciò che va eseguito e seguito. Se ci proponessimo di reperire delle “leggi” nel funzionamento delle organizzazioni e delle istituzioni, questa sarebbe una delle prime da segnalare. La comunicazione nelle organizzazioni burocratico-amministrative (e il ministero e il sistema scolastico sono una di queste organizzazioni) non può strutturalmente andare dal basso verso l’alto. Non possiamo aspettarci che automaticamente emergano comportamenti differenti. Ci possiamo chiedere se nei contesti micro in cui ciascuno di noi ha più opportunità di muoversi e di influenzare riusciamo ad introdurre rappresentazioni diverse dei rapporti e modalità diverse di interazione e comunicazione nelle dissimmetrie. Credo in realtà che i rapporti orizzontali nella classe, nel consiglio di classe, tra classi di uno stesso istituto non siano sufficientemente valorizzati e spesso incontrino difficoltà perché ad essi vengono contrapposti i rapporti duali: ogni insegnante con l’alunno, ogni insegnante con la classe, ogni insegnante con la disciplina,….rapporti duali che mantengono tante separatezze. Forse i consigli di classe sono così difficili perché sono disfunzionali, sono delle discontinuità rispetto alla modalità di interagire e di comunicare, quindi richiedono iniziative trasgressive molto consistenti per poter essere delle situazioni comunicative. Non solo, nelle separatezze tutti possono pensare di essere uguali, anche se si è diversi, e ci si riconosce diversi, quando ci si misura. Per gli insegnanti è molto difficile ammettere tra loro esplicitamente l’esistenza di diverse competenze e capacità, perché tendono a considerarsi tutti uguali. E così diventa difficile che gli insegnanti con più esperienza siano di supporto a chi ne ha meno, che vengono legittimati come consulenti. Perché gli insegnanti devono essere tutti uguali, nessuno può insegnare all’altro, come se non si potesse apprendere da un pari. Così come i ragazzi non imparano dai loro compagni.
Solo se riusciamo a visualizzare la complessità dei rapporti che sono presenti nella situazione scolastica, la complessità sociale che è inscritta all’interno della organizzazione, riusciremo a sviluppare quello che secondo me è un apprendimento fondamentale: l’apprendimento dall’esperienza. Questo apprendimento non è alternativo all’apprendere dai libri, ma bisogna fare in modo che il libro sia un’esperienza di vita.
Vorrei precisare che l’esperienza non coincide con la pratica. In quel libro che ha citato Lucia Marchetti, tentavo questa distinzione e cioè che la pratica è il fare, l’operare mentre l’esperienza è l’elaborazione della pratica. Per questo non mi pare una buona strada quella del riferirsi alle “ buone pratiche” o del cercare di trasferirle da un ambito ad un altro. Le buone pratiche non si possono trasporre; sono buone in quanto sono contestualizzate, legate a quella situazione, a quelle persone, a quei vincoli, a quelle risorse, a quelle opportunità, a quei rapporti. La trasposizione delle buone pratiche è un grosso punto interrogativo che ha successo se si riesce a farla diventare esperienza, cioè qualche cosa a cui si è pensato. Tra esperienza e pratica si colloca la ricerca-azione, che forse potrebbe essere veramente una metodologia interessante da adottare nelle scuole, nei Licei di Scienze Sociali. La ricerca-azione è importante perché si fonda sull’assunto che conoscenza e azione si collegano non solo nel pensare per agire, ma anche perché agendo si pensa, ovvero l’azione offre delle possibilità di comprensione se viene riflettuta e auto-osservata. Nei rapporti è fondamentale questo modo di capire perché è agendo, è prendendo una iniziativa verso una persona, che capisci se la persona ci sta o non ci sta.
Ho portato delle riflessioni forse non del tutto ben congegnate tra loro. Mi sembrerebbe comunque interessante provare a re-interrogarsi sulla collocazione del lavoro che si fa nella scuola nel contesto più ampio, sulle attese che hanno gli insegnanti sul loro lavoro, sui rapporti che ci sono ella scuola. Penso che questa assemblea abbia davvero notevoli opportunità per interrogarsi su ciò, proprio per le scelte che sono all’origine della rete di scuole di scienze sociali e per le motivazioni che stanno alla base di questo Convegno .
Vorrei finire con una poesia di una poetessa polacca Wislawa Szymborska, a me molto cara, perché alleggerisce e approfondisce i travagli della nostra quotidianità e ci fa capire quanto la poetica sia poetica, quanto essendo poeti siamo fattivi.
Si intitola “Sotto una piccola stella”
Chiedo scusa al caso se lo chiamano necessità
Chiedo scusa alle necessità se tuttavia mi sbaglio
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge ad ogni istante
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo
Perdonatemi terre lontane se porto fiori a casa
Perdonatemi ferite aperte se mi pungo un dito
Chiedo scusa per chi guida dagli abissi per il disco con il minuetto
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino
Perdonami speranza braccata se a volte rido
Perdonatemi deserti se non corro con un cucchiaio d’acqua
E tu falcone da anni lo stesso nella gabbia immobile
Con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto
Assolvimi anche se tu fossi un uccello impagliato
Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte
Verità non prestarmi troppa attenzione
Serietà sii magnanima con me
Sopporta mistero dell’esistenza se strappo fili dal tuo strascico
Non accusarmi anima mia se ti possiedo di rado
Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna
Che fin che vivo niente mi giustifica
Perché io stessa mi sono d’ostacolo
Non averne mia lingua se prendo in prestito parole patetiche
E poi fatico per farle sembrare leggere.
Wislawa Szymborska
Grazie!
Clotilde Pontecorvo – 31 marzo 2007
(intervento non revisionato dall'autore)
Vi ringrazio dell’invito, sono qui per presentare un libro, ma mi trovo in difficoltà perché mi sento molto interna, faccio una cosa strana, ma utile, vi leggo l’indice di questo testo: Trent’anni dopo - le scienze sociali nella scuola secondaria. È stato possibile grazie all’impegno del Consiglio Italiano delle scienze sociali, anch’esso costituito trent’anni fa, di cui faccio parte e la mia vita accademica è passata per questa esperienza.
Il libro è articolato in dodici capitoli con un’appendice e ricchi riferimenti bibliografici, molto utile per una consultazione.
Inizia con un’introduzione:
Nella parte dei curricoli, quale impianto per le scienze sociali, discipline da attraversare e da trasformare, uno studio critico, un contributo di Anna Sgherri sull’autonomia. Lucia Marchetti e Stefania Stefanini – un itinerario verso una costruzione di una diversa identità professionale per l’insegnante di scienze sociali. Leonello Bettini – l’asse storico antropologico del liceo delle Scienze Sociali, strumenti di riflessività e di manutenzione. Luigi Mantuano - criteri di decodificazione della contemporaneità nell’indirizzo di scienze umani e sociali. Giacomo Camuri – la prova del labirinto – didattica della complessità e pedagogia dell’avventura – riflessioni di metodo per un liceo delle scienze sociali. Paolo Cinque – lo stage come strumento formativo.
La seconda parte inizia con il contributo di Josette Clemenza – gli occhi sulla città.
Nottolini, Beretta, Boschini, Pesce dell’Istituto di Verbania – Pratiche di formazione e manutenzione del gruppo classe – Nuccia Farina – lavorare in terra di confine – sette anni di scienze sociali nell’isola di Pantelleria. Antonella Fatai – una didattica attiva ed efficace per riscoprire la matematica. Sabbioni, Marchetti, Chieregato – Le scienze naturali come sapere integrato.
La gamma di lavoro, come vedete è molto ampia e ho avuto delle reazioni molto positive. Ora vi do una lettura attraverso della mia introduzione.
Prima di tutto trent’anni dopo, sono ripartita dalla lettura di quel librino Le scienze sociali nella scuola secondaria superiore, elaborato con tanto entusiasmo riformatore appunto trent’anni fa e ci sembrava di essere già in ritardo. Non vi nascondo qualche sconforto rispetto alle richieste di allora sulla necessità di un nuovo impianto culturale per leggere la contemporaneità. Nel disegno illuministico che ci animava, ritenevamo che la nostra proposta avrebbe potuto dare delle buone indicazioni al riformatore, sono passati tanti anni e ci possiamo chiedere cosa sia cambiato, se non il lavoro positivo delle vostre sperimentazioni e del vostro lavoro.
Alcuni dati numerici, il primo è che il dato di passaggio dalla scuola media alla secondaria è oramai vicino al 100%, anche se il 10% esce dal sistema a sedici anni. Nel 1970 era meno del 70%, cambiamento notevole. Vi do un altro dato, vi saranno 911 tipi di maturità nel 2007, tipi di cui 185 rispondono a tipologie di istituti funzionanti secondo i vecchi ordinamenti e ben 726 secondo sperimentazioni autorizzate, il che vuol dire che gli insegnanti non sono stati fermi ed è il riconoscimento della funzione dell’autonomia che comunque ha dieci anni. Ora l’innovazione educativa è stata molto profonda e tuttavia è stata, a parte la vostra struttura organizzativa forte, per altri versi è stata del tutto casuale, non c’è stato disegno. Anche l’intervento di Anna Sgherri ci fa capire la difficoltà del ministero in anni di forte alternanza politica, di condurre o monitorare questo cambiamento. Il testo presenta interessanti proposte didattiche incardinate da parte di docenti che sono presenti in diversi contesti educativi. Oggi riprendo i due nodi di questo discorso: uno dei nostri dilemmi è stato quello che noi proponevamo le scienze sociali per tutta la scuola secondaria, invece poi la proposta è stata raccolta solo dai Licei o Istituti delle Scienze Sociali, e il secondo forse risolto sul piano teorico, ma non operativo che è la dialettica tra scienze sociali e scienze umane.
Infine io concludo questa presentazione indicando al Ministro a cui mi rivolgo, faccio come le leggi di Socrate, io parlo al Ministro, dicendo come da questo modello possa scaturire un modello di riforma valido per molti altri tipi di contenuti disciplinari o indirizzi scolastici.
Veniamo al primo punto, le scienze sociali per tutti e le scienze sociali caratterizzanti un indirizzo di studio. Se si rilegge il libretto del ’77 si capisce che raccoglieva idee anche degli studenti, cioè istanze di cambiamento venute fuori dal movimento del ’68 e successivi. Mi piacerebbe discutere con voi come è cambiata se è cambiata la richiesta degli studenti, certo che quella di allora aveva forti caratteristiche diciamo politiche, e che forse adesso avrebbe diversa connotazione. Io ritengo che sia sempre importante rivolgere le scienze sociali alla scuola di tutti, ma questo non esclude il valore della scuola che ha queste discipline come caratterizzanti. Nel documento del 2006 dei ministri dell’Istruzione del G8 si dice che la conoscenza delle scienze sociali e umane sono elementi importanti per lo sviluppo delle persone e per la coesione sociale, ci potrebbero stare molto altre cose, ad esempio qualcosa sui diritti umani, ma ci contentiamo, essendo otto ministri di varia estrazione politica e di provenienza, ma può essere una guida che può essere utilizzata.
Da questo dilemma passerei all’altro e mi baso sulla trattazione attenta e articolata di Paola Di Cori: scienze sociali o scienze umani, di questa distinzione è stato fatto un uso ideologico o se volete politico. Rimesso in auge dall’ex ministro Moratti nel suo piano di riforma, ma io ritengo che sia poco sensato e irrilevante, anche se rischia di dare molto fastidio alle sperimentazioni in atto, nel momento in cui si assegna la disciplina pedagogia come caratterizzante dell’esame finale che in questo liceo così caratterizzato, la pedagogia non ha più alcun senso formativo. Più di trent’anni fa arrivai a questa conclusione quando già nel ’74 si iniziò a mettere nero su bianco, con spregiudicatezza come avviene spesso nel nostro paese, la formazione universitaria anche per gli educatori dell’infanzia. Nel 1997 elaborando in termini concreti con il ministro Berlinguer i programmi della formazione universitaria di tutti gli insegnanti, si chiese al ministro di abolire il valore legale del titolo di studio delle magistrali per l’abilitazione all’insegnamento nella scuola elementare. Questo fatto ha cambiato il senso dell’istituto magistrale e li ha costretti a profonde modifiche, gli istituti magistrali erano i più diffusi nel nostro paese con un ruolo molto importante nell’elevazione dell’istruzione del paese, ruolo che ha ormai perduto.
Comunque lo studio della pedagogia è rimasto, è stato meglio giocato con un ruolo ridimensionato.
Paola Di Cori analizza la necessità di una diversa integrazione, mettendo da parte la tematica ideologica, se i nostri padri erano allora Marx, Parsons, Weber, oggi i primi due hanno perso rilevanza e sono molti e diversi gli autori di riferimento che voi avete ampiamente utilizzato e più ampie e diverse le tematiche:
Quindi lo spazio della cultura nelle scienze sociali è diventata molto più rilevante,sono centrali le esigenze formative ma diversi i riferimenti e le consapevolezze. Ci sono anche delle scienze umane che sono ancora rilevanti e con cui si sono stabiliti rapporto molto produttivi, ad esempio non si può negare il nesso tra il pensiero logico e narativo, il ruolo della narratività nella letteratura e nella storia, quindi nuove allenze, i nessi con le arti visive, con la linguistica e la comunicazione. Sono nuovi slittamenti disciplinari, molto diversi da quelli di allora, questo è interessante e si ritrova nel libro. Pensate che è negli ultimi vent’anni si comincia a parlare di menoma, è la didattica la sede più adatta per sperimentare, è più difficile creare questi nessi all’università. Pensate che io non sono riuscita a inserire nel programma universitario nemmeno la filosofia del linguaggio, io insegno psicologia a Roma, è vero abbiamo Tullio De Mauro, ma gli studenti debbono andare a lettere e così per gli insegnamenti storici che gli studenti debbono andare a cercarseli.
Da Di Cori: le scienze sociali fanno considerate come entità problematiche e incerte come case aperte e ospitali visitate da amici, da parenti, ma anche da estranei, nella loro attuale complessità e strutturazione a rete.
Qui è sottolineato il ruolo della didattica, questo è il senso della scuola, sono più scettica su quello che può dare l’università, non sottovalutate l’impostazione e l’originalità che può venire dalla scuola. Nel contributo di Anna Sgherri emerge come il ministero si sia trovato in difficoltà a gestire questo processo di innovazione, poi ci sono stati più di trecento istituti magistrali che dovevano cambiare carattere e quindi il ministero ha sostenuto il cambiamento, ma lo ha anche controllato, impedendo innovazioni radicali. Passiamo ai contributi sostanziosi del curricolo. Il saggio di Marchetti e Stefanini racconta la storia dalla parte dei docenti per la costruzione della loro professionalità e questo è stato il senso credo anche di questo vostro incontro e della vostra organizzazione. Questo è un aspetto molto rilevante è l’idea costruttivistica della conoscenza, cioè che si fa con i propri pari e l’elaborazione di un asse culturale consapevole che dia all’indirizzo un’impostazione culturale forte che risponda alle molteplici istanze del mondo attuale.
Il secondo contributo, quello di Bettin, chiarisce la chiave interpretativa dell’indirizzo storico antroplogica e le scelte didattiche di conseguenza, sottolineando che l’antropologia ci insegna a riconfrontarci continuamente con i nostri preconcetti o con le nostre assunzioni implicite, c’è una critica sull’uso spregiudicato di certi testi, come la Mead, senza la necessaria riflessività anche sulle nostre operazioni di ricerca oltre che di didattica. L’indicazione che ci dà è l’analisi dei contesti, delle relazioni, delle interrelazioni, delle retroazioni come proposta da Edgar Morin.
Il contributo successivo è di Luigi Mantuano che sostiene innanzitutto la necessità di una teoria e di un ripensamento del curricolo che deve includere lo stage come componente formativa, allo scopo di decodificare la contemporaneità per cui la scuola è luogo di incontro e vitale anche per gli insegnanti. La proposta è quella di sostituire le categorie classiche delle scienze sociali con delle nuove forme di meticciato culturale, quella che lui chiama una pulsione di erranza osservabile sia nei movimenti migratori, sia nelle pratiche di organizzazione del lavoro e del tempo libero. Esaltare il nomadismo sociale in tutte le sue espressioni, la priorità della relazione educativa messa sullo stesso piano dello stage nelle scienze sociali. Si basa sulla magistrale definizione di Marcel De Certau che cos’è un seminario, rispettando ciò che non viene detto e ciò che vi succede all’insaputa. La rivista Achab lo ripropone, si trova in rete, fatta da un gruppo di studenti della Bicocca.
Si insiste sulla necessità del coniugare, pensare e fare e su dare spazio al locale, far vedere le storie per far capire. In questo volume specifico c’è un contributo di Paolo Cinque che fa capire la differenza tra lo stage e i tradizionali tirocini e nel rapporto scuola/lavoro.
Lo stage rinnova completamente il paradigma del liceo in generale e mi appare momento del centrale modello di scuola che si può ricavare da queste esperienze. Cinque sostiene che il lavoro sul territorio è il curricolo visto dall’altra parte, tradotto in una comunità di pratiche. Giacomo Camuri esplora nel suo saggio le conseguenze sul piano didattico di una pedagogia della complessità, il liceo come un meta laboratorio di metodi e pratiche che le scienze sociali hanno messo in atto. Si serve di Georges Perec e propone otto percorsi in diversi spazi: - lo spazio dell’inciampo, lo spazio dello sguardo, lo spazio della scrittura, lo spazio degli interstizi, lo spazio della parola, lo spazio del corpo, lo spazio della cultura, lo spazio della mente. È un’esposizione complessa, ma molto sollecitante. Camuri conclude alla Lacan dicendo che c’è una nuova nascita di individui disposti alla conoscenza.
La seconda parte del volume contiene una serie articolata di buone pratiche che presentano modalità coerenti e originali di realizzazioni curricolari. La distinzione delle due parti è un po’ strumentale, perché in realtà sono molto integrate.
Josette Clemenza – la città come aula, la città come testo, la città dei bisogni e anche dei bisogni sotterranei, e la città dei servizi. Un viaggio tra Messina e Firenze, fino a Valencia come città progettata, sempre con atteggiamento critico. Si conclude con l’elogio dell’incertezza per liberarci dall’ovvio.
Infine il contributo conclusivo dell’istituto Cobianchi di Verbania sulle pratiche e manutenzione del gruppo classe, come un’istanza forte a cui dedicare attenzione. I nuovi adolescenti che compongono le classi là dove si è costruita una magia didattica, con attività di formazione che coinvolge fortemente gli studenti.
Nuccia Farina affronta l’esperienza voluta e consapevole nell’isola di Pantelleria con un coinvolgimento da parte degli studenti nella realtà locale.
Fatai sulla percezione della matematica, molto attuale perché la nostra scuola allontana dalla matematica, mentre questa disciplina potrebbe essere molto divertente e trovo giusto che ne trattino i licei delle scienze sociali.
Sabbioni, Marchetti, Chieregato – Le scienze naturali come sapere integrato. Questo è il primo tipo di scuola nel quale potreste predicare qualche verbo, l’analogia tra scienze naturali e scienze sociali rende questo curricolo molto interessante. Si chiede un ruolo più importante anche orario per le scienze naturali. Concludo che questa lettura aiuta, dà contributi, ci fa capire che un buon insegnante è un buon ricercatore, è autonomo ma pubblico e verificabile come l’autonomia richiede.
Questa è condizione essenziale perché l’insegnante non è mai esecutore di ciò che viene dall’alto, ma progettatore libero e consapevole della sua attività educativa e didattica, solo così c’è educazione, lo so è molto più complesso così il ruolo dell’insegnante, un insegnante deve studiare, imparare, ma deve anche divertirsi, avere il gusto dell’insegnamento, diventare così insegnanti riflessivi e non le vestali della classe media.
Clotilde Pontecorvo