Relazione educativa e nuove forme di stage
Antonio Ronco (docente Liceo Machiavelli di Lucca)
Che cosa rimane di più indelebile nella nostra memoria dei primi anni di scuola se non che le esperienze concrete e le relazioni vissute?
Ricordo che mi sentivo del tutto impreparato ma le indicazioni dei gruppi di lavoro della scuola Polo e gli esempi di Ferrara mi permisero nel 2001 di svolgere un’ attività di osservazione. Avviammo uno studio sulla città di Lucca e sulla sua storica tradizione mercantile. Così decidemmo di svolgere una ricerca sul mercatino dell’ antiquariato di Lucca. Vi furono incontri in Comune, con i vigili, con gli ambulanti, con i turisti italiani e stranieri a cui furono rivolte interviste e per la prima volta i risultati del lavoro furono esposti dai singoli alunni al consiglio di classe e ai genitori tutti.
Di aiuto ci fu il documento del gruppo di lavoro nazionale del 2000 con le sue indicazioni sulla lettura della società, il rapporto con gli altri e gli assi culturali nel comune orizzonte storico- antropologico.
Con alcuni colleghi del Consiglio di classe l’anno successivo 2002 organizzammo uno stage guidato per tutta la classe insieme al Ceis scuola sulla vita del quartiere nel quale è situata la scuola. Queste le voci commento di alcune alunne:
“ Progetto Francesco mi ha permesso di conoscere più nello specifico un quartiere che io frequento da quattro anni e che fino ad oggi non ero mai venuta a conoscere nelle sue caratteristiche e problemi. Il CEIS ha lasciato in mano nostra lo spoglio di tutte le interviste ed il commento su di esse. Penso che sia stato un lavoro impegnativo, ma anche di notevole importanza. Mi sono sentita responsabile sempre con la paura di sbagliare. Stare a contatto con le persone, relazionarmi con loro, capire i loro disagi e instaurare un dialogo mi fa stare bene e mi ha permesso di sconfiggere la mia timidezza ancora un pochino.
Siamo nel 2003 ed alla classe, ormai guidata per 2 anni, per due esperienze, chiedemmo, come nella più classica delle tradizioni formative così come ancora oggi è uso fare al termine di un percorso scolastico superiore nelle scuole staineriane, chiedemmo di organizzare autonomamente, con un docente tutor da supporto e voce di riferimento, una ricerca in “luoghi” a loro più vicini per interessi. Così gli alunni lavorarono con il CNV - la Confcommercio – ASL – ANFFAS – Esselunga – Centro Musica Moderna – Centro accoglienza alla vita – Sale cinematografiche – Unicef – APT
Altra classe altro percorso fu quello tracciato sul tema dell’informazione: in terza fu la stampa e l’attività di scrittura da parte degli alunni presso la redazione di un quotidiano locale. Non ci appassionò molto quel lavoro forse per gli incontri e le relazioni o perché l’attività sembrava troppo simile al quotidiano scolastico. Nel 2004 riuscimmo a farci accogliere da una televisione locale NOI TV. L’idea fu quella di seguire un cronista televisivo per una intera giornata da parte di ciascun alunno il quale avrebbe dovuto scrivere un testo a commento delle immagini e poi leggerle nel telegiornale serale. L’idea di apparire in televisione, di farsi belle o di negarsi alla ripresa mise in moto meccanismi impensati di lettura del sé, dell’altro oltre che di aspetti tecnici sull’informazione.
Ultimo anno l’attività doveva essere individuale e quindi il percorso sull’informazione ha visto varie iniziative più o meno interessanti in particolare ne ricordo due significative: la prima “guerra e intercultura” ha dato voce a giovani palestinesi e giovani israeliani diciassettenni che con un incontro a Lucca e una corrispondenza successiva ha messo insieme vari spaccati di vite giovanili vicine/lontane
La seconda ha dato voce ai bambini sul tema delle armi e della guerra “guerra e intercultura con gli occhi dei bambini” tramite alcuni disegni di bambini dai 6 ai 10 anni richiesti ad una missione comboniana. Disegni che poi sono stati letti da una classe di 3° elementare di Lucca. Questi alunni hanno commentato i disegni dopo averne eseguiti anche loro sul tema “le armi e la guerra”.
Penultimo percorso – Noi e il mondo arabo – la lettura araba al femminile” L’amore, la guerra - Donne d’Algeri – Ombre sultane” di Assia Djebar. “ L’Arem e l’Occidente – La terrazza proibita – Chahrazad non è Marocchina - Islam e democrazia e Karavan” di Fatema Mernissi.
Il tema fu scelto facendo riferimento ad una precisazione di L. Muraro quando dice: “la mediazione femminile si afferma con forza, energia e visibilità riconoscibile ad altre e ad altri, non nell’identità o nell’identificazione di sé ma nella relazione”
L’adesione alla Caravan Civique è stata quindi una scelta di campo, di genere, di aspetti antropologici e culturali dell’altro dell’altra parte del “mare nostrum”.
La storia, il web non possibile, i tappeti, gli immigrati sul nostro territorio o la scoperta in una nostra villa lucchese, con un tipico giardino del’600 all’italiana un angolo dove agli inizi del ‘900 fu fatto costruire un giardino arabo sono stati i motivi è le scoperte di questa classe.
Bene da quel giardino dopo un incontro finale a Torino con altre scuole locali che avevano con noi partecipato al progetto e i docenti di un liceo del Marocco, in 4° lo scorso anno ci siamo dedicati alla conoscenza dell’altro che vive e lavora sul nostro territorio; e se in 3° erano state svolte, raccolte ed elaborate una serie di interviste, in 4° dopo l’incontro e con il signor Salah Chfonka e la sua storia ci siamo dedicati alla raccolta di storie di vita, registrate e trascritte per giungere alla partecipazione pubblica ad un convegno provinciale di due giorni dove “la scuola”si è fatta portavoce di queste vite alla presenza di avvocati, politici, religiosi, rappresentanti sindacali ed esponenti di associazioni pro e di immigrati.
E qui mi fermo poiché in 5° oggi stanno svolgendo individualmente lo stage sempre tenendo presente la condizione degli immigrati.
Una riflessione tecnica ci pare opportuno fermare. Con le nostre alunne bene abbiamo evidenziato, nel fare esperienza, il valore qualitativo di una ricerca basata sulle “storie di vita” senza nulla togliere al taglio dell’intervista e del valore quantitativo di una ricerca.
Ultimo percorso è quello in costruzione oggi nella classe 4° (quella che alcuni di voi hanno conosciuto perché impegnata nell’accoglienza al nostro convegno dello scorso anno) ma di questo percorso in fieri è prematuro parlarne per evidenziare con chiarezza ciò che stiamo ancora oggi vivendo in forma troppo complessa.
E qui finisco sperando di non avervi tediato e riproponendomi alcune domande sul clima generale della società e quello scolastico che stiamo vivendo. Questo oggi mi appare sempre più grigio in particolare se pensiamo alle notizie relative al mondo della scuola che appaiono occasionalmente sui mezzi di informazione.
E così mi chiedo:
Sì io penso che lo sia e lo sia nell’unicità di questo liceo come momento di formazione dove il “dentro/fuori – io/tu – noi/loro – so/non so – sapete/non sapete risultano essere una esperienza scolastica che con forza ci invita a riflettere sulla relazione educativa (l’insegnante non è una macchina di trasmissione di informazioni) è sulle diverse modalità di questa relazione. Ricordo le lotte nella mia vita di studente contro l’autoritarismo ma anche la grande stima emotiva ed il fascino verso l’autorevolezza di alcuni nostri maestri.
Per questo allora mi chiedo cosa abbiamo fatto con questi ragazzi in quei momenti di stage poiché a molti occhi estranei alla “lettura” e a molte orecchie ignare “dell’ascolto” appaiono quei momenti solo pause di “irregolarità nella normale attività didattica” e aggiungerei cattedratica.
Bene, provo a fare un elenco di ciò con cui i nostri alunni si sono misurati nel fare esperienza anche se sono consapevole che qualsiasi elenco sarà sempre non esaustivo di tutte le possibilità consce e non che queste esperienze possono offrire:
Ma quanto mi viene da elencare vedo che appartiene a tutte quelle “competenze chiave di cittadinanza” a cui siamo stati richiamati dal Ministero della Pubblica Istruzione nello svolgere il nostro compito di docenti.
I nostri alunni sono stati esercitati nel fare questi stage che caratterizzano il liceo delle Scienze Sociali dove queste competenze non rimangono più belle parole di una qualsiasi progettazione ma momenti vissuti da giovani entusiasmi dove lo sforzo, quando è motivato, diviene un vissuto intrinseco alla relazione emotiva che a quella età si vive con il mondo.
Voglio finire con un desiderio quello di pensare ad un nuovo lavoro per questo mio ultimo anno prima della pensione ovvero quello di avviare una ricerca storica – antropologica nell’archivio dell’istituto dove lavoro formatosi come scuola superiore femminile sin dalla metà del 1800.
Finora mi sono trattenuto, poiché non ho mai incontrato disponibilità, per timore di invadere il campo e le sensibilità di altri colleghi (invasioni di campo, imposizioni di scelte etc…). Oggi ho imparato, grazie alle Scienze Sociali, a lavorare sui saperi che non sono di “proprietà” di nessuno ma il frutto del continuo incontro delle pertinenze di tutti e di ciascuno.
Grazie Antonio
Riferimenti bibliografici diretti e indiretti:
M. Augé “Il mestiere dell’antropologo” Bollati Boringhieri
Bocchi – Ceruti “La sfida della complessità” B. Mondadori
E. Morin “Cultura – scuola – persona" - indicazioni nazionali 2007
I. Illich “Elogio della bicicletta” Bollati Boringhieri
F. La Porta “Maestri irregolari” Bollati Boringhieri
Z. Bauman “Le vespe di Panama” Laterza
Cooperazione Educativa n. 3 - 2007
“Rimettere in moto la testa” di P. Perticari
Cooperazione Educativa n. 1 – 1999
“Il concavo e il convesso nella formazione” di Donata Fabbri
Linea d’ombra n. 59 – 1991
“Da chi imparare” di Goffredo Fofi
Noi donne n. 7/8 – 1993
“Sulla relazione” di Luisa Muraro
Strutture ed altro, nel con-venire e nell’inter-venire della responsabilità educativa
Mario Schermi (metodologo del Patto educativo dello Stretto)
Premessa: educare irriflessivo, riflessivo e pre-riflessivo
L’educare irriflessivo è l’educare che poco sa di sé e, in un certo senso, poco vuole sapere, giacché senz’altro sa quanto preziosa sia la propria “ignoranza”, come condizione della propria esistenza. Nella penombra dell’irriflessione, l’educare può così incontrare l’altro e “attendere alla crescita” come quotidiano darsi alla vita, dell’uno per l’altro, dall’uno all’altro… [Nancy, 1992], quasi fosse naturale. Solo accidentalmente l’uno e l’altro possono scoprirsi educatore e educando: accade quando l’altro si scopre cresciuto, senza capire come, e ringrazia l’uno che, a sua volta, “senz’altro” credeva d’essere preso in qualcos’altro. Educare è innanzitutto una “cosa così”: un accadere misterioso, nascosto, carsico… eppure incessante nel suo costruire e ricostruire il mondo, fra tradizione e tradimento.
L’educare riflessivo, invece, è in costante esercizio di interrogazione. È attento nel riconoscere l’accadere educativo e, spesso consapevole del suo “mistero”, sa farsi attorno, alla ricerca dei significati e dei sensi che in quel particolare “spazio-tempo” prendono a realizzare l’esperienza del “crescere”. L’educare riflessivo, soprattutto, svolge due funzioni: una “critica” [Cambi, Cives, Fornaca, 1991] e l’altra “ermeneutica”. La prima è volta a smascherare gli irrigidimenti, le violazioni, i percorsi obbligati, le riduzioni… delle diverse pedagogie non di rado mimetizzate nelle pratiche dell’educare irriflessivo. La seconda, cercando riparo da qualsiasi nomografia, prova a seguire le “tracce” di ciascuna esperienza educativa colta, idiograficamente, nella sua unicità alterante, di “differenza” che si fa “differente” nel dialogo con il mondo. È questo un educare che sa di sé, ma che, anche, rischia di voler sapere troppo, violandosi o capovolgendosi: violando il mistero dell’educare o capovolgendo il proprio agire (…educativo) in attività conoscitiva.
L’educare irriflessivo è come se fosse “quasi” immerso nell’accadere educativo. L’educare riflessivo, invece, sembra seguirlo e attenderlo di là dal suo accadere, per poterlo raccogliere, raccontare e, infine, interpellare. L’educare pre-riflessivo, allora, precede l’accadere educativo e, in un certo senso, l’anticipa, non senza la presunzione di poterlo anche determinare. In questo suo poter stare “prima”, l’educare pre-riflessivo è impegnato a scorgere gli orizzonti e a intenzionare l’agire educativo, prevedendo, orientando, progettando, programmando… Gli orizzonti rivelano che l’educare non è mai “neutrale” e “tradiscono” che non può non essere normativo, sia pure con tutte le comprendibili premure antiautoritarie. In quest’altra direzione, l’educare pre-riflessivo, “torna” a ribadire che l’educazione non è solo un affare dell’educando, ma che riguarda (e non poco) lo stesso educatore, interpellandone “il senso”. Educativamente, allora, il crescente non è solo [deludendo Rousseau], non è libero [deludendo Tolstoj] ed ha pur sempre una scuola [deludendo Illich]. Così come, venire al mondo è una esperienza compromettente: non è cadere sulla “terra”, ma essere con-segnato alla storia ed esserne un nuovo inizio. È compito dell’intenzione sgombrare il campo dalla speranza positivista e neo-positivista di un accadere educativo come “fatto puro”.
1. Dell’educare irriflessivo: lo “spazio educativo diffuso” e il “tempo educativo intimo”
L’educare non è un mestiere. Anche se può diventarlo. Nel suo cerchio più “largo” finisce per comprendere tutti gli uomini e le donne. È qui che, gli uni e le altre, sono comunque intenti a prendersi cura di esperienze rivolte al crescere. Accade così che ciascuno può (deve…) farsi “ausilio” dell’evento del crescere, e divenire, nell’incontro con il crescente, educatore… nel senso più “largo”.
Il “cerchio più largo” è la sede, la casa… dell’educare diffuso. Non si tratta di un educare intenzionale, formale, tecnico, professionale…; non contempla riflessioni, progettazioni, strategie… ma, semplicemente (si fa per dire!) accade e informa di sé il mondo d’intorno, a partire dall’esercizio “quotidiano” della responsabilità educativa, esercitata in ogni gesto, anche minimo, in cui ciascuno, con osservazioni, premure, parole… si prende cura del “crescere” dell’altro. Fare un gesto d’accoglienza, prestare ascolto, offrire protezione, segnalare un pericolo, ribadire una regola, comunicare un valore… sono “gesti educativi quasi spontanei” di cui sono disseminati molti dei comportamenti di coloro che incontrano crescenti. Bidelli, genitori, allenatori, barman… sono, così, agenti quasi inconsapevoli di un “educare ingenuo” [in-gīgnere, che viene da dentro], implicito, talvolta cifrato…. Tanto più numerosi e intrecciati sono gli agiti educativi ingenui, tanto più, questi, saranno capaci di dare vita a “spazi educativi diffusi”, densi di occasioni di crescita, anche se educandi ed educatori hanno soltanto una contezza lontana di tutto l’educare che sta lì accadendo.
Se lo “spazio educativo diffuso” è il cerchio più largo presso cui possono trovare esperienza le occasioni del crescere, il “tempo educativo intimo” è forse il suo cerchio più stretto. Si tratta ancora di un educare irriflessivo, per lo più “ingenuo”, quasi un “incidente educativo” che circoscrive un tempo riservato all’uno e all’altro, all’educatore e all’educando. È un “tempo sospeso”. Uno stare “quasi” sopra il mondo, ma temporaneamente. Il maestro e l’allievo, il padre ed il figlio, l’insegnante e lo studente, il barista ed il ragazzo, il mastro ed il giovane… secondo il tempo che l’educare darà e “quasi” per caso, saranno presi l’uno dell’altro, nell’impresa comune del “crescere”, rinnovata dall’incontro nello “scarto” tra crescente e cresciuto. È un’esperienza intensa. Richiede intensa cura e intenso affidamento. Complicità. Intesa. Stima reciproca. E, insieme, senso del limite (dell’altro) e desiderio di oltrepassamento (della situazione…).
2. Dell’educare riflessivo: esercizi di valutazione educativa
Tocca tornare sulle cose per poterle interrogare. Nel loro primo passare sanno di stupore, di meraviglia, di orrore… Ma fin qui, sono solo le cose da una parte e le nostre passioni dall’altra. Le cose che passano, ed il nostro sentirle e, talvolta, inseguirle. Le cose indifferenti e la nostra “differenza”. È allora che tocca rallentare, fermarsi… per ritrovarsi in sé e nel mondo. Per ricomporre, a nostro modo, il componibile. È il momento del “valore”, il momento del “m’importa”, delle cose “per me e per te”.
Educare, nella sua forma più riflessiva, è anche riuscire ad interrogare, volta per volta, storia per storia, ciò che “importa”. È poter dire delle “cose”, dei “qui-ed-ora”… colti nella loro attesa: come di cose… nella tensione inestinguibile di un orizzonte. Escatologia. È ciò che accade ogni volta che ci si interroga circa il “senso”. E la domanda sul “senso” è intrinsecamente pedagogica. Il “valore”, quasi come misura del “senso”, però, non è disponibile, attingibile… ma “riguarda” il nostro discorsivo farci attorno alle “cose del mondo” e scoprirle nel “senso del crescere”. Senza questo ritrovare e ritrovarsi, senza poter dire cosa “importa”, “a che vale…” …l’educare non saprebbe, letteralmente, dove andare o, peggio, non saprebbe neppure, criticamente, dove è andato, giacché c’è pur sempre un “senso”, anche se nascosto, implicito, eterodiretto…, in quell’andare tra gloria e rovina.
Il lavoro del “valutare l’educare”, altro che appendice, adempimento docimologico, inutile indugio di teorici, esibizione autoritaria del giudizio… è l’educare stesso che ritrova il suo possibile senso (modificato, alterato…) ogni volta nell’incontro con l’altro crescente. In questo senso, la responsabilità educativa, oltre che “iniziare”, è soprattutto chiamata a “finire” l’educare. E l’educare, così definito, potrà essere riconosciuto e interpellato, giacché non tutto è educativo e non tutto l’educativo è riconoscibile nel senso dell’educare critico e condiviso (valore pubblico). Ci si potrebbe ad esempio ritrovare con iniziative senz’altro non-educative, nella misura in cui, nonostante le intenzioni, non riescono a raggiungere il crescente; oppure si potrebbero scoprire imprevisti esiti dell’educare, di molto distanti dalle attese condivise.
Perché, intanto, il lavoro dell’educare possa essere riconosciuto nel suo “specifico”, occorre dedicare spazio e tempo ad un costante “esercizio di valutazione educativa”, che insieme al riconoscimento delle necessità dell’educare sappia elaborare metodi e strumenti, capaci di sostenerne l’”esercizio” e di garantirne la rigorosità.
3. Dell’educare pre-riflessivo: le strutture dell’agire educativo
Lavorare sul crinale delle “differenze”, tra un contenuto ed un altro, tra un modello ed un altro, tra…, può apparire un semplice espediente didattico, utile a veicolare e favorire l’apprendimento. Tuttavia, per alcuni saperi, per alcune competenze si è chiamati a superare la semplice dimensione dell’espediente, giacché, dentro quelle differenze, si annida la possibilità di qualificare, in termini di efficacia, le idee che si pensano e le azioni che si fanno.
In alcune professioni, poco codificate da mansioni e procedure, come quelle a forte implicazione relazionale, provocatoriamente, tutto sembra lo stesso. Perché possano darsi ulteriori apprendimenti volti a sostenere un agire più attento, più efficace e …responsabile è opportuno dedicare del tempo al riconoscimento ed alla riflessione circa le diverse posizioni, le diverse azioni… senza, per ciò stesso, precipitare in specialismi pericolosi e fuorvianti [Schön, 1983], ma semmai per consentire alle singole dimensioni di riconoscersi, di definirsi e, infine, aprirsi a produttive “contaminazioni”.
Tradizionalmente i mestieri dell’educare si sono avvalsi di modelli d’intervento ora “programmati” (strutturati per sequenze di contenuti ed esercizi) ora “attivi” (destrutturati e orientati ingenuamente- creativamente); ovvero, modelli sostanzialmente irriflessivi, come se l’educare non fosse sostanzialmente pensabile o, al più, fosse “somministrabile” per contenuti ed esercizi. Negli ultimi decenni, sotto la spinta di una maggiore ricerca d’efficacia nell’azione educativa [Pavone, Tortello, 2002] e per una certa enfasi accordata alle “speranze cliniche”, tra “programmazioni” e “attività”, hanno preso ad essere diffusamente sperimentate (…non senza eccessi e accanimenti) forme di “progettazione educativa individualizzata”.
Mentre, però, tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, la “progettazione educativa individualizzata” e la “progettazione educativa programmata” conoscevano il loro massimo sviluppo, si registrava un costante e inesorabile cedimento della “tenuta educativa” più diffusa (delle comunità, dei territori, delle famiglie, delle chiese, dei partiti…). Come dire che mentre l’educazione formale ed intenzionale si specializzava, l’educazione informale e inintenzionale [Tramma, 2003] arretrava, senza che le “efficienze” della prima potessero supplire le “deficienze” della seconda. Tocca dire, qui forse un po’ troppo perentoriamente, che l’educare informale, irriflessivo… non è semplicemente un educare “non ancora formalizzato” ma, letteralmente, “un altro educare”, non surrogabile, a cui, con maggiore attenzione, occorrerebbe dedicare una rinnovata attenzione pedagogica, troppo frettolosamente liquidata come “ignoranza” o troppo sbrigativamente riscoperta in qualche “ginnastica dell’efficacia”.
Bene, quando l’educare non è più così diffuso, né così disposto ad intercettare e occasionare esperienze di crescita, e, invece, prova a costituirsi come discorso pedagogico disposto ad orientare l’agire educativo o a pre-disporre l’intervenire educativo presso ogni singola storia, ecco che prova a farsi “prima”, a proporsi come pensiero dell’educare, disposto a scegliere investimenti, obiettivi, strategie, strumenti… e, infine, a farsi. È questo l’educare pre-riflessivo. E non si tratta di avere semplicemente un pensiero prima: già da sempre l’educare è agire “un pensiero pedagogico” tanto esplicito, quanto implicito. Fin qui, infatti, non si sarebbe molto oltre l’educare irriflessivo. L’educare pre-riflessivo, invece, prova ad organizzare pensieri per l’educare e lo fa avvalendosi di due “strutture dell’agire educativo”: il progetto educativo ed il dispositivo educativo; il primo, volto ad inter-venire nelle storie e nelle geografie… per raggiungere obiettivi educativi; il secondo volto a sviluppare un diffuso e coerente agire educativo per costruire ambienti e favorevoli condizioni di crescita.
C’è una premessa ineludibile, quasi un principio, che deve precedere qualunque pre-disposizione educativa e che attiene al concetto di educabilità [Nosari, 2005]: esiste una concreta, mondana ed esistenziale, possibilità di promuovere, di provocare e di aver cura di cambiamenti a contenuto educativo, con lo scopo di incontrare i bisogni di crescita di ciascuno. Il progetto educativo, in un certo senso, interpreta e prova a realizzare quella possibilità di crescita rivolta al crescente, in un dato tempo e in un dato luogo. Mentre – come già accennato – il dispositivo educativo, è una struttura educativa orientata a costruire ambienti, promuovere occasioni, favorire la comunicazione dei significati educativi, divenire pratica diffusa, “quasi” automatica… il progetto educativo punta alla realizzazione di obiettivi educativi, ora centrati su emergenze educative [disagio, disadattamento, devianza…] ora centrati su particolari “speranze” educative [favorire esplorazioni, sostenere espressioni, orientare acquisizioni…]. Del progetto già molto è stato scritto [Zonca, 2004], adesso si provi a tracciare un primo disegno del dispositivo educativo.
3.1. Il dispositivo educativo
Tra la responsabilità educativa e l’agire educativo dedicato, contestualizzato… occorre mettere in cantiere meccanismi, mediatori, dispositivi… capaci di sintetizzare i processi e di operazionalizzare le intenzioni. Sì, dispositivi. E, tuttavia, soltanto dispositivi, ben al di qua dagli infiniti rinvii dell’educare. Sì, dispositivi, capaci di esplicitare anche soltanto gli orientamenti generali dell’educare o di produrre prime coerenze nel plurivoco agire educativo. Dispositivi, soltanto dispositivi, e non il tutto dell’educare.
A volerne cercare il dettaglio, un dispositivo si presenta come “un groviglio, un insieme multilineare” [Deleuze, 1999], un marchingegno di intrigate corrispondenze, pronto a funzionare per azioni programmate. A volerne cercare anche un senso più ampio, allora, dispositivo è letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi [Agamben, 2006, p. 22]. È così che il dispositivo organizza e efficientizza/efficacizza, “quasi” desoggettivizzando, l’agire alterante degli uomini, volto a “domesticare” [De Martino, 1977] la realtà. Ed è, parimenti, così che il dispositivo può reclamare un suo possibile “uso pedagogico”, in sé senz’altro alterante (già, comunque, diffusissimo in ogni educazione implicita …e non si sa, poi, quanto inintenzionale).
Ora, perché possa darsi un educare pre-riflessivo, occorre che “premesse”, “modi” e “sensi” dell’educare abbiano a riconoscersi presso un contesto e, in dialogo con questo “ancoraggio”, possano intercettare bisogni educativi situati e assicurare proposizioni, gesti, condotte… coerenti. Insomma, sia pure in una forma che poco dovrebbe richiamare soluzioni pianificate, progettate…, generalmente quando si tratta di mettere in opera un “dispositivo educativo”, questo non può non prendere la forma di un “dispositivo educativo situato”. È questo che inaugura una sintesi possibile tra diverse attese e diversi bisogni di crescita, per poi decidere un “modo”, un “metodo”… attraverso cui indeterminarsi nell’incontro con le biografie singolari e plurali, singolari-plurarali [Nancy, 1996] e, eventualmente, a quali azioni e strumenti affidarsi. Di volta in volta il dispositivo, sulla soglia cruciale dell’”incontro”, deciderà se affidarsi ad un agire educativo “quasi” informale o se strutturarsi in “progetto”.
Ecco così che il dispositivo, sulla scorta di un condiviso ripensamento dei “principi dell’educare”, si definisce nel riuscire a pre-ordinare coerenze di comportamenti, stili, atteggiamenti, attenzioni, pratiche, routine, riorientamenti… ora costantemente “in azione”, ora “pronti ad agire” a certe condizioni, in certe occasioni…. Così, mentre il “progetto” mette in ordine azioni e strategie in vista di obiettivi da raggiungere, il “dispositivo” lavora nel quotidiano interagire educativo, quasi senza obiettivi, e regolando processi, esperienze… in vista di fini.
3.2. La matrice del dispositivo educativo
La matrice di un dispositivo educativo, si compone di “disposizioni esterne” e di “disposizioni interne”. Le “disposizioni esterne” fanno da impalcatura al dispositivo e ne garantiscono la costituzione ed il mantenimento. Queste esplicitano i “principi”, gli “orizzonti”, le “responsabilità” e le “regolazioni”. Le “disposizioni interne” definiscono una area particolare dell’agire educativo, presso cui insiste il dispositivo. Queste altre possono essere riconosciute: negli (s)nodi, nei contenuti, nelle interazioni, nei predicati e negli strumenti. Qui di seguito si presenta il “disegno” della matrice, mentre in nota si forniscono alcune indicazioni per la sua costruzione [1].
Orizzonti
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Regolazioni
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Responsabilità
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Interazioni
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Predicati
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(s)nodi
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Strumenti
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Contenuti
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Principi
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3.2.1. I principi
I principi sanciscono le premesse, i fondamenti, le idee originarie… su cui si costruisce il dispositivo. La loro esplicitazione, per quanto a tutta prima ridondante, consente un chiaro orientamento del DE intorno ad un’area dell’educare (e non intorno al tutto dell’educare!), e, qui, consente altresì, come non trascurabile esito secondario, di riprendere “parole e pensieri” intorno a questioni di fondo, altrimenti percepite distanti o assunte acriticamente.
3.2.2. Gli orizzonti
Se i principi sanciscono “gli inizi”, gli orizzonti provano a definire “i fini”. Il DE, dentro questo orizzonte, individua alcuni dei “sensi” dell’educare e prova a corrispondere alla sua escatologia. Gli orizzonti custodiscono le idee di “uomo” e di “mondo” che si intendono realizzare anche attraverso l’educare, nonché i desideri e le ansie che in quelle idee hanno provato a comporsi. Come per i principi, occorre ribadire che la esplicitazione degli orizzonti aiuta a riprecisare alcuni elementi di quadro, a forte rischio di generalizzazione e di astrazione, tanto che talvolta – quegli elementi – sembrano ancora lì, anche quando non ci sono più.
3.2.3. Le regolazioni
Le regolazioni del DE servono al mantenimento dello stesso. Sono cioè tutte quelle regole di funzionamento utili a “favorire” il rispetto dei principi, l’orientamento verso “i sensi”… ed a “vincere” le resistenze (psicologiche, sociali, organizzative…) che, eventualmente, potrebbero frapporsi. La loro sottovalutazione o la loro assunzione “a-critica”, potrebbe mettere a repentaglio il “sistema operativo” (la sua virtù “quasi automatica”!) del dispositivo, riducendolo a semplice enunciatore di principi… o, con esiti non molto dissimili, costringendo ad una estenuante e continua regolazione.
3.2.4. Le responsabilità
Delle “disposizioni esterne”, quella delle responsabilità rappresenta la disposizione che sancisce la nascita di un dispositivo educativo, in quanto “struttura operativa dell’educare” pre-riflessivo. Il dispositivo non educa! Qualunque dispositivo non educa! Semmai ammaestra, addestra, manipola… Ma in questo caso, non sarebbe neppure un dispositivo educativo, nel senso sin qui tracciato. Educare è un’esperienza delle soggettività in relazione e il dispositivo educativo non può non essere un “fatto” inter-soggettivo. Dalla parte di chi educa, pertanto, è necessario che le soggettività coinvolte siano chiaramente identificate, poiché sarà soprattutto loro la responsabilità dell’educare che, anche attraverso il DE, andrà via via componendosi come esperienza di crescita.
3.2.5. Gli (s)nodi
Gli (s)nodi rappresentano i nodi/snodi intorno a cui si puntella/sviluppa il dispositivo. Sono i punti, i nessi, le chiavi… in cui si traducono i principi regolatori, ma anche i vincoli, le necessità che tocca tenere in considerazione. In termini educativi gli (s)nodi tematizzano le “questioni del crescere” intorno a cui esercitare attenzioni e cure educative o, detto altrimenti, …gli (s)nodi sono intese possibili tra attese educative e bisogni di crescita, contestualmente letti e localmente orientati.
3.2.6. I contenuti (contenitori?)
I contenuti sono il medium, le “cose” (piuttosto che le “parole” degli s-nodi), attraverso cui transitano le intenzioni educative e si materializzano, incorporandosi. E sono le massime, le discipline, le regole, le norme, le storie, i libri, i film, gli oggetti, i prodotti, le canzoni… insomma, tutte le “cose” che si fanno portatrici di un contenuto educativo. Da questo punto di vista, pertanto, più che di cose-contenuti, sarebbe opportuno parlare di cose-contenitori, ovvero di cose con “capacità” educativa, nella misura in cui ciascuna “cosa”, nel dialogo del crescere, finisce per custodire un “che” di educativo. È così che ciascun contenuto del dispositivo (o contenitore dell’educativo) proverà nutrire le esperienze del crescere di materialità educativa [Barone, 2006], in quanto pur sempre esperienze quotidiane, concrete, fattive…
3.2.7. Le interazioni
Le interazioni di un dispositivo educativo provano ad esplicitare l’elemento “caldo”, relazionale… dell’agire educativo. Esse provano a dare indicazioni circa le premesse (credenze, epistemologie, tradizioni, biografie…), le identità e le posizioni dei diversi attori dell’educare. Dalle soggettività in crescita e dal loro incontro discendono: l’opportunità o l’inopportunità di certi stili, la disponibilità a certi atteggiamenti, la regolazione di certe posizioni di potere, i contributi alla formazione del clima, dell’ambiente… emotivo presso cui accade l’educare. Detto altrimenti, c’è una prossemica educativa che, accanto, prima, oltre… i contenuti stessi, è già discorso educativo e partecipa direttamente alla formazione dei significati e dei “sensi” utili al crescere.
3.2.8. Le azioni/reazioni
Le azioni di un dispositivo educativo hanno il compito di promuovere i sensi ed i significati dell’educare, indicati dagli (s)nodi, e di animare i contenuti che quei sensi ed quei significati custodiscono. Sono le azioni che muovono l’educare e lo portano sulla soglia dell’altro crescente. In questo senso, nelle immediate vicinanze di un incontro educativo, le azioni non sono mai “sole”, ma costantemente in dialogo, in inter-azione [3.2.7.] con le re-azioni, i ritorni, i rinvii, i richiami… dell’altro. È, in fondo, di questo accadere in crescita, di azioni e contenuti, nel “mezzo” dello spezio-tempo delle interazioni, che si costruisce l’educare, ovvero un certo modo di essere… e di essere al mondo.
3.2.9. Gli strumenti
Gli strumenti di un dispositivo educativo “servono” le azioni, in quanto “mezzi operativi” capaci di attivare, di far funzionare, di mantenere… secondo le intenzioni delle azioni e le finalità del dispositivo. Al riparo dal rischio di facili “strumentalizzazioni”, è possibile affermare che gli strumenti da soli non fanno il “dispositivo”, né possono sostituirsi al alcuno dei suoi elementi. Tuttavia, strumentare opportunamente il DE, consente di tradurlo in esperienza operativa, di superare gli ostacoli, di garantirne, passo passo, i risultati.
Bibliografia
Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Einaudi, Torino 1977.
Franco Cambi, Giacomo Cives, Remo Fornaca, Complessità, pedagogia critica, educazione democratica, La Nuova Italia, Firenze 1991.
Gilles Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, in Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, Ombre Corte, Verona 1999.
Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006.
Jean-Luc Nancy (1996), Essere singolare plurale. Einaudi,Torino 2001.
Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1992.
Marisa Pavone, Mario Tortello, Individualizzazione e integrazione, La Scuola. 2002.
Paola Zonca, Progetto e persona. Percorsi di progettualità educativa, SEI, Torino 2004.
Pierangelo Barone, La materialità educativa, Unicopli, Milano 2006.
Riccardo Massa (a cura di), La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Unicopli, Milano 1988.
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Sergio Tramma, L’educatore imperfetto, Carocci, Roma 2003.
Donald. A. Schön (1983), Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica, Dedalo, Bari 1993.
Marzo 2007
Disposizioni esterne
Principi: almeno tre premesse, fondamenti, questioni irrinunciabili e non negoziabili… su cui costruire il DE.
Orizzonti: almeno tre finalità, obiettivi a lungo termine… capaci di orientare il “senso” del DE.
Regolazioni: almeno tre azioni utili a far funzionare (favorire comunicazione, con-vincere resistenze, promuovere motivazione) il DE.
Responsabilità: individuazione ed esplicitazione delle diverse responsabilità soggettive (individuali e/o collettive), sulle quali ricadono i compiti e le funzioni indispensabili perché il DE si costruisca (secondo i principi), si mantenga (secondo le regolazioni) e si orienti (secondo gli orizzonti).
Disposizioni Interne
(s)nodi: “nessi” (elementi, questioni, tasti…) educativi su cui si costituisce l’impianto della proposta educativa. Ciascuno (s)nodo, in particolare, si definisce, nella sua capacità di coniugare i bisogni del crescente con le attese sociali.
Predicati: esprimono le azioni occorrenti perché gli (n)nodi realizzino la loro efficacia educativa.
Contenuti: esplicitano le “cose” che materialmente, fisicamente… provano a “contenere” sensi e significati dell’educare e che, esperienzialmente, permettono l’incontro educativo.
Interazioni: offrono le “chiavi interpretative” coerenti delle relazioni educative in gioco nel DE.
Strumenti: sono gli ausili tecnici, capaci di permettere e/o facilitare il lavoro dei predicati.
Per un’ermeneutica dei luoghi
Giacomo Camuri
Può ancora avere senso parlare dell’anima dei luoghi e in particolare dell’anima delle coste in un tempo di forti processi di pianificazione territoriale tuttora ispirati ad una concezione razionalistica degli spazi? L’erosione crescente delle coste dovuta ai cambiamenti climatici e l’impoverimento degli habitat di ampie zone costiere soggette ad enormi pressioni antropiche non mostrano tutta la fragilità di un modello di ragione che ha espunto dalla storia degli uomini il problema stesso dell’anima?
Nella fragilità delle coste si riverbera in parte il dramma del mondo che progressivamente ha visto disgiungersi e decomporsi in forme patologiche le relazioni vitali tra uomini e ambienti. Nello sguardo delle coste il mondo si allontana dalla chiarezza e dalla distinzione delle sue rappresentazioni obbiettivanti, si palesa in un denso tessuto cicatriziale costruito più in profondità che in estensione, più fitto di cancellazioni che di linearità. Non potrebbe essere allora la stessa patologia ambientale, come propone James Hillman,1 a richiamare l’attenzione sulla realtà di un’anima che dice nella voce dell’oblio l’urgenza di una revisione epistemologica che possa riguadagnare una diversa esperienza del vivere e dell’abitare il mondo? In un’epoca di emergenze dominata dalla crescente attenzione ai problemi della salvaguardia degli ambienti costieri2 potrebbe risultare di un certo interesse ripercorrere nello spazio del pensiero delle origini e nelle trame stesse della lingua il reticolo di significati che si sono depositati nella memoria delle coste. La riscoperta di un orizzonte semantico strutturalmente radicato nelle coste potrebbe gettare nuova luce sulla storia dei paesaggi costieri e rinvenire al fondo dell’ontologia stessa dei luoghi gli intrecci che uniscono fenomeni fisici, forme spaziali e esperienze di pensiero.
1. Nell’aurora del corpo
E’ inscritto nella parola stessa che le coste siano inalienabili custodi di relazioni vitali. Basti pensare alla familiarità della parola costa con la pratica quotidiana delle relazioni spaziali: come non ricordare la versatilità di accostare e accostarsi, verbi indicanti azioni fondamentali nella dialettica dell’esistenza e nella costruzione dell’esperienza, che Jean Piaget, ad es., ascrive con l’intero processo di formazione dell’intelligenza ai due principi basilari dell’assimilazione e dell’accomodamento che a ben vedere si accordano all’ordine dell’accostare e dell’accostarsi3.
Ma ancor più sorprendente è la storia etimologica della parola, molto diffusa con il significato di costa di monte e di mare nelle lingue romanze a partire forse già dalla fine del X sec.: il dizionario del Devoto rammenta il legame tra il latino costa e la parola dello slavo antico kostĭ ‘osso’, risalente a un più antico ost- ‘osso’. L’inequivocabile rimando a una dimensione strutturale della corporeità affiora dai numerosi significati, che la parola veicola accanto a quelli di sponda, di zona di terraferma prospiciente il mare, di regione che si affaccia su di esso. L’anatomia domina e plasma alla radice la parola domiciliata ormai in molti lessici, come insegna il Grande dizionario italiano dell’uso curato da Tullio De Mauro, dalla geografia alla botanica, dall’architettura alla biblioteconomia, dall’agricoltura alla zoologia e alla medicina.4
Nell’immagine aurorale di un osso, che dà forma, spessore e sostegno ai corpi, la parola nel crogiolo delle antiche lingue dell’Occidente ha creato lo spazio di una potente metafora, che ha saputo congiungere nell’intimità di un unico sentire empatico l’articolata compattezza del vivente nella diversità delle sue manifestazioni interne e esterne. Già Ernst Cassirer nel volume della Filosofia delle Forme Simboliche dedicato al Pensiero mitico aveva ricondotto alla trama dei vissuti emozionali del corpo e all’organizzazione della sua specifica fisicità l’origine dei processi di simbolizzazione del mondo. In particolare aveva osservato come il pensiero mitico, forma nascente del pensiero in quanto tale, nella sua tendenza a negare e a distruggere distanze abbia creato per millenni sistemi di corrispondenze, rinvenibili anche a ridosso dell’Età dei Lumi, che ben trovano espressione nelle più diverse forme di anatomie magiche e di geografie e cosmografie corporee.
L’indagine di Cassirer si era allora soffermata sulle analogie che si rincorrono ad es. tra gli inni vedici con la nascita del mondo dal sacrificio del corpo di Purusha, la carta del mondo contenuta nello scritto ippocrateo sul numero sette, ove la terra viene presentata come un corpo umano con una testa, il Pelopponeso, una spina dorsale, l’Istmo, e un diaframma rappresentato dalla Ionia, o ancora lo schematismo spaziale degli Zũni, tribù degli indiani d’America.5 Come per il linguaggio, osservava Cassirer sulla scorta di Kant, vale il principio che le espressioni dell’orientamento vengono solitamente ricavate dall’intuizione che si ha del proprio corpo, così ad un livello di maggior complessità sul piano della visione originariamente mitica e poi religiosa del mondo non ci si può aspettare altro che la costruzione della totalità degli universi prenda similmente le mosse dall’ambito ristrettissimo dell’esistenza sensibile-spaziale per ampliarsi solo poco a poco e con gradualità. «Il corpo dell’uomo e le sue membra ‒ si legge nel Pensiero mitico ‒ costituiscono il sistema di riferimento a cui vengono riportate tutte le altre distinzioni spaziali ».6
Dunque le coste: metafore per terre che affiorano dalle acque e vi si inabissano, rinserrando le volumetrie della terraferma in fianchi dalle morfologie variabili, immagini predisposte dal linguaggio per dare forma al mondo in origine racchiuso nel sentirsi corpo-osso dell’uomo il cui sapere sarebbe rimasto in parte inesplorato se quei particolari lembi di terra e di mare non ne avessero espresso le potenzialità. E si sa quanto per l’antichità l’osso simboleggiasse la parte più resistente e imperitura della vita, se solo estrapolando dalla tradizione biblica ci si sofferma sul significato di due racconti posti ai suoi antipodi: la creazione di Eva dalla costa di Adamo7 e la parte terminale del racconto della crocifissione in cui si attesta secondo una profezia che al Nazareno destinato a risorgere non furono spezzate le ossa delle due gambe8. Così in forme vitali e corporee le coste s’aggettano sulla storia dell’uomo con il linguaggio sinuoso, discontinuo, frastagliato, interrotto della loro diversità.
2. La trama nascosta
Se tuttora, scrive Enzo Pranzini in La forma delle coste, rimane aperta la definizione di area costiera per la complessità dei fenomeni fisici e delle componenti geopolitiche, che si distribuiscono tra entroterra e fasce di mari antistanti, non può sorprendere che le coste continuino ad essere una sfida epistemologica per le scienze naturali. Il fatto che «non esistono due tratti costieri che non si differenzino l’uno dall’altro per una qualche caratteristica»9 ne inficia uno degli aspetti fondamentali: «la classificazione degli oggetti di studio secondo precisi criteri distintivi ed esclusivi».10 Non si può dire che le classificazioni delle coste avvicendatesi dalla prima proposta nel 1888 da Suess abbiano raggiunto risultati del tutto soddisfacenti nonostante le complesse ricognizioni, da terra e dal largo, secondo i principali punti di vista assunti dalla geomorfologia, lo studio della forma e lo studio dei processi e dell’energia in accumulo.11 «La realtà è che la forma di ciascun tratto di costa dipende da una molteplicità di fattori che interagiscono tra di loro in modo ogni volta diverso e per giunta variabile nel tempo».12
Ciò che per le scienze della terra costituisce un problema di identificazione, un paradosso, l’irripetibile e irriducibile identità delle coste potrebbe postulare un diverso paradigma conoscitivo, memore della valenza gnoseologica delle metafore. Si pensi solo all’importanza che esse hanno avuto nella storia del pensiero contemporaneo con l’opera di Freud e di Nietzsche. Rimanendo nell’ambito della metafora del corpo potremmo così ascrivere il carattere più saliente delle coste all’unità-diversità di un macro corpo virtualmente depositario del gioco di tutte le possibili relazioni vitali del mondo. Non è difficile riconoscere nelle coste gli elementi essenziali dell’architettura del globo, quasi radici del vivente che affondano le loro ramificazioni in uno straordinario equilibrio di forze in contrasto. Là dove mare, terra e aria s’incontrano e nelle correnti del vento talvolta la diversità degli elementi si contrae in vorticose regressioni verso l’indifferenziato, straordinaria e continua è la metamorfosi: tra sabbie, in cui la materia si raffina, e fenditure e voragini, in cui la compattezza delle rocce si disgrega, brulica la biodiversità.
Laboratori alchemici della vita, le coste si allungano in corpi che paiono alludere all’ordine di un linguaggio riflessivo, enigmatico, immaginario. La diversità delle coste non è altro che un molteplice che si raccorda in una trama nascosta, un paradosso che richiama la riflessione cosmologica di Eraclito che agli inizi della storia del problema della Verità aveva apoditticamente rilevato che «la trama nascosta è più forte di quella manifesta».13 L’attrazione che le coste esercitano non potrebbe altrimenti comprendersi se non in riferimento ad una strutturale disposizione delle loro forme a far emergere un’interiorità che sembra alimentare infinite possibilità di pensiero, un’anima che orienta gli sguardi verso un orizzonte di fuochi immaginativi. Si ricordino a questo proposito le molte divinità femminili che la mitologia greca ha fatto proliferare sui paesaggi costieri14 in continuità storico-simbolica con la fase del processo di metaforizzazione corporea del mondo segnata dall’egemonia della figura di una grande dea.15
Allo stesso modo si potrebbe rilevare una disposizione ontologicamente sapienziale nella forma delle coste: la loro peculiare diversità sembra ben alludere al contenuto di un altro frammento eracliteo in cui si afferma che «per chi ascolta non me, bensì l’espressione (lógos), sapienza è riconoscere che tutte le cose sono una sola».16 Così si potrebbe continuare a cogliere nel loro essere ripetutamente differenti il lato tangibile, materico della verità eraclitea del Lógos, tanto da far collimare, come nell’ordine del pensiero mitico e dell’esperienza rituale in parte è avvenuto, i caratteri del paesaggio costiero, i golfi, le insenature, le rocce a strapiombo, gli anfratti, i ripari, le sorgenti, le foci con gli stessi «confini dell’anima ‒ di cui Eraclito dice ‒ nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è l’espressione (lógos) che le appartiene».17
3. Una geografia di confini
In questa topografia della profondità enigmatica dell’anima, in quest’ambito di interiorità al cui dominio non può sottrarsi alcuna parte del mondo, si situano le coste di Omero distribuite in uno scenario ricco di visioni che oscillano tra spazi estremi e luoghi consoni a una terra patria, agognata per fondare o ritrovarvi dimore. Come diversamente si potrebbero interpretare i paesaggi di fine imminente, di morte annunciata, le terre abitate da maghe, da mostri o da figure divine, ma anche gli ameni ambienti di vita, gli insperati approdi, i porti sicuri che fluiscono negli occhi di Odisseo, pellegrino nel ciclo della vita, sulla via del travagliato ritorno? Come non vedere in quell’estenuante navigare tra venti contrari, tratti percorsi alla deriva, avvistamenti felici di terre il prender forma dell’universo interiore dei sentimenti che annunciano nel loro coagularsi attorno alle polarità del tremendo e del fascinoso l’evento stesso del sacro?18
Se «all’entrata del porto di Gòrtina nel mare nebbioso», narra il libro III dell’Odissea, «a stento evitarono morte gli uomini ma fracassarono contro gli scogli le navi le ondate»,19 o giunti nel XII libro all’isola delle Sirene attonito lo sguardo constata che «pullula in giro la riva di scheletri umani marcenti»,20 ben altre immagini di coste appaiono all’approdo nell’isola del Ciclope: «vi sono prati, del mare schiumoso lungo le rive umidi e morbidi e vigne durevoli potrebbero crescere»21 o ancora «c’è un porto comodo dove non c’è bisogno di fune o di gettar l’ancora o di legare le gomene ma basta approdare e restare a piacere, fino a che l’animo dei marinai non fa fretta o non spirino venti. In capo al porto scorre acqua limpida, una sorgente sotto le grotte: pioppi crescono intorno».22 Così all’urlo ruggente dei marosi, alle immani risacche, alle onde flagellanti, che s’abbattono su rive sabbiose e acuminate scogliere,23 ai siti paurosi come la spelonca della parete vertiginosa di Scilla aperta sull’Erebo24 si avvicendano grotte sul mare, promontori che si protendono come baluardi difensivi,25 sino a raggiungere il «folto della macchia fiorita»,26 dove Odisseo trova alla fine rifugio dopo essere fortunosamente approdato a Itaca, l’isola amata, dal «porto, sacro a Forchis, il Vecchio del mare», e dalla baia protetta, alla cui estremità campeggia «un olivo frondoso» nei pressi dell’«antro amabile, oscuro, sacro alle ninfe, che si chiamano Naiadi», chiuso da due porte «una, da Borea, accessibile agli uomini; l’altra, dal Noto, è dei Numi e per quella non passano uomini, degli immortali è la via».27
Non c’è dunque costa nell’Odissea che non risuoni dell’insondabile eco di quell’abisso di cui si canta nel V libro: «Per diciassette giorni navigò traversando l’abisso, al diciottesimo apparvero i monti ombrosi della terra feacia: era già vicinissima, sembrava uno scudo, là nel mare nebbioso».28 Un abisso che nel rendere talvolta «la terra insperata»29 ne custodisce tutte le sensazioni e i sentimenti sì che sulle coste vita e morte, inizio e fine non fanno che rincorrersi, fronteggiarsi, talvolta unirsi, passando l’una nell’altra, come d’altro canto appartiene alla natura delle coste essere via di transito, spazio di confine, coincidenza degli opposti.
4. Le porte degli inizi
Nello sguardo degli uomini la fine della terra non è che l’inizio del mare e così la fine del mare coincide con l’inizio della terra: un gioco di prospettive che legittima la domanda, che forse più di altre ha guidato nel corso del tempo l’immaginazione poetica e diversamente l’immaginazione filosofica, se non si vuole considerare del tutto casuale il sorgere della filosofia dalle città costiere delle antiche colonie ioniche. Quale verità si annida sui confini delle coste, esse stesse porte come quelle menzionate da Omero nella grotta di Itaca, dove visibile e invisibile si toccano? Che cosa da quella linea di confine appare più vero, la fine o l’inizio?
Forse, stando alla stessa esperienza di Odisseo, sopravvissuto e fuggitivo, che sulle coste ha raggiunto il mare in fuga dalla terra e ha incontrato la terra cercando riparo dalla violenza del mare, si direbbe un risorgente inizio o un miracoloso inizio, se altrimenti ci si affida alle testimonianze, che in gran numero provengono dalle coste delle isole greche, consumati luoghi di tragedie e di miracoli avvenuti durante navigazioni interrotte contro le scogliere, come ricordano lungo le coste delle Cicladi le cappelle votive, che biancheggiano al sole, o tra le più antiche la solitaria cappella edificata sulla spiaggia di Aghia Roumeli nella Creta meridionale dedicata a san Paolo e al suo naufragio.
Alla dimensione misterica dell’inizio, che sopravanza sulla fine con lo stesso ritmo incessante delle onde, con cui il mare spumeggiando rincalza le proprie acque allorché esse sembrano volersi ritrarre dalla terraferma, allude la sacralità delle coste, che in tortuosi meandri disegnano nei mari cantati da Omero ‒ tra isole Ionie, Peloponneso, Attica, Calcidica, isole dell’Egeo settentrionale e orientale, Cicladi, Creta, Dodecaneso, l’antica Ionia ‒ le rotte di un viaggio ermeneutico. Costeggiando per altri frammenti sulla scia di un itinerario già in parte percorso da Martin Heidegger sulla scorta della poesia di Hörderlin alla ricerca del centro dello spirito greco,30 la riflessione sui rapporti tra uomini e coste si arricchisce di ulteriori elementi. Alla metafora del corpo che fa delle coste linguaggio del mondo e alle parole dell’epica che delle coste mostrano l’articolazione misterica s’affiancano le memorie dei luoghi che della lingua delle coste mostrano altre dimensioni.
Sulle coste meridionali dell’isola di Lefkás, Léucade, presso Capo Doukáto, sorgeva un celebre santuario dedicato ad Apollo, noto nella cosmografia concepita tra X e IX sec. a.C. come una delle porte di ingresso all’Ade.31 L’ubicazione del santuario, di cui ora rimangono pochi resti, bene esprime il valore simbolico dell’estrema punta delle rocce Leucadie o Bianche, rese poeticamente imperiture dal racconto del suicidio di Saffo: rilevante è l’assimilazione della morfologia costiera alla figura di Apollo, inseparabile custode di un arco e di una lira, strumenti che designano la doppiezza del dio, l’enigmaticità dei suoi poteri di vita e di morte, come ha osservato Giorgio Colli nella revisione dell’interpretazione nietzschiana del dio delfico condotta in La nascita della filosofia.32 La coniunctio oppositorum, per la tradizione apofatica espressione massima della Verità, ha qui conosciuto forse una delle sue trascrizioni rituali più rigorose: dalla rupe a picco sul mare nella festa del dio venivano gettati i condannati a morte ma nel contempo i sacerdoti del santuario si iniziavano ai misteri di Apollo affrontando nel rituale del catapontismo l’esperienza della vertigine e del volo.33
In bilico tra il regno dei morti e il dominio delle potenze divine le coste leucadie rivelano uno dei tratti che più durevolemente si imprimerà nella storia antropologica delle coste: nel dramma di un luogo esposto alle grandi tensioni della vita spirituale si inscrive il dramma dell’uomo che delle coste ha fatto da tempo immemore luoghi privilegiati di sacrificio, sacrifici di espiazione e autosacrifici iniziatici protesi al raggiungimento di stati ascetici o alla restaurazione di condizioni originarie. Se nel linguaggio del mito occorre sempre ravvisare il riverbero della trasfigurazione di effettive pratiche rituali, come non rinvenire la memoria di una geografia rituale delle coste in alcuni grandi racconti ambientati su coste sabbiose: si ricordi «la sabbia costiera di Aulide marina»34 sullo stretto dell’Euripo tra l’Eubea e la Beozia tragico scenario del racconto del sacrificio di Ifigenia, condannata dalle rivelazioni dell’indovino Calcante ad espiare il sacrilegio compiuto dal padre Agamennone a danno di una cerva sacra ad Artemide, signora per antonomasia dei luoghi liminali, evocata negli Inni di Callimaco con l’appellativo di «Custode delle strade e delle coste»,35 o ancora la costa nella terra dei Tauri dove la stessa Ifigenia venne misteriosamente condotta da Artemide per divenire sua vergine sacerdotessa, dopo essere stata rapita in una nuvola dalla dea36 e sostituita sull’altare sacrificale dalla comparsa repentina di una cerva, secondo una modalità che richiama il racconto del sacrificio di Isacco.37
5. Il recinto del sacro
Del nesso strutturale tra coste e rito attestano numerosi altri racconti, raggruppabili nella categoria delle «saghe del raggiungimento della riva» (Anschwemmungssagen), menzionati da Richard Buxton nello studio dedicato ai contesti della mitologia greca: in essi ricorre il tema del ritrovamento di un oggetto sacro, come ad es. «la testa galleggiante di Orfeo, che valorosamente canta ancora, benché il corpo del proprietario sia stato smembrato dalle Menadi tracie,» e «alla fine approda a Lesbo», o l’immagine di legno d’olivo che rappresentava Dioniso Phalleno giunta sulla stessa isola non diversamente dall’Ermes ritrovato sulle coste della Tracia.38 A monte di questi racconti, ricorda Buxton, vi è un’ampia tradizione cultuale che in diversi stati della Grecia prevedeva la celebrazione annuale sulla riva del mare di immersioni di statue in bagni lustrali. «Nel caso delle Plinterie ateniesi ‒ continua l’autore ‒ il rituale aveva luogo, particolare significato, nell’ultimo mese del calendario, creando una divisione tra l’ordine vecchio e l’ordine nuovo», in una sorta di temporalizzazione della dimensione spaziale dell’unità degli opposti, che sulle coste gioca sempre a favore dell’inizio, della rinascita come ricordano i miti del salvataggio di Danae e del suo piccolo Perseo, che tratto in salvo da Ditti, l’Uomo Rete, proprio sulla riva «rinacque metaforicamente per andare incontro a nuova vita di onore riconquistato».39
Analoghe tradizioni si sono mantenute ben oltre l’antichità per lunghi secoli anche in età cristiana se fa fede, ad es., la leggenda di fondazione del convento di Panaghia Chozoviótissa nell’isola di Amorgós, coevo al monastero di Patmos, costruito in una cavità della roccia a strapiombo sul mare su commissione dell’imperatore Alessio Comneno, secondo alcune fonti, nel XI sec. d.C., per altre fatto ricostruire dallo stesso imperatore a partire da un precedente edificio del IX sec. fondato da monaci provenienti dalla Palestina. A questo più antico nucleo si collega il ritrovamento di un’icona della Vergine rinvenuta sulla costa in prossimità della rupe sulla cui erta parete è stato eretto il convento. L’icona recante uno spillo di ferro posto in direzione del luogo, in cui il convento avrebbe dovuto sorgere, era stata gettata in mare, secondo la leggenda, al tempo delle lotte iconoclastiche da un donna, pare, di un villaggio sconosciuto della Palestina, Chozovo o Choziva, insieme a due altre sacre immagini, una delle quali fu trascinata dalle correnti più a nord sino alle coste dell’Athos, nella Calcidica, divenuto di seguito terra sacra al culto della Madre di Dio e centro di irradiazione spirituale per tutta l’ortodossia.40
Il miracoloso ritrovamento del volto dipinto della Panaghia rinforza la visione aurorale delle coste, che idealmente cingono in un sacro recinto uno spazio primordiale, segnato da una purezza impenetrabile all’esperienza umana se non in particolari condizioni iniziatiche o per gratuita effusione delle stesse energie in esso contenute. Le coste assumono così la forma di limen sacro, di soglia rituale, in cui il puro e l’impuro si correlano in una dialettica di cura e di guarigione, come ad es. avviene tuttora con il rito battesimale celebrato nel villaggio di Finikas nell’isola di Síros con l’immersione in acqua degli adolescenti calati dalle barche attraccate a riva. Ugualmente possono esse stesse incorporare la dimensione solenne e austera di un sacro tèmenos, come nella propaggine orientale dell’Attica è accaduto con la consacrazione di Capo Soúnio ad Atena e Poseidone41 o come diversamente le coste disegnano al centro dell’Egeo sulla ventosa e scabra isola di Dèlos, nel cui toponimo riecheggia il movimento rivelativo di un originario manifestarsi, di un inizio eternamente offerto.
Sulle basse coste rocciose di Dèlos, squassate da onde, che rendono talvolta incerta e difficoltosa la navigazione dei piccoli traghetti che la collegano a Míkonos, la trama nascosta nel corpo del mondo si rende totalmente manifesta: la natura appare lì ritrarsi da quell’enigmatica ritrosia di cui si è fatto mirabilmente interprete Eraclito quando di essa ha detto «la natura ama nascondersi».42 Così le coste di Dèlos apparivano agli occhi di Heidegger fin dal loro lontano profilarsi: luogo metafisico, spazio incontaminato della Verità. Ciò che per Heidegger non poteva che essere il risultato di una «meditazione a lungo coltivata sull’Alétheia, sul rapporto tra la svelatezza e la velatezza», si legge in Soggiorni. Viaggio in Grecia, trova «nel soggiorno a Dèlos la conferma di ciò che aveva bisogno. Quello che sembrava essere semplicemente frutto di una rappresentazione si era invece realizzato e si era colmato della presenza, vale a dire di ciò che un tempo si era rischiarato per concedere ai greci l’esser-presente».43
Più che in ogni altro luogo a «Dèlos, la Manifesta, colei che, non celata, disvela ma che, allo stesso tempo, nasconde e protegge»44 ‒ l’isola-scoglio che da Adelos, invisibile, divenne Dèlos, visibile, per accogliere il parto di Latona in fuga dalla gelosia di Hera, il venire alla luce dell’espressione duale della sacralità greca più autentica, Apollo e Artemide45 ‒ la Verità si dà nel suo essere «ambito: l’aperto che si offre, che tutto comprende, delimita e libera, che concede a tutto ciò che entra nella presenza e nell’assenza l’avvento, il trattenersi, la partenza e la mancanza».46
Tra le coste, che la stringono in uno stretto lembo di terra, l’isola con prime testimonianze archeologiche risalenti al terzo millennio e un esteso abitato di età micenea, divenuta con la colonizzazione ionica centro di annuali celebrazioni religiose, onphalos dell’Egeo, sottoposta durante la lunga egemonia ateniese a due grandi purificazioni, tra il 540 e il 528 a.C. e nel 426 a.C., che alla fine sancirono il divieto assoluto di nascervi e di morire e l’espulsione definitiva dei suoi abitanti,47 trattiene imperitura l’impronta dell’orizzonte, in cui, scrive Heidegger, originariamente trova accoglienza la physis: il «puro dischiudersi, in se stesso celato, dei monti e delle isole, del cielo e del mare, delle piante e degli animali», quel gratuito dischiudersi della physis, in cui «ogni cosa appare nella sua figura, riceve la sua impronta profonda e insieme delicatamente fluttuante» e dalla cui esperienza i mortali hanno tratto «una primitiva intuizione secondo la quale il pensare si sarebbe trasformato nel rammemorare e in quanto tale nell’esser grati».48
6. L’oracolo delle coste
Nella luce della piccola isola di Dèlos «invisibile centro del cerchio di isole»,49 la forma delle coste assurge con maggiore evidenza a simbolo di un mondo unitario e molteplice, diversamente identico, di continuo risorgente, riverbero di quel segreto concatenarsi del Lógos che è insondabile interiorità, incontenibile effusione di grazia, anima irradiantesi in epifanie del sacro. Così non c’è fenomeno dell’ambiente costiero che non partecipi all’albeggiare del mondo e al suo farsi dimora per la storia dell’uomo. Non solo lingue di sabbia o tormentati conglomerati rocciosi ma anche eventi atmosferici, il moto ondoso e le maree concorrono a comporre sulla diveniente distesa dell’anima in figure e narrazioni archetipiche i giochi e le forme del destino.
Sulle coste non ci si può affatto sottrarre all’ascolto del vento che soffia impetuoso anche nello stesso diario di Heidegger. Sarebbe davvero impensabile scinderne i suoni dall’esperienza rivelativa dell’Alétheia, che profondendosi nel linguaggio ha dato nel contempo origine al «Mythos, il dire, che si dispiega nel pensiero greco» e al « Lógos che si dispiega nel léghein e nel dialégheszai, nell’enunciare e nel discutere di ciò che è presente».50
Ecco allora avanzare nell’incessante movimento dei venti, nelle brezze costiere, che la differente inerzia termica del mare e della terra genera,51 l’eco di un originario fluire di suoni e di voci, che si trattengono nell’ambito misterico antecedente ad ogni possibile discorso. La grande tradizione oracolare della religione greca troverà nel paesaggio acustico delle coste uno dei suoi luoghi privilegiati. Se alla radice di mythos ineludibile è la memoria dello stadio primordiale del linguaggio, espressa da quel my-, suono informe, balbettio in cerca d’articolazione, che infinite volte gli oracoli disseminati in terra greca hanno reinventato e esplorato in ogni implicazione, non può sfuggire la straordinaria circolarità di mito e profezia che nel vento aleggia sulle coste.52 In riva al mare si rincorrono echi e visioni che irretiscono e ammaliano.
Frammenti di altri racconti si dispongono lungo la rotta tracciata nella memoria dei luoghi dall’itinerario sin qui seguito. Sulla scorta del racconto di Omero,53 Virgilio ricorda lungo le coste dell’isola di Kárpathos le profezie di Proteo, l’enigmatico e veritiero vecchio del mare, che affiorava a mezzogiorno per distendersi al sole circondato da un mugghiante gregge di foche e da un vociante stuolo di pellegrini in cerca di futuro.54 Sulle coste dell’isola di Ios la morte sopraggiunge per il sapiente Omero sconfitto da un enigma portato a riva da un gruppo di giovani pescatori: ancora Aristotele ricordava l’episodio che aveva visto Omero interrogare l’oracolo «per sapere chi fossero i suoi genitori e quale la sua patria. Alla domanda il dio aveva risposto: l’isola di Io è patria di tua madre ed essa ti accoglierà morto; ma tu guardati dall’enigma di giovani uomini».55 Nel pensiero dello Stagirita riaffiorava un’antica leggenda, presente anche alla mente di Eraclito, nella quale la morte di un Omero deprivato dell’arte di sciogliere enigmi adombra la dimensione tragica della sfida che la sapienza affronta nel misurarsi con i propri limiti.56
Del suono delle coste, dei sibili, degli ululati e dei silenzi dicono le figure delle Sirene, donne con corpo d’uccello, solitamente in coppia e talvolta in triade, di cui il racconto omerico, già ricordato, costituisce la più antica fonte letteraria.57 La loro voce acuta e stridente si faceva spazio in un’improvvisa calma di vento:58 da lontano un prolungato ininterrotto grido, in prossimità della costa un canto incombente, foriero di parole fatali evocative di passaggi senza possibilità di ritorno. L’insistenza iconografica delle loro figure nel quadro dell’arte funeraria chiarisce il valore simbolico della loro presenza sulle coste e soprattutto l’affinità delle loro voci con i canti funebri che alcune fonti letterarie richiamano.59
Se Omero opponeva alla malia del loro canto di morte la cera posta nelle orecchie dei rematori e i nodi, che legavano strettamente all’albero della nave Odisseo, Apollonio Rodio nel racconto degli Argonauti ne faceva contrastare la voce strepitante, il suono indistinto, dalla musica di uno strumento apollineo, la phorminx, suonata da Orfeo. Dunque un suono primordiale, non dissimile da quello emesso dagli strumenti a fiato suonati dai Satiri, emettevano le Sirene, figlie di Forchis o di Acheloo e Sterope o per le loro virtù musicali figlie di Tersicore, Melpomene o Calliope o ancora per altre tradizioni figlie di Gea, rappresentate talvolta nella pittura vascolare nell’atto di suonare l’aulos, uno strumento, come la syrinx di Pan, seducente per la sua somiglianza con la spontaneità di suoni disarticolati, irrazionali, selvaggi,60 echi di abissi e di inferi ove alla memoria dell’origine s’affianca la dimora dei morti. Nell’aura simbolica del canto delle Sirene la brezza costiera annuncia ai mortali l’approdo finale.
Una storia di vento e di morte per colpa è inscritta nelle coste, che nell’Egeo orientale compongono il perimetro a forma di ala dell’isola di Ikaría, che Strabone chiamava Alímenos, l’isola senza porti,61 e alla cui furia delle onde e impetuosità dei venti Omero aveva paragonato la rivolta scoppiata nell’accampamento degli Achei.62 Qui, secondo la tradizione mitologica, ebbe sepoltura Icaro, il figlio di Dedalo, geniale artefice del Labirinto, il palazzo di Cnosso, in cui Minosse, re di Creta, lo volle rinchiudere per vendetta con il figlio e dal quale con lo stesso fuggì, prendendo il volo dopo essersi costruiti ali di piume legate con fili e impastate di cera, che al calore del sole fecero precipitare in mare l’imprudente Icaro. Sempre qui trovò l’ultima sua dimora lo sfortunato Icaro, secondo un’altra tradizione accordata da Pausania e presumibilmente sostenuta dal toponimo dell’antico porto di Ikaría, Histói, espressione greca per vela, che adombrava nelle ali disciolte al sole le vele gonfie della nave costruitagli dal padre e finita contro le coste per naufragio.63
7. Le rotte del Labirinto
Per secoli tra Ikaría e Creta le coste sono state lambite dalle correnti dei grandi racconti che si sono annodati nell’imponente ciclo narrativo del Labirinto, epicentro di un complesso sistema di culti e di rituali, che rivelano un’attinenza non casuale con gli ambienti costieri e i loro fenomeni fisici. Dall’impressionante stratificazione di memorie sedimentate nel sacro recinto di Dèlos non potevano emergere testimonianze più cogenti: in prossimità della costa, là dove l’oracolo si manifestava nell’immensa palma che Odisseo vedeva salire al cielo affascinante allo sguardo,64 sacra come la quercia di Zeus, «quercia alta chioma del dio», dalle fronde vocianti al passare del vento nella valle di Dodona,65 sorgevano tra i templi dedicati ai fratelli divini due costruzioni di grande rilevanza ermeneutica, situate nel punto focale del culto di Apollo occupato un tempo dal Keratòn, l’Altare delle Corna costruito dal dio con le corna della capre cacciate sul Cinto dalla sorella Artemide.
La prima, il così detto “Monumento absidato”, privo di strutture interne, identificabile come una sorta di recinto, conteneva presumibilmente lo stesso Keratòn, attorno al quale si doveva svolgere la parte culminante della celebrazione della Gèranos, la gru, la danza documentata da testimonianze epigrafiche databili alla II Lega delio-attica, che si voleva far risalire all’eroe del Labirinto approdato all’isola sulla via del ritorno ad Atene dopo l’uccisione del Minotauro in segno di ringraziamento per il dio. L’altra, un’imponente struttura a pianta rettangolare, conosciuta come “Edificio 42”, in grado di accogliere un numero elevato di individui, accredita l’ipotesi che si trattasse del vero e proprio Labirinto, il luogo ove i celebranti del rito si ritrovavano per dare inizio alla danza, le cui movenze ricordavano la spazialità meandriforme del palazzo-prigione di Cnosso e le sequenze tortuose delle azioni compiute per raggiungerne il centro, sacrificarvi il mostruoso signore e trovare, grazie al gomitolo donato da Arianna, la via della certa salvezza.66
La danza, che credibilmente si svolgeva tra i due edifici, doveva trasporre nei passi di un rito di passaggio le sequenze narrative del racconto di fondazione dell’isola, emersa dalle profondità marine per ricevere e custodire il dono della vita nella sua espressione più sacra. Attraverso la messa in scena della storia di Teseo gli officianti del culto di Apollo divenivano, ad un tempo, adepti di Arianna, la figlia di Minosse e della trasgressiva Pasifae, madre del Minotauro, conosciuta nelle fonti minoiche con i nomi di Ariadne, Aridela, «luminosa», Ariagne, «pura», ma anche con quello di Aphaea «invisibile», di cui i miti greci narravano il tragico destino di dea congiuntasi per amore all’umano e per tale colpa da esso per sempre allontanata.67
Sulla linea narrativa di questa danza la rilettura del senso sotteso al rapporto uomo-costa si porta in prossimità delle coste dell’isola di Nàxos, da cui Teseo, secondo il mito, proveniva e ai cui abitanti si deve proprio in Dèlos la costruzione del primo tempio monumentale di Apollo, detto l’Oikos dei Nassi, l’erezione del Colosso, una gigantesca statua del dio nudo con arco e faretra, e la sistemazione dell’orientaleggiante Terrazza dei Leoni prospiciente il tèmenos di Latona, il lago sacro ai piedi della palma, dove essa, si dice, partorì Apollo e Artemide.
Se l’immagine dell’isola si è nel tempo identificata con la così detta Portàra, l’alto isolato portale d’accesso alla cella del tempio dedicato, si pensa, ad Apollo Delio, eretto dal VI sec. a.C. sul lembo di costa che in Nàxos si allunga nella piccola penisola di Palàti poco distante dal luogo dove fu fondato nella prima età del Bronzo il nucleo originario della città antica,68 ancor più di Apollo e del suo culto era radicata in Nàxos la memoria di Arianna e del suo destino di amore e di morte.
Una delle tante tradizioni, che identificano Nàxos con la mitica Dia, vuole che lungo un tratto di costa sia avvenuta la palingenesi della figlia di Minosse, presumibilmente tra le ampie spiagge a sud del capoluogo, in prossimità del promontorio di Stelida, a breve distanza da Irìa, una località un tempo paludosa per la sua vicinanza al mare, sede di un antichissimo luogo di culto all’aperto divenuto in seguito alla costruzione di un primo tempio (VII sec. a.C.) santuario di Dioniso.69 Da qui avrebbero preso forma le storie della nascita del dio e dei suoi amori con Arianna, che giunta sull’isola al seguito di Teseo ne conobbe il tradimento e l’abbandono per poi essere irretita dal dio, che lei stessa, secondo alcune versioni, sua sposa, aveva abbandonato in Creta per seguire l’eroico ateniese: qui negli stessi luoghi della passione fu infine uccisa per mano di Demetra, che così aveva inteso dover dar corso alla vendetta dello sposo, che dopo la morte dell’amata la innalzò nel cielo notturno eternamente luminosa con il suo diadema nuziale.
Quale nesso si raccoglie nel racconto nasseno tra contesti costieri, storie divine e ascensioni celesti? Senza dubbio una tradizione di culti, che uniscono l’Arianna del mondo minoico-cretese a più antiche divinità femminili in parte documentabili in alcune località della Grecia continentale sin dall’età neolitica e in parte riconducibili al mondo spirituale della cultura cicladica, di cui Nàxos fu centro fiorente.70 Dunque un’Arianna che custodisce accanto al gomitolo-memoria del palazzo di Dedalo la memoria di una dea, il cui principale epiteto, Potnia, la Signora, nota anche con l’appellativo di Wanassa, la Regina, esprimeva l’essenza di un’energia misterica, impersonale, una forza di rigenerazione, automanifestantesi in una pluralità di apparizioni locali, che in spazi liminali come le vette dei monti, certi campi segnati da alberi isolati, soprattutto le caverne anche in prossimità del mare avevano i loro contesti privilegiati.71 Di nuovo la trama nascosta riappare al fondo di un mondo concepito nel grembo di un corpo femminile, la trama che trattiene ai primordi del pensiero greco le coste nell’ordine del divino.
E a tal proposito di particolare interesse possono risultare talune osservazioni avanzate da Robert Graves che pensò di dover ricondurre alla figura di Arianna tradizioni rituali diffuse in età storica nell’Attica, quali l’uso dell’altalena da parte di fanciulle durante la festa della vendemmia e il ricorso magico a maschere di un Dioniso dal volto femminile appese agli alberi per propiziarne la fecondità. Entrambi gli usi presentavano assonanze con il mondo cretese, per il quale è nota l’importanza cultuale di bambole snodabili ritrovate in siti minoici dedicati alla Potnia; altrettanto conosciuto è un sigillo rinvenuto ad Aghia Triada con l’immagine di una fanciulla in altalena, la stessa dea?, tra due pilastri sui quali si appoggia un uccello.72
Quale simbolo avrebbe potuto con più efficacia mostrare il dominio di Arianna sul mare, sulla terra, sul cielo, su tutti i processi di cambiamento e di trasformazione se non quello di un gioco che libera energie e apre a dimensioni altrimenti sconosciute? Forse solo il moto vorticoso di un’altalena, che si solleva sovvertendo le relazioni spaziali e trasformando il senso di vertigine in percezione di volo, avrebbe potuto mostrare la profondità dell’esperienza visionaria che si raccoglie sulle coste nel ritmo incessante delle maree, che nel loro andirivieni inducono gli uomini all’estasi, all’estraniante vissuto di un sentirsi posseduti da una realtà totalizzante e trascendente.
Ma così avvenne sul piano della storia esemplare degli dei per la stessa Arianna che sulle coste di Nàxos fu travolta dall’appassionata energia di vita di Dioniso, che errabondo sul finire di estenuanti peregrinazioni tra Occidente e Oriente era giunto sull’isola proveniente da Ikaría al termine di una navigazione prodigiosa, durante la quale aveva trasformato in serpenti l’albero e i remi della nave dei pirati che lo volevano vendere come schiavo, ne aveva avvolto lo scafo con l’edera e mentre una magica musica di flauti si diffondeva tutt’attorno aveva mutato i suoi marinai in delfini.73 Le antiche monete coniate a Nàxos riportavano i simboli dionisiaci: cantaro, cratere, tirso e vite74 si erano ormai diffusi all’indomani delle nozze divine, che nello scenario delle coste nassene avevano riversato sul tempo a venire ciò che era stata l’eredità misterica del passato in un inestricabile connubio di fermentazione e metamorfosi, di misura, ritmo, effervescenza e tumultuosità.
8. L’incanto della bellezza
Non solo riti, sacrifici, oracoli, profezie trovano dimora sulle linee costiere del sacro additandone l’insondabile profondità. Non solo l’enigmaticità contrassegna i luoghi ove il movimento rivelativo dell’anima si solidifica nei paesaggi della differenza ma anche incontenibili manifestazioni di gioia, travolgenti azioni di gioco, geniali creazioni di festa. Lo ricorda in forma mirabile, tra le fonti delle origini, ancora l’epica omerica. Si pensi nell’Iliade alla descrizione dello scudo di Achille forgiato da Efesto nel XVIII libro, la bella immagine di danza in riva al mare «che in Cnosso vasta un tempo Dedalo fece ad Arianna riccioli belli». Nulla della tragica cupezza del palazzo di Minosse ma l’atmosfera di una festa inaugurata dal roteare di due giocolieri aleggia tra «molta folla attorno alla danza graziosa, rapita». «Giovani e giovanette ‒ ricorda Omero ‒ danzavano tenendosi per mano … talvolta correvano con i piedi sapienti, agevolmente, come la ruota ben fatta tra mano prova il vasaio, sedendo, per vedere se corre; altre volte correvano in file, gli uni verso gli altri». In un intreccio di linee e di cerchi non diverso da quello tracciato dall’acqua, che si allunga in frangenti e si riversa in giochi di gorghi, la danza del Labirinto cretese, figura allegorica di coste reali, emblematicamente chiudeva l’estrema lingua di mondo prima che Efesto incidesse «la gran possanza del fiume Oceano lungo l’ultimo giro del solido scudo».75 Così nel libro XXIII il racconto dei funerali solenni di Patroclo vede il litorale diventare campo d’agoni: all’indomani della lunga notte consumatasi nel grande rogo, dove era stato deposto il defunto con uomini, animali e oggetti, si susseguono lungo la costa sabbiosa corse di cocchi, combattimenti di pugilato, corsa, duello, lancio del peso e gara con l’arco.
Con la diffusione del culto di Dioniso si amplifica la dimensione ludico-festiva delle coste, che si apprestano ad accogliere nella configurazione naturale di certe baie l’evento per eccellenza dionisiaco del teatro. Così sarebbe doveroso aggiungere una postilla alle suggestive annotazioni di Nietzsche, che nella Nascita della Tragedia scriveva: «la forma del teatro greco ricorda una valle di montagna solitaria: l’architettura della scena appare come una splendida immagine di nuvole, che le baccanti sciamanti per le montagne, scorgono dall’alto come la magnifica cornice, nel cui centro si rivela a loro l’immagine di Dioniso».76 Non solo valli solitarie percorse da adepte inebriate ma a Dèlos, a Thasos, a Mitilene, a Lindos nell’isola di Rodi, sulle coste di Creta, di Cipro, della Magna Grecia lo sguardo degli spettatori si è raccolto e proteso nella circolarità di spazi aperti su cieli al tramonto, notti stellate, riflessi lunari in acque ondeggianti.77
Nella spazialità geometrica del cerchio dell’orchestra riservato alle azioni del coro78 la circolarità adombrata nella morfologia costiera trova architettonicamente il suo centro e con esso la compattezza dell’originaria articolazione dell’unità-diversità del mondo si fa tangibilmente esperienza percettiva: «nel cerchio», ha osservato Eraclito, «ciò che si concatena è principio e fine».79 Da quel cerchio posto al centro dell’abbraccio di coste e teatro, si potrebbe asserire ancora con lo stesso Eraclito, si irradia nella sua assolutezza il mondo: «il mondo di fronte a noi ‒ il medesimo per tutti i mondi» che «non fece nessuno degli dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misura e si spegne secondo misura».80 Ed è noto che alle «inversioni del fuoco» il filosofo riconducesse le grandi metamorfosi della natura colte in quei passaggi che sembrano evocare paesaggi di coste: «dapprima il mare, poi una metà del mare diventa terra, l’altra metà soffio infuocato».81
Sul filo del pensiero eracliteo potremmo continuare a disporre altri frammenti di coste esemplarmente scelti tra i molteplici che si addensano lungo gli approdi di un viaggio ermeneutico tra terre reali e immaginarie: continue testimonianze di tutti i mondi che hanno tratto scaturigine per mano degli uomini dall’unico mondo sempre uguale a se stesso e sempre risorgente, che ne ha ispirato e sostanziato la concezione in una diversità di modi e di lingue che ben sembrano accordarsi alla natura del dio che «disperde e di nuovo raccoglie e si avvicina e si allontana»,82 o che diversamente «è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame e si altera nel modo in cui il fuoco ‒ ogni volta che divampi mescolato a spezie ‒ riceve nomi secondo il piacere di ciascuno».83
Così appaiono le belle coste trasformate in dimore edeniche con scene di caccia e flottiglie di imbarcazioni in porto dipinte sugli affreschi ritrovati nell’antica Théra, la città sepolta dall’eruzione vulcanica del XVI sec. a.C. sull’isola di Santorini, cui si è voluto collegare per un certo tempo il mito platonico di Atlantide,84 le austere coste che in età cicladica hanno accolto imponenti insediamenti cimiteriali o nella prima età cristiana hanno custodito, come a Mílos, la segretezza delle catacombe, o ancora le coste, baluardi naturali, divenute in epoche di conflitti e di imperialismi fortificazioni in apparenza inespugnabili ‒ si pensino a Kámiros e in altre località dell’isola di Rodi le fortezze edificate dagli ordini cavallereschi o nel Peloponneso ad est le coste fortificate per secoli da Bizantini, Franchi e Veneziani a Monemvassía e a sud la costa che si innalza nei bastioni di una cittadella veneziana a Náuplia ‒ o le coste punteggiate da torri di avvistamento o da costruzioni destinate a far brillare in lontananza grandi fuochi notturni, segnacoli per secoli di pericoli e nodi di una fitta rete di comunicazioni.
Nel loro dipanarsi le coste sono state e sono gangli vitali di storia e di cultura: lo ha mostrato in tempi recenti con rigore filologico Predrag Matvejević spigolando tra antiche carte, tessiture di città costiere, immagini di moli, forme di porti, fari, caratteristiche degli entroterra, rotte, odori di vegetazione, alberi dominanti, figure di culto.85 Così per Pablo Neruda non vi sono coste al mondo che non si allunghino e non si dilatino nei territori poetici di discorsi tesi tra autobiografia e celebrazione dell’anima dei paesaggi:86 è destino delle coste mantenersi sulla soglia di un oltre, che attrae l’immaginazione negli intrecci di un’affabulazione continua e dirompente, tuttora resistente al processo dall’esito inquietante di radicale secolarizzazione del mondo.
Chi potrebbe resistere all’atrofizzazione in atto dell’immaginazione, si è chiesto Marc Augé al termine di un saggio dedicato alla finzionalizzazione del mondo contemporaneo?87 Forse paradossalmente si potrebbe rispondere rivolgendo lo sguardo alle coste che, al di là dello scempio che talvolta esse registrano, mantengono viva nella radice della bellezza, che è armonia del diverso, la traccia della trama nascosta del sacro, l’orizzonte intramontabile del «medesimo unico mondo», custode del fuoco cui attinge l’energia della vita. Come attorno al fuoco ha preso a vivere l’immane storia dell’architettura88 e sulle coste si è stratificata gran parte della storia occidentale, sulle coste gli uomini dovrebbero ritrovarsi per riprendere a costruire come i bambini della poesia di Rabindranath Tagore raccolta in Gitanjali, che «s’incontrano con grida e danze sulla spiaggia di mondi sconfinati».89 D’altro canto ancora Eraclito ricordava che le idee degli uomini sono «giocattoli di fanciulli»:90 nel gioco serio della pianificazione e della progettazione le coste si presentano tuttora con l’anima di territori dinamici, di luoghi carichi di significati da interpretare e da tradurre in azioni e eventi capaci di restituire alla vita degli uomini l’incanto dell’abitare il mondo.
Note
1. James Hillman, Carlo Truppi, L’anima dei luoghi, Rizzoli 2004, pagg. 95-6. L’Occidente, scrive Hillman, è attanagliato da uno smarrimento della psiche dovuto a un eccesso di distruzione, costruzione, spostamenti, a una continua perdita di ricordi e di immagini. Tuttavia è proprio dalle ferite inferte dalla storia contemporanea che si potrebbe avviare una radicale re-visione epistemologica dei metodi di studio e di pianificazione degli spazi di vita. «Una ferita apre verso dentro e verso fuori». Crea, a sua volta, un luogo ove l’immaginazione dovrebbe tornare a insediarsi per ristabilire, fin dove ne è data la possibilità, la «legge» del luogo, «il cosa vuole il luogo non cosa vogliamo noi». Da qui la tematizzazione del rapporto luogo-memoria-ferita postula la necessità di dare spazio negli studi di impatto ambientale a ricerche preliminari più ampie e dettagliate sulle semiotiche e sulle semantiche dei luogli in linea con le ricerche pionieristiche della pratica dell’immaginazione poetica esercitata per lunghi anni dal Bachelard della psicanalisi degli elementi.
2. Per un inquadrameno generale delle problematiche e delle politiche ambientali e per una conoscenza delle convenzioni e dei trattati internazionali per la difesa del Mediterraneo si vedano: Tiziana Ancarola, Le coste del Mediterraneo. Studi ambientali, Napoli 2000 e Fabiana Callegari, Sistema costiero e complessità culturale, Bologna 2003.
3. Jean Piaget, Biologie et connaissance, Paris 1967, tr. it. di F. Bianchi Bandinelli, Biologia e conoscenza, Torino 1983. Le matematiche stesse, si legge nel capitolo introduttivo, «non si riducono affatto ad una descrizione del reale, pur adattandovisi esattamente; anzi lo oltrepassano in ogni senso (nelle diverse forme di infiniti, di spazi, di funzioni, ecc.) e consistono in una teoria di tutte le trasformazioni possibili e non soltanto reali. Ma dire ‘trasformazioni’ equivale a dire azioni o operazioni (queste derivano da quelle)… Anche la logica consiste in un sistema di operazioni (classificare, ordinare in serie, mettere in corrispondenza, usare una combinatoria o dei ‘gruppi di trasformazione’, ecc.) e l’origine di queste operazioni è da ricercare ben al di qua del linguaggio, nei coordinamenti generali dell’azione. La natura attiva della conoscenza si manifesta fin dalle sue forme più elementari. L’intelligenza senso-motoria consiste nel coordinare direttamente le azioni, senza passare attraverso la rappresentazione o il pensiero. La percezione ha senso solo in quanto legata alle azioni» (pagg. 8-9).
4. Si veda la voce «costa» in: Giacomo Devoto, Dizionario etimologico. Avviamento all’etimologia italiana, Firenze 1968; Carlo Battisti, Giovanni Alessio, Dizionario etimologico italiano, Firenze 1975; Tullio De Mauro, Grande dizionario italiano dell’uso, Torino 1999.
5. Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, II, Das mytthische Denken, Oxford 1923, tr. it. di E. Arnaud, Filosofia delle simboliche, II, Il pensiero mitico, Firenze 1964, pagg. 133-4.
6. ibid., pag. 131.
7. Gn. 2, 18-25. Kurt Flasch, Eva und Adam. Wandlungen eines Mythos, München 2004, tr. it. di T. Cavallo, Eva e Adamo. Metamorfosi di un mito, Bologna 2007.
8. Gv. 19, 32.
9. Enzo Pranzini, La forma delle coste. Geomorfologia costiera impatto antropico e difesa dei litorali, Bologna 2004, pag. 1.
10. ibid., pag. 3.
11. ibid., pagg. 7-11.
12. ibid., pag. 3.
13. Giorgio Colli, La sapienza greca, III, Eraclito, Milano 1980, fr. 14 [A 20].
14. Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, Milano 1984, vv. 240-64. Anche se per alcuni studiosi si possono contare nel testo di Esiodo cinquantun Nereidi, cinquanta sono per il poeta le ninfe marine del Mediterraneo venerate in particolare nelle città costiere e nei porti della Grecia. Per una tavola sinottica delle Nereidi in Esiodo, Omero, Apollodoro e Igino si veda: Anna Ferrari, Dizionario di Mitologia greca e latina, Torino 1999.
15. Marija Ginbutas, M. Robbins Dexter ed., The living Goddesses. Religion in Pre-Patriarchal Europe, Berkeley and Los Angeles 1999, tr. it. a cura di M. Doni, Le dee viventi, Milano 2005.
16. Giorgio Colli, La sapienza greca,op. cit., fr. 14 [A 3].
17. ibid. fr. 14 [A 55].
18. Rudolf Otto, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, München 1936, tr. it. di E. Buonaiuti, Il Sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Milano 1966.
19. Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Torino 1989, vv. 293-297.
20. ibid., vv. 44-46.
21. ibid., IX, vv. 133-134.
21. ibid., IX, vv. 136-141.
23. ibid., V, vv. 438-443.
24. ibid., XII, vv. 73-81.
25. ibid., X, vv. 1-4; vv. 87-94.
26. ibid., XIII, vv. 354-355.
27. ibid., XIII, vv. 96-112.
28. ibid., vv. 278-281.
29. ibid., V, v. 408.
30. Martin Heidegger, Aufenthalte, Frankfurt am Main 1989, tr. it. di A. Iadicicco, Soggiorni. Viaggio in Grecia, Parma 1997.
31. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, Grecia, Milano 1997, pag. 337.
32. Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Milano 1975, pagg. 40-1.
33. Eléni Karapanaghióti-Valaoríti, Léucade (Lefkáda), in Évi Melá (a cura di), Isole greche, Milano 1991, pagg. 407-8.
34. Euripide, Ifigenia in Aulide, tr. it. a cura di F. Ferrari, Milano 1988, vv. 164-5.
35. Callimaco, Ad Artemide, v. 38, in Inni. Chioma di Berenice, a cura di V. Gigante Lanzara, Milano 1984.
36. Euripide, Ifigenia in Tauride, tr. it. a cura di F. Ferrari, Milano 1988, vv. 784-7: «Di’ che Artemide mi salvò mettendo una cerva al posto mio e trasportandomi in questa terra. Mio padre credette di immolarmi, di colpire il mio collo con la spada affilata, ma fu illusione».
37. Gn. 22, 13: «Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio».
38. Richard Buxton, Imaginary Greece. The context of mythology, Cambridge 1994, tr. it. di T. Menegus, La Grecia dell’immaginario. I contesti della mitologia, Firenze 1997, pagg. 115-6.
39. ibid., pag. 116.
40. Lila Marangoú, Amorgós, in Évi Melá (a cura di), op. cit., pag. 167.
41. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, op. cit., pagg. 285-7.
42. Giorgio Colli, La sapienza greca, op. cit., 1980, fr. 14 [A 92].
43. Martin Heidegger, op. cit., pagg. 39-40.
44. ibid. pag. 36.
45. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, op. cit, pag. 368.
46. Martin Heidegger, op. cit., pag. 38.
47. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, op. cit., pag. 369.
48. Martin Heidegger, op. cit., pagg. 40-1.
49. ibid., pag. 37.
50. ibid., pag. 38. Dell’intrinseco rapporto tra Verità e esperienza del linguaggio vi è traccia in Eraclito laddove si legge nel fr. 14 [A 10]: «All’anima tocca un’espressione (lógos) che accresce se stessa»
51. Enzo Pranzini, op. cit., pag. 15.
52. Giacomo Camuri, Mito, in Enciclopedia Filosofica, VIII, Milano 2006.
53. Omero, Odissea, vv. 365 ss.
54. Virgilio, Georgiche, a cura di B. Riposati, R. Calderini, Milano 1964, IV, vv. 387 ss.
55. Giorgio Colli, op. cit., pag. 61.
56. ibid., pagg. 63-4. Giorgio Colli, La sapienza greca, op. cit., fr. 14 [A 24]: «Rispetto alla conoscenza delle cose manifeste gli uomini vengono ingannati similmente a Omero, che fu più sapiente di tutti quanti i Greci. Lo ingannarono infatti quei ragazzi che schiacciavano pidocchi, quando gli dissero: «Tutto quello che abbiamo visto e preso lo lasciamo; tutto quello che non abbiamo visto né preso, lo portiamo».
57. Loredana Mancini, Il rovinoso incanto. Storie di Sirene antiche, Bologna 2005, pagg. 18-9.
58. Omero, op. cit., XII, vv. 166-69.
59. Loredana Mancini, op. cit., pagg. 38-9. L’Autrice ricorda due opere, il Partenio 2 e Elena, rispettivamente di Pindaro e di Euripide.
60. ibid., pagg. 43-5.
61. Vánna Chatzimicháli-Svorónou, Ikaría (Nikaría, Icaria), in Évi Melá (a cura di), op.cit., pag. 285.
62. Omero, Iliade, tr. it. a cura di R. Calzecchi Onesti, Torino 1990, II, vv. 144-9: «L’assemblea fu sconvolta, come onde grandi del mare, del mare Icario, che l’Euro o il Noto sollevano balzando giù del padre Zeus dalle nubi o come quando Zefiro giunge e l’alte messi sconvolge, violento avventandosi, e le spighe si piegano; così l’intera assemblea si sconvolse…».
63. Vánna Chatzimicháli-Svorónou, Ikaría (Nikaría, Icaria), in Évi Melá (a cura di), op.cit., pag. 287.
64. Omero, Odissea, VI, vv.162-3.
65. ibid., XIV, vv. 327-30; XIX, vv. 296-99.
66. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, op. cit., pagg. 375-6; Giorgio Colli, La nascita della filosofia, op. cit., pagg. 30-2.
67. Giorgio Colli, op. cit., pagg. 26-7; Bernard C. Dietrich, Religione, culto e sacro nella civiltà cretese-micenea, in Jiulien Ries (a cura di), Le civiltà del Mediterraneo e il Sacro, III, Trattato di Antropologia del Sacro, Milano 1992, pagg. 86-7; Giorgio Ieranò, Il mito di Arianna, Roma 2007.
68. Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, op. cit., pag. 385.
69. ibid., pagg. 386.
70. Bernard C. Dietrich, op. cit., pagg. 71-2; AA.VV., Cycladic Culture. Naxos in the 3rd Millennium, Athens 1990.
71. Bernard C. Dietrich, op. cit., pag. 77.
72. Robert Graves, Greek Myths, London 1961, tr. it. di E. Morpurgo, I miti greci, Milano 1979, pag. 237 e pag. 316.
73. ibid., pagg. 93-4.
74. Fotiní Zafiropoúlou, Nasso (Náxos), in Évi Melá (a cura di), op.cit., pag. 136.
75. Omero, Iliade, vv. 590-607.
76. Friedrich Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, Leipzig 1872, tr. it. di S. Giametta, La nascita della Tragedia, Milano 200322, pag. 59.
77. Dimítris Bosnákis, Dimítris Gangís, Judith Lange, María Stephosi, ΑΡΧΑΙΑ ΘΕΑΤΡΑ, Aθηνα s.d.
78. La scomparsa del coro determinò in bassa età ellenistica la trasformazione del cerchio dell’orchestra in spazio semicircolare.
79. Giorgio Colli, La sapienza greca, op.cit., 14[A 12].
80. ibid., fr. 14 [A 30].
81. ibid., fr. 14 [A 31].
82. ibid., fr. 14 [A 45 b].
83. ibid., fr. 14 [A 91].
84. Pierre Vidal-Naquet, L’Atlantide. Petite histoire d’un mythe platonien, tr. it. di R. Di Donato, Atlantide. Breve storia di un mito, Torino 2006.
85. Predrag Matvejevic, Mediteranski Brevijar, Zagabria 1987, tr. it. di S. Ferrari, Mediterraneo. Un nuovo brevario, Milano 1991.
86. Pablo Neruda, Viaje por las costas del mundo, 1947, tr. it. a cura di I. Carmignani, Viaggio lungo le coste del mondo, Firenze 2005.
87. Marc Augé, La Guerre des rêves exercices d’ethno-fiction, Paris 1997, tr. it. di A. Soldati, La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction, Milano 1998. Si veda in particolare il cap.VI, L’ordine del giorno.
88. Sul rapporto architettura, archai, fuoco si veda: James Hillman, Carlo Truppi, op. cit., pagg. 21-4. «L’architettura è chiamata a servire il risveglio della coscienza umana, custodendo il suo fuoco in modo specifico e durevole». Giacomo Camuri, Fuoco, in op. cit., V.
89. Rabindranath Tagore, Gitanjali, New York 1913, tr. it. di E. Marinelli, Gitanjali, Firenze 20056.
90. Giorgio Colli, La sapienza greca, op.cit., fr. 14 [A 42].
“Discorsi” e pratiche per la governance delle politiche scolastiche
Roberto Serpieri
introduzione a: Roberto Serpieri, Governance delle politiche scolastiche, La Provincia di Napoli e le Scuole dell’autonomia con un’intervista ad Angela Cortese, collana di Sociologia Franco Angeli
Sull’autonomia delle scuole si è scritto e detto molto con riferimento all’incompiutezza della realizzazione del “progetto” che sosteneva la riforma.
È vero che solo immagini troppo ingenue dei processi di riforma, in particolare nel nostro paese, potevano lasciare prevedere una veloce e compiuta “fine dei lavori in corso”, per riprendere l’ampiamente citata metafora del cantiere. L’attuazione di una riforma, piuttosto, va vista come un puzzle o come una “scatola cinese”, di cui le tessere o le scatole più piccole, rappresentano ingredienti fondamentali per la sua messa a punto, il cui assemblaggio, tuttavia, non può essere dato per scontato. Così, l’autonomia scolastica ha richiesto l’individuazione e l’implementazione di un insieme di politiche, le tessere o le scatole minori, appunto, per la sua realizzazione.
Una delle politiche è quella che ha riguardato e sta ancora riguardando, per certi versi, la costituzione degli attori: il caso, forse, più emblematico essendo rappresentato dalla “nascita” della dirigenza scolastica. Quest’ultima, riqualificando i “vecchi” presidi e direttrici didattiche1, e rinnovando i propri ranghi con le tortuose vicende concorsuali “all’italiana” (Serpieri, 2008; 2007c), si trova a dover compiere, più che scegliere, le proprie interpretazioni di ruolo a fronte di «pressioni istituzionali» altamente contraddittorie (Romano, Serpieri, 2006). In tal senso, si è proposto di leggere queste contraddizioni come una vera e propria «guerra tra discorsi» (Serpieri, 2007b; 2007c), intesi come «regimi di verità» (Ball, 2006) che impongono scenari, missioni, valori e pratiche e che abilitano nella presa di parola alcuni attori, piuttosto che altri ai quali questa viene interdetta. Si confrontano, infatti, sulla scena delle politiche scolastiche almeno quattro discorsi (Serpieri, 2008; 2007a; 2007b; 2007c) di cui i primi due, burocratico e professionale, caratterizzanti il nostro sistema pre-amministrativa dell’impianto del settore pubblico italiano; il secondo, contraddistinto dalla pretesa del riconoscimento di spazi di discrezionalità per l’esercizio delle competenze professionali, pur in contesti organizzati. Le scuole della preautonomia, non a caso, sono state interpretate come molto prossime alla configurazione organizzativa della «burocrazia professionale» (Benadusi, Serpieri, 2000).
Gli altri due discorsi, relativamente più recenti, perchè apparsi proprio come sostenitori della stessa svolta dell’autonomia, attingono ad orizzonti politico culturali contrastanti per le reinterpretazioni della crisi dei sistemi di welfare (Olssen et al., 2004). Da un lato, quello manageriale volto alla introduzione di logiche di (quasi)mercatizzazione nel settore pubblico, attraverso un arretramento del ruolo dello Stato ed un progressivo affidamento a dinamiche di competizione fondate sulle scelte dei consumatori, studenti e famiglie nel caso della scuola. Dall’altro lato, quello democratico-critico rivolto, appunto, contro le derive neo-liberali, sia per rivitalizzare le occasioni (spesso “tradite” dagli organi collegiali) di dialogo dentro la comunità professionale, che, soprattutto, per sviluppare quello con gli attori e le comunità dei contesti locali in cui le scuole vanno radicandosi.
La guerra tra discorsi sta producendo anche nuove e contrastanti politiche di ri-costituzione di altri attori come gli stessi docenti, in termini dei processi di selezione, formazione, valutazione, carriera e differenziazione tra ruoli professionali (Cavalli, 2000). Ma ciò che rileva particolarmente in questa sede, è come tale guerra ci fa leggere in una luce disincantata anche le politiche di riconfigurazione dei ruoli istituzionali derivanti da un’altra politica che fonda il ridisegno non solo del sistema scolastico, ma della Pubblica Amministrazione nel suo complesso: ovvero, la politica di decentramento. Con l’impianto che va dall’autonomia al d.lgs 112/98, al Tit. V della Costituzione riformato, infatti, il sistema scolastico non appare più ruotare intorno al Ministero come centro motore di un assetto gerarchico, piramidale, ma «[l]’organizzazione del sistema di governo della scuola che ne deriva appare caratterizzato da un accentuato policentrismo» (Morzenti Pellegrini, 2006: 13; c.m.).
L’«eclissi della burocrazia» (Landri, Benadusi, 2002) ministeriale della pubblica istruzione, allora, va rivista come una profezia in buona parte non auto-avverantesi e ciò in modo del tutto comprensibile, come risultato di un’accanita “resistenza” del discorso burocratico da un lato, ma anche per la perdurante debolezza degli altri discorsi e dei suoi interpreti. Così, è possibile parlare di un neo-centralismo statale di ritorno, sia che questo si esplichi direttamente al centro, che nelle sedi periferiche della burocrazia ministeriale, con la rivitalizzazione degli ex-provveditorati provinciali nei riconvertiti Uffici Scolastici Provinciali o con la “durezza” del ruolo ancora mantenuto dagli Uffici Scolatici Regionali in materia di allocazione di risorse decisive, come il personale dirigente e docente. Una sconfitta del discorso professionale può, invece, essere rintracciabile nel mancato decollo dei CIS (centri di servizi), così come nello svuotamento sostanziale del ruolo tecnico-ispettivo, quali strutture tecniche per il supporto della scuola dell’autonomia.
Ma, allo stesso tempo, anche gli enti Regioni potrebbero essere visti come potenziali interpreti di un neo-centralismo regionale, talvolta seriamente compromesso dalla prevalenza del discorso burocratico. Ed anche gli altri soggetti del decentramento, come le Province e i Comuni, rischiano di scontare un prevedibile deficit di adeguamento delle risorse, non solo strutturali e finanziarie, ma anche «regolative, normative e cognitive» (Scott, 1998) per decidere ed attuare politiche scolastiche adeguate alla sfida dell’autonomia. In altri termini, i vari attori istituzionali, nel loro ruolo ristrutturato dalle politiche di decentramento del sistema scolastico, devono dotarsi di competenze per governare attraverso strumenti e dispositivi non più esauribili all’interno del discorso burocratico. La regolazione giuridica e amministrativa, infatti, non appare più sufficiente per indirizzare, coordinare e cooperare attraverso un agire che non può più essere imperativo e che invece deve essere «impostato sul principio del far fare (e anche del “lasciar fare”)» (Bifulco, de Leonardis, 2006: 33).
Gli altri discorsi, professionale, manageriale e democratico offrono allora altre sponde per generare tali competenze, per implementare tali dispositivi in modo da produrre integrazione e coordinamento nelle politiche che interfacciano gradi sempre più elevati di interdipendenza e complessità (Kooiman, 2000). Ed in effetti, problemi di integrazione nelle politiche pubbliche si pongono sempre più spesso, non solo nella classica accezione di integrare materie diverse: il sociale e il sanitario, l’urbanistica e l’ambiente, il lavoro e la formazione, ecc. La crescita, infatti, della complessità e della interdipendenza nell’ambito della stessa materia, come avviene per le politiche scolastiche richiede di attuare una politica intra-settorialmente integrata tra i diversi attori e discorsi dispiegati sul campo, forse anche prima dell’integrazione intersettoriale e tra materie. Ciascuno degli attori istituzionali, infatti, privilegia in modo differenziato sia stili cognitivi (routine e pratiche), che orientamenti normativi e di valore, nonché ovviamente interessi, ispirati a diversi discorsi2.
Laddove, quindi, la regolazione gerarchica non è più adeguata per affrontare ambienti di governance, la questione dell’integrazione verticale ed orizzontale (si pensi al tema della sussidiarietà) e del coordinamento delle politiche, anche nell’ambito della stessa materia, rimanda all’attivazione di strumenti e dispositivi che a loro volta pongono problemi di scelta tra i discorsi. Secondo affermate dicotomie (cfr., D’Albergo, 2002; Donolo, 2005; Fedele, 2002), ad es., mentre il discorso manageriale offre chance di soluzione dei problemi di integrazione e coordinamento attraverso meccanismi di (quasi)mercato, quello democratico si affida al dispiegarsi di una visione dialogica e partecipativa, attraverso «la costruzione e l’alimentazione di arene politiche» (Bifulco, de Leonardis, 2006: 37).
In seguito alla riforma dell’autonomia, quindi, le politiche scolastiche si trovano ad affrontare tipici problemi di integrazione e coordinamento tra attori interpreti di discorsi distinti e talvolta confliggenti e, spesso, neanche omogeneamente e coerentemente rappresentati sulla scena dagli attori stessi.
Questo volume ne vuole essere una testimonianza, presentando un caso nel quale un “nuovo” attore sul palcoscenico del sistema decentrato dell’autonomia scolastica si è mosso per assicurare integrazione e coordinamento nella governance delle politiche scolastiche in un territorio ad alta problematicità economica e sociale: la Provincia di Napoli, in particolare l’Assessorato alle Politiche Scolastiche e Formative, Edilizia e Pianificazione Scolastica, Pari Opportunità. Attraverso un lavoro pluriennale, infatti, di aggiustamenti tra le logiche dei vari discorsi si sono esplorati e dispiegati strumenti e risorse, così come se ne sono attivate di «significazione» (Giddens, 1984) e di «imaginery» (Newman, 2005), per decidere ed attuare le politiche per la scuola dell’autonomia: il ricorso a sistemi informativi e al consolidamento di rapporti con il mondo della ricerca e dell’Università, di cui questo stesso volume è testimone; la valorizzazione della logica spaziale come luogo di integrazione, ovvero della costituzione di strumenti territoriali di governance; l’innovazione, attraverso il sostegno a progetti definibili di vera e propria cittadinanza per gli studenti, particolarmente cruciali in aree dove non solo lo sviluppo e le possibilità di lavoro, ma la stessa convivenza democratica, sono messe a rischio dalla presenza di sacche endemiche di delinquenza organizzata; la circolazione delle conoscenze ed esperienze in momenti e luoghi dedicati; etc.
Così, il libro si apre con un’intervista ad Angela Cortese3 che, in merito al dispiegarsi delle politiche scolastiche portate avanti nei suoi due mandati assessorili, si è “calata” con impegno e passione nel suo ruolo di policy entrepreneur (Grimaldi, Serpieri, 2008) per ideare, sostenere e sviluppare politiche all’altezza delle sfide poste dall’autonomia. E ciò sia per affrontare le complessità del territorio napoletano, che per curare il contesto delle relazioni tra attori istituzionali, che per armonizzare, e talvolta anche contrastare4, le politiche scolastiche provinciali con quelle nazionali e regionali.
Una ricostruzione degli scenari possibili delle interazioni verticali ed orizzontali tra le istituzioni e le stesse scuole dell’autonomia viene poi offerto da Morzenti Pellegrini. Nel suo capitolo5 si sostiene con lucidità esemplare la necessità – per riprendere il titolo di una stimolante raccolta di saggi (Donolo, 2006) – di un «futuro delle politiche» scolastiche che non può non risultare in una stretta collaborazione ed integrazione delle strategie ed azioni sia degli enti locali che delle stesse scuole, intese appunto come principali «istituzioni» per interpretare lo spirito della riforma dell’autonomia.
L’ideazione ed attuazione di un organismo interistituzionale, le Conferenze di Ambito, da parte della Provincia di Napoli, rappresentano, pertanto, un caso in cui si utilizza, quale cornice di institution building (Donolo, 2002), la «territorializzazione, per indicare il fatto che l’integrazione spinge all’immersione delle politiche nei territori in cui operano» (Bifulco, de Leonardis, 2006: 39). La scelta di fare politica attraverso il territorio implica, dunque, il ricorso a stili cognitivi già sperimentati con successo, come quando la Provincia ha utilizzato come base di aggregazione territoriale gli stessi ambiti provinciali già delineati per le politiche di sviluppo, o come quando ha connesso tali ambiti con quelli individuati dalla Regione Campania per la redazione dei Piani di Zona per le politiche sociali di attuazione della L. 382/00. La politica attraverso il territorio, cioè, si presenta anche come un potente fattore di integrazione delle politiche di vario livello e materie. Gli stili cognitivi testimoniano anche la capacità da parte degli imprenditori di policy di una mobilitazione del discorso professionale, attraverso il ricorso all’expertise delle reti professionali (Brown, Duguid, 2000), diffuse tra le diverse istituzioni.
La scelta del territorio, in questo caso specifico della Provincia di Napoli, implica anche la priorità del discorso democratico rispetto a quello manageriale, nel dare spazio e “fiducia” agli attori, quelli provinciali nella componente politica, amministrativa e tecnica, quelli regionali e comunali, quelli della scuola, i dirigenti dell’autonomia, e di altre istituzioni (associazioni imprenditoriali, Centri per l’impiego). L’orientamento normativo su cui si sono sintonizzati gli strumenti regolativi e le routine e le competenze degli stili cognitivi, infatti, è stato quello di privilegiare la logica dell’argomentazione e della partecipazione in arene, le Conferenze, costruite e supportate ad hoc per l’attivazione di politiche scolastiche (come l’Offerta formativa, l’orientamento, l’edilizia, i servizi e gli spazi – trasporti, laboratori, palestre, ecc.), per quanto possibile, condivise ai vari livelli.
Diversi capitoli del volume sono, allora, dedicati all’impresa di costituire questi luoghi interistituzionali per l’integrazione, vista la complessità dei dispositivi ed anche la relativa novità degli strumenti dislocati. Il ruolo della condotta strategica degli attori, come, ad es., l’interpretazione del processo di leadership, la loro capacità di monitoraggio riflessivo, anche per fronteggiare gli effetti imprevisti, sono stati esplorati e discussi nel cap. 3, alla luce degli studi e ricerche ispirate dalla teoria della “strutturazione”. Uno dei risultati più significativi risulta, dunque, la distinzione tra le pratiche delle «front» e «back regions» (Giddens, 1984): laddove, mentre nelle prime si sperimentano ed esplorano le potenzialità del discorso democratico in arene collettive e pubbliche, nelle seconde si ritorna alla più confortevole, perché già radicata in collaudate routine, pratica del discorso burocratico (l’agire gerarchico) e, per certi versi, di quello manageriale (l’agire per negoziazione di interessi) in spazi “privati”. Come si è osservato anche in altra sede (Grimaldi, Serpieri, 2008), la possibilità delle prevalenza delle prime va spiegata anche con logiche istituzionali di «path dependency» (Meyer, Rowan, 2006), oltre che con il ricorso all’agire strategico degli attori. La ricerca ha, infatti, mostrato come sia più probabile l’affermazione di reti cooperative in quegli ambiti territoriali definibili come contesti di «rich partnership» (Sterling, 2005) o, detta in altri termini, a più alta densità di “capitale sociale”.
Anche il discorso professionale, come già detto, gioca la sua parte e nei capitoli 4 e 5 si dedica ampio spazio alla dotazione di competenze e risorse di conoscenza per la governance sia interna, che esterna all’Area Programmazione Scolastica, la struttura della Provincia di Napoli, che sovrintende alle politiche scolastiche. Gli ambienti istituzionali di tali politiche, come si è visto, si sono resi sempre più complessi non solo per effetto delle riforme, ma anche per le modalità con le quali la stessa Provincia ha inteso affrontarle: ovvero provocando la produzione di altri effetti, innestando, per così dire, sulla causalità del cambiamento esogena una di tipo endogena. Come si è avuto modo di osservare altrove (Grimaldi, Landri, Serpieri, 2006), i tentativi di ordinamento hanno prodotto anche dis8 ordinamento, in un processo per certi versi inesauribile di progressivi aggiustamenti e ri-aggiustamenti: ogni organizzare è, infatti, un disorganizzare (Clegg et al., 2005).
Nel capitolo 4 si tenta di comprendere attraverso quali modelli di «architettura della conoscenza» (Amin e Cohendet, 2004) la strutturazione interna dell’Area ha risentito della modifica delle routine, dell’introduzione di nuovi strumenti e prassi di lavoro attraverso cui i flussi, così come i supporti tecnologici, informativi hanno inciso quali-quantitativamente sulla comunicazione e sull’interazione tra le diverse «knowing communities» professionali operanti nell’Area. Così, le tradizionali competenze giuridiche ed amministrative si sono integrate con competenze economico-finanziarie, statistiche, sociologiche, pedagogiche, informatiche, ecc., creando un nuovo assemblaggio di risorse di conoscenza, di codici e criteri di classificazione.
Con particolare riguardo alla natura dei cambiamenti nei sistemi informativi, ed anche sfruttando comparativamente una ricerca condotta su processi analoghi nella Provincia di Bologna (Romano, 2008), nel capitolo 5 si riprendono le ricerche ispirate al “realismo critico” sui processi di conoscenza e le nuove tecnologie. Si dimostra come la “durezza” degli artefatti tecnologici come gli stessi software, o dei dati di contesto (gli istituti scolastici nella Provincia di Napoli sono ben 175, circa 4 volte quella di Bologna), ecc., costringono il volontarismo degli attori sociali riducendone significativamente gli spazi di azione. In tal modo, ad es., la stessa struttura dei processi informativi, al di là delle intenzioni degli attori, producono effetti inattesi, indebolendo la possibilità e non solo la volontà degli Istituti scolastici di rendere tali flussi pienamente efficaci. Ciò rimanda, pertanto, alla necessità di affiancare il discorso democratico a quello professionale, per sviluppare modalità dialogiche tra i diversi utenti (ad es., provinciali e scolastici) nella progettazione dei sistemi informativi.
Le modalità del funzionamento delle Conferenze d’Ambito, per rendere operanti i processi di governance interistituzionale attraverso un lavorìo pluriennale di costruzione degli stessi processi, sono poi ulteriormente esplorate, rispetto a quanto già trattato nel cap. 3. Utilizzando una contaminazione della tipologia delle «architettura della conoscenza» con la modellistica dei sistemi di governance proposti dalla Newman (2001), sempre nel capitolo 4, si è individuata la modalità con cui nelle Conferenze il modello del «governo gerarchico», viene progressivamente eroso, anche se mai del tutto soppiantato, da altre forme di governance, in cui l’integrazione ed il coordinamento vengono perseguiti attraverso un mix di delega, di concertazione e di empowerment. In altri termini, il discorso burocratico, peculiare dell’aministrazione e quello professionale, tipico delle scuole sono contaminati dagli altri due discorsi, quando tali istituzioni, gli enti locali e le scuole, sono costrette a dialogare e/o negoziare. La tendenza prefigurata, ma non del tutto scontata negli esiti, nella governance delle politiche scolastiche dalla Provincia di Napoli sembra quella del dialogo, interpretando quindi prevalentemente una vocazione al discorso democratico, piuttosto che a quello manageriale.
Il dialogare delle Conferenze, proprio per testimoniare i contenuti veicolati e le forme attraverso cui si svolge tale dialogo, viene poi esaminato nel capitolo 6 con ricorso a tecniche interpretative e di codifica tratte dalla tradizione di ricerca qualitativa della «grounded theory». Le mappe e le categorie concettuali elaborate dagli attori nel dialogo vengono così illustrate, rendendo, ad es., in modo efficace lo sforzo e l’abilità dell’Assessore come imprenditore di policy nel riadeguare e rimodulare le logiche comunicative proprie della relazione burocratica con quella dialogica e le energie dedicate al fare in modo che le seconde venissero appropriate anche dagli altri attori, in primo luogo gli stessi dirigenti scolastici.
Il capitolo 7 è dedicato ad una ricostruzione di come la Provincia negli anni ha progettato e implementato politiche scolastiche da armonizzare nel quadro degli “Obiettivi” di Lisbona. Tra tali politiche, in particolare, si segnalano quelle dell’Osservatorio per la Programmazione Scolastica che ha incentrato le proprie attività su ricerche finalizzate ad affrontare tematiche particolari come quelle della dispersione scolastica e dell’orientamento. Un quadro particolarmente denso proprio della fenomenologia della dispersione, con le sue punte particolarmente drammatiche a fronte dei rischi presenti sul territorio della provincia napoletana, è poi presentato nel capitolo 8.
Come si è detto in apertura di questa introduzione, la particolare posizione nell’UPI dell’Assessore Cortese ha spinto quest’ultima ad organizzare, in concorso con l’UPI stessa e con la Facoltà di Sociologia dell’Università Federico II di Napoli, un’occasione per estendere la capacity building istituzionale di governance. Attraverso uno degli strumenti soft (cfr. Bifulco, de Leonardis, 2006), come gli standard, per l’integrazione delle politiche, ovvero quello delle best practices, si è dato luogo ad un “Salone delle buone prassi” per raccogliere, documentare e presentare le esperienze più significative delle Province italiane in materia di politica scolastica. L’ultimo capitolo di questo volume, quindi, riprende la relazione presentata in quell’occasione da chi scrive6 in qualità di responsabile scientifico, in cui le buone pratiche sono organizzate intorno a quattro issues: 1) gli strumenti della governance; 2) l’equità; 3) l’innovazione e 4) l’orientamento scolastico.
In quel Salone, le “buone” pratiche presentate non avevano alcuna pretesa normativa, tipica peraltro del discorso manageriale, di prefigurarsi nell’accezione di best rispetto ad alcunchè. Volevano solo essere un’occasione di dialogo democratico e, semmai, professionale nel senso di una sua rivitalizzazione ed apertura rispetto a tratti tipici di autoreferenzialità delle scuole pre-autonomia. In tal senso, anche questo libro intende offrire uno strumento di documentazione per attingere ad un’esperienza di governance, che nel suo nascere ha a sua volta attinto ad altre esperienze, in particolare la Provincia di Bologna. L’impegno costante, la capacità e la volontà di alcuni attori, politici ma anche tecnici, della Provincia di Napoli, ha dato forma a questa opera di esplorazione ed implementazione di alcuni strumenti e dispositivi di governance: conoscendone lo spirito autenticamente e “modestamente” democratico non hanno certo alcuna pretesa di presentare la loro come una buona pratica. La personale e pluriennale collaborazione di ricerca con loro, tuttavia, mi fa sentire, forse immodestamente, autorizzato a sostenere che questo volume intenderebbe dimostrare come questa loro esperienza, con i suoi successi ed i suoi limiti, rappresenti una pratica del discorso democratico. Se ci sarà riuscito, almeno in parte, sarà anche il modo migliore per esprimere la gratitudine mia personale e dei coautori, nel ruolo di interpreti del discorso professionale, ma anche democratico, per avere avuto l’opportunità di collaborare a tale pratica.
1. La differenza di genere vuole rappresentare un omaggio alle preziose competenze psicopedagogiche e di “cura” relazionale che molto più spesso le donne esibivano significativamente nel loro ruolo, non solo come direttrici, ma anche come presidi!
2. Un caso classico di competizione è certamente quello tra discorso professionale e burocratico che, come è stato osservato, rappresenta un territorio ancora in parte inesplorato per quanto riguarda le «combinazioni tra competenze tecniche e amministrative» (Bifulco e de Leonardis, 2006: 37).
3. Assessore alle Politiche Scolastiche e Formative, Edilizia e Pianificazione Scolastica, Pari Opportunità della Provincia di Napoli dal 2001 ad oggi e coordinatrice degli Assessori alla Pubblica Istruzione per l’Unione delle Province d’Italia dal 2004 ad oggi.
4. Si veda il ruolo giocato in contrapposizione alla riforma Moratti, infra, cap. 1.
5. Dove si riprende, sostanzialmente, la relazione presentata al Convegno “Le Province e i nuovi scenari delle politiche educative”, tenutosi il 29 ottobre 2007 a Napoli in occasione dell’inaugurazione del “Primo Salone delle Buone Prassi Amministrative”, organizzato dalla Provincia di Napoli in collaborazione con l’UPI e la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, con il coordinamento scientifico di Roberto Serpieri.
6. In collaborazione con G. Galano.
Josette Clemenza
Questa introduzione dà voce alle riflessioni da cui è nata la traccia di questo convegno: una traccia che si è definita riannodando i fili rimasti sospesi dai precedenti convegni, frammenti di conversazioni, scambi di mail, momenti preziosi sottratti all’aula per confrontarsi tra colleghi.
Spero che il pensiero possa esprimersi con la stessa forza delle immagini, cercate con cura - insieme con le colleghe Marchese e Zavan - per introdurci nel clima del convegno.
La locandina, la brochure, la scelta di alcuni luoghi hanno come sfondo il MARE.
Come ci insegna il relativismo linguistico, il pensiero si costruisce mediante il linguaggio e viceversa. Quindi, se gli inuit usano tanti termini per esprimere tanti significati di ciò che noi chiamiamo NEVE; così noi, isolani, quando diciamo MARE pensiamo a tanti significati diversi, spesso in contrasto tra loro: apertura, incontro, lontananza, mistero, accoglienza, rifiuto, vita-morte….)
Questo elemento che ci de-limita è reso presente in molti modi; così come altre città - visitate nei nostri appuntamenti annuali “itineranti”- hanno lasciato trasparire “un’anima dei luoghi”, quell’anima che troppo spesso viene dimenticata e nascosta.
(come ci ricorda Giacomo Camuri, nell’intervento sapiente ed evocativo, che trovate in cartella)
Ma non è stato solo il bisogno di contestualizzarci, a suggerire l’uso del mare come sfondo: andando al di là dell’immagine, dell’il-limite che ci circonda, il mare si è imposto come metafora del nostro convegno.
Spesso è presentato come “simbolo dell’indifferenziato flusso primordiale (…) di quel barbarico stato di in distinzione e disordine da cui è emersa la civiltà e nel quale è sempre possibile che essa ricada”. ( W. Auden,p.35)
Segno dunque, di enorme potenzialità creatrice ma anche di un pericolo da tenere sotto controllo.
Ma è possibile controllare il mare?
Per quanto sia “della natura umana stare al centro di una cosa: del mare non si può stare al centro”. (Marianne Moore)
Privo di centro, disordinato, indistinto …certo, starne al cospetto provoca smarrimento ma anche ebbrezza, la possibilità di una sfida, di una prova di resistenza, la speranza di raggiungere nuovi approdi, superando rischi di derive e naufragi.
Nel bellissimo saggio Gli irati flutti il poeta Wystan Hugh Auden afferma:
“Il mare è la situazione reale e il viaggio è la vera condizione dell’uomo;
Il mare è il luogo in cui avvengono gli eventi decisivi, i momenti di eterna scelta, la tentazione, la caduta e la redenzione. La vita a terra è sempre banale;
Una destinazione permanente non è nota, anche se possibile che esista: una relazione durevole non è possibile e neppure desiderabile”.
(W. H. Auden, pag.40)
E, citando Le voyage di Baudelaire
La sfida, che caratterizza la storia dei Licei delle scienze sociali (e di quanti hanno creduto nella necessità di intraprendere nuove vie per l’educazione di oggi) si gioca in mare aperto, per una serie di condizioni su cui rifletteremo in questi giorni.
1. L’oggetto di studio dell’indirizzo - la società complessa - è una situazione assolutamente nuova; non è già data né già nota;
2. I luoghi in cui ci muoviamo, i fenomeni che osserviamo non sono più leggibili servendosi delle “carte nautiche” di un tempo;
3. Gli strumenti che usiamo per orientarci (le nostre bussole) sono le scienze sociali: discipline che, più e prima di altre, si sono impegnate in una profonda rivisitazione epistemologica. Veri saperi di frontiera che devono correggere le misure adottate in passato e fronteggiare problemi nuovi, impensabili sino a trent’anni fa
(su questo ci illuminerà con il suo denso e lucido esame il prof. Bettin);
4. Le acque in cui naviga la scuola oggi sono tutt’altro che tranquille, anche se per alcuni dei politici è stato comodo sospenderla in uno stato di “calma-piatta”, e lanciare sos solo all’emergere di qualche mostro/bullo dagli abissi; da più parti invece, si sollevano voci allarmanti che denunciano una pericolosa deriva, non soltanto per quanto riguarda la valutazione dei risultati, ma soprattutto per l’assenza di piani di navigazione.
5. Molte volte abbiamo navigato “a vista”, seguendo un progetto di scuola che si è costruito poco a poco, orientando le vele in modo da sfruttare al meglio le nostre possibilità, la nostra voglia comune di fare ricerca e di condividere un pezzo di strada.
Certo questo ha richiesto parecchio impegno, anche perché ognuno di noi è costretto a mantenere la rotta “...tra milioni di onde che rendono fragili le nostre certezze”
Appena ci liberiamo gli occhi, certo ci accorgiamo di andare alla deriva su una nave più o meno fragile, su una dei milioni di onde che la rivoluzione ha messo in movimento.
Quest’onda siamo noi stessi.
Il conoscere oggettivo non ci viene reso facile”
(J. Burckhardt )
In questo scenario di incertezza e instabilità ci siamo mossi incontrando diversi scogli, venti impetuosi e “calmaria di scirocco”: cioè uno stato di immobilità ministeriale che rischiava (rischia) di vanificare i nostri sforzi. Come si è verificato quando, sospesa la sperimentazione assistita, si è prospettata l’ipotesi di confluire in un anonimo Liceo delle scienze umane).
Ma questo pericolo è stato anche la nostra salvezza!
“Lì dove cresce il pericolo, cresce pure ciò che salva”
(Holderlin)
Il pericolo di vedere finire una storia che, per alcuni tra noi, è cominciata trenta anni fa e, con essa, anche un’avventura umana, professionale ed etica, è stato anche la nostra salvezza
La nascita della Rete “Passaggi” è stata, infatti, la risposta al pericolo.
In cinque anni è cresciuta diventando un polo d’attrazione, un faro che permette di orientarsi nonostante diversi moti ondosi.
Raccogliendo e rinforzando una ricca eredità di riflessioni ed esperienze, la rete è aperta al mutamento che produce nuove esperienze, dando vita a diverse articolazioni sul territorio e ad assestamenti che richiedono innovazioni strutturali.
Perché ciò procuri benessere e non disagio e incertezza occorre prendersi cura delle reti
“Le reti devono essere curate affinché curino, affinché diventino opzioni strategiche superiori”
(Folgheraiter)
Il contributo che ci offrirà il prof. Serpieri ha proprio la finalità di aiutarci a curare la nostra rete, a cercare strategie per intraprendere, quella che (platonicamente) potremmo definire una seconda navigazione, che ci costringe a riprendere la spinta lì dove si è esaurita. Tante possono essere le cause di cali di vento , i cambi di dirigenza, trasferimenti, colleghi esperti che vanno in pensione….
Tutti siamo impegnati a sperimentare nuove rotte, tenendo come punto fermo la relazione tra le scuole e utilizzando nuovi canali per comunicare di più e meglio.
Il sito “Passaggi” nasce proprio con questo intento: potenziare la comunicazione tra di noi e imparare a governare relazioni tra scuole diverse che si incontrano per riconoscersi in un’identità comune.
L’identità è il tema che era stato lanciato lo scorso anno a Lucca per il convegno 2008.
La ricerca d’identità del nostro indirizzo che, come detto, è un’identità che scaturisce dalla relazione tra scuole, crediamo possa essere un punto di domanda per tutti gli indirizzi della scuola secondaria.
Infatti, anche quelli ancorati a programmi più definiti e a una memoria storica ( sin troppo storica!) soffrono di una profonda crisi d’identità, a cui non giovano le improvvise accelerazioni e frenate che la politica impone alla scuola.
(int. sen. Berlinguer, confronto con l’estero)
Ma il tema dell’identità e della relazione si apre a considerazioni ben più profonde di quelle che riguardano al scuola:
A queste altre sponde del pensiero ci condurrà la riflessione della sociologa Renate Siebert, donna di frontiera per biografia e per impegno intellettuale, che abbiamo deciso di ascolatre nel punto dove si incontrano i mari tra Scilla e Cariddi.
Riteniamo che sia un esercizio indispensabile, per chi vuole, oggi, insegnare a comprendere la differenza, imparare un nuovo sguardo, seguire nuove traiettorie per guardare insieme l’osservatore e l’osservato, e ri-conoscere i processi di costruzione dell’identità e dell’alterità,
Il termine francese regard (sguardo) è stato analizzato da Strarobinski in “L’occhio vivente”…….Il termine rimanda anche al senso di duplicità, raddoppiamento che attiene alla natura stessa dello sguardo: lo sguardo non solo guarda ma è anche guardato.
Noi guardiamo da un punto, ma siamo guardati da dovunque, dice Merleau-Ponty : una scissione che già Sartre (in Essere e Nulla) sostiene avvenga nel momento in cui avvertiamo lo sguardo di chi ci guarda.
Nella dialettica occhio sguardo non c’è affatto coincidenza, ma fondamentalmente inganno; perché lo sguardo nasconde gli occhi.
Apriremo gli occhi, a nuovi sguardi, al parco Horcynus Orca, dove si narra sia possibile osservare il fenomeno di Fata Morgana, in cui sembra di vedere l’altra riva e invece si riconosce se stessi.
Siamo più fedeli all’identità di una cultura, coltivando la differenza da sé (con sé),
che costituisce l’identità, oppure mantenendo l’identità
in cui questa differenza si mantiene, insieme con altre?
(Derrida)
Questo gioco di specchiarsi nell’altro si verifica continuamente nella relazione educativa che, l’esperienza di stage potenzia notevolmente.
Durante il convegno ascolteremo le esperienze che le scuole realizzano nel loro territorio, ma ascolteremo soprattutto i nostri allievi che, da co-protagonisti nel loro percorso formativo, offriranno il contributo delle loro riflessioni e di come, si possano creare contesti più naturali di insegnamento-apprendimento.
(lanciare l’idea di un convegno parallelo x i ragazzi)
“La relazione è reciprocanza. Il mio Tu influisce su di me come io su di lui.
I nostri discepoli contribuiscono alla nostra formazione, così come noi siamo una costruzione delle nostre opere”
(M. Buber)
Ø In quel contesto incontreremo anche uno dei responsabili del parco Gaetano Giunta che, insieme ai soci della cooperativa Ecosmed, ha scommesso sul recupero di un luogo carico di memoria e sulla possibilità di promuovere un patto educativo tra le scuole siciliane e calabresi, che non si limita a microprogetti ambientali o di educazione civica, ma alla condivisione di finalità cognitive ed etiche.
Ø Nel flusso mediatico in cui tutti siamo immersi, segnali negativi provengono dal mondo dell’informazione in cui la voce della scuola sembra essere solo quella dei bulli, degli autoritarismi sterili, della dispersione, dei debiti da colmare, del contratto da rinnovare….Vorremmo che la scuola parlasse con un’armonia in cui risuonano le nostre voci con quelle dei nostri allievi, delle loro famiglie, del territorio in cui viviamo.
La tavola rotonda conclusiva è un’opportunità per ascoltarci e farci ascoltare in modo nuovo, senza farci ammaliare dai canti delle sirene che parlano di riforme della scuola solo in campagna elettorale e poi tacciono.
Questo convegno è un ulteriore passaggio, un crocevia che speriamo possa permettere a tutti noi il percorso con maggiore determinazione e speranza.
Il convegno inizia qui, buon lavoro a tutti noi!
Leonello Bettin
A conclusione di un primo ciclo di seminari nazionali riguardanti la configurazione culturale/didattica da affidare al Liceo delle scienze sociali, nel 2000 esce il documento di riferimento del Liceo. Esso dice, in estrema sintesi, che l’asse culturale è quello storico-antropologico e che l’oggetto di studio è la contemporaneità.
L’associazione “Passaggi”, all’inizio della sua attività, ha avvertito il bisogno di riandare a riflettere intorno a queste due polarità (in realtà si tratta di un polo a due facce) realizzando due seminari dedicati all’asse e all’oggetto.
Infatti, per ragionare ancora sul curricolo, per riconoscersi in esso, bisogna ripartire da qui, da questa cornice epistemologica/culturale che si è andata riempiendo negli anni, in seguito a riflessioni, studi, scambi tra scuole e insegnanti.
Si è delineata, così, una visione più chiara dell’articolazione del curricolo a livello quinquennale, una scansione che rappresenta un risultato – provvisorio ma solido – del modo in cui le scienze sociali hanno riflettuto sui cambiamenti del mondo e della condizione umana, sulla storia e su se stesse.
L’asse culturale si è andato concretando in modo sempre più consapevole: si è pensato, si è applicato, si è pensato.
Ora proviamo a raccogliere alcuni risultati di questa attività di riflessione e di pratica didattica
1. Il Cambiamento
«Il desiderio di studiare le forme della vita sociale trae dalla percezione del mutamento una spinta formidabile: si comincia a studiare la società quando essa non può più essere data per scontata.» Così Paolo Jedlowski, in Il mondo in questione, stabilisce la corretta relazione tra cambiamento sociale e nascita delle scienze sociali. Il tempo della nostra specie è stato segnato per millenni da mutamenti marginali tali da non essere percepiti, perché le condizioni di vita di gran parte della società sono rimaste nella sostanza invariate. Per segnalare con una battuta la continuità dei modi di vita, si suol dire che i contadini del XVI secolo condividevano la condizione dei contadini dell’era di Cesare (ma, in realtà, si può retrocedere per almeno altri due mila anni).
Insomma, è prevalsa la continuità e ciò ha comportato conseguenze importanti, sia sul piano sociale che culturale. Per citare solo due esempi, la società della continuità è gerontocratica, comandano gli anziani che sono garanzia, appunto, di continuità tra il passato e il presente; è il passato che conta, che dà validità al presente, mentre il futuro è visto come un passato che ritorna. La mente delle persone è rivolta al passato garante della solidità della tradizione che costituisce la cornice necessaria in cui inscrivere la vita. Questa tipologia sociale è chiamata, non a caso, tradizionale perché la conoscenza così come le pratiche di vita sono ancorate alla tradizione che offre sicurezza e certezze. Ciò è possibile in un mondo in cui la risorsa terra (dunque agricoltura) è il fattore di produzione centrale delle società tradizionali e per coltivare la terra bisogna fidarsi di chi ha esperienza, dunque degli anziani. Gli adulti/anziani sono anche gli artigiani che addestrano nelle loro “botteghe” bambini e adolescenti. Per migliaia di anni la conoscenza esperta acquisita con l’età ha dominato i rapporti sociali e di genere, garantendo una società bloccata. Nelle società post tradizionale assume una sempre maggior rilevanza la ricerca tecnico-scientifica, che impone uno scarto, una secca discontinuità che rovescia i rapporti tra le età e fluidifica –in parte – la società; il vecchio/anziano viene considerato obsoleto, mentre il giovane incarna la noLeonello Bettinvità.
L’esperienza viene scalzata dall’aggiornamento tecnico, con importanti, e non sempre positive, ricadute sul piano antropologico, sulla nostra concezione di noi stessi, dei rapporti sociali, dei modelli di vita (si vedano le riflessioni di Galimberti sulla tecnica di cui l’essere umano diventa il “servente”).
Al di là dei semplicistici stereotipi che accompagnano la visione dei rapporti tra le età della vita, sta di fatto che, nel caso accennato, siamo di fonte a un cambiamento che, a buon diritto, è stato definito epocale: si è conclusa un’epoca della storia dell’umanità, per entrare in un nuovo percorso, che ancora non siamo in grado di intravedere dove ci condurrà (ma “nuovo” non significa necessariamente “migliore”, ma semplicemente “differente”).
Il cambiamento epocale o totale (perchè sommuove l’intera società e ha portata mondiale) introduce un fattore di netta discontinuità che spezza il deflusso lineare della storia introducendo tali modificazioni da rendere la realtà umana talmente “nuova”, da renderla incompatibile (e incomparabile) con quella precedente.
La società moderna è l’esempio massimo di società mutata – dopo i millenni di dominio delle società agricole – e tale è il cambiamento che essa non può più essere data per scontata. È la sua stessa esistenza a porre problemi dunque, per avviarne la comprensione, devono cambiare i quadri concettuali, le strategie di conoscenza, gli approcci cognitivi e le stesse categorie mentali, il cui esame, tra Aristotele e Kant sembrava concluso.
Le scienze sociali hanno, dunque, valore in sé perché rinnovano e rifondano modelli concettuali e percorsi cognitivi.
2. La discontinuità
I grandi cambiamenti epocali hanno provocato l’evidenziarsi di una discontinuità con l’epoca precedente, un evento evidentemente non immediato ma che con il tempo è stato percepito dalle popolazioni coinvolte che, normalmente, hanno esaltato le virtù della nuova situazione contro un passato giudicato negativamente. Di qui sono nati equivoci storici e antropologici, cui accenneremo.
L’umanità ha fatto l’esperienza, fino ad ora, di tre grandi cambiamenti epocali, di tre grandi discontinuità.
Il primo è stato il passaggio dalla caccia/raccolta all’agricoltura, il secondo dall’agricoltura all’industria, il terzo, tuttora in atto, il passaggio dall’industria alla finanza e ai servizi. Luciano Gallino parla di uno «spropositato predominio (di un ordine compreso tra 50:1 e 100:1) degli scambi esclusivamente finanziari sugli scambi dell’economia reale» [Globalizzazione e disuguaglianze].
Va chiarito che con “caccia/raccolta”, “agricoltura”, ecc., si vuol indicare la forma prevalente del lavoro umano che riesce a plasmare l’intera vita della popolazione che ha subìto quel dato cambiamento. È, in sostanza, questo che caratterizza un’epoca; ciò che esisteva prima non è sparito ma assume una funzione secondaria. Ad esempio l’imporsi dell’industria nel corso dell’Ottocento non ha cancellato l’agricoltura, non tutti i contadini sono diventati operai, ma ora agricoltura e contadini sono attività marginali rispetto al cambiamento epocale imposto dall’industria. E questo vale anche per gli altri periodi storici.
Parliamo di cambiamento epocale, di discontinuità, perché nel caso di queste tre grandi “rivoluzioni”, vi è stato solo in parte un passaggio graduale, ciò che invece colpisce è la modificazione profonda delle modalità della vita, dei rapporti sociali e della visione del mondo. Un cambiamento radicale (= alla radice) economico/politico, della struttura sociale (quali sono le classi dominanti, come si stabiliscono i rapporti di potere, la tipologia di famiglia, i rapporti di genere ecc.) ha una netta ricaduta sul piano antropologico ovvero sui modelli di pensiero e di emozione, sulla visione di sé e degli altri.
Quando il cambiamento viene percepito, la discontinuità nei fatti diventa consapevolezza nella coscienza (per coscienza si intende vygotskijanamente “pensiero consapevole”).
3. Le tre grandi discontinuità
Ci fermiamo a ragionare, brevemente, sulle tre discontinuità poiché queste rappresentano la cornice culturale del Liceo delle scienze sociali, l’ambito su cui si fonda il senso dell’ indirizzo.
La prima rottura, il passaggio dalla società di cacciatori/raccoglitori a quella degli agricoltori/allevatori è rilevante, per noi, perché ci permette di superare una serie radicata di pregiudizi sui cosiddetti “primitivi” (antiche e moderni, direi) e su un concetto tutto produttivistico di sviluppo, secondo cui il passaggio avrebbe permesso all’umanità di fare un decisivo passo in avanti. Accenno solo all’ “equivoco antropologico” riguardo alla società dei cacciatori/raccoglitori messo in luce da Sahlins, poi da Harris e da tutti gli antropologi che hanno riflettuto sulla questione, tra cui Nicola Martino (lo ricordo perché il suo testo è di facile accesso).
Dall’ “equivoco” esce una prospettiva rovesciata: il passaggio tra le due società è un deciso arretramento civile. Il tempo del lavoro per la sopravvivenza passa da 4 a 12 ore, il comunitarismo egualitario e solidaristico intersessuale e intergenerazionale della società “primitiva” viene spezzato dalla società agricola che impone gerarchie quasi immutabili, che durano millenni, di genere, di età, di classe sociale, di liberi/schiavi, di forme di governo autoritario.
Inoltre, la società agricola pratica la guerra, la schiavitù e la servitù come normali prassi produttive.
Va, ancora, fatto un cenno al colonialismo che si è retto per più di 4 secoli sulla giustificazione della missione civilizzatrice delle società occidentali verso il popoli selvaggi e/o primitivi (e nell’ultima fase del colonialismo vi sono pesanti responsabilità dell’antropologia. Si veda, ad esempio il cap. Interrogativi etnici nel saggio di Francesco Pompeo, Il mondo è poco. Un Tragitto antropologico nell’interculturalità. Sempre a questo proposito, per noi resta importante la lettura di Armi, acciaio e malattie di Diamond: strumento forte per una pratica culturale antirazzista, in un’epoca di razzismo montante).
Il primo cambiamento epocale ci permette di individuare alcune problematiche che restano centrali: la qualità dei rapporti sociali, le forme di famiglia, i rapporti di genere e tra governanti e governati, gli strumenti attraverso i quali le idee dei dominanti diventano idee dominanti, le pratiche della socializzazione, e poi gerarchia, razzismo, sviluppo, guerra, ma anche storia mondiale. I “primitivi” allargano il nostro sguardo all’intero globo, sprovincializzandoci. Al contrario, la sedentarietà delle società agricole ha sviluppato culture locali (Mesopotamia, Egitto, Grecia-Roma, Cina, Centro-Sud America) che hanno creato confini – prerequisito della guerra - spezzando il globalismo nomade del cacciatore.
Mi sono soffermato sulla prima discontinuità perché normalmente è tema di biennio che deve puntare a una fondamentale competenza: saper “vedere” con uno sguardo socio-antropologico, uno sguardo strabico, si parla infatti di passato ma ci si interroga sul presente (si pensi, ad esempio, alle diversità di comportamento verso l’ambiente, tra noi, dissipatori, e i primitivi, conservatori). In questo caso – biennio/società arcaiche-antiche - uno “sguardo la lontano” è utile perché si rivolge a temi non direttamente coinvolgenti e che dunque possono essere studiati con un certo distacco, percorrendo vie anche dissacranti, anticonformiste. Inoltre, come ho accennato, l’altrettanto necessario sguardo sull’intero mondo aiuta a relativizzarci noi europei, civili, sviluppati ( è di estrema rilevanza che Diamond non parli mai dell’Europa e degli USA).
La seconda discontinuità è il nostro pane: dalla modernizzazione nascono le scienze sociali, la nostra stessa ragione di essere. E dalla modernizzazione si forma la società industriale che attraverso guerre, massacri, genocidi, immonde gerarchie e ingiustizie sociali, dimensione strumentalmente produttivistica dello spazio e del tempo, è giunta – non per un destino benevolo - a stabilire un patto storico tra capitalismo, Stato sociale e democrazia [Beck], un ambito sociale in cui ci siamo formati noi post cinquantenni, non passivamente, ci siamo messi in campo anche noi (la nostra formazione “politica” è stata stimolata da un’ottica da scienze sociali).
La nostra avventura – personale, professionale, culturale – comincia da qui e prosegue in un presente che è un’altra storia perché da circa trent’anni il mondo è cambiato. « Nel momento in cui il capitalismo globale dissolve i valori di base della società del lavoro dei paesi occidentali, si spezza un patto storico tra capitalismo, Stato sociale e democrazia» [U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro], o, con un altro linguaggio, « la fine del Panopticon [la fine della modernità] preconizza la fine dell’epoca del reciproco coinvolgimento: tra controllori e controllati, capitale e lavoro, leader e seguaci » [ Z. Bauman, Modernità liquida. Il corsivo è dell’Autore].
Surmodernità, postmodernità, modernità liquida, modernità riflessiva, società postindustriale, società dell’informazione : tanti possibili nomi per definire una società mutata e in via di mutamento. E qui ci siamo dentro, noi e i nostri studenti e qui applicare uno sguardo da lontano è proprio complicato. Anzi, il bello dell’indirizzo è di sentirci coinvolti: è la base di un ambiente “paritetico” e non ipocriticamente democratico. Noi siamo in ballo come e con i nostri studenti.
4. La discontinuità culturale
È quasi superfluo notare che le nuove realtà socio-economiche, le radicalmente mutate condizioni di vita, innescano dinamiche culturali, impensabili a priori. Così, si modificano nel profondo i quadri di riferimento ( gli “strumenti”, direbbe Vygotskij ) che fanno da referente nella costruzione di sistemi collettivi di significato o, sistemi di simboli, con i quali gli esseri umani conferiscono senso a propria esistenza e al mondo sociale [C. Geertz, Interpretazione di culture].
La discontinuità culturale ci indica più cose: 1)i fenomeni culturali sono costellazioni di significati contestualizzati, 2) per indagarli va studiato il contesto in cui si sono formati e il contesto di colui/coloro che li interrogano, 3) le condizioni storicamente determinate, o contesto, ci guidano verso una collocazione appropriata delle culture in una diacronia non uniforme e indifferenziata ma, al contrario, caratterizzata da rotture epistemologiche e/o cambi di paradigma [Kuhn], 4) la contestualizzazione delle culture non ci permette di pensare i passati con le categorie del presente, come se il mondo si fosse lentamente evoluto in modo omogeneo; anzi, la constatazione del cambiamento ci aliena qualsiasi tentazione di “stabilizzare” i fenomeni culturali estraendoli dal tempo e traendone una manualistica semplificatoria e absoluta.
La discontinuità introduce l’idea della instabilità dei fenomeni culturali, della loro modificabilità, mutevolezza, fluidità, privi di una sostanzialità forte, anche se pur tutta immanente (come vorrebbe lo strutturalismo e in primis Lévi-Strauss).
Le culture, così vengono a perdere i presunti caratteri di costruzioni chiuse, ripiegate su se stesse, che sarebbero in grado di forgiare completamente e in modo duraturo una persona (una prospettiva che piace ai fautori delle guerre di civiltà).
La discontinuità/cambiamento toglie il primato alle culture per restituirlo alle persone. Marco Aime ci ricorda che le culture in senso proprio non esistono: « Si tratta di espedienti retorici e analitici, di astrazioni formulate dagli studiosi per indicare a posteriori processi storici [sta parlando delle culture], ma utilizzare tali categorie per leggere la nostra realtà quotidiana può essere fuorviante. In questa realtà noi vediamo donne, uomini e bambini conoscersi, convivere, lottare, combattere. […] Dalle carrette del mare […] sbarcano disperati, non culture» [Eccessi di culture, p. 53].
In tempi di disgregazione sociale che facilita il riaffermarsi del razzismo e della xenofobia, il concetto di cultura - come quello di etnia - va usato con molta cautela per non rischiare di far passare l’idea di un mondo attraversato da una rete di confini invalicabili che dividono territori in cui dovrebbe vigere il più assoluto comunitarismo - secondo cui non ci sarebbero persone ma culture - per non cadere nella trappola della reificazione.
La voglia di comunità identitaria sta scombinando le menti di tutti i devoti d’occidente e d’oriente e ognuno brandisce la propria verità contro l’altro. Teniamoci a distanza.
5. La discontinuità attraversa le scienze sociali e la didattica delle scienze sociali
Le scienze sociali sono nate in seguito alla modernizzazione come indagini sulla contemporaneità. Il solo fatto del formarsi e dell’affermarsi di nuove scienze è già un atto di discontinuità, così come l’oggetto dello studio è conseguenza di un cambiamento d’ottica epocale: la società contemporanea (allo studioso) non era mai stata ritenuta degna di scienza.
La contemporaneità diventa invece la loro stessa ragione d’essere: conoscere vuol dire costruire strategie d’investigazione del mondo che abbiamo davanti, a noi contemporaneo.
Ma la contemporaneità è un concetto diacronicamente relativo: esiste il mondo con-temporaneo agli “inventori delle scienze sociali”, esiste il mondo con-temporaneo a noi. Tra i due “mondi”, la frattura che si è manifestata intorno agli anni ’70 del ‘900 si è andata approfondendo introducendo un fattore di netta discontinuità. La scienza sociale dell’Ottocento-prima metà del Novecento è una testimonianza socio-antropologica della modernità: la nuova epoca – la “post” – ha, dunque, richiesto una modificazione profonda delle strategie cognitive, dei concetti, degli oggetti/soggetti di studio privilegiati. Tra un Malinowski e una Callari Galli, tutti e due antropologi, non esiste nessun rapporto ( se non che Callari Galli ha studiato Malinowski), così come tra Weber e Bauman, ambedue sociologi, l’abisso di distanza è netto ( se non, ancora, l’omaggio che il secondo può fare del primo come grande interprete della sua società e costruttore di categorie concettuali della modernità). Il mondo è cambiato, gli scienziati sociali si sono dovuti ri-attrezzare, cambiando codici concettuali, categorie ma anche procedendo verso una sintesi originale tra sociologia e antropologia, poiché l’oggetto di studio – la società contemporanea – è diventato comune alle due scienze. E anche noi, insegnanti, dobbiamo di continuo ri-attrezzarci: ripeto, il senso dell’indirizzo è l’indagine sulla contemporaneità.
Le scienze sociali sono dunque contrassegnate da una doppia discontinuità – il loro formarsi e poi il loro ri-formarsi - che ne esalta il carattere non-definito tipico delle scienze “di relazione” che hanno per oggetto le modalità di vita di società e gruppi, insomma degli esseri umani in carne ed ossa: la discontinuità con la filosofia, la forma culturale delle società agricole o tradizionali o premoderne, è netta. Non si può dare scienza dell’uomo ma solo scienza degli uomini, e delle donne e dei bambini… e non per tentare di costruire una nuova ontologia “plurale” (la nuova moda filosofica) ma per studiare le relazioni, i rapporti sociali o, più in generale, interumani. « Se ogni scienza può essere definita come conoscenza di reti di rapporti, la forma del conoscere antropologico è allora da intendersi come l’interpretazione dell’incontro con l’altro: dell’incontro, non dell’altro» [G. Harrison, I fondamenti antropologici dei diritti umani]. E lo stesso può dirsi per una sociologia rinnovata che deve confrontarsi con una realtà in cui sono saltate tutte le coordinate della società industriale: è la fluidità dei rapporti intersociali che diventa centrale e assume carattere mondiale, sia perché le migrazioni stanno cambiando gli assetti delle società sia perché le stesse subiscono nuove disuguaglianze per una diversa allocazione di ricchezze e di povertà (i circa tre miliardi di poveri – condizione costante non accidente storico superabile - non possono non avere conseguenze nella riflessione delle scienze sociali), sia infine perché gli equilibri fra super potenze economiche stanno cambiando e il dominio economico che passa di mano, dagli USA a Cina e India, significa un bel colpo ai nostri schemi planetari (si vedano i libri, innovativi, di Rampini).
Scienze dell’incontro, scienze delle relazioni, scienze del cambiamento, scienze in cambiamento: esigenza di un insegnante di tipo nuovo, colto, aggiornato, auto consapevole, attento alla vita pubblica nazionale e internazionale, che dà vita a una nuova didattica adatta alla novità costituita dalle scienze sociali.
E’ qui che si gioca il destino del Liceo delle scienze sociali, perché è proprio il carattere fluido di queste scienze che rende il compito difficile, sia sul piano strettamente culturale sia su quello della prassi didattica: due livelli che costituiscono un tutt’uno inscindibile.
La “fluidità” delle scienze sociali pone la possibilità di attirare altre discipline, che per contribuire alla costruzione di piste di indagine debbono anch’esse assumere un carattere fluido, problematico, antidogmatico, non-certo (penso a diritto, economia, storia, scienze naturali. Sul diritto suggerisco Zagrebelsky, La virtù del dubbio, dove discutendo di diritto costituzionale si parla di universalismo e relativismo, diritto e cultura, positivismo e antipositivismo, pluralismo e multiculturalismo, ecc.: le scienze sociali sono chiaramente “espansive”). Le scienze sociali non possono essere semplicemente una disciplina tra le tante, affiancata alle altre, ma devono tentare di informare di sé tutto il curricolo liceale. L’asse culturale tradizionale retorico-letterario va sostituito con quello storico-antropologico: inneschiamo noi elementi di discontinuità, perché la sostituzione dell’asse culturale è foriera di cambiamenti radicali della cultura scolastica. Non solo l’ottica socio-culturale può modificare l’impostazione di quasi tutte le discipline, ma le scienze sociali, se sono scienze della contemporaneità, sono scienze del presente, dunque vanno direttamente a configgere con l’impostazione “passatista” della scuola italiana. Questo cenno al presente va ampliato e approfondito anche perché ha altre potenzialità, come ci suggerisce Callari Galli: «L’attenzione al presente […] esige la rottura di confini tra i diversi saperi. Essa richiede di organizzare le nostre conoscenze – e quindi quelle dei nostri allievi – per temi e problemi, superando le consolidate gerarchie disciplinari e andando a cercare nuovi percorsi e nuovi stimoli negli accostamenti più impensati» [Lo studio del presente].
Cambiamenti vasti è radicali che vanno affrontati pena il definitivo scacco della scuola: il tutto si gioca sulla capacità di collaborazione – a cui non siamo abituati, a cominciare dalla non-collaborazione che offriamo ai nostri allievi – e sul puntiglio dell’ aggiornamento continuo: l’insegnante di scienze sociali o è una persona colta che si sa mettere in gioco e in discussione, civilmente informata e coinvolta, o non è.
L’ignoranza semplicizza e banalizza, la preparazione culturale semplifica; l’ignoranza manualizza e verifica perché insegue i risultati, la preparazione culturale insegue i processi di apprendimento consapevole, che per quanto riguarda scienze completamente nuove ( che non hanno potuto costruire, come le altre discipline, una sorta di abitudine a una certa ottica costruita nelle elementari/medie) queste hanno bisogno di tempi lunghi di apprendimento e di verifiche mai sommative ma sempre formative, informali, quasi quotidiane, da costruire e correggere insieme, in classe. L’apprendimento è una co-costruzione, ben pensare è apprendere insieme [Morin].
Ma ci sono altre procedure specifiche che sempre implicano quella lucidità che si costruisce con una preparazione culturale in continua sollecitazione e revisione: la valorizzazione del dubbio, della non-certezza, della prudenza e della “pazienza”, l’abitudine all’approccio sotto forma di ricerca aperta e osservazione auto riflessiva, l’attenzione alle differenze prima tra di noi e poi tra noi e gli altri (noi facciamo fatica a riconoscere le “differenze degli altri” perchè non riconosciamo le differenze che ci sono tra di noi: così la scuola, anche senza maligne intenzioni, contribuisce a separare o assimilare – che sono due modalità solo apparentemente opposte).
Si potrebbe dire che, in buona sostanza, debba essere assunto il relativismo come guida didattica e culturale. Senza relativismo non ci sono scienze sociali, ma dogmi e certezze, senza relativismo non c’è processo di apprendimento co-costruito ma solo insegnamento (intrinsecamente autoritario, mentre l’apprendimento costruito insieme è strutturalmente democratico).
Il relativismo culturale non significa passività né indifferenza o accettazione supina di qualsiasi formazione culturale: al contrario, è critico, “ben temperato” [Cassano] dalla riconduzione delle culture alle persone e alla loro centralità culturale ( ricordiamo che “sbarcano disperati, non culture”), convive con regole e scelte ma ne contesta l’assolutezza. « […] il relativismo è quell’atteggiamento per cui l’Occidente fa esperienza dell’incertezza di sé e della limitatezza della propria immagine del mondo, l’universalismo è quello che, non essendo mai scosso dal dubbio, ama proporsi come regola universale» [F. Cassano, Per un relativismo ben temperato]. Il relativismo non è una sovrapposizione ideologica alle culture ma, al contrario, aderisce alla loro struttura che è sempre multiculturale: il relativismo porta alla luce la qualità multipla delle culture, che sono persone che agiscono culturalmente. Se le culture sono multiple e mutevoli l’atteggiamento relativistico aiuta a creare ponti, contatti, incontri che avvengono tra persone, non certo tra astratte e deificate culture (che sono nella testa dei politici devoti e dei cattivi maestri).
Questo è un nodo centrale che non può essere eluso. La sequenza formata dall’abbandono, ben controllato e ben temperato delle certezze (non si va allo sbando ma si lavora secondo un’epistemologia della relazione) e dalla costruzione di una didattica coerente, implica l’assunzione del relativismo per la sua valenza scientifica (è l’unico che ci permette di metterci in contatto con la varietà relazionale) ma anche per il suo valore umanistico: diamo un’anima al nostro indirizzo.
6. Scuola e contemporaneità
Un ultimo punto solo per porre una domanda: perché la scuola (a partire da quella italiana) viene normalmente esclusa dalle indagini sulla contemporaneità, mentre potrebbe diventare un laboratorio di ricerca (e di consapevolezza) formidabile?
Si pensi alla problematica centrale moderno/postmoderno. La scuola è un’istituzione nata nella modernità e che ne mantiene le caratteristiche in un’età post: non sarà anche per questo motivo che la scuola italiana sta diventando produttrice di analfabeti? Calcoli accurati da parte di De Mauro danno questi dati: 2 milioni di analfabeti totali, 15 milioni di semianalfabeti, 15 milioni a rischio di analfabetismo di ritorno, a fronte di una frequenza della quasi totalità della popolazione giovanile nelle elementari- medie e di un numero rilevante nel biennio superiore [ La cultura degli italiani].
Temiamo di mettere i piedi nel nostro piatto?
Bibliografia dei testi citati (o evocati) dalla relazione
F. Pompeo, Il mondo è poco. Un tragitto antropologico nell’interculturalità, Meltemi, Roma, 2002
M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra, trad. it. Bompiani, Milano, 1980
M. Harris, Cannibali e re, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1988
N. Martino, L’osservazione in antropologia, in C: Ziglio R. Boccalon, “Lei vede ma non osserva …”, UTET, Torino, 1996
L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari, 2000
D. Cohen. Tre lezioni sulla società postindustriale, trad. it. Garzanti, Milano, 2007
M. Augé, Nonluoghi, trad. it. Eléuthera, Milano, 1993
P. Jedlowski, Il mondo in questione, Carocci, Roma, 1998
F. Rampini, L’impero di Cindia, Mondatori, Milano, 2006
U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 1999
M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004
M. Aime, Gli specchi di Gulliver. In difesa del relativismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2006
F. Cassano, Per un relativismo ben temperato, in AA. VV., Il ritorno dell’etnocentrismo, MAUSS # 1, Bollati Boringhieri, Torino, 2003
C. Geertz, Interpretazioni di culture, trad. it. il Mulino, Bologna, 1998
U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, trad. it. Einaudi, Torino, 2000
Z. Bauman, Modernità liquida, trad. it. Laterza, Roma-Bari, 2002
J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, trad. it. Einaudi, Torino, 1998
G. Harrison, I fondamenti antropologici dei diritti umani, Meltemi, Roma, 2001
L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, trad. it. Giunti Barbera, Firenze 1984
E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, trad. it. Cortina, Milano 2001
Th. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it. Einaudi, Torino, 1978
M. Callari Galli, Lo studio del presente, in “Iter”, n. 6, settembre-dicembre 1999
R. Gallissot- M. Kilani- A. Rivera, L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari, 2001
C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, trad. it. Einaudi, Torino, 1967
G. Zagrebelsky, La virtù del dubbio, Laterza, Roma-Bari, 2007
T. De Mauro, La cultura degli italiani, Laterza, Roma-Bari, 2004
PROPOSTA DI STATUTO DELL’ ASSOCIAZIONE DI SCUOLE IN RETE
«Passaggi. Le scienze sociali in classe»
COSTITUZIONE
Art. 1
DURATA
Art. 2
SCOPI
Art. 3
INIZIATIVE E MODALITÀ ORGANIZZATIVE
ART. 4
DIFFUSIONE DELLE ESPERIENZE
ART. 5
Art. 6
PATRIMONIO
Art. 7
SOCI
Art. 8
ORGANI DELL’ ASSOCIAZIONE DI SCUOLE IN RETE
ART. 9
ASSEMBLEA
Art. 10
Art. 11
Art. 12
Art. 13
Art. 14
Art.15
AMMINISTRAZIONE
Art. 16
Art. 17
Art.18
Art. 19
Art. 20
Art. 21
Art. 22
Art. 23
UFFICIO DI SEGRETERIA
Art. 24
COLLEGIO DEI REVISORI
ART. 25
Art. 26
GESTIONE DEL BILANCIO
ART. 27
Art. 28
SCIOGLIMENTO E DEVOLUZIONE DEL PATRIMONIO
ART. 29
Art. 30
Art. 31
L’Area dello Stretto di Messina è un'area cuspidale dove culture, antropologie nei secoli si sono incontrate e confuse con una natura assai varia e ricca di biodiversità e geodinamicità. La forza simbolica ed evocativa di quest’area è evidente. Pochi chilometri sono un laboratorio naturale di tutto il Mediterraneo e insieme uno dei più importanti nodi delle culture mitologiche classiche. Non a caso l’area dello Stretto di Messina è il baricentro di un importantissimo sistema di aree protette, riserve naturali e Parchi naturalistici: i Nebrodi, l’Aspromonte, l’Etna, le Eolie, l’Isola Bella, la laguna di Ganzirri e di Marinello, ecc.
Saperi scientifici e umanistici sono qui fortemente interdipendenti ed il loro confine nella storia non può essere rigidamente delineato. Per alcuni aspetti lo Stretto di Messina è da sempre uno spazio complesso, fortemente caratterizzato dalla pluralità degli approcci conoscitivi. La varietà e la ricchezza dei microclimi, dei sistemi ambientali e dei mondi vitali che qui vivono si intrecciano in modo interdipendente con la vita delle comunità, che da millenni abitano questi spazi, e con la loro capacità di costruire modelli di rappresentazione, poetiche, segni.
In questi luoghi paradigmatici del Mediterraneo la Fondazione interuniversitaria Horcynus Orca ha promosso un omonimo parco culturale a carattere interdisciplinare. Il complesso monumentale di Capo Peloro, il Castello dei Ruffo e la ex stazione ferroviaria a Scilla, la piattaforma off shore Kobold (primo prototipo al mondo per la produzione di energia dalle correnti marine) sono le sedi principali. Sin dalla premessa iniziale del progetto è stata proposta l’idea di nessi culturali e di labirinto quali metafore del Parco e quali possibili chiavi di lettura del romanzo laboratorio cui il Parco si ispira. Il progetto, infatti così come il romanzo, coinvolge un sistema complesso di saperi (dalla Biologia marina, alla Fisica del Caos, dalle scienze naturali all’Archeologia, dall’Arte alle Scienze della terra, dalla letteratura all’antropologia, dalla sapienza dei pescatori alla ecologia marina) che costituiscono la grammatica e la sintassi di questo spazio millenario: lo scill’e cariddi.
Il Parco Horcynus Orca è pensato come un organismo vivente sempre nuovo, un sistema di relazioni in continua osmosi fra saperi ed esperienza. Esso costituisce un ponte innovativo fra ricerca scientifica, innovazione tecnologica, linguaggi creativi, incontri fra culture, sperimentazione di economie solidali e divulgazione partecipata. Il Parco, fedelmente all’impostazione epistemologica data e ai contenuti sviluppati, si propone come una sorta di ipertesto reale dove il viaggiatore può disegnare un proprio percorso di ricerca e di fruizione personalizzato.
Oggi tre sono le aree di impegno fra esse correlate per avviare processi di internazionalizzazione:
Per costruire una ricaduta educativa dei processi di ricerca e di internazionalizzazione del Parco, la Fondazione ha promosso percorsi di democrazia locale secondo la metodologia dei Territori Socialmente Responsabili (TSR®) ed un Patto educativo, capace di coinvolgere le università, le scuole e le agenzie formative istituzionali, formali ed informali del territorio.
IL PATTO EDUCATIVO: OBIETTIVI E METODOLOGIA
Il Patto educativo è finalizzato alla promozione di un sistema di agenzie educative e culturali formali ed informali dei territori di Messina e di Reggio Calabria con l’obiettivo di:
L’idea che sta alla base della proposta di Patto Educativo è quella di promuovere la condivisione e la circolazione delle esperienze in campo educativo, pedagogico, socio-culturale ed ambientale per costruire “spazi educativi diffusi” in cui ciascun adulto può (deve… ) farsi ausilio dell’evento del crescere, e divenire, nell’incontro con il crescente, educatore nel senso più largo. La Scuola, se si apre al territorio ed a ciò che esprime, quando incontra gli altri attori sociali può divenire volano di sviluppo di spazi educativi diffusi.
Tra la responsabilità educativa e l’agire educativo contestualizzato occorre mettere in cantiere meccanismi, mediatori, dispositivi… capaci di sintetizzare i processi e di trasformare in pratiche le intenzioni. Dispositivi, capaci di esplicitare anche soltanto gli orientamenti generali dell’educare o di produrre prime coerenze nel plurivoco agire educativo.
A tal fine, durante la fase sperimentale del Patto educativo (anno scolastico 2006/2007), i docenti delle scuole aderenti al Patto hanno elaborato – con l’aiuto di esperti – quello che è stato definito il Compositivo (Dispositivo) Educativo (CE).
Si tratta di un modello che può aiutare la Scuola a sviluppare un diffuso e coerente agire educativo per costruire ambienti e favorevoli condizioni di crescita.
Ecco così che il Compositivo, sulla scorta di un condiviso ripensamento dei “principi dell’educare”, si definisce nel riuscire a pre-ordinare coerenze di comportamenti, stili, atteggiamenti, attenzioni, pratiche, routine, ri-orientamenti ora costantemente “in azione”, ora “pronti ad agire” a certe condizioni, in certe occasioni.
Così, mentre il “progetto” mette in ordine azioni e strategie in vista di obiettivi da
raggiungere, il “dispositivo” lavora nel quotidiano interagire educativo, quasi senza obiettivi, e regolando processi, esperienze… in vista di fini.
Nel primo anno di sperimentazione si è provato a sviluppare il Compositivo Educativo intorno ad alcuni (S)nodi, rispetto ai quali, durante l’anno scolastico corrente si stanno sviluppando laboratori di approfondimento sia per docenti che per studenti e altre azioni complementari. Tra questi:
leggi anche il saggio “Dispositivo educativo - Strutture ed altro, nel con-venire e nell’inter-venire della responsabilità educativa” a cura di Mario Schermi (metodologo del Patto educativo dello Stretto)
Gaetano Giunta
Studioso di fenomeni e sistemi complessi – esperto internazionale di politiche ed economia sociale, presiede oggi Ecos-Med e la fondazione inter-universitaria Horcynus Orca (centro internazionale sui saperi e sulle tecnologie marine sotto l’egida dell’UNIDO/ONU) ed è delegato responsabile della rete europea REVES per lo sviluppo in Europa dei Territori Socialmente Responsabili. Sono più di 100 i progetti sociali complessi da lui progettati e coordinati e oltre 30 le pubblicazioni a carattere internazionale, con un impact factor medio di 1.9.
Le immagini di questa pagina sono di Alessandro Grussu
di Enza Colatutto
Il tema della responsabilità mi affascina da tempo, ma è diventato punto di riferimento delle mie riflessioni, proprio da quando ho iniziato a insegnare nel curricolo delle scienze sociali.
Nel mio pensiero l’ho quasi sostituito con quello più freddo di professionalità, a cui pure riconosco molti meriti, e aggiungo nelle mie solitarie riflessioni il concetto complesso di maestro.
Vorrei seguire un percorso puramente didattico/disciplinare, ma non so se sono in grado di farlo, perché numerose sono le suggestioni e/o le interferenze che mi colgono, quando cerco di sistematizzare il mio fare scuola.
Il programma, da attuarsi in una classe delle scienze sociali, va costruito anno per anno, sia pur con quella forte quanto ovvia distinzione tra biennio e triennio, infatti anche nelle classi in cui meglio ti sembra di comprenderne la globalità, anzi proprio in quelle, è talvolta peggiore il rischio di semplificare o di farsi prendere da slanci di ottimismo. Ecco perché non è né semplice, né scontato, attuare un’attenta osservazione delle modalità con la quale gli studenti scelgono tra una conoscenza o un’altra o quando sembrano non scegliere mai, valutare i loro risultati, se non addirittura le loro sensibilità personali e di gruppo.
Nel curricolo delle scienze sociali ci muoviamo in base a dei macro obiettivi finali fissati nell’ambito della lettura della società e della capacità di relazionarsi anche in situazioni complesse, con l’uso di metodologie della ricerca specifiche, coerenti, scientifiche, all’interno di una contestualizzazione storico antropologica. Questo, nella profonda consapevolezza che il sapere non si misura in termini quantitativi e che ogni apprendimento modifica i soggetti attivi o passivi e l’apprendimento stesso.
Punti di snodo
Responsabilità - essere presenti, farsi carico dell’errore
Maestro – “Maestro è chi, arrivato prima, ci chiede di raggiungerlo anche se la via dobbiamo trovarla da noi” [1] e ci aiuta a trovare la strada per continuare a cercare quello che è giusto.
Fare scuola – essere maestri “E come non si può fare i corazzieri se si è alti un metro e cinquanta, cominciamo a chiederci perché si può insegnare per il solo fatto di possedere una laurea, senza alcuna richiesta in ordine alla competenza psicologica, alla capacità di comunicazione, al carisma. Sì, proprio il carisma.” [2]
Essere lenti – il tempo dell’ascolto, il tempo per osservare, il tempo del fare e del non fare
Competenze – tutto quello che penso di poter essere capace di fare bene
Conoscenza di sé – non aver paura nel raccontare se stessi
Codici alfabetici – attraversare linguaggi, non temere la scrittura collettiva
Il pensiero – costruzione di una dimensione individuale e collettiva, un luogo dell’anima e/o un luogo del gruppo
La relazione – ritrovare il senso di comunità
Vorrei non abbandonarmi alla metafora del viaggio, ma continua a prendermi per mano, siamo troppo spesso viaggiatori in situazioni di fortuna, anche quando la navigazione sembra procedere sicura e spedita, è così che ho imparato a ricercare la realtà, ho compreso che la costruzione della mappa deve essere collettiva, che fondamentale è la relazione di fiducia, la nascita di reti di senso, le tappe intermedie hanno spesso il sapore della casualità, “il caso favorisce le menti già preparate” sentenzia Pascal nei suoi Pensieri.
La guida è il maestro? Qualcuno quindi che quel viaggio lo ha già compiuto, sia pure con diversi mezzi e strumenti, e ora può indicare la strada nei momenti di smarrimento, ma anche essere capace di mettere in ipotesi altre rotte, altre soste. Qualcuno che ci aiuti anche a essere lenti “.. perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada.” [3]
Se è vero che le competenze si costruiscono sulla base delle conoscenze e queste si valutano sul loro padroneggiamento, è altrettanto vero che la prima e indispensabile conoscenza di sé, ha per competenza applicata la capacità di raccontarsi, per dirla con Duccio Demetrio, “ ..la biografia è una faccenda seria, molto seria” [4]
Il raccontarsi, dunque, come viaggio formativo, come avventura culturale e umana.
Attuare questo con un gruppo di adolescenti vuol dire essere disposti a viaggiare in universi astratti e lontani in quanto scarsamente verbalizzati, essere curiosi e interessati a tutte le esplorazioni, a tutte le domande, essere arditi.
Nella mia esperienza, in questo percorso si incontrano diversi livelli sia di narrazione, sia di conoscenza.
In un primo livello si afferma con evidenza che i rapporti tra noi stessi e gli altri e tra noi stessi e l’ambiente sono di assoluta incomprensione, gli eventi sono sbiaditi, superficiali, tutto è ricondotto al soggetto, per salvarlo si ama o si odia, quasi impossibile la rielaborazione. Soltanto in successivi livelli si analizzano i rapporti e le cause, si inizia a sperimentare, vorrei dire che si ha meno paura, si è più sicuri, ci si avvale dell’ esperienza, l’altro si può guardare, si può osservare, ci si avvicina al suo confine, ma essendo comunque ancora ben certi di non doverlo varcare.
La fase successiva è quella etica, di comprensione, qui si ha coscienza dell’incertezza, tanto è il lavoro quanto lontano è il risultato, si abbandona l’atteggiamento speculativo per appoggiare un pensiero in costruzione, fondato su modelli che sono da mettere in opera, “…il mondo umano messo ovunque a confronto con le incertezze, è trascinato in una nuova avventura… La conoscenza è dunque proprio un’avventura incerta, che comporta in se stessa e permanentemente il rischio di illusione e di errore.” [5]
Comprendo ora, come solo a organizzarlo questo cammino appaia strampalato, si propone di andare non si sa dove, non si sa bene con quali mezzi, chiede di abbattere paure, pregiudizi, diffidenze senza indicare con sapienza come potranno essere sostituiti. La proposta che prende forma è di lavorare con un pensiero debole, associare la debolezza all’etica, anzi farne una forma di etica accanto alla dimensione della scelta e a quella della responsabilità.
“Inventare comportamenti inadeguati a modelli inadeguati è diventata infatti la nostra paradossale situazione esistenziale, nell’attesa di poter sostituire nuove strutture e relazioni a quelle già superate.” [6]
In questa fase la lettura e in generale l’uso di codici alfabetici è fondamentale:
“Ad un certo punto della storia la gerarchia dei sensi fu infatti modificata dalla scoperta della scrittura – forse la prima vera rivoluzione cognitiva della storia … costituì una vera e propria svolta per la vita dell’intelligenza, che fu ricchissima di conseguenze … rese disponibile una sorta di straordinaria memoria, individuale e collettiva, in cui si poterono conservare informazioni che prima si dovevano conservare a mente.” [7]
Si assiste all’integrazione di una precedente gerarchia dei sensi, importante per addentrarsi all’interno delle proprie conoscenze, ma che ora va superata in nome della elaborazione di un metodo, un processo cognitivo che possa orientare la ricerca e lo studio, inoltre l’esperienza acquisita e accertata entra di prepotenza nella relazione cognitiva.
La conoscenza, ci ricorda sempre Morin, deve essere costantemente rivisitata e riveduta dal pensiero, questa è la vera sfida, riappropriarsi del pensiero, quindi il viaggio ha ora una meta chiara, un porto al quale approdare.
In questo viaggio siamo stati costretti a ipotizzare ambienti, luoghi, eventi, atti, comportamenti, a considerare diverse dimensioni del tempo, il tempo delle cose, il tempo della vita, il tempo dell’anima, cioè il tempo cognitivo
“Ciascuno di noi vive la sua vita, ha il suo corpo, i suoi ricordi, le sue inclinazioni, le sue conoscenze, i suoi affetti. Ciascuno di noi conferisce di volta in volta unicità a un certo numero di cose e a un certo numero di persone. Ciascuno di noi individua un suo mondo, un frammento di realtà sotto il cono di luce della sua attenzione. Il mio qui e ora è ciò che sta sotto il cono di luce della mia attenzione in questo istante, ed è unico” [8].
Vorrei aggiungere un presupposto fondamentale appreso da Gregory Bateson:
la mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata [9], e se ancora qualcuno ha voglia di seguirmi in questo viaggio, appare in tutta la sua evidenza che qui più che una guida serve un maestro, cioè qualcuno che si faccia carico della visione completa del viaggio, dotato di intuizione, di immaginazione nella comprensione della realtà, che abbia voglia di rischiare, che sappia fare propria l’essenza del concetto di responsabilità dalla partenza all’arrivo, che sappia non perdere ciò che ha trovato e quello che ha incontrato e abbia memoria dei fallimenti ai quali si è andati incontro, delle perdite subite.
Un rapporto di fiducia? No, la parte essenziale della relazione è nella capacità di essere ascoltatori e osservatori, nella necessità di un rapporto empatico, unica chiave per essere con i viaggiatori.
Ecco perché rievoco il termine maestro, parola desueta, forse romantica, di de amicisiana memoria, non so, mi torna in mente un film “Essere e avere” di Nicolas Philibert, vi si narra dei giorni di una scolaresca e del loro maestro e dell'esistenza di una comunità, altra bellissima parola/contenitore, di un'umanità che attraversa le stagioni tra il lavoro e le piccole cose di tutti giorni, film che, come ha scritto recensendolo il quotidiano francese Liberation, è un elogio del lavoro di insegnante, un mestiere che, l’avevamo dimenticato, è il più bello del mondo.
Porti di approdo
“Ci sono le emozioni e c’è il pensiero, c’è la vita emozionale c’è la vita della ragione; e solo nella misura in cui ci sia concordanza e conciliazione fra l’una categoria e l’altra è possibile avvicinarsi ai problemi conoscitivi ed esistenziali senza squilibri … Non c’è, così, alcuna conoscenza, alcuna esperienza, nella vita che non sia accompagnata da una tensione emozionale: premessa a ogni utilizzazione delle conoscenze acquisite razionalmente.”
Eugenio Borgna, L’arcipelago delle emozioni.
“… credere in un’unità biologica o culturale, o nella loro identità, definirsi come individui rispetto a se stessi, rispetto all’esperienza, in ognuno di questi casi operiamo una scelta etica. Ma la scelta che facciamo è legata intimamente alla nostra vita, alla nostra storia, alla nostra cultura, alla nostra esperienza: è dunque anche una scelta cognitiva. Uno dei momenti più pregnanti in cui questi due momenti, l’etico e il cognitivo, sono più che interconnessi è il momento della decisione.”
Donata Fabbri, Strategie del sapere (op. cit.)
“Per dare una fisionomia familiare a ciò che familiare non è, è necessario mettere in moto i due meccanismi di un processo di pensiero basato sulla memoria e su risultati scontati. Il primo meccanismo si sforza di ancorare le idee insolite, di ridurle a categorie e immagini ordinarie, di porle in un contesto familiare… Scopo del secondo meccanismo è di oggettivare queste idee, cioè di trasformare qualcosa di astratto in qualcosa di quasi concreto, di tradurre ciò che è nella mente in qualcosa che esiste nel mondo fisico. … Dal momento che le rappresentazioni sono create da questi due meccanismi, è essenziale che ne comprendiamo il funzionamento."
Serge Moscovici, Le rappresentazioni sociali.
“Negli studi vengono sempre sviluppate le facoltà discorsive e rappresentative, mai la facoltà intuitiva. E tuttavia anche questa deve essere sviluppata”
Simon Weil, quaderni III
"Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento è un pensiero, e così ogni momento è in certo modo un atto di desiderio, e altresì un atto di speranza."
Giacomo Leopardi, Zibaldone.
"
Chi fa un ritratto, dipinge se stesso. L’importante, perciò, non è il modello ma il pittore, e il ritratto varrà solo quanto varrà il pittore, non un atomo di più."
Josè Saramago, Manuale di pittura e di calligrafia.
“Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte. Sono sposato con la stessa donna da quarantadue anni: rivendico un briciolo di competenza, in fatto di compromessi”.
Amos Oz, Contro il fanatismo.
Infine:
La critica che faccio prima di tutto a me stessa, è che non sono riuscita a inserire la logica e la dimensione del lavoro collegiale, del consiglio di classe, e/o del dipartimento (nelle scuole in cui questi esistono, alla fine, sostituiscono gli incontri per materia!). E su questo non so rispondere, anche perché non riesco ad accettare mediazioni rispetto alla comprensione del tutto, mentre è ovvio che sia rispetto alle ore di compresenza, sia all’organizzazione dello stage e a quella delle attività comuni con appoggio esterno, lavoro con correttezza e serietà, cercando anche di contenere le ansie da prestazione che girano un po’ a tutti i livelli. Detto questo mi contraddico subito, perché non avrei mai messo nero su bianco queste riflessioni e quindi scritto questo intervento, se un collega prezioso non mi ci avesse quasi costretta e di questo lo ringrazio.
Enza Colatutto
[1] Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati Boringhieri, Torino 2007
[2] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli editore, Milano 2007
[3] Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996.
[4] Duccio Demetrio, Il gioco della vita, Guerini e Associati, Milano 1999.
[5] Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina Editore, Milano 2001
[6] Donata Fabbri, Alberto Munari, Strategie del sapere, Dedalo Edizioni
[7] Raffaele Simone, La terza fase, Laterza, Roma-Bari 2000
[8] Edoardo Boncinelli, Tempo delle cose, tempo della vita, tempo dell’anima, Laterza, Roma-Bari 2006
[9] Gregory Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano 1984..