Una domanda cruciale
L’ultima giornata di lavori si apre con la ratifica di quanto deliberato nella seduta informale di giorno 2 Aprile 2008, di cui viene letto il verbale.
Firmato alla presenza del notaio lo statuto da parte dei dirigenti delle scuole “E. Ainis” di Messina, “L. Ariosto” di Ferrara, “A. Manzoni” di Suzzara (MN), “Pacifici de Magistris” di Sezze, componenti il Consiglio direttivo, risulta istituzionalmente costituita l’Associazione “Scuole in Rete Passaggi”, presieduta dal dirigente scolastico prof.ssa A. Stancanelli del Liceo “E. Ainis”di Messina, sede sociale dell’Associazione di cui da questo momento faranno parte non solo le scuole firmatarie, ma tutte quelle iscritte in Rete.
Si passa quindi alla lettura ed approvazione del documento conclusivo dell’Associazione nazionale Rete “Passaggi”.
Tavola rotonda sul tema:
La comunicazione nella scuola e sulla scuola
Introduce e coordina il prof. G. Ramires giornalista, pubblicista e docente del Liceo “E. Ainis”.
Presentando l’incontro come conclusione e culmine di dibattiti che nelle precedenti giornate sono stati fatti su una nuova idea e prassi di scuola, il coordinatore si sofferma sull’argomento della tavola rotonda che vuole essere una riflessione sulla possibilità di integrare con l’esterno la circolazione di idee, di formazione e di metodi che avviene dentro la scuola. Sottolinea che il rapporto tra scuola e informazione, non sempre tenuto nella giusta considerazione, è difficile ma possibile. Vengono quindi presentati i professori e i giornalisti che parteciperanno alla tavola rotonda: Lucia Marchetti, formatrice e responsabile del sito web “Passaggi”, Marina Boscaino, docente e redattrice de “L’Unità”, Augusto Cavadi, docente redattore de “La Repubblica” di Palermo, Mario Cavaleri della “Gazzetta del Sud”.
Marina Boscaino prende la parola ricordando che la sua esperienza di giornalista di politica scolastica è stata parallela al tentativo di scardinamento della scuola pubblica portato avanti dal centro-destra e dalla riforma Moratti.
Il punto di vista sulle politiche scolastiche è però cambiato nel 2006 con il ministro Fioroni.
Ciò che non è cambiato è invece il fatto che sui giornali si occupano di scuole giornalisti che non hanno esperienza diretta del mondo scolastico. Il settore scuola è stato considerato come luogo geometrico in cui si concentrano delle negatività portatrici di criticità. L’informazione si concentra cioè su aspetti negativi riguardanti il bullismo, l’assenteismo degli insegnanti, i tentativi di violenza sessuale. Insomma, l’immagine che la stampa dà della scuola è desolante.
Su questo concorda anche la prof. Lucia Marchetti che dal 1974 si occupa di sperimentazioni volte a fare una scuola diversa. Ella ribadisce che è arrivato il momento di dare visibilità all’impegno di una Rete di scuole che condividono impostazione e curricolo, finanziano un sito e vogliono proporre un tipo diverso di professionalità. Da anni si fa una scuola diversa da quella presentata sui giornali: non ci sono solo le cifre dell’emergenza che documentano i risultati negativi degli studenti, c’è anche il lato positivo che sui giornali non emerge. Pertanto è significativa la scelta di chiudere i lavori del convegno con la presenza dei giornalisti.
Difficile ed episodico viene considerato il rapporto tra scuola e mondo dell’ informazione anche dal giornalista Mario Cavaleri. E’ vero che la stampa si occupa del mondo scolastico solo in presenza di eventi negativi, ma è anche vero che la scuola dialoga poco con il mondo dell’informazione. Non serve imputare i malesseri della scuola alla destra o alla sinistra, importante è invece che la scuola diventi soggetto attivo e a tal fine nell’autonomia si potrebbe trovare nuova carica propulsiva. Al di là della logica di destra o di sinistra, la scuola è, infatti, pilastro fondamentale da cui vengono fuori tutte le professionalità.
Prende quindi la parola il prof. Augusto Cavadi, insegnante e pubblicista al tempo stesso, che pone l’attenzione sul doppio sguardo con cui può essere considerato il rapporto scuola-stampa: lo sguardo del cronista e quello dell’opinionista. I punti di vista sono infatti diversi in quanto il cronista cerca il caso sensazionale anche esagerando, l’opinionista invece interviene sui problemi della scuola. D’altro canto la scuola si rapporta alla stampa sia in modo negativo sia in modo positivo. Il primo è quello della scuola che cerca pubblicità per scopo propagandistico puntando sull’immagine e non sulla sostanza. Legittimo è, invece, il fatto che la scuola voglia presentare sostanzialmente ciò che fa per influenzare il territorio. E’ importante far sapere come si lavori, pubblicizzare gli input positivi, ma è giusto altresì registrare il “marcio” della scuola. Cavadi conclude dicendo che bisognerebbe pretendere una maggiore e più adeguata selezione nel reclutamento dei docenti.
Il prof. Ramires propone, quindi, di riflettere sul rapporto tra sperimentazione e tradizione. Un eccesso nelle sperimentazioni viene evidenziato dalla prof.ssa Marchetti che sottolinea l’importante lavoro delle scuole di Scienze Sociali che da trent’anni lavorano sul territorio. Ribadisce, inoltre, la necessità di un lavoro di gruppo perché l’insegnante singolo non può fare formazione.
E’ essenziale che un paese civile investa su un modello di scuola civile, dice la prof.ssa Boscaini. Sottolineando la sostanziale differenza che intercorre tra l’idea di scuola di destra o di sinistra, la giornalista sostiene che la seconda è quella che mira a rimuovere gli ostacoli, integra le differenze, investe nelle zone a rischio, rendendo operativo quanto si legge nella Costituzione Italiana (artt. 3-33-34). Significativo a tal proposito è quanto è stato fatto riguardo all’obbligo scolastico. Purtroppo oggi esiste un forte scollamento tra amministrazione ed istruzione. Viene ribadita inoltre la necessità di una totale riforma dell’istruzione, dei paradigmi di scuola anche attraverso la formazione dei docenti il cui ruolo non è solo trasmettere contenuti. Solo così si potrà attuare una scuola che sappia formare persone capaci di decodificare la realtà criticamente.
L’innegabile necessità di riforma, secondo Cavaleri, è legata all’attuale disastro della scuola italiana indietro rispetto agli altri paesi europei. Attraverso l’autonomia la scuola deve fare di più, far sentire meglio la propria voce e tale esigenza non è questione di visibilità.
Su questa necessità, invece, insistono i docenti: in particolare intervengono nel dibattito la prof.ssa Clemenza e la prof.ssa Florio che sottolinea quanto sia delicata e difficile la relazione educativa e quanto su di essa incida l’immagine che l’opinione pubblica ha della scuola.
L’opportunità di fare anche cultura politica, presentando agli studenti le varie proposte ideologiche, è ribadita dal prof. Cavadi.
Non si può parlare di scuola prescindendo dalla destra o dalla sinistra, sostiene nel suo intervento l’ispettrice Sgherri che sottolinea la stretta connessione che c’è tra scuola e concezione della società e la necessità di un confronto reciproco con l’informazione.
Ciò che si fa a scuola deve transitare nella stampa, dice la prof.ssa Boscaino. L’informazione deve parlare della scuola laica, pubblica e pluralista, ma non deve presentare solo i dati scandalistici.
A scuola si fanno cose importanti che però, come sostiene la prof.ssa Marchetti, non trovano nella stampa una “cassa di risonanza”. Ma se la stampa non parla del mondo scolastico, si chiede il prof. Cavadi, è colpa dei giornalisti o della scuola?. Forse potrebbe servire realizzare un ufficio stampa nella scuola e attuare laboratori di scrittura giornalistica .
Anche questo potrebbe essere utile per una più funzionale comunicazione tra scuola e mondo dell’informazione.
Conclusioni
I lavori si concludono con l’indicazione della probabile prossima sede del convegno da scegliere tra l’Istituto “Fiore” di Terlizzi (BA) e l’Istituto “S. Giovanni” di Valdarno (AR).
Il tema, su proposta della prof.ssa Clemenza, potrebbe essere la “narrazione” del curricolo, ovvero la riflessione sul senso dell’indirizzo di Scienze Sociali attraverso una sua rivisitazione in chiave scientifica.
La scuola e le altre istituzioni del territorio
Patto educativo e capacitazione delle comunità locali
Gaetano Giunta, docente di fisica e responsabile parco Horcynus Orca
Dopo una riflessione sull’impatto sociale e culturale della rivoluzione delle scienze fisiche e matematiche, il relatore si concentra sul problema dell’educazione, particolarmente importante in un momento in cui la scuola rischia di diventare “un grande supermercato”. In tale compito il Parco Horcynus Orca è coinvolto insieme alle altre agenzie educative aderenti al Patto educativo dello Stretto. Quest’ultimo -chiarisce prima ancora di illustrarne obiettivi e finalità- nasce dall’idea di integrare l’educazione preriflessiva, ovvero capace di riconoscere, con quella, non meno importante, irriflessiva legata al gesto, al segno di accoglienza.
Illustra quindi ai convegnisti, ospiti dell’Horcynus, le ragioni per cui lo Stretto può essere assunto come paradigma della complessità che costituisce, peraltro, il tema privilegiato del convegno.
L’area dello Stretto è infatti luogo di incontro tra culture diverse che si innestano in una natura ricca di biodiversità e geodinamicità in cui saperi scientifici e i saperi umanistici rivelano la loro assoluta interdipendenza. Lo Stretto richiede pertanto una pluralità di approcci conoscitivi e può diventare un laboratorio per studiare le interconnessioni. Esso si propone come un ipertesto reale e non virtuale in cui è possibile realizzare percorsi di ricerca personalizzati.
Lo Stretto, continua il relatore, è uno spazio in cui sono presenti testimonianze risalenti alla cultura neolitica e baricentro dell’immaginario classico che evoca, anche attraverso i miti, fenomeni naturali di grande potenza, come i vortici prodotti dall’incontro tra il Tirreno e lo Ionio. Esso è un paradigma del Mediterraneo in quanto ospita il 95% delle specie vegetali e animali; è inoltre luogo di transito di uccelli migratori e dei delfini.
E’pertanto un’area da proteggere per tutelare gli equilibri ecologici del Mediterraneo, è uno spazio da esplorare in quanto, ribadisce Gaetano Giunta, “palestra straordinaria per studiare le interdipendenze”.
La fondazione interuniversitaria Horcynus Orca ha promosso in questo spazio millenario la creazione di un omonimo Parco culturale, che si articola su tre sedi (Messina, Scilla e la piattaforma off shore Kobold) e che coinvolge un complesso sistema di saperi, esperienze ed espressioni che vanno dalla biologia marina alla fisica, dalle scienze naturali all’arte, nella varietà delle sue espressioni, dall’antropologia all’archeologia.
Le attività promosse all’interno del Parco gravitano intorno ad alcune di impegno fondamentali che mirano a coinvolgere il territorio e contemporaneamente avviare processi di internazionalizzazione. Esse possono essere individuate: nella creazione di un Centro Internazionale sulle Scienze e sulle Tecnologie marine orientato verso azioni di ricerca sulla possibilità di produrre energia dalle correnti marine; nell’attenzione riservata alle culture del Mediterraneo, attraverso la Scuola Internazionale del cinema, l’Horcynus festival, la Biennale dell’Arte Contemporanea del Mediterraneo; nel polo di divulgazione scientifica e di turismo culturale ed educativo.
Le attività del Parco si fondano sull’integrazione di più linguaggi in vista dell’educazione alla complessità. Si pensa alla costituzione di un parlamentino civile della cultura, dell’arte, delle estetiche e dell’economia. Le estetiche, afferma infatti il relatore, hanno il potere di anticipare visioni e bisogni.
Il Patto educativo dello Stretto, che coinvolge università, scuole e agenzie formative del territorio, nasce dall’intento di costruire una ricaduta educativa dei processi di ricerca.
Esso mira -attraverso la condivisione e la circolazione di esperienze pedagogiche e socio-culturali incentrate sul paradigma della complessità- a favorire l’approccio ecologico, a valorizzare la cultura di processo, a sollecitare la partecipazione alla cittadinanza attiva anche attraverso la personalizzazione degli interventi educativi.
In conclusione il relatore mostra attraverso delle diapositive i suggestivi scenari dello Stretto e gli spazi del Parco, frutto di un lavoro di recupero sostenuto da una grande tensione etica- di aree fino a qualche tempo fa estremamente degradate; presenta, altresì, un videoclip del Festival Horcynus 2007 a cura del Prof. Franco Iannuzzi, docente del Liceo “Ainis” di Messina.
Contesti ambientali di insegnamento-apprendimento nelle esperienze di stage
Antonio Ronco, docente liceo N. Machiavelli (LU)
Il relatore, tentando di ricostruire attraverso la memoria il proprio iter di insegnamento nel Liceo delle Scienze Sociali, inizia con il sottolineare la centralità dello stage come scelta del Consiglio di classe e degli alunni che insieme costruiscono un percorso.
Viene evidenziata l’importanza del lavoro svolto al biennio, ovvero quando si creano i presupposti metodologici e relazionali su cui poi nel triennio si imposterà l’avviamento e la realizzazione dello stage. Soprattutto durante il terzo e il quarto anno lo stage diventa un momento unico per tutta la classe, in cui non si definiscono solo spazi e tempi, ma si attiva una ricerca attraverso amicizie e relazioni, non sempre facilmente pianificabili.
Il relatore a questo punto presenta delle esperienze di stage da lui personalmente seguite.
Il primo percorso, avviato in una terza classe, nasce da una riflessione sul rapporto mercato-territorio e si serve come punto di partenza del mercatino dell’antiquariato di Lucca. L’anno successivo la ricerca è stata estesa sul quartiere, mediante interviste e contatti anche con il centro di extracomunitari, un modo, questo, di vedere la quotidianità con altri occhi. Nel quinto anno si ha il momento della “restituzione” in cui i ragazzi autonomamente devono misurarsi con la capacità di scegliere e fare ricerche su un argomento che poi viene approfondito in vista degli esami di stato. In questo caso i ragazzi si sono distribuiti sul territorio con indagini e attività collaborative.
La seconda esperienza che viene presentata riguarda il tema dei diritti e l’informazione. Nel primo anno del biennio l’attenzione è stata incentrata sul giornale e i ragazzi sono stati anche stimolati a scrivere articoli. L’anno successivo, invece, oggetto di studio è stata la televisione: i ragazzi sono stati chiamati ad affiancare cronisti televisivi per poi costruire un telegiornale, esperienza, questa, che li ha molto coinvolti. Nel triennio è cominciata la ricerca volta a mettere insieme storie di vita. In tale fase è stata importante la corrispondenza che alcuni studenti hanno intrecciato con ragazzi palestinesi e israeliani e il contatto con missionari per la raccolta di informazioni e testimonianze sulle condizioni di vita dei bambini nei paesi di guerra.
Il terzo percorso, avviato nel biennio con letture di romanzi al femminile di scrittrici maghrebine, ha portato i ragazzi a fare un salto nel lontano, nel mondo classico (ripercorrendo le tappe del viaggio di Ulisse e analizzando la figura di Penelope), per meglio conoscere poi il mondo vicino a noi. La ricerca di storie di vita, ad esempio, è stata per i ragazzi un’occasione per cercare gli arabi lontani nel vicino. Esperienza significativa è stata anche la partecipazione ad un Convegno provinciale sulla condizione degli immigrati.
Il relatore ribadisce, in conclusione, che lo stage, in quanto parte integrante del curricolo del Liceo delle Scienze Sociali, rende unico l’indirizzo offrendo ai docenti grandi opportunità di crescita professionale e ai ragazzi le competenze per leggere la realtà.
La voce delle scuole
Il prof. Camuri schematizza l’esperienza di due stage, da lui personalmente condotti.
Il primo è stato fatto con una classe con curvatura “comunicazione”. Partendo dalla dialettica visibile-invisibile, l’obiettivo era mostrare come la fotografia fosse una rivoluzione nata a seguito dell’invenzione della filosofia (dalla prospettiva alla macchina fotografica). Attraverso il Saggio sulla fotografia di S. Sontag è stato affrontato in terza il tema dell’identità e in quarta si è riflettuto sulla possibilità di usare la macchina fotografica per intercettare le dimensioni invisibili. Quindi si è deciso di fare un’inchiesta sul “chi sono io?” attraverso l’elaborazione di un questionario di quindici domande, le cui risposte hanno fornito i dati per la realizzazione di un fascicolo, “Fotogrammi di identità”, e l’organizzazione di una mostra pubblica. In quarta i ragazzi con gli insegnanti di diritto hanno trasferito l’esperienza del laboratorio dell’identità dentro la realtà del carcere, sottoponendo i detenuti al questionario e trascrivendone le risposte.
Un altro stage è stato avviato in una classe con curvatura “ambiente”, partendo in terza dalla lettura di G. Perec, Specie di spazi, e trasformando l’esperienza della lettura in un’esperienza di teatro. In quarta si è fatto coincidere il lavoro con quello di due classi di prima elementare, con una maggioranza di stranieri. Ci si è concentrati su spazi minimi e impossibili attraverso la lettura delle poesie di Terezin, su spazi negati mediante la rappresentazione dello spettacolo “La stella gialla” in occasione della giornata della memoria. In quinta continua il laboratorio teatrale sul tema dell’empatia.
Destinatari del Convegno
Dirigenti scolastici e docenti delle scuole iscritte alla Rete “Passaggi” e di scuole che in tutto il territorio nazionale sperimentano l’indirizzo di Scienze Sociali.
Obiettivi del Convegno
E’ un convegno di studio e confronto, occasione di incontro e riflessione per tutti i partecipanti. Esso si propone
Articolazione dei lavori
Mercoledì 2 aprile Liceo Ainis
Pomeriggio
Sessione riservata alle scuole iscritte alla Rete “Passaggi”
Potenzialità e/o problematicità della rete
Giovedì 3 aprile Liceo Ainis
Mattina
La rete come sostegno
Spazio identitario e governance democratica
Pomeriggio
Riconoscersi nel curricolo
La ricerca di un’identità per la scuola di oggi
Venerdì 4 Aprile – Parco Horcynus Orca
Mattina
Le scienze sociali e la lettura dell’altrove
Il Mediterraneo luogo di incontro di frontiera
Pomeriggio
Identità in relazione
La scuola e le altre istituzioni del territorio
Sabato 5 Aprile Liceo Ainis
Mattina
Diffondere un modello di scuola. Si può?
Una domanda cruciale
La ricerca di un’identità per la scuola di oggi
Introduce i lavori l’ispettrice Anna Sgherri Costantini, la quale sottolinea, visto il tema della sessione, l’opportunità di riportare l’attenzione sull’identità dell’indirizzo, sul suo impianto epistemologico, sui punti di forza e di debolezza, nonché sulla dimensione storica del Liceo delle Scienze Sociali. Bisogna riflettere sull’eredità del passato, sulle esigenze del presente, sulle prospettive future in relazione alle quali spetterà al Ministro Berlinguer aprire uno scenario possibile.
Per quanto riguarda il passato non bisogna dimenticare che il Liceo delle Scienze Sociali nasce da processi ed esperienze fatte nel settore pedagogico; da non sottovalutare, inoltre, il contributo proveniente dagli istituti tecnici e professionali che hanno sperimentato nuovi indirizzi. Infatti la novità più significativa delle sperimentazioni non consiste tanto nell’originalità dei curricoli, quanto piuttosto nell’analisi disciplinare, nella mappa dei saperi e nella ricaduta didattica. Due momenti, infine, hanno segnato la nascita del Liceo delle Scienze Sociali: l’attuazione del Progetto Brocca, nel quale per la prima volta emerge l’area delle scienze sociali, nonché la riflessione, il cammino e l’avvento dell’autonomia che ha legittimato la progettualità delle scuole. Da tutti questi presupposti nasceva così un indirizzo del tutto nuovo, che non esisteva nel panorama della scuola italiana. Non un piano di studi, ma un curricolo orientato alla società e cultura contemporanee, equilibrato sotto il profilo formativo e conforme a tre criteri: 1) soddisfazione dei bisogni formativi emergenti e reali; 2) rispetto dei quadri culturali di riferimento; 3) aspettative della società.
Il presente delle Scienze Sociali appare piuttosto problematico. Oggi si moltiplicano le esigenze e benché siano trascorsi dieci anni, i punti di forza e di debolezza sono gli stessi del Convegno di Ferrara, su cui comunque molte scuole hanno dato risposte soddisfacenti. Una difficoltà emerge quando si tratta di coniugare l’esigenza di flessibilità, di per sé punto di forza, con la necessità improrogabile di mantenere salda l’identità epistemologica del curricolo. La flessibilità, infatti, se non viene gestita in rapporto al territorio, ma solo dal punto di vista numerico delle ore disciplinari, diviene un punto debole.
Un altro aspetto significativo riguarda la professionalità docente, intesa non come un dato acquisito una volta per tutte, bensì un obiettivo da raggiungere, un percorso da costruire. Una scuola statica ed esecutiva non sviluppa tale professionalità e lo stage formativo è, invece, la ricerca di una modalità diversa che risponde ad un’esigenza comune.
Un elemento di debolezza consiste nell’autoreferenzialità del sistema di valutazione: mentre i primi anni sono stati caratterizzati da un monitoraggio attento sulle cose da fare, oggi le Scienze Sociali fanno parte del panorama indistinto di sperimentazioni in attesa di una sistemazione della riforma, “congelate” in un limbo. Pertanto sarebbe opportuno prevedere una valutazione esterna che possa confermare la novità dell’indirizzo, l’efficacia e la fondatezza della scelta presso l’utenza, legittimare, insomma, la sua esistenza.
Epistemologia delle Scienze Sociali: coniugare radici e mutamento
Leonello Bettin, docente di scienze sociali
Il relatore, dopo aver richiamato il documento di riferimento del Liceo delle Scienze Sociali elaborato nel 2000 che ne ravvisa la cifra identitaria nell’asse storico antropologico e nell’attenzione alla contemporaneità, propone una riflessione sulla necessità che le scienze sociali, in quanto scienze del cambiamento e della contemporaneità, riflettano su se stesse, sui propri metodi e sulla pratiche didattiche ad esse collegate.
Tale riflessione è incentrata sul tema del mutamento dalla cui analisi le scienze sociali traggono la propria origine e la propria ragion d’essere; infatti, come afferma P. Jedlowski, “ si comincia a studiare la società quando essa non può essere data per scontata”. Le scienze sociali sono espressione di cambiamenti epocali che introducono “fattori di netta discontinuità con il passato”.
La società moderna, in quanto massimo esempio di una società mutata dopo millenni di dominio di società agricole, tradizionali e gerontocratiche, sollecita la messa in atto di nuove “strategie di conoscenza e approcci cognitivi”.
Ripercorrendo rapidamente le tappe della storia umana, Bettin ravvisa tre grandi svolte epocali rispettivamente determinate dal passaggio dalla caccia/raccolta all’agricoltura, dall’agricoltura all’industria e, a quello ancora in atto, dall’industria alla finanza e ai servizi, avendo cura di precisare che le nuove modalità di lavoro e le nuove organizzazioni sociali non cancellano le precedenti, ma le relegano su un piano secondario. Esse, ciononostante, determinano un cambiamento profondo che coinvolge tutti gli ambiti dell’agire umano e la stessa visione del mondo.
Il cambiamento, tuttavia, non ha necessariamente carattere evolutivo. Come infatti è stato osservato da vari studiosi, il passaggio dalla società dei raccoglitori/cacciatori a quella degli agricoltori/allevatori, è stato un vero e proprio “arretramento civile”. Esso ha determinato un aumento del tempo dedicato al lavoro, la fine del comunitarismo delle società primitive a vantaggio di una società agricola rigidamente gerarchizzata in cui guerra, servitù e schiavitù diventano normali prassi produttive.
A tal proposito, recuperando il concetto di “equivoco antropologico” e ipotizzandone un’utilizzazione didattica, afferma che il rapporto tra le società nomadi e quelle sedentarie può essere proficuamente affrontato nel biennio da “una prospettiva rovesciata” rispetto a quella tradizionalmente proposta anche nei manuali scolastici, con “ sguardo strabico”, ovvero rivolto alla contemporaneità: la distanza nel tempo, implicante un certo “distacco”, favorirà un approccio più spregiudicato e dissacrante e risulterà utile per comprendere la contemporaneità attraverso il filtro della storia: “i “primitivi” -afferma Bettin- allargano il nostro sguardo all’intero globo, sprovincializzandoci”.
Rilevare tale “equivoco antropologico” consente di riflettere sul fatto che le idee dei “dominanti diventano idee dominanti” e sui rapporti tra le società nomadi e quelle sedentarie.
La seconda discontinuità coincide con l’avvento della società industriale e con il processo di modernizzazione ad essa connesso, la cui percezione sollecita lo sviluppo delle scienze sociali.
Negli ultimi trent’anni è in atto un nuovo cambiamento che, comunque lo si voglia chiamare, impone a studiosi, docenti e discenti un nuovo modo di accostarsi alla realtà e ripensare alle scienze sociali. Ciò, secondo il relatore, risulta stimolante: “il bello dell’indirizzo è di sentirci coinvolti, è la base di un ambiente paritetico e non ipocritamente democratico”.
Nell’ottica della discontinuità i fenomeni culturali appaiono come “costellazioni di significati contestualizzati” la cui indagine richiede la conoscenza del contesto in cui essi si sono formati, ma anche del contesto di coloro che li interrogano.
Ne consegue che alle culture del passato non ci si può accostare con le categorie del presente; la discontinuità, inoltre, introduce l’idea della fluidità e della mutevolezza delle culture, che appaiono prive di quella “sostanzialità forte” in grado di forgiare in modo permanente un individuo determinandone quelle caratteristiche comunemente percepite come i tratti distintivi di una civiltà.
Il concetto di cultura in quest’ottica si configura come un’astrazione: la discontinuità restituisce centralità alle persone, ai singoli individui. Le scienze sociali sono scienze di relazione che hanno come oggetto le modalità di vita di società e gruppi di individui in carne e ossa.
Anche le scienze sociali nascono nel segno della discontinuità. La genesi e l’affermazione di nuove scienze, espressione di una società che cambia, sono di per sé un atto di discontinuità; le scienze sociali inoltre negli ultimi decenni hanno dovuto ridefinire le proprie strategie cognitive modificando quelle adottate nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, in quanto devono confrontarsi con una realtà le cui coordinate sono state modificate dai fenomeni migratori, da nuove disuguaglianze e dai differenti equilibri internazionali della società industriale. Esse inoltre, in quanto scienze della relazione, sono in rapporto di discontinuità anche con la filosofia, “forma culturale delle società agricole tradizionali”.
Il carattere fluido di queste scienze del cambiamento e in cambiamento richiede un insegnante di tipo nuovo, aggiornato, consapevole, disposto a mettere in gioco e in discussione se stesso e prassi didattiche da lungo tempo consolidate. Bettin, richiamando Callari Galli, ribadisce la necessità che l’insegnante riorganizzi le proprie conoscenze e di conseguenza quelle di propri alunni, per temi e problemi “superando le consolidate gerarchie disciplinari e andando a cercare nuovi percorsi e nuovi stimoli negli accostamenti più impensati”. Il processo di apprendimento di queste nuove scienze si fonda pertanto sulla valorizzazione del dubbio e della prudenza, sulla ricerca e sull’osservazione delle differenze.
Dunque il relativismo critico e “ben temperato” (secondo una definizione di Cassano) deve essere assunto come guida didattica e culturale. “Senza relativismo - sottolinea Bettin - non ci sono scienze sociali, ma dogmi e certezze, senza relativismo non c’è processo di apprendimento co-costruito, ma solo insegnamento”. Esso, inoltre, porta alla luce la “qualità multipla delle culture” che, nell’ottica sopraindicata, non sono astrazioni, ma “persone che agiscono culturalmente”. L’atteggiamento relativistico aiuta pertanto a stabilire contatti, creare ponti tra esseri umani diventando così non solo un metodo e una prassi didattica, ma occasione di dialogo e di comunicazione tra portatori di diverse visioni del mondo.
A conclusione dell’intervento il relatore solleva un interrogativo proponendo peraltro di utilizzare la scuola come campo di indagine sulla contemporaneità. “La scuola italiana - si chiede - sta diventando produttrice di analfabeti in quanto istituzione nata nella modernità e non adeguata ai cambiamenti del postmoderno?”.
Tempi della politica e tempi della scuola
Luigi Berlinguer, presidente gruppo di lavoro per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica
Il relatore Luigi Berlinguer, che, come rilevato dall’ispettrice Sgherri nella presentazione, ha ipotizzato con la legge 30 una collocazione definitiva del Liceo delle Scienze Sociali, attualmente presiede il Gruppo di lavoro interministeriale per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica e il Comitato per l’apprendimento pratico della musica da parte di tutti gli studenti.
Dopo aver espresso un vivo apprezzamento per la testimonianza degli allievi dell’Istituto “Ainis” dalla quale emerge la consapevolezza della propria identità di studenti del Liceo delle Scienze Sociali e l’orgoglio di appartenenza alla propria scuola, sottolinea la necessità di un’innovazione che parta dalla riflessione sui contenuti delle discipline e sui metodi di insegnamento, relegando invece in un secondo piano le politiche dell’“architettura” che esemplifica nella legge per l’autonomia e nell’estensione dell’obbligo scolastico.
Il concetto di obbligo, rileva peraltro, risulta obsoleto e inadeguato in un contesto che sempre più concepisce lo studio come un diritto e come mezzo di promozione sociale, come dimostra l’alta percentuale dei diplomati in Italia che tocca il 75%.
Recepisce pertanto la sfida lanciata dal Convegno Innovare la scuola si può, significativamente espressa senza punto interrogativo, per sottolineare la necessità imprescindibile di un cambiamento. La questione, afferma infatti il relatore, non verte sul se, ovvero sull’opportunità di innovare, ma sul come, ovvero sulle modalità attraverso cui deve realizzarsi l’innovazione di una scuola che sia equa e di qualità. I due termini sono in stretta relazione: una scuola non di qualità diventa necessariamente fonte di iniquità in quanto riproduce le differenze sociali. La società chiede invece una scuola finalizzata alla promozione sociale, che tenga conto dell’eterogeneità dei discenti.
Bisogna quindi evitare un approccio alla scuola di tipo ideologico, affrancarsi dal retaggio dell’ideologia gentiliana e convincere l’opinione pubblica della centralità dell’education nell’intento di colmare un vuoto educativo che non è solo epistemologico, ma riguarda l’impianto complessivo.
“La rivoluzione democratica -afferma il relatore- ha sconvolto il mondo, perché tutto ciò che si fa a scuola deve essere motivato e deve rispondere ai profondi interrogativi di senso dei discenti”. Pertanto è necessaria una rivoluzione altrettanto radicale nel metodo e nei contenuti, che si traduca nel rifiuto dell’enciclopedismo e della lezione frontale, e nell’attuazione di pratiche didattiche che -specie nell’ambito scientifico- passino attraverso la sperimentazione.
Particolarmente rilevante risulta l’introduzione dell’arte e della musica, la cui pratica consente di ricomporre quella scissione, non esistente in natura ma che è invece prodotta dalla scuola, tra corpo, anima e cervello: la distinzione tra fare e sapere, ribadisce il relatore, risulta infatti innaturale.
Oggi il compito per tutta la scuola è ripensare ai curricoli, anche attraverso la rivisitazione epistemologica. Questo compito non è di pertinenza esclusiva dell’Università, ma dei docenti, ovvero i disciplinaristi, coinvolti “nell’avventura educativa”. Il mondo della ricerca accademica e quello della ricerca scolastica non possono essere separati.
Il POF, non inteso come “ progettificio”, ma come l’insieme delle esperienze didattiche, e’ la sede privilegiata della sperimentazione, in cui il curricolo viene definito, monitorato e valutato.
Il contributo delle università potrebbe consistere nell’organizzazione di masters che coinvolgano gli insegnanti nell’ottica di una sperimentazione che tenga conto dei profondi cambiamenti e degli elementi di discontinuità caratterizzanti il mondo attuale.
Particolare rilievo assumono in tal senso la globalizzazione, che ha modificato il tradizionale concetto di identità, e la democrazia che ha cambiato i rapporti intersociali. Altro fenomeno significativo, che congiuntamente agli altri impone una rivisitazione dei curricoli, è quello che il relatore definisce con forza “l’esplosione della scienza e della tecnica.”
La scuola deve rispondere a questo bisogno di scientificità costruendo curricoli fondati su una matrice scientifico- teorica, che mirino a sviluppare negli studenti non l’astrattezza, ma la tendenza all’astrazione, come punto di arrivo di un processo cognitivo; parimenti importante la storicità da non identificare tuttavia con lo storicismo.
Altro problema su cui Luigi Berlinguer si sofferma è quello della mancanza di terminalità. Nell’ottica dell’innovazione della scuola che risponda ai bisogni dell’utenza e della società, è necessario superare la distinzione tra licei e istituti tecnici. Tutti gli istituti superiori devono avere una terminalità possibile. Ciò necessita di una ridefinizione dei curricoli in cui trovino spazio anche le scienze dure (economia e diritto) in rapporto di equilibrio con lo studio più fluido delle materie storico-antropologiche. La rielaborazione dei curricoli non può rimanere confinata all’interno del corpo docente: risulta importante definire a che cosa serve il complesso di conoscenze anche “dal punto di vista esterno”, verificando la congruità dell’impianto disciplinare rispetto alle richieste della società e del mondo del lavoro.
Il relatore, pur ponendo l’accento sulla terminalità, non elude il problema della formazione professionalizzante degli studenti, che tuttavia deve essere affrontato con opportune strategie dopo il diploma. Sottolinea inoltre la necessità di investire nella formazione professionale dei docenti.
Le università dell’area umanistica propongono un percorso articolato nella laurea triennale seguito dai due anni di specialistica e dalla Sissis; nel mondo scientifico si propende per una formazione complessiva di cinque anni, che nei due della specialistica includa anche le pratiche didattiche. La formazione iniziale, tuttavia, deve essere integrata da quella in servizio che va trasferita alle scuole cui spetta il compito -che non può essere espletato da altri- di indicare il fabbisogno professionale dei docenti partendo dal monitoraggio dell’insegnamento in rapporto alla situazione esistente e agli obiettivi ottimali.
In fase conclusiva ribadisce la necessità di superare la segmentazione disciplinare nell’ottica dell’interdisciplinarità e del lavoro di equipe, di sviluppare l’autonomia, conservando tuttavia la natura nazionale del curricolo.
INTERVENTI
L’avvio del dibattito verte sulla formazione dei docenti. L’ispettrice Sgherri, ricollegandosi a un precedente intervento relativo alla necessità di una formazione adeguata dei docenti di Scienze Sociali, rileva la disponibilità di varie pubblicazioni riguardanti la storia dell’indirizzo ulteriormente arricchite da vari materiali inseriti nel sito. Ciononostante, ribadisce la necessità di una formazione permanente, ancora inadeguata, e di un osservatorio nazionale.
Berlinguer propone che la Rete Passaggi divulghi, tramite apposita circolare, le informazioni bibliografiche ai Licei delle Scienze Sociali e suggerisce di elaborare un progetto di formazione da inviare al Ministero e alla Comunità europea.
Nel corso del dibattito si evidenzia la peculiarità dell’indirizzo in cui i contenuti disciplinari non costituiscono il fine, ma il mezzo all’interno di un processo di apprendimento che, non mirando solo all’acquisizione dei contenuti, valorizza tutte le intelligenze e gli stili di apprendimento. Tale modello educativo, che va oltre il “passatismo”, dovrebbe costituire un paradigma per tutti i licei.
Ricollegandosi agli interventi precedenti, ci si chiede quale contributo possa dare la Rete a quei docenti che, pur essendo motivati, spesso si trovano soli nell’affrontare la didattica quotidiana.
Ai fini di un adeguato orientamento dei docenti, il Prof. Camuri suggerisce la partecipazione ad eventuali masters. A tal proposito Berlinguer ribadisce la necessità di sottrarre i masters alle logiche accademiche che spesso vogliono solo manifestare le loro potenzialità scientifiche e risultano poco funzionali alla reale esigenza di formazione.
Il dibattito si conclude con l’intervento della Prof.ssa Fatai, portavoce del dipartimento di matematica e scienze che propone di rivedere il curricolo quinquennale per dare maggior spazio alla statistica e curvarla sulle esigenze delle Scienze Sociali.
Spazio identitario e governance democratica
Introducendo i lavori il Dirigente scolastico, Prof.ssa A. Stancanelli, ricorda che il Convegno nasce come quinto incontro dei Licei delle Scienze Sociali di tutta Italia. Si tratta di scuole che da decenni fanno un lavoro di sperimentazione volto ad affrontare la complessità e a fare scuola in modo nuovo. Per alcuni anni c’è stato il supporto del Ministero che ora, però, è venuto meno. Le scuole più sensibili pertanto hanno deciso che il dialogo e il confronto non potevano finire. Dopo i primi incontri (Ferrara, Perugia) si è sentita l’esigenza di riunirsi ancora per riflettere sull’epistemologia dell’indirizzo. L’orizzonte si è sempre più ampliato e questo incontro è un ulteriore passo avanti perché la Rete vuole ora costituirsi in ente pubblico mediante atto notarile per avere maggiore visibilità ed essere più forti quando si deciderà sul futuro del Liceo delle Scienze Sociali. Questa scuola ha oggi la presunzione “sussurrata” di proporsi come paradigma di una scuola possibile, la scuola delle “buone pratiche”.
All’apertura del Convegno sono presenti il Dirigente dell’Ufficio Scolastico Provinciale Dott. Ricevuto e l’Assessore Miloro.
Il Dott. Ricevuto, dopo aver manifestato la propria compiacenza nei confronti della scuola “Ainis” che definisce comunità fervida che lavora con grande dignità, riflette sulla scelta della Rete in quanto frutto di un impegno serio. Sottolinea, in particolare, come nella società odierna, in cui si registrano impressionanti accelerazioni tecnologiche, la scuola debba abbandonare l’autoreferenzialità e “societizzarsi”, ovvero porsi in un rapporto diverso con la società, acquisendo la capacità di leggere ed interpretare il territorio in cui opera, trovando i giusti canali comunicativi.
L’Assessore Miloro, in rappresentanza della Provincia Regionale di Messina, dopo aver espresso i suoi complimenti nei confronti di una scuola che cammina al passo con i tempi, propone di condividere questo percorso innovativo, trasmettendo al governo regionale la necessità di venire incontro alle esigenze di queste scuole, perché è il territorio che deve suggerire alla politica le proprie istanze.
“Il filo rosso del Convegno: identità-relazione, saperi di frontiera”
Josette Clemenza, insegnante di Scienze Sociali del Liceo Ainis di Messina
La relatrice, accompagnando le parole con delle suggestive immagini artistiche, si sofferma sul significato del mare come parola chiave, sfondo comune del Convegno, e metaforicamente presenta le tappe di questo incontro.
Come insegna il relativismo linguistico il pensiero si costruisce attraverso il linguaggio e viceversa. Da qui nasce la riflessione sulla parola mare che indica ora apertura, ora chiusura, ora accoglienza, ora rifiuto. Usare il mare come metafora del Convegno risponde al bisogno di contestualizzarsi: è il luogo, infatti, dove traspare l’anima del luogo in cui siamo, che troppo spesso viene trascurata e dimenticata. Il mare provoca smarrimento, ma anche ebbrezza e la sfida del Liceo delle Scienze Sociali ricorda proprio questo giocarsi di situazioni nel mare aperto. La società complessa verso cui si rivolge il nostro liceo è una società completamente nuova e non può più “essere letta con le carte nautiche di un tempo”. Se oggi le acque in cui naviga la scuola sono di calma piatta, da più parti emergono, però, voci che ci preannunciano una prossima deriva, non solo in relazione ai risultati, ma per l’assenza assoluta di piani di navigazione.
La relatrice, inoltre, riconosce che, se il Ministero ci ha lasciato in una totale immobilità, prospettando solo la possibilità di confluire in un anonimo Liceo delle Scienze Umane, questo rischio è stata anche la nostra salvezza, perché ci ha contagiato la voglia di reagire al pericolo e la risposta è stata proprio la Rete “Passaggi” che ha raccolto la sfida di scuole che si sono aperte all’innovazione.
In questo incontro sarà possibile rileggere la storia delle scienze sociali attraverso la relazione di L. Bettin. Occorre, però, prendesi cura delle reti e il Prof. Serpieri ci aiuterà ad orientarci a trovare nuove rotte. Sulla necessità di accordare i tempi della politica e della scuola ci farà riflettere, invece, il ministro Berlinguer.
E’ importante confrontarsi con scuole diverse per riconoscersi in un’identità comune. Il tema dell’identità riguarda però anche altre riflessioni e a queste nuove sponde di pensiero ci condurrà R. Siebert. E’ necessario aprire gli occhi a nuovi sguardi, specchiarsi l’un l’altro. Questo succede anche nella relazione educativa e ricorda il fenomeno della Fata Morgana per cui sembra di vedere l’altra riva, ma si vede solo sè stessi, fenomeno che, si narra, sia possibile osservare al Parco Horcynus Orca, sede della seconda giornata del Convegno.
Un contributo significativo verrà anche dagli allievi che da co-protagonisti faranno sentire la propria voce, riferendo esperienze e comunicando emozioni.
Momento conclusivo sarà poi una tavola rotonda come occasione per ascoltarsi e farsi ascoltare in modo nuovo, senza illusioni alimentate da false promesse.
La relatrice conclude augurandosi che questo Convegno sia un ulteriore crocevia per acquisire maggiore determinazione e consapevolezza.
La rete Passaggi come spazio identitario in evoluzione
Maria Luisa Quintabà, Dirigente istituto “E. Mattei” San Lazzaro di Savena (BO)
La relatrice presenta l’esperienza della Rete Demetra di Bologna, nata come articolazione della Rete Passaggi. Considerata la condizione di solitudine in cui si trovano oggi i docenti, ritiene importanti i momenti di condivisione e le reti rispondono a questa esigenza.
La Rete Demetra, in particolare, si è formata in modo spontaneo e si può definire adhocratica, ovvero nata da un reale, anche se temporaneo, bisogno: la necessità di inviare alunni ad altre scuole, in presenza di un surplus di iscrizioni. Tale struttura adhocratica risulta più efficace di quella burocratica così frequentemente seguita dai Dirigenti Scolastici.
La frammentazione dei licei con una molteplicità di sperimentazioni ha posto l’esigenza di cercare linee comuni, da cui nasce questo incontro.
La Rete si basa su un obbligo di finanziamento, ma la forza è data dagli insegnanti che vi partecipano e che vogliono condividere insieme delle strategie. E’, insomma, un laboratorio di ricerca, di sperimentazione delle innovazioni, dove si lavora in comune.
Purtroppo nella scuola si dedica molto spazio alla programmazione preventiva, ma si ragiona poco su ciò che si è fatto, attività molto importante se si vuole creare identità. La rete serve proprio a meditare sui sensi comuni, ma per questo bisogna usare linguaggi comuni e stare insieme per agire e riflettere sui prodotti. Le riunioni sono importanti proprio perché creano senso. I rapporti su cui si basa la rete sono complessi. L’autonomia, voluta da Berlinguer, è ancora poco realizzata perché non è stata adeguatamente supportata. Era necessario passare da un modello burocratico centralistico, che decide secondo la logica dell’adempimento, ad un sistema di autonomia che significa assenza di gerarchia. La rete, in effetti, è un sistema di relazioni simmetriche, in cui la funzione di leadership è variabile. La Rete Demetra è nata da una molteplicità di interessi specifici e comuni. Per comprenderne la complessità metaforicamente si potrebbe pensare alla lega Anseatica che, riunendo i commercianti olandesi contro i pirati, si basava su interessi comuni ed interessi commerciali competitivi. Anche la rete è caratterizzata da rapporti simmetrici e da molteplicità di interessi, anche in relazione alla diversa ubicazione delle scuole.
Chiarita la genesi della Rete, la relatrice si sofferma sulla sua attività, passando dalla teoria alla pratica. Durante il primo anno di formazione comune si è puntato sul metodo della ricerca, caratterizzante il Liceo, e sulla pluridisciplinarità. In una seconda fase è partita una serie di incontri tra docenti di scienze sociali, in cui sono stati sviluppati diversi argomenti: centralità dello stage, coordinamento per organizzare lo stage attraverso il contributo delle diverse discipline del Consiglio di classe, strategie di insegnamento, lavoro sulle competenze, momenti di visibilità all’esterno, consapevolezza della portata innovativa del liceo rispetto agli altri indirizzi.
La relatrice focalizza poi la sua attenzione sui punti deboli della Rete, affermando che manca una strutturazione: è carente la documentazione inviata al sito, perché si attende sempre di perfezionarla; manca chi raccolga tale documentazione, anche provvisoria, e materialmente la invii al sito.
Come esemplificazione del ruolo innovativo del Liceo delle Scienze Sociali la relatrice riferisce un’esperienza di educazione tra pari, ovvero l’incontro e lo scambio tra gli studenti delle Scienze Sociali e gli studenti del Tecnico Informatico. L’esperienza dell’istituto di Casalecchio è molto significativa perché il fatto che un Liceo delle Scienze Sociali sia stato innestato su un Liceo Scientifico ha dato un particolare rilievo e una diversa curvatura all’insegnamento delle scienze che, pur conservando lo stesso numero di ore, è stato impostato su argomenti diversi, volti alla “lettura” del territorio.
Viene ribadito inoltre il ruolo formativo dello stage all’interno del curricolo, il valore della pluridisciplinarità, degli ambiti di aggregazione dei saperi, della gradualità come criterio fondamentale nella costruzione dei percorsi. Considerata inoltre la problematicità delle compresenze, sarebbe utile incontrarsi (almeno due volte l’anno), perché le buone prassi hanno sempre bisogno dei momenti di confronto. L’ultimo aspetto su cui la relatrice si sofferma è l’Esame di Stato, non sempre pienamente conforme al profilo formativo e agli assi culturali del Liceo delle Scienze Sociali.
Leadership distribuita per la rete: governance democratica e scuole dell’autonomia
Roberto Serpieri, docente di organizzazione, apprendimento e competenze presso la Facoltà di Sociologia, Università Federico II (NA)
Il relatore esordisce affermando che l’idea di curare la Rete non deve far pensare ad una “ricetta” definitiva ma deve, invece, stimolare la riflessione su tante cure e tante ricette. Si può quindi ragionare su varie ipotesi facendo trasmigrare la riflessività dal livello individuale dell’agire professionale a quello dell’agire di rete.
La metafora della rete è evocativa, rimanda all’autonomia voluta da Berlinguer, alla necessità di decentrare un sistema gerarchico-piramidale qual è quello scolastico.
Se l’autonomia è ancora nella fase dei “lavori in corso”, ciò è dovuto al fatto che i tempi delle riforme sono diversi da quelli delle pratiche, rispetto ai primi molto più lineari e legati alla continuità. D’altronde le riforme non devono essere un problema, perché la scuola riesce sempre a metabolizzare riforme e controriforme.
Il relatore pone, quindi, in evidenza due tematiche principali come chiavi di lettura per la storia delle reti: la questione della leadership e quella dei “discorsi”, cioè dei sistemi che articolano l’agire di rete. Per quanto riguarda la leadership c’è oggi una confusione sulla distribuzione dei ruoli. Tanti sono gli aggettivi con cui si cerca di definirla, ma tre sono gli aspetti della leadership distribuita: individuale, interattivo, processuale.
Lo stile individuale è aperto, impersonale, democratico. In effetti l’idea di una federation che prevede un system-leader rimanda ad un’idea di rete di scuola che si basa sulla questione di stile individuale, con il rischio di confondere la questione psicologica degli attributi individuali con quella sociale e politica. Nella leadership distribuita bisogna guardare da un lato l’attore individuale, dall’altro ciò su cui si gestisce il ruolo, cioè sia le propensioni dell’attore sia le esigenze.
Nel modello interattivo la delega può essere un mezzo meramente gerarchico o partecipativo.
Oltre alle caratteristiche degli attori sociali bisogna, però, guardare i processi con cui la leadership si distribuisce nelle pratiche, considerare cioè il modello processuale.
La leadership è un processo di influenza politica e simbolica che tutti siamo in grado di esercitare. Tante decisioni non sono programmate né programmabili, basta guardare per es. come viene gestito l’o.d.g. dei Collegi dei docenti.
Nella pratica non si possono perdere di vista la dimensione diacronica e la prossimalità che consiste nell’applicare come logica di lettura l’osservazione tra pari.
La rete, però, è un’eccezione perché non si deve chiudere, deve attraversare i confini. Bisogna tentare di leggere le simmetrie e le asimmetrie, cosa che rimanda alle questioni di genere, e usare una logica critica.
Per quanto riguarda i discorsi relativi all’agire di rete quattro sono i tipi evidenziati dal relatore: burocratico, professionale, manageriale, democratico.
Il primo, tipico dell’ideologia liberale, riguarda razionalità, neutralità e formalismo. La logica del discorso burocratico è la responsabilità legale formale (per es. la produzione del POF).
La logica professionale, invece, centra l’attenzione sul nostro sapere, sulla nostra competenza, sull’identità, anche se quest’ultima può comportare dei pericoli perché riconoscerla, definirla significa chiuderla.
Il discorso burocratico e quello professionale si sono fusi nel welfare che ha erogato servizi. In esso la logica manageriale è stata applicata al pubblico. Il modello manageriale inoltre si lega alla competitività tra le scuole ed al processo di negoziazione.
Nella Rete “Passaggi” si esemplifica il discorso democratico. Una delle sue dimensioni fondamentali è la partecipazione come processo, non come delega; altro aspetto è l’identità intesa come identità in costruzione che si integra con la diversità, e così attiva e costruisce dialogo.
Due sono, quindi, le dimensioni per l’analisi dei discorsi: sistemi accentrati e decentrati, aperti e chiusi. Il discorso burocratico è accentrato e chiuso, il professionale è decentrato e chiuso, il manageriale è accentrato e aperto, il democratico è aperto e decentrato.
Il relatore conclude dicendo che la “cura” per la rete comprende il discorso professionale, manageriale, democratico.
La voce delle scuole
Vari i quesiti e le osservazioni dei docenti.
Innanzitutto ci si interroga sul concetto di eccellenza, su come definirla ed emerge che eccellente si può definire un sistema che sa rispondere ai bisogni.
Inoltre, posta la distinzione tra il lavoro nella rete ed il lavoro nelle scuole, ci si chiede (Prof.ssa Quintabà) se è possibile un “contagio” tra il discorso democratico proprio della rete e quello burocratico che entra in gioco quando si deve fare un accordo di rete. Il Prof. Serpieri a questo proposito replica che per decidere con quali processi agire bisogna adattarsi alle situazioni. Dagli interventi emerge anche l’urgenza della valutazione dei livelli di apprendimento e delle competenze dei docenti. Il Prof. Serpieri propone più che una valutazione degli insegnanti la loro formazione.
L’ispettrice Sgherri pone l’accento sulla questione del sistema di valutazione che dovrebbe garantire una comparabilità dei risultati.
Emerge, inoltre, l’esigenza di dialogare nella scuola, di parlare un linguaggio comune.
La Rete può essere un circuito di relazione ed a tal fine, come viene sostenuto dalla Prof. ssa Marchetti, curatrice del sito, è importante il ruolo del sito come “piazza virtuale” in cui mettere in comune le esperienze.
Il Mediterraneo luogo di incontro e di frontiera
Introduce e coordina Giacomo Camuri, docente del liceo M. Vegio di Lodi, che rimanda alla lettura del documento inserito in carpetta dal titolo: Fragilità e destino: l’anima delle coste. Per un’ermeneutica dei luoghi. Ritiene tuttavia opportuno puntualizzare alcuni aspetti che riguardano l’ambiente e in particolare la costa, nella cui fragilità si riflette “il dramma del mondo che progressivamente ha visto disgiungersi e decomporsi in forme patologiche le relazioni vitali tra uomini e ambienti”.
La nostra condizione ci rende molto simili agli uomini di un circo equestre, perché itineranti, ma soprattutto specialisti e insieme disposti a svolgere diverse mansioni. In particolare, in questo contesto, ci si ritrova a riflettere sul come organizzarsi, sulla necessità di inventare contenuti che siano comunicabili e sull’opportunità di farsi conoscere.
Ma c’è una questione importante da affrontare, strettamente legata alla modernità: è la questione dell’identità. Siamo inseriti in un grande sistema istituzionale, difficile da smontare; la contemporaneità è caratterizzata da grandi migrazioni di individui e di idee e noi possiamo solo definirci “nomadi del pensiero”. L’identità sulla quale l’Occidente ha costruito la sua storia si sta dissolvendo. E’diventato quindi urgente interrogarsi sul “chi siamo” e tentare di definire la nostra identità dal punto di vista professionale e sociale.
Da un seminario della Facoltà di architettura di Siracusa sul tema dell’anima dei luoghi (su cui cfr. J. Hillman) nasce la riflessione sulla costa, uno dei luoghi che maggiormente vive e soffre della disgregazione della nostra idea di identità. Pertanto appare indispensabile ristabilire un rapporto con l’ambiente per ritrovare le radici profonde e fondare una nuova identità, possibile solo attraverso un recupero della memoria con l’immaginazione. Essa, servendosi del contributo della topografia e della toponomastica, consente di resistere all’atrofizzazione della coscienza cui va inesorabilmente incontro l’Occidente.
La costruzione sociale dell’altro: la sfida e le insidie del razzismo
Renate Siebert, docente di multiculturalismo e mediazione culturale presso la Facoltà di scienze politiche, Università della Calabria (Cs)
[Renate Siebert] La relatrice, riprendendo il tema della memoria che per lei si connette con il nazismo, fa una breve premessa autobiografica, sottolineando la propria origine germanica. Sostiene che il silenzio assordante che per molto tempo ha circondato tanti giovani tedeschi, intorno agli anni Settanta, ha suscitato l’esigenza di capire cosa fosse successo nel passato. Il disagio cioè ha portato alla ricerca della memoria, al recupero della shoah come del non detto.
Al centro di questo lavoro di ricerca della memoria si pone la riflessione sull’alterità e sul razzismo, tema importante da introdurre nelle scuole, ma come?
La relatrice cita un libro che ha suscitato grande scandalo: La pelle giusta della antropologa Paola Tabet che ha in esso raccolto testimonianze di bambini accomunati da un convincimento razzista. Il fatto che dei bambini pensino ad una superiorità legata al colore della pelle bianca è la prova che nella nostra cultura, in ciò che chiamiamo democrazia, circola qualcosa che forse è più formale che sostanziale. Il razzismo è una forza nemica della democrazia, una forza sovversiva e pericolosa come la criminalità organizzata di stampo mafioso. E’ difficile trovare strategie per combattere queste derive, ma la scuola può essere il luogo privilegiato per questa lotta.
Se fenomeni come l’Illuminismo, la difesa dei diritti umani ed altro rendono la nostra storia occidentale storia di splendore, è anche vero che essa racchiude una parte “ombra” che rimanda al colonialismo, all’imperialismo, al nazismo e al fascismo, processi che hanno portato al razzismo biologico e culturale, all’antisemitismo. Nell’insegnamento scolastico bisogna mettere in connessione colonialismo, fascismo, nazismo con le rispettive ideologie.
La relatrice ribadisce a questo punto l’importanza della memoria che deve riguardare ognuno di noi e non deve ridursi alla semplice commemorazione celebrativa. Non basta un monumento o la giornata della memoria.
La nostra cultura è intrisa di razzismo e noi già con la socializzazione respiriamo tutto questo. Bisogna quindi “disimparare” il razzismo.
In effetti tutto ciò che impariamo ci condiziona molto perché, tramite i filtri della cultura, diamo un senso soggettivo ed oggettivo a ciò che ci circonda. Ciò che non nominiamo per noi non esiste e non vogliamo conoscerlo.
Il razzismo è un pessimo filtro cognitivo, bisogna superarlo disimparando, un sistema questo che è stato elaborato anche a livello di terapia.
Si dà per scontato il fatto che fuori di noi non esiste una realtà univoca, invece si deve riflettere su questo e sulla nostra responsabilità nella costruzione della realtà.
Se creiamo una società razzista, antisemita, islamofobica, sessista, ciò succede perché delle relazioni di tipo storico-sociale vengono poste come naturali.
Il razzismo è male per gli immigrati, ma anche per noi. Il passato ci insegna che quando è prevalsa la logica della morte, le azioni di morte rivolte contro l’alterità si sono rivolte contro noi stessi.
Per il tema identità-alterità la relatrice ritiene utile riferirsi alla questione del riconoscimento sia come relazione tra persone sia a livello istituzionale-politico.
Spesso però siamo di fronte a politiche del misconoscimento e dell’umiliazione. Viene richiamata a questo punto la dialettica hegeliana servo-padrone, punto di riferimento quando si discute di riconoscimento. L’individuo non esiste, non può diventare tale da solo, non c’è una fondazione unica dell’individuo, ma è una questione di relazione, di reciprocità. Basta pensare al fatto che nessun essere umano è in grado di guardarsi per intero. Lo sguardo su di noi, che noi stessi non possiamo avere, ce lo fornisce l’altro. Senza l’altro io non sono, è l’alterità che ci consente di guardarci e riconoscerci.
Nel saggio di F. Fanon, Pelle nera, maschera bianca, viene presentata l’esperienza di un colonizzato nero che sotto lo sguardo “razzizzante” del colonizzatore interiorizza questo sguardo e fa sua l’idea della propria identità come inferiore, con un processo di alienazione coloniale.
Riconoscere qualcuno significa riconoscergli la dignità di soggetto, ma nella reciprocità. Se io voglio essere riconosciuto ma non voglio riconoscere, scelgo solo quella alterità che mi serve per la mia identità. La dialettica hegeliana, ripresa anche da Simone de Beauvoir nella questione sessista, mette in evidenza anche che la nostra libertà è il risultato della nostra dipendenza dall’altro. Tutto ciò aiuta a capire meglio il razzismo.
Nella lotta per il riconoscimento tra l’uno e l’altro si inserisce la “lente” della inferiorità. Oggi si continua ad utilizzare il concetto di razza anche se la genetica nega che esista qualcosa che possa portare alla teorizzazione delle razze. La costruzione delle razze nega l’individualità e nega la sostanza degli esseri umani accomunati dalla loro umanità. Non razze quindi ma solo gruppi umani “razzizzati”.
Il razzismo è un fenomeno della modernità occidentale. Per capire la sua nascita dobbiamo ricollegarci alla rivoluzione borghese, all’enunciato dell’uguaglianza; in quel momento si inventano le razze come nuova differenza e questo ha coinvolto anche gli ebrei: infatti all’antigiudaismo basato su motivi culturali e religiosi subentra l’antisemitismo, basato su differenze genetiche. Condizionante è stato anche il criterio estetico.
Nella cultura greca c’è stata una “ripulitura razzista” volta ad escludere il nero che veniva da fuori.
A questo punto la relatrice evidenzia delle differenze presenti nel razzismo: quello della “eterorazzizzazione” è il razzismo tipico del colonialismo, quello di chi dice “tu sei inferiore per nascita e ti sfrutto meglio”. Tipica del nazismo è stata invece l’ “autorazzizzazione” che si è legata al mito della razza ariana generando un delirio che ha poi portato all’autoannientamento.
La relatrice conclude dicendo che oggi si ritrovano tratti simili all’antisemitismo nell’islamofobia e si può dire che i fenomeni procedano di pari passo.
Presentazione dello stage Radici per crescere ali per volare
Classe V A Liceo Ainis
Introduzione della Prof.ssa Concetta De Luca
Questa brevissima presentazione vuole soltanto ripercorrere per sommi capi il cammino che questi ragazzi hanno compiuto nel corso degli anni. Lascio a loro il compito di presentare, in modo esaustivo, il lavoro di stage.
Ieri, nella sua bella introduzione al Convegno, Josette Clemenza ha utilizzato la metafora del viaggio: voglio qui riprenderla, poiché un viaggio vero e proprio è stata questa esperienza di studio in questa classe.
Siamo partiti qualche anno fa, alla scoperta delle nostre radici, fatte di ricordi d’infanzia, di luoghi della memoria, di racconti ascoltati dai nonni o, comunque, dagli anziani della famiglia e del quartiere: tutti fili intrecciati dentro di noi, che costituiscono la nostra storia personale. Le notizie, i dati storici, sono stati raccolti con metodo rigoroso ma anche con partecipazione emotiva: la scommessa è stata la narrazione di sé. I ragazzi, supportati da ampie letture, si sono cimentati nell’esperienza della narrazione procedendo a passi incerti, all’inizio, poi, via via, sempre più sicuri.
Il primo porto era stato raggiunto: ora, però, bisognava partire di nuovo, alla ricerca del confronto con identità altre. Abbiamo dunque varcato il nostro Stretto e siamo andati sull’altra sponda, a Riace. Non troppo lontano eppure così lontano. Le ragazze porteranno qui le esperienze, le testimonianze vive dei migranti di Riace.
Al ritorno, ancora, e questa volta con maggiore consapevolezza, ci aspettava la sosta in porto: la riflessione e la narrazione nei diari di bordo.
E’ stato a questo punto che abbiamo incontrato l’Islam, che avevamo visto tanto vicino a noi nello spazio e nel tempo eppure ancora così sconosciuto, a volte mistificato da pregiudizi non di rado alimentati dai mass media. Conoscere un po’ di più la cultura, le usanze, la storia dell’Islam, ancora così sacrificata nei nostri manuali, ci è sembrato utile, anzi indispensabile, anche per meglio comprendere le storie di vita che ci erano state narrate.
All’Islam, ci siamo avvicinati con metodo scientifico, filologico per quanto riguarda la lettura di alcune sure del Corano, grazie alla guida del professor Salvatore Speziale, docente di Storia dei paesi islamici nonché profondo conoscitore della lingua araba.
Questa esperienza è andata avanti anche quest’anno: abbiamo avuto modo di approfondire i contatti tra oriente e occidente nella storia, evidenti non solo nei monumenti, che qui in Sicilia sono moltissimi, ma anche nelle parole, nell’ispirazione poetica, negli scambi tra le sponde di questo Mediterraneo, mare comune.
Oggi siamo qui, a Capo Peloro, e si capisce come questo luogo non sia stato scelto a caso, a raccontare questa parte del nostro viaggio che, tuttavia, non è ancora finito. La V A, infatti, lavora quest’anno, insieme ai ragazzi del Circolo Arci “Thomas Sankara”, con cui ha formato una classe multiculturale impegnata in laboratori di varia natura. Alla fine, narreremo ancora.
Ovviamente, quello che le ragazze presenteranno, è un prodotto multimediale confezionato in occasione del convegno e quindi necessariamente sintetico. Alle spalle di questi pochi minuti di presentazione, ci sono centinaia di pagine di diari di bordo, molte letture di carattere scientifico e letterario, ipertesti, raccolte dati e molto altro che non è possibile illustrare in un semplice intervento.
La voce delle scuole
Gli interventi prendono spunto sia dalle relazioni sia dalla presentazione dello stage della V A dell’istituto “E. Ainis”. Attraverso il lavoro dei ragazzi, come sostiene il prof. Camuri, è possibile capire quanto sia fondamentale il ruolo del C.d.c..
Sulla scelta del power point come prodotto finale dello stage si sofferma la prof. Clemenza dicendo che si lega al nuovo modo di comunicare, di narrare che hanno i ragazzi di oggi, ragazzi peraltro presenti da protagonisti in questo convegno con dignità di relatori.
Rispetto al tema del razzismo viene sottolineata l’importanza del “disimparare” che il prof. Camuri ricollega all’Emilio di Rousseau, all’importanza dei “luoghi dell’altrove”, alla necessità di ritrovare nella storia degli altri le tracce della storia del sé. Ci si chiede, però, come conciliare il disimparare con le necessità della scuola, come superare il razzismo culturale che risulta più difficile da abbattere di quello per dir così “colorato”. Ci si chiede ancora come prepararci per educare a superare il razzismo e se è possibile pensare ad un razzismo “compatibile”.
Si sottolinea, inoltre, che la vera spinta per andare oltre il razzismo dovrebbe venire dal basso perché non si può pretendere di imporre il multiculturalismo, è dal basso che si devono risolvere i problemi.
Molto emerge, secondo la prof.ssa Marchetti, dalla pratica più che dalla teoria: importante è ciò che facciamo, lavorare insieme, stare “dentro le cose” insieme ai ragazzi come prevede l’epistemologia dell’indirizzo di Scienze Sociali.
La prof.ssa Siebert replica soffermandosi sull’origine psicologica del razzismo, su un bisogno di aggressività che accomuna razzismo biologico e culturale. Ribadisce inoltre che il razzismo trasforma condizioni e contesti che hanno una collocazione storica in fatti eterni, li naturalizza. Riguardo al ruolo della scuola, ritiene sbagliato fare crociate antirazziste, ma suggerisce di costruire insieme. Ritiene inoltre che anche se i pregiudizi razzisti circolano nel basso, è più da criticare e da combattere il razzismo istituzionale.
In conclusione viene ribadita dal prof. Camuri l’importanza del lavoro che il convegno sta svolgendo e sottolineata la necessità di recuperare la riflessività di diventare critici verso se stessi. Ricorda pertanto Eraclito per cui il logos è solo una grande trama di una narrazione infinita.
Sessione riservata alle scuole iscritte alla Rete “Passaggi”
Nel presentare il significato e lo scopo del convegno il Dirigente Scolastico del Liceo ospitante “E. Ainis”, Prof.ssa A. Stancanelli, evidenzia l’importante ruolo che la Rete dei Licei di Scienze sociali “Passaggi”, che attualmente coinvolge ben trentatrè scuole, svolge oggi in un momento di grande incertezza per la scuola italiana. Viene spontaneo chiedersi che cosa spinga tanti istituti a mettersi insieme. Certo è determinante il senso di vuoto e la solitudine che attualmente caratterizza le scuole. Per questo è importante incontrarsi: si è arrivati, infatti, già al quinto incontro dei Licei delle Scienze Sociali. Viene chiarita quindi la novità di questo incontro, occasione di confronto tra scuole che però ora condividono anche la volontà di costituirsi ente pubblico con statuto notarile per avere maggiore visibilità, per confermare il proprio diritto di esistere e anche per accedere a contributi necessari per l’attività della Rete. Quindi risulta importante condividere questa necessità ed approvare lo statuto.
Si passa quindi alla lettura dello statuto e dell’elenco delle scuole aderenti alla Rete.
Coordinano l’incontro delle scuole iscritte alla Rete la Prof.ssa Maria Teresa Santacroce dell’IMT “Fiore” di Terlizzi (BA) e il Prof. Guido Boschini dell’ITIS “Cobianchi” di Verbania.
La Prof.ssa Santacroce esordisce definendo la Rete un momento di convivialità, utile per favorire la reciproca conoscenza, precisando che la sua riflessione si basa sull’esperienza. Afferma quindi che il primo aspetto su cui è opportuno soffermarsi è la problematica relativa al curricolo, individuando come punto di partenza il documento del 2000, da cui si comprende come le scuole abbiano innovato contenuti, didattica e modo di “fare” scuola. Cita ad esempio l’esperienza del proprio istituto come promotore di incontri con le altre scuole della Puglia. Tale esperienza, evidenziando una realtà molto eterogenea, ha stimolato la riflessione sulla necessità di confrontarsi. In tale prospettiva sarebbe opportuno pensare alla figura di un referente all’interno di ogni scuola, visibile e riconosciuto, con il compito di pubblicizzare, e non solo all’utenza, le attività della Rete. Fondamentale a tal fine è anche l’uso del sito. Accanto alla rete formalizzata è utile quindi una associazione disciplinare dei docenti, ovvero una rete fatta dagli istituti e dai docenti, nell’ottica di una valorizzazione reciproca. Altra proposta è quella di conoscere dettagliatamente quanti e quali sono i licei delle scienze sociali in tutta Italia, nonché le relative progettazioni e i curricoli di studio. Infine la relatrice esprime l’idea di coordinamenti regionali i cui lavori confluiscano nella Rete nazionale, intesa come momento di alta formazione.
Prende quindi la parola il Prof. Guido Boschini il quale ribadisce che il primo interrogativo da porsi è quello di capire che cosa spinga le scuole comprendenti l’indirizzo di scienze sociali ad aderire alla Rete. Ritiene necessario confrontarsi sulle aspettative delle singole scuole, dichiarando dal proprio punto di vista, che è il sentimento di solitudine proprio della professione docente a motivare una tale scelta, perché aderire alla Rete significa confrontarsi sulle pratiche didattiche. Una sfida da affrontare è cercare di non perdere la tradizione, senza tuttavia rimanere ancorati al passato. Il rischio che tante conoscenze acquisite non vengano trasmesse è reale; per questo è importante il ruolo delle scuole e dell’associazione disciplinare, cui può essere affidato i compito di formare gli insegnanti delle Scienze Sociali.
INTERVENTI
La necessità di incontrarsi e confrontarsi viene ribadita negli interventi dei presenti. Il coordinamento regionale o addirittura provinciale, quando le realtà territoriali lo consentono, può essere fondamentale per sostenere il Liceo delle Scienze Sociali che si propone come realtà alta e fragile al tempo stesso.
Dal dibattito emerge la necessità di una associazione disciplinare che tuteli la mappa degli insegnamenti di Scienze Sociali. Per l’ispettrice Sgherri una associazione disciplinare in senso proprio (tipo Società filosofica italiana) può servire non solo per tutelare gli insegnamenti di Scienze Sociali, ma per avere elementi ed argomenti in vista anche di un riconoscimento ufficiale da parte del Ministero.
D’altra parte c’è chi sottolinea la necessità di gradualità: il momento attuale dovrebbe essere dedicato all’approvazione dello statuto che può dare più peso alla Rete. A tal proposito il Prof. L. Mantuano sostiene di fare un più specifico riferimento alla dislocazione regionale per un più facile accesso ai fondi destinati ad associazioni di promozione sociale.