Nell'ambito del convegno di Verbania, come Contorno Viola abbiamo contribuito affrontando il tema della Peer education nel suo impatto con il mondo digitale (Verso una peer education 2.0). Riprendo (e rielaboro) alcune delle cose dette in quella occasione.
Virtuale: una parola “trappola”
La parola virtuale è risuonata più volte durante il convegno sia come aggettivo (amico virtuale, luogo di incontro o “parchetto” virtuale ecc.) che come sostantivo (il, nel virtuale …).
Mi sono tornati visivamente alla mente i primi telefoni che ricordo. Non avevo ancora cinque anni. Alta Val Formazza, presso le case dei custodi delle dighe che erano anche utilizzate da escursionisti e villeggianti come rifugio e ristoro, appeso al muro non mancava mai il telefono a manovella e con auricolare “indipendente” collegato al filo: era la linea interna della Edison che collegava l’intero sistema di dighe e centrali ossolane. Un sistema efficiente e, come seppi molto più tardi, utilizzato qualche anno prima anche dalla Resistenza.
E poi il “cassone” nero a cornetta, fisso al muro, installato nell’antistudio di mio padre, con il suo suono trillante al massimo volume per poter esser sentito anche dai piani superiori. La collocazione (il luogo e l’altezza) chiariva ulteriormente che poteva essere utilizzato solo “dai grandi”.
A nessuno allora sarebbe mai venuto in mente di chiamare “virtuale” quel tipo di comunicazione. Era una realtà nuova la cui utilità e potenzialità era immediatamente percepita.
Perché si utilizza “virtuale” per la comunicazione digitale? Non una definizione, un nome preciso ma una sorta di categoria ontologica: virtuale evidentemente si oppone a “reale” il che rimanda a illusorietà, irrealtà, fuga dalla realtà ecc. Ma dal punto di vista ontologico (o se vogliamo del grado di realtà) non c’è nessuna diversità tra suoni e immagini del web e quelli di telefono, cinema e tv; cambiano solo modalità tecniche e supporti fisici.
Mi pare che in questo utilizzo della parola rispetto alla possibile (ma discutibile) “categoria” (virtuale come nuova forma di “immaginario”, di “fantastico”) prevalga la connotazione negativa appunto di fuga dal reale, di fittizio, di illusorio, di mascheramento ecc.
Ebbene questo utilizzo diventa allora una “trappola”, una schermatura che impedisce a molti adulti di vedere quel mondo e di capirne “utilità e potenzialità”. Una sorta di pregiudizio preventivo che, qui, impedisce di comprendere le nuove modalità fruitive (informazione, musica, video ...), creative e comunicative tra i giovani che si inventano nuove modalità relazionali e si svincolano dal prepotere del mezzo televisivo nonché, al di là del mediterraneo, il carattere dirompente di una forma di comunicazione orizzontale che sfugge a controlli e censure degli autoritari potentati locali.
Direi anche un utilizzo ideologico di “virtuale”, se non fosse che “ideologia” ed “ideologico” sono anch’esse diventate parole ideologiche, parole ormai sempre più utilizzate per imporre la dittatura del mercato e delle sue leggi contro ogni valore ed istanza alternativa; “parole trappola” anch’esse.
C’è chi al posto di “virtuale” preferisce utilizzare le espressioni “estensione della realtà” e “realtà estesa (o espansa)”. L’espressione mi sembra corretta ma con una precisazione: questa è una realtà nuova, estesa (la tecnologia da sempre ha prodotto una estensione della realtà) per noi che siamo a cavallo tra il prima e il dopo, che abbiamo visto comparire e diffondersi le nuove tecnologie digitali. Non lo è per chi oggi (e ancor più domani) se la trova davanti. Come, che so, per tutti noi bicicletta e radio son sempre stati parte della realtà. E nessuno si vantava allora di non andare in bicicletta o di non ascoltare la radio mentre sino a non molto tempo fa si potevano sentire adulti che vantavano il non utilizzo del cellulare e che oggi dichiarano, ad es., di esser assolutamente “contrari” all’uso di Facebook.
Certo, un disagio c’è. Un rovesciamento generazionale rispetto alle competenze e all’utilizzo delle nuove tecnologie. Come ricordavo all’inizio, quando noi eravamo “piccoli”, il telefono (e poi ad es. lo scooter) erano “per i grandi” e progenitori e fratelli maggiori fungevano da trainer rispetto a quelle tecnologie. Ora sono sempre più spesso i “piccoli” a far da trainer agli adulti per l’utilizzo delle tecnologie digitali.
Non è una scusa per non addentrarvici. Anche perché questo rovesciamento ci permette di ridefinire il nostro ruolo e la nostra autorevolezza di adulti su qualcosa di più stabile rispetto al continuo evolvere delle tecnologie.
Contorno Viola
Qui sotto si può accedere sia alla presentazione del convegno che ai filmati prodotti dai percorsi Peer education del gruppo di lavoro dell'Istituto Cobianchi di Verbania. Pubblichiamo anche la testimonianza di un docente che ha partecipato al workshop tenuto dai ragazzi del gruppo Peer Education di Verbania.
Ho avuto la fortuna di essere tra i pochissimi insegnanti che hanno partecipato al laboratorio di peer education che ha concluso i lavori del convegno. A causa della collocazione oraria nella tarda mattinata di venerdì 18, molti colleghi erano già sulla strada del ritorno, mentre altri, approfittando del bel tempo, hanno preferito cogliere l’occasione per ammirare finalmente Verbania e il lago sotto la luce del sole.
Il nostro sparuto gruppetto è stato quindi preso in consegna da una decina di alunni del Cobianchi, che ci hanno coinvolti in una simulazione dell’attività di peer education condotta all’interno dell’istituto, avente come obiettivo la conoscenza e la prevenzione dell’HIV.
I nostri animatori erano ragazzi di quarta provvisti di una specifica formazione, i quali generalmente indirizzano il loro intervento agli alunni del biennio.
La prima fase del laboratorio è consistita in un brainstorming innescato da alcune parole chiave: prima “amore/sesso”, poi “HIV/AIDS”, a cui bisognava connettere parole, immagini, titoli di libri, film, canzoni ecc...Le associazioni prodotte ci hanno permesso di riflettere e di confrontarci sulle differenze tra le concezioni dell’amore del sesso e della malattia più diffuse negli adolescenti e negli adulti.
La seconda fase del laboratorio è consistita in un gioco di ruolo. Quattro di noi sono stati invitati ad uscire dall’aula ed hanno ricevuto un biglietto che descriveva le caratteristiche del personaggio che avrebbero dovuto interpretare: una ragazza che ha scoperto di avere una malattia sessualmente trasmessa; l’amica della ragazza; il fidanzato; l’amica del fidanzato.
Rientrati in aula abbiamo inscenato tre colloqui: la ragazza malata che chiede consiglio all’amica; la ragazza malata che svela la propria condizione al fidanzato; il fidanzato che si confida con l’amica. Al termine della rappresentazione abbiamo discusso dei comportamenti dei personaggi e delle loro reazioni. I ragazzi ci hanno chiesto se avremmo agito come i protagonisti della storia, mentre noi eravamo interessati a sapere in che cosa le nostre interpretazioni di adulti differivano da quelle dei quattordicenni e quindicenni con cui gli animatori del Cobianchi solitamente si confrontano.
Personalmente sono rimasto colpito dalla disinvoltura dei ragazzi, i quali pur avendo di fronte degli insegnanti, hanno saputo condurre il laboratorio con grande scioltezza e spontaneità, senza alcuna traccia di imbarazzo, ma anche con grande autorevolezza, fornendo informazioni chiare e rigorose, dimostrando di saper instaurare anche con noi adulti un rapporto di peer education.
Questa esperienza, che avrebbe senz’altro meritato una partecipazione più ampia, è un’ulteriore conferma (se mai ve ne fosse ancora bisogno) che affidare ai ragazzi la pianificazione e la gestione diretta di interventi educativi e promuovere l’assunzione di responsabilità che ne deriva è una scommessa vincente.
Nicola Della Casa