di Claudia Petrucci
1. Le criticità dell’oggetto.
Le prime difficoltà nell’insegnamento della geografia nascono da una ingiustificata ma molto consolidata tradizione (anche nella formazione degli insegnanti), che considera la geografia l’”elemento aggiunto” nell’insegnamento di lettere, sia nella scuola media che nel biennio della secondaria.
Questo insegnamento finisce così con l’apparire incongruente rispetto al blocco portante identificato nell’insegnamento linguistico e letterario. Gli insegnanti ritengono di “conoscere poco” questo ambito, e di avere quindi difficoltà nel proporlo. A volte ne sottolineano la frammentarietà e la incoerenza intrinseca (descrittiva, fisica, demografica, economica, ambientale, ecc.). A volte lo scarso appeal in un’epoca di globalizzazione e apparente “scomparsa delle distanze”.
2. Le criticità della prospettiva
A volte la difficoltà nasce anche dalla scelta di un taglio troppo sbilanciato sull’analisi delle contraddizioni e dei conflitti nei rapporti tra le comunità umane. Nella apparente “incoerenza” della geografia, e in mezzo magari ai sensi di colpa per strumenti che non ci si sente di padroneggiare a pieno, questo taglio può sembrare una via d’uscita. Molti libri di testo lo incoraggiano, e c’è una diffusa corrente di pensiero, che per brevità si potrebbe definire “iper-umanista”, che identifica proprio nell’analisi esclusiva delle culture e dei loro rapporti (e non, per esempio, nella lettura della morfologia fisica del territorio o perfino del paesaggio) l’aspetto che giustifica l’assegnazione dell’insegnamento ai laureati in lettere e storia. Non è detto che la formazione umanistica degli insegnanti sia per definizione adeguata a reggere questa sfida : l’antropologia culturale non è sempre presente nei curricoli universitari di chi approda alla scuola. Ma anche quando lo è, è meglio andarci cauti.
Il confronto culturale tradotto nelle materie scolastiche è infatti spesso, magari anche benevolmente, contrastivo. Questo può addirittura scontrarsi con la naturale disponibilità dei più giovani a vedere il mondo in termini di individui significativi, e non di gruppi. In fondo, per un bambino delle elementari, che in casa del suo compagno Karim si parli arabo e magari che la mamma porti l’hijab, fa parte delle caratteristiche di Karim, simpatico, antipatico, bravo a scuola o al calcio, e non di quelle del mondo arabo. E la versione che conta è quella che dà Karim sulle abitudini di casa sua, su quali giochi, dolci e feste comandate condividere, quali spiegare, e quali tenere per sé. La curiosità su provenienze e culture è mediata dal rapporto personale e dalla scuola come contenitore pluralista, e a volte può sembrare perfino ragionevole non dare tanta importanza a quello che potrebbe dividere gli amici. I bambini queste cose le avvertono.
Gli adolescenti, invece, vogliono poter scegliere. Alle medie, Karim vorrà essere soprattutto, come tutti i ragazzi, rispettato, e vorrà essere lui a decidere se e quando, in quali contesti, con quali persone, con quali strategie di protezione, far giocare la propria identità multipla. Dedicare una materia scolastica a lingue, culture, religioni e conflitti può essere peggio che inutile, col risultato paradossale di trasformare gli insegnanti di geografia nei nipotini, magari inconsapevoli, di Samuel P. Huntington. Confronti culturali e conflitti possono essere sì trattati a scuola, ma in forme e in
Competenze e contenuti
Identificare e affrontare queste criticità è possibile se si sposta l’attenzione dalla trasmissione del contenuto geografico alla acquisizione di competenze geografiche. Vediamo che cosa questo può significare in un momento culturale in cui la stretta contenutistica appare assolutamente prevalente.
La competenza geografica è quella che ci permette di valutare grosso modo direzioni, spazi e distanze anche se non c’è il navigatore satellitare. La competenza geografica consiste nel rendersi conto di dove siamo, di che cosa (ambienti naturali o antropici) abbiamo intorno, dello spazio che ci separa da altri luoghi e del come, se, e perché possa valere la pena di superarlo, dei territori e dei paesaggi che attraversiamo e delle forze che li hanno modellati. Basta portare in giro una classe e si capisce subito chi ce l’ha (magari anche un po’ per merito di noi insegnanti) e chi no.
Da dove si comincia? Una strada a volte promettente è quella che cerca di ancorare lo sviluppo delle competenze geografiche allo studio dei diversi aspetti di un territorio familiare e/o significativo agli occhi degli studenti. E’ una strategia induttiva che richiama le tradizioni della scuola democratica, che parte dalle “storie”individuali per arrivare alla “grande storia”. A volte questa strategia funziona, a volte no, a volte spazi immaginati da noi adulti come significativi e noti non lo sono affatto agli studenti, e magari sono da loro detestati.
L’opinione di chi scrive è che in ogni caso, ad ogni età, l’esperienza del territorio vada accompagnata, anche se non necessariamente preceduta, da alcune categorie generali di lettura geografica. Alle superiori, poi, un insegnamento sistematico di geografia generale ci deve essere : le analisi di caso funzionano solo se hanno alle spalle conoscenze non episodiche delle forze naturali e antropiche che agiscono sul paesaggio e ne determinano le caratteristiche.
Le criticità del setting
Nella scuola secondaria post- riforma, si usa dire, la geografia non c’è più. Le ore in realtà non sono propriamente diminuite, dato che l’insegnamento continua per i due anni di biennio, il che è più di quanto i licei conoscessero, ma il setting è indistinto. E questo, in una scuola sempre più segnata dalla separatezza tra le materie, è un problema serio.
La collocazione nell’abbinamento con storia, con unicità di voto, lascia apparentemente liberi di entrare e uscire dal campo geografico secondo necessità. Aumenta in realtà l’incertezza e la percezione di estraneità, in un assetto culturale generale che accentua invece, a tutti i livelli, l’accumulo di distinti contenuti disciplinari. Aumenta la percezione di “togliere tempo” alle attività fondamentali di educazione linguistica e, a volte, letteraria, di fronte a classi sempre più numerose ed eterogenee.
A volte, poi, lo spezzone storia/geografia serve solo a completare la cattedra in classi diverse da quelle in cui si insegnano le materie ritenute portanti, e questo aumenta le difficoltà.
Identificare e affrontare queste criticità è possibile se ci si mette nella prospettiva di privilegiare le relazioni tra i contenuti per costituire contesti di apprendimento. E’ un discorso antico ma oggi, se possibile, ancora più necessario. E’ questo il terreno specifico delle analisi di caso, che possono essere avviate non appena le categorie generali del discorso geografico siano state affrontate. Il tempo si può trovare, perché questo lavoro è spendibile su diverse discipline, anche all’interno del lavoro “normale” dell’insegnante.
Percorsi possibili
Le analisi di caso offrono uno spazio di ricomposizione possibile, nell’arco delle discipline che l’insegnante di lettere e storia è abituato a maneggiare. La lettura degli squilibri ambientali e delle loro cause e conseguenze sociali è un terreno impegnativo e severo, che obbliga a fare i conti con la storia, l’economia, il diritto e quella che in genere si chiama l’educazione civica. Il Paesaggio e la Costituzione, per dirla con Salvatore Settis, stanno sullo stesso orizzonte, e questo orizzonte, tutte le volte che si può, vale la pena di percorrerlo. Ma costruzioni, magari più modeste, di competenza e contesto geografico sono sempre possibili, a partire da moltissimi oggetti della nostra abituale scrivania di lavoro.
La violenza e la durata dell’uragano descritto da Jack London (“ The house of Mapuhi”) fanno impallidire gli effetti speciali di molta realtà virtuale. I sobborghi di campagna inquinata descritti da Maupassant (per esempio, “Une partie de campagne”) spiegano bene l’aridità di certi personaggi e servono da illustrazione alla storia del paesaggio industriale europeo. E se so che cos’è un’eruzione vulcanica, posso anche capire quel ragazzo di diciassette anni che sente tremare la casa, ma all’inizio nessuno ci bada, perché “ siamo in Campania, qui succede sempre”, e lui si mette addirittura a fare i compiti, e poi invece crollano i tetti, e tutti si affollano, e qualcuno comincia a gridare alla fine del mondo. “Siamo in Campania, qui succede sempre, non è il caso di avere paura”.
“Minus formidolosus, quia Campaniae solitus”, dice Plinio, alle falde del Vesuvio, in una notte di duemila anni fa.
Claudia Petrucci