ARTICOLI SUL TEMA DELLE SCIENZE SOCIALI
A cura di Stefania Stefanini
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
Sommario:
Le scienze sociali come 'famiglia' di discipline
Definire che cosa siano le scienze sociali è assai più arduo che non definire, per esempio, che cosa siano la geometria o la fisica - e ciò nonostante la crescente articolazione di quest'ultime in domini specialistici. Anche alle scienze sociali si può certamente applicare la vecchia definizione - paradossale solo in apparenza - secondo cui la geometria è ciò che fanno i geometri o la fisica è ciò che fanno i fisici. Ma con due difficoltà aggiuntive: la prima è che la stessa individuazione della figura degli scienziati sociali è a tutt'oggi problematica, la seconda che essi fanno spesso cose disparate, sia nel senso di studiare fenomeni differenti sia nel senso di avvalersi di metodi quanto mai diversi, che vanno dalle tecniche di osservazione di società 'primitive' delle quali si serve l'antropologo nel suo lavoro sul campo alla formulazione di complicati modelli matematici da parte dell'econometrico.
Il fatto è che - come l'uso stesso del plurale indica - le scienze sociali non costituiscono una scienza, ma piuttosto una 'famiglia' eterogenea di discipline che si sono formate in epoche differenti, e per rispondere a esigenze anch'esse differenti. Un discorso sulle scienze sociali rimanda necessariamente alle sue diverse componenti, cioè alle singole discipline che possono rientrare, o esser fatte rientrare, in questa 'famiglia', ai loro rapporti reciproci, ai confini che separano le scienze sociali da altri ambiti disciplinari. Non già che le scienze sociali non abbiano aspirato, e aspirino ancor oggi, all'unità; anzi, nel corso della loro storia ricorre spesso la pretesa, da parte dell'una o dell'altra disciplina, di abbracciare l'intero dominio dei fenomeni 'sociali', di diventare cioè la scienza sociale onnicomprensiva, o per lo meno la scienza sociale 'fondante' nei confronti delle altre. Ma ogni volta che una scienza sociale ha avanzato una pretesa del genere si è poi vista costretta, nel suo sviluppo successivo, a fare i conti con altre discipline che reclamavano la loro autonomia; cosicché anch'essa si è trasformata in una disciplina specifica al pari di quest'ultime.
Né le scienze sociali sembrano, a tutt'oggi, riconducibili a una teoria generale in grado di unificarle. Anche a questo proposito non sono mancati i tentativi di determinare una piattaforma teorica comune alle varie discipline che studiano la società, o per lo meno la società umana; ma sempre questi tentativi si sono dimostrati inadeguati, e hanno finito per emarginare qualcuna delle scienze che avrebbero dovuto, invece, tenere insieme. Così, per esempio, il marxismo ha proposto una teoria generale - che intendeva essere 'scientifica' - della società, dalla quale tutte le scienze sociali dovevano trarre i loro principî; ma questa teoria non è stata in grado di render conto dello sviluppo di discipline come la sociologia o l'antropologia se non in maniera riduttiva, oppure negando la validità della loro impostazione e dei loro risultati. Ancora a metà del Novecento Talcott Parsons e altri studiosi hanno proposto una teoria generale dell'azione, fondata sulla distinzione (e sull'interazione) fra tre sistemi - la personalità, il sistema sociale, la cultura - oggetto rispettivamente delle tre scienze sociali di base, individuate nella psicologia sociale, nella sociologia e nell'antropologia culturale; ma questa teoria, oltre a rispecchiare un ben preciso paradigma, ha lasciato in disparte altre discipline alle quali veniva attribuito un carattere 'settoriale' come l'economia e la scienza politica.
Che le scienze sociali non possano essere ricondotte a una piattaforma unitaria dipende, in ultima analisi, della mancanza tanto di un'unità di oggetto quanto di un'unità di metodo - a meno che non s'intenda il metodo in un senso quanto mai generale, cioè nel senso di metodo 'scientifico' tout court. L'ambito oggettivo delle scienze sociali copre infatti una molteplicità di fenomeni che richiedono di essere 'osservati' e analizzati con una gran varietà di strumenti: fenomeni di carattere diverso e anche di dimensioni diverse, che vanno dai processi di socializzazione dell'individuo ai 'valori' condivisi nella società di appartenenza e dalle istituzioni che ad essi presiedono alle grandi trasformazioni tecnologiche, economiche, politiche che mutano il volto di una società. Per studiare questi processi sono stati adottati approcci differenti, e quindi tecniche di ricerca anch'esse differenti, connesse - quando lo sono - da rapporti problematici. E tuttavia le scienze sociali hanno un carattere in comune: quello, appunto, di essere 'scienze', cioè di essere sorte sulla base di uno sforzo consapevole di conoscenza della società o, meglio, delle società umane. Non a caso la loro nascita tra Sei e Ottocento è strettamente collegata allo sviluppo della moderna scienza della natura e alla sua impostazione; e non a caso scienze come la fisica e, più tardi, la biologia hanno a più riprese rappresentato per esse un modello metodologico o, per lo meno, un termine di riferimento. Anche se lo schema formulato da Auguste Comte nel Cours de philosophie positive (1830-1842), secondo cui le scienze sarebbero pervenute allo stato positivo in un ordine determinato dalla semplicità e generalità decrescente del loro oggetto nonché dalla prossimità crescente al soggetto - cosicché lo studio scientifico della società presuppone necessariamente lo sviluppo precedente di astronomia, fisica, chimica e fisiologia -, appare per lo meno semplicistico, non c'è dubbio che le scienze sociali si sono costituite come discipline scientifiche dopo Newton, Boyle e Lavoisier, proponendosi di estendere ai fenomeni sociali la medesima impostazione che tanti frutti aveva dato, e continuava a dare, nello studio dei fenomeni fisici o chimici.
Le scienze sociali hanno infatti in comune con la moderna scienza della natura la ricerca di leggi generali dei fenomeni sociali - siano questi processi economici o politici o di altro genere - fornite della medesima validità delle leggi di Keplero o della legge di gravità. Ad essa si è accompagnata, in misura sempre più marcata, l'aspirazione a formulare predizioni sullo sviluppo futuro della società o, più limitatamente, di determinati processi economici o politici. Anche le scienze sociali sorgono perciò come scienze di leggi, come ricerca di regolarità nell'ambito dei fenomeni sociali - il che spiega come, per un lungo periodo, esse abbiano avuto rapporti così rari, e spesso conflittuali, con la storiografia. All'origine delle scienze sociali vi è quel passaggio dall'originario significato normativo a un diverso significato del concetto di 'legge' che è dato riscontrare in Montesquieu, per il quale le leggi per un verso sono le regole di convivenza tra i popoli, o tra governanti e governati, o ancora tra i cittadini all'interno del medesimo corpo politico, ma per l'altro verso sono "i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose", rapporti che valgono per "tutti gli esseri", e quindi anche per l'uomo considerato nella sua esistenza sociale. Non meno della natura fisica, anche la società appare caratterizzata da regolarità di comportamento che la scienza può, e deve, determinare: regolarità valide non soltanto per il passato e per il presente, ma anche per il futuro, e quindi fondamento per poter enunciare previsioni.
Al pari delle leggi naturali, anche quelle sociali erano concepite come suscettibili di una determinazione quantitativa. Dei due elementi costitutivi della moderna scienza della natura, il ricorso all'esperimento come strumento di verifica delle ipotesi e la formulazione matematica, le scienze sociali hanno indubbiamente privilegiato il secondo. I fenomeni sociali potevano infatti essere osservati e correlati tra loro, ma non riprodotti in laboratorio; il ricorso all'esperimento sembrava perciò precluso, o per lo meno ridotto a un ruolo del tutto secondario. Esso può, caso mai, essere sostituito dall'impiego di tecniche di simulazione di vario genere. Nulla però ostava, in linea di principio, a esprimere le correlazioni tra fenomeni sociali in forma matematica. Questo sforzo si delinea chiaramente già nel corso del Settecento, e culmina nella "matematica sociale" di Condorcet, tentativo di applicazione del calcolo allo studio dei fenomeni sociali che deve recarlo allo stesso grado di certezza attinto dalla conoscenza della natura. Ma già William Petty, alla fine del secolo precedente, aveva proposto un'"aritmetica politica"; e nel Tableau économique (1758) François Quesnay aveva espresso in termini quantitativi le relazioni tra le diverse classi sociali all'inizio e alla fine del ciclo produttivo annuale, in cui si manifesta l''ordine naturale' della società. E se altre discipline più recenti, come la sociologia e l'antropologia, ricorreranno più raramente alla matematica, l'economia politica imboccherà decisamente - a partire da Adam Smith e da David Ricardo - la via del calcolo e, in seguito, della formulazione di modelli matematici sempre più sofisticati, fino a proporsi, negli ultimi decenni, come esempio paradigmatico per le altre scienze sociali.
Sulla possibilità di trasporre senza residuo il metodo della scienza moderna allo studio dei fenomeni sociali, e quindi sulla natura sia delle regolarità sia delle previsioni formulate dalle scienze sociali, si è a lungo discusso; e nel corso del dibattito sono stati perseguiti due scopi metodologicamente opposti. Da una parte è stata rivendicata la specificità delle 'leggi' sociali, la loro irriducibilità a leggi in senso deterministico. Dall'altra, invece, ci si è proposti di garantire alle regolarità determinate dalle scienze sociali il medesimo grado di certezza che veniva attribuito alle leggi della fisica newtoniana. In realtà, l'affermazione della specificità delle 'leggi' sociali era diretta contro un'immagine deterministica della scienza, che soprattutto la sociologia aveva adottato ai suoi inizi. Una volta che questa immagine è venuta meno anche nell'ambito delle scienze naturali - come mostra chiaramente lo sviluppo della fisica nel Novecento - le 'leggi' sociali si presentano come regolarità su base statistica, non diversamente da quelle delle altre scienze; e anche le previsioni che si possono formulare sulla loro base appaiono fornite non di una certezza assoluta, ma di un grado maggiore o minore di probabilità al pari delle previsioni formulate da altre discipline (basti pensare alla meteorologia, che non è certamente una scienza sociale). A questo mutamento nel modo di intendere le 'leggi' sociali ha dato un contributo decisivo lo sviluppo della statistica nel corso dell'Ottocento. E proprio richiamandosi ai lavori di uno statistico come Johannes von Kries, l'autore dei Prinzipien der Wahrscheinlichkeitsrechnung (1886), Max Weber ha potuto presentare la relazione di causa ed effetto tra fenomeni sociali in termini di "possibilità oggettiva", di una possibilità suscettibile di una gradazione che va dall'estremo della causazione adeguata all'estremo opposto della causazione accidentale.
Scienze sociali e società moderna
Il rapporto con la moderna scienza della natura, per quanto fondamentale, non è però sufficiente a render conto della nascita delle scienze sociali. Altrettanto decisive appaiono le relazioni che le collegano allo sviluppo della società moderna. Ciò non vuol dire che, una volta costituitesi, le scienze sociali non abbiano proceduto anche in virtù di una logica interna: la loro considerazione in chiave di sociologia del sapere (o della scienza) non conduce affatto a fare del loro sviluppo un riflesso immediato di processi economici o politici o di altro genere in atto nella società circostante. Ma lo stesso costituirsi delle singole discipline in epoche diverse - e in contesti culturali anch'essi diversi - non può essere spiegato senza fare riferimento a questi processi, che comportano l'insorgenza di nuovi oggetti e di nuovi campi di studio.Lo dimostra il semplice fatto che, tra le scienze sociali, la prima ad acquisire una propria autonoma fisionomia sia stata proprio la scienza economica o - per usare la sua denominazione originaria - l''economia politica'. La sua nascita accompagna l'affermarsi del capitalismo moderno già prima della rivoluzione industriale; accompagna il processo di creazione dell'impresa moderna orientata verso il profitto e la costituzione di un mercato, interno e internazionale, non più limitato alle merci di lusso. Nel contrasto tra le due 'scuole' di pensiero economico che preparano l'avvento della nuova scienza - il mercantilismo e la fisiocrazia - si esprime il rapporto problematico tra capitalismo e Stato moderno, tra l'esigenza dello Stato di garantire l'aumento della 'ricchezza' prodotta dalla nazione, controllando lo sviluppo economico e traendone le risorse necessarie per la propria politica di potenza, e l'esigenza dell'economia capitalistica di liberarsi da vincoli esterni. Non a caso la versione più matura del mercantilismo, il colbertismo, ha trovato un terreno propizio nella Francia di Luigi XIV, impegnata a far valere la propria egemonia sul continente europeo; mentre il movimento fisiocratico si è affermato anch'esso in Francia, ma nel secolo successivo, quando il peso congiunto della fiscalità e dei limiti frapposti alla libertà del commercio rischiavano di bloccare lo sviluppo capitalistico, nello stesso periodo in cui la trasformazione delle tecniche produttive al di là della Manica favoriva l'affermarsi della supremazia inglese. Che la culla dell'economia politica sia stata l'Inghilterra è un fatto che si spiega non soltanto con Newton e con l'opera di diffusione della scienza moderna compiuta dalla Royal Society, ma anche con la coincidenza tra l'interesse dei ceti borghesi impegnati nell'attività economica e l'interesse dello Stato alla tutela di questa attività. La Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations di Adam Smith (1776), con la sua decisa presa di posizione in favore della libertà di scambio, esprime appunto questa coincidenza.
Non diversamente la nascita della scienza politica è legata all'emergere dello Stato moderno e all'esigenza di un'amministrazione razionale, quale soltanto un apparato burocratico poteva garantire. La riflessione di Montesquieu nell'Esprit des lois (1748) - con il richiamo al pensiero politico inglese dei decenni precedenti, da Locke a Bolingbroke - esprime l'esigenza che lo Stato assoluto non degeneri in dispotismo; e la teoria della divisione dei poteri da lui formulata è rivolta appunto a configurare un equilibrio tra le diverse componenti della sovranità, da realizzarsi mediante la distinzione tra l'organo detentore della potestà di fare le leggi e l'organo deputato alla loro esecuzione. Già ai suoi inizi la scienza politica mostra il proprio nesso con lo sviluppo dei diversi paesi europei. Se nel pensiero politico francese, come del resto in quello inglese, l'analisi verte soprattutto sulle condizioni che devono assicurare la libertà dei cittadini nei confronti del sovrano, e l'autonomia di una sfera privata sottratta all'ingerenza di quest'ultimo, in Germania si è affermato invece un indirizzo di ricerca - il 'cameralismo' - legato allo sviluppo di un'amministrazione che deve assicurare il benessere del suddito e, come condizione di questo, il benessere dello Stato. Esso accompagna da un lato la svolta 'illuminata' dell'assolutismo austriaco e dall'altro l'ascesa della potenza prussiana, in una sintesi dottrinale che sottolinea la necessità di uno 'Stato di polizia' (dove il termine è da intendere non nel significato odierno, ma in un senso analogo all'inglese policy) che tuteli la sicurezza di tutti e favorisca al tempo stesso l'accrescimento della ricchezza dello Stato. Da ciò la centralità riconosciuta allo Stato nella scienza politica tedesca, e la tendenza a subordinare ad esso la considerazione della società civile, anzi a vedere nello Stato - come farà pure Hegel - il luogo in cui si armonizzano gli interessi divergenti delle singole classi. Anche lo sviluppo della scienza politica in epoca contemporanea riflette la trasformazione delle forme della politica: il passaggio dalla Staatswissenschaft a una considerazione della politica non più incentrata sullo Stato e sul suo apparato burocratico accompagna il processo di democratizzazione e l'avvento di una società di massa. Ciò vale anche per alcuni dei principali corpi teorici della scienza politica: la teoria delle élites è un tentativo di interpretazione dei meccanismi che regolano il rapporto tra governanti e governati in una società nella quale la scelta della classe politica è affidata al suffragio elettorale; analogamente la ripresa della teoria delle forme di governo si collega al sorgere di regimi totalitari di destra e di sinistra, e alla conseguente necessità di disporre di una tipologia più comprensiva di quella applicabile ai governi liberali o democratici che si erano sviluppati dopo la Rivoluzione francese.
Ma è soprattutto nel caso della sociologia che viene in luce la connessione tra scienze sociali e sviluppo della società moderna. La sociologia sorge in Francia, all'indomani della Rivoluzione e dell'età napoleonica, dalla consapevolezza di una trasformazione di portata storica che ha comportato la distruzione di una vecchia struttura sociale e che vede emergere una nuova struttura, fondata sull''industria' - termine che, in origine, designa qualsiasi forma di lavoro produttivo - e sul sapere scientifico. I padri fondatori della nuova scienza, Saint-Simon e Comte, si rendevano ben conto dell'impossibilità di un ritorno al passato, a quel tipo di società che nel Medioevo aveva reso possibile, attraverso l'alleanza tra il trono e l'altare, la permanenza per secoli di un ordine fondato su un sistema di credenze condiviso da tutti; ma si rendevano pure conto che l'epoca della rivoluzione era ormai chiusa, e che alla sua azione disgregatrice doveva subentrare uno sforzo di ricostruzione della società, accompagnato dall'edificazione di un nuovo sistema di credenze in grado di garantire il consenso. La sociologia sorge perciò come teoria della società industriale, nella quale l'autorità trova la sua base non più nella fede religiosa ma nella scienza. La società moderna è ormai nata; si tratta di consolidarla eliminando le sopravvivenze del passato e risolvendo i conflitti sociali che il suo stesso sviluppo rischia di produrre. Attribuendo questo compito alle due classi che detengono il potere nella società industriale, la classe degli 'industriali' e quella degli scienziati positivi, la sociologia esprimeva - non senza forzature anticipatrici e una evidente carica utopistica - una nuova realtà, nella quale lo sviluppo scientifico e tecnologico si avviava a diventare l'elemento trainante della trasformazione produttiva.
Anche la nascita dell'antropologia nella seconda metà dell'Ottocento appare legata a un fenomeno storico di lungo periodo, cioè all'espansione europea in altri continenti e all'incontro con popoli prima ignoti, soprattutto con i popoli indigeni del continente americano, i cui costumi venivano ritenuti caratteristici di quello stato selvaggio che ha preceduto la barbarie e poi il passaggio alla civiltà. Questi costumi erano stati oggetto di descrizioni circostanziate da parte di viaggiatori e di missionari, prima ancora che di studiosi, e la loro immagine aveva oscillato tra gli estremi del mito del 'buon selvaggio' (presente già in Montaigne) e del rifiuto di riconoscere ad essi una qualsiasi dignità culturale. L'antropologia si sottraeva a questa alternativa riconoscendo nello stato selvaggio dei popoli primitivi una fase di sviluppo della cultura umana che i popoli europei hanno anch'essi attraversato e da cui si sono poi distaccati nel periodo arcaico della storia greca e romana, ma le cui sopravvivenze sono rintracciabili anche nelle epoche successive. Da ciò il nesso ambiguo che lega la nuova disciplina al colonialismo, sia al colonialismo inglese che si era diffuso nel Vecchio Mondo sia alla spinta colonializzatrice della 'frontiera' americana, e che fa di essa sì uno strumento di conoscenza finalizzato al dominio, ma anche la condizione per una valutazione positiva dei modi di vita dei popoli indigeni.
Pure le altre scienze sociali si prestano, in varia misura, a essere oggetto di una considerazione che può agevolmente mostrarne il legame con processi e tendenze fondamentali in atto nella società moderna. Così - per fare soltanto un esempio - la nascita della demografia è condizionata dalla 'transizione demografica' che, parallelamente alla rivoluzione industriale (ma in larga misura indipendentemente da questa), si compie nel Settecento; e infatti le prime opere dedicate allo studio sistematico della popolazione risalgono alla metà di quel secolo. Di questo legame le scienze sociali sono diventate, del resto, sempre più consapevoli; spesso, anzi, hanno intenzionalmente cercato un rapporto con il mutamento della società, proponendosi di contribuire ad esso o di indicarne mezzi, scopi e anche sbocchi. Questo diverso rapporto - sul quale ritorneremo - chiama però in causa non tanto il condizionamento delle scienze sociali da parte della società circostante, quanto la loro funzione sociale, esplicita o implicita.
Filosofia, scienze sociali, teorie della società
Che le scienze sociali siano un prodotto tipicamente moderno, che la loro nascita sia collegata allo sviluppo della società moderna, non vuol però dire che i problemi da esse affrontati non abbiano un'origine assai più lontana. La conoscenza dei meccanismi che regolano la vita sociale è probabilmente un bisogno di qualsiasi società, o per lo meno delle società pervenute a un certo grado di sviluppo; ed essa ha assunto forma sistematica - per limitarci all'ambito europeo - già nel mondo antico, con il sorgere della riflessione filosofica. Sarebbe certamente errato considerare la Repubblica e le Leggi di Platone o l'Economico di Senofonte o la Politica di Aristotele, o anche i trattati politici di epoca ellenistica e poi romana, come se offrissero un'analisi scientifica della società. Dalle scienze sociali li separa, se non altro, il fatto di essere orientati non verso la determinazione di leggi, ma piuttosto verso la ricerca della migliore forma di governo o l'enunciazione di una precettistica per l'amministrazione domestica. Non c'è però dubbio che esse forniscano, in maniera spesso indistinta dalla formulazione di norme, un insieme di informazioni e di analisi tutt'altro che disprezzabile, certamente non inferiore a quello che autori come Machiavelli, Guicciardini e Bodin offriranno all'inizio dell'età moderna. Né è mancato nell'antichità uno sforzo di indagine empirica riferito ai fenomeni politici: basti pensare alla raccolta delle costituzioni greche avviata da Aristotele, che doveva costituire il supporto fattuale della tipologia delineata nella Politica. E non sarebbe difficile - se ci si volesse dedicare alla facile arte della ricerca dei 'precursori' - trovare in opere antiche l'anticipazione di filoni di indagine che si svilupperanno a distanza di secoli, come per esempio nel caso del prezioso materiale etnografico fornito dalle Storie di Erodoto.
Tra la riflessione filosofica antica e la considerazione scientifica della società c'è infatti un duplice rapporto, di continuità e di rottura, non dissimile da quello che si può trovare in altri campi: di continuità per quanto riguarda l'esigenza di studiare - magari sulla base dell'analogia con le parti dell'anima - i rapporti tra le varie classi che compongono la società, le diverse forme di governo, i loro vantaggi e i loro pericoli, e di frattura per quanto riguarda l'impostazione epistemologica. Del resto la nascita delle scienze sociali è stata preparata, nel corso del Cinquecento e del Seicento, dalla ripresa di una teoria antica come il diritto naturale, soprattutto nella versione che ne aveva dato il pensiero stoico. E proprio il presupposto dell'esistenza di leggi indipendenti dalle leggi positive ha costituito il terreno da cui è nata la concezione laica dello Stato ma anche - all'incirca nello stesso periodo, e non di rado nei medesimi autori - l'idea di un ordine naturale della società. Questo ordine era concepito come un ordine valido normativamente, e anzi fornito di una validità universale; ma in seguito poté essere inteso come una struttura sottostante alla variabilità dei fenomeni economici e politici, da indagare - come si prefiggerà il movimento fisiocratico - con strumenti non dissimili da quelli della moderna scienza della natura. L'idea stoica del diritto naturale veniva così ad assolvere, per le nascenti scienze sociali, una funzione analoga a quella che la concezione (di origine pitagorico-platonica) di una natura scritta in caratteri matematici ha assolto nei confronti della moderna scienza della natura.
Se si considerano le scienze sociali formatesi tra Sei e Settecento, cioè l'economia politica e la scienza politica, è difficile tracciare un discrimine netto tra riflessione filosofica e considerazione scientifica della società; tanto è frequente il passaggio dall'enunciazione di precetti in vista dell'accrescimento della ricchezza o di un governo 'illuminato' all'indagine empirica, e viceversa. Infatti le scienze sociali sono, in quel periodo, portatrici di una concezione generale della società, di un'interpretazione dell'ordine economico o dell'ordine politico o di entrambi; sono portatrici di quella che potremmo chiamare una teoria della società con valenza al tempo stesso analitica e normativa. Ma l'intreccio delle scienze sociali con le teorie della società non mancherà di caratterizzarne lo sviluppo anche in seguito, fin verso la fine del secolo XIX. Soltanto nel Novecento, anzi nel Novecento avanzato, le scienze sociali si svincoleranno da questo rapporto per far valere una pretesa di 'purezza' scientifica.
Ancora una volta è la sociologia a offrirci un esempio emblematico di tale intreccio; e lo è sia nella sua originaria versione positivistica sia nella forma della marxiana scienza della società, fondata sulla critica dell'economia politica. Il modello inerente alla prima è quello di una società capace di conciliare l'ordine e il progresso, di assicurare cioè un ordine che non sia di ostacolo al progresso ma lo renda possibile, e nella quale l'autorità morale derivante dalla scienza positiva possa risolvere gli 'antagonismi' tra le classi, in particolare il conflitto tra lavoratori e imprenditori all'interno della classe 'industriale'. È il modello, in altri termini, di una società fondata sul consenso e sulla solidarietà, che attraverso Durkheim si trasmetterà alla sociologia contemporanea. Il modello della sociologia marxiana (ché di sociologia anche qui si tratta, almeno nel senso ottocentesco di una scienza onnicomprensiva della vita sociale) è invece quello di una società fondata - dopo il distacco dalla comunità primitiva - sulla divisione in classi prodotta dalla divisione del lavoro e sulla lotta permanente tra una classe detentrice dei mezzi di produzione e una classe 'estraniata' da questi, nella quale il conflitto è l'elemento decisivo dello sviluppo, cioè del passaggio da un modo di produzione a un altro. In entrambi i casi l'analisi della società e del sistema economico, pur avendo un esplicito intento scientifico, rimanda a una teoria generale della società, e quindi a presupposti che rivestono, in ultima analisi, un carattere filosofico (e per lo più anche ideologico).
Soltanto negli ultimi decenni dell'Ottocento l'alternativa tra queste due teorie della società ha gradualmente perduto la sua originaria importanza. Ciò è avvenuto quando la sociologia si è staccata da una concezione generale della storia, per orientarsi verso la determinazione di 'modelli' di società forniti di valore sia storico sia analitico. Questo passaggio è segnato da opere come Gemeinschaft und Gesellschaft di Ferdinand Tönnies (1887) e De la division du travail social di Émile Durkheim (1893). Comunità e società, solidarietà meccanica e solidarietà organica designano non più soltanto due fasi, due 'epoche' di sviluppo della società umana, ma anche due tipi di organizzazione sociale che devono servire come base per l'analisi delle varie società. E se tanto in Tönnies quanto in Durkheim il problema è quello di individuare le condizioni dell'ordine sociale, di un ordine che implica necessariamente la solidarietà tra gli individui, ciò non esclude il recupero di aspetti importanti dell'analisi marxiana della società capitalistica: se la 'comunità' è caratterizzata da Tönnies con categorie derivate, in larga misura, dalla scuola storica tedesca, la 'società' è descritta sulla traccia da un lato di Hobbes, ma dall'altro anche del Capitale di Marx. E la "solidarietà organica" di Durkheim, se da una parte è propria di una società che consente autonomia agli individui che la compongono, dall'altra è pur sempre il risultato di quel processo di divisione del lavoro che Marx aveva assunto come motore dello sviluppo sociale.
La sociologia mostra quindi chiaramente il trapasso da uno studio dei processi sociali connesso con (e dipendente da) una teoria della società a un'analisi nella quale teorie diverse confluiscono a formare un apparato categoriale 'neutro', in funzione dell'osservazione empirica e della formulazione di regolarità fondate su di questa. Ma un discorso analogo vale anche per altre discipline, anche se in misura diversa a seconda del loro grado di formalizzazione. Ciò non vuol dire, però, che dopo la loro fase iniziale le scienze sociali si siano svincolate del tutto da tale rapporto, e che nel loro sviluppo esse non si richiamino di nuovo a questa o quella teoria della società. Talvolta, anzi, anche in tempi recenti, l'ideale della 'purezza' scientifica è stato apertamente contestato, e contro di esso è stata fatta valere l'esigenza di un rapporto tra scienze sociali e riflessione filosofica più stretto (e magari qualitativamente diverso) rispetto alle scienze naturali: basti pensare all'impostazione 'critica' della sociologia di stampo francofortese. E spesso questa esigenza si è saldata con il rifiuto della neutralità metodologica, con il richiamo a una scienza capace di offrire modelli normativamente validi e regole per una società alternativa a - o quanto meno migliore di - quella esistente.
Scienze sociali o scienze umane?
Economia politica, scienza politica, sociologia, antropologia hanno tutte per oggetto, al pari delle altre scienze sociali, la società umana, le sue strutture e i suoi processi. Da ciò è derivata la tendenza a identificare scienze sociali e scienze umane, oppure a considerare le scienze sociali un aspetto o una 'provincia' di un raggruppamento più esteso, costituito dalle scienze dell'uomo.
Questa equiparazione si presta tuttavia a obiezioni difficilmente superabili, già per la semplice ragione che la sfera dell'organizzazione sociale e la sfera della vita umana - comunque si voglia determinarla - non sono affatto coincidenti. La vita in società non è qualcosa di esclusivo dell'uomo: se già nella seconda metà dell'Ottocento gli studi pionieristici di autori come Jean Henri Fabre misero in luce l'esistenza di società degli insetti, nel corso del Novecento l'etologia ha mostrato non soltanto che la maggior parte delle specie animali hanno un'organizzazione sociale più o meno sviluppata, ma che tra di essa e l'organizzazione delle società umane vi è forse una differenza quantitativa piuttosto che qualitativa. D'altra parte l'esistenza dell'uomo è oggetto non soltanto delle scienze sociali, ma anche di altre discipline come l'anatomia, la fisiologia, la psicologia, per le quali la dimensione sociale è irrilevante o, quanto meno, marginale. Se l'uomo è un essere sociale, i suoi comportamenti poggiano pur sempre su una base biologica che esula dalla competenza delle scienze sociali. Ciò vale anche per quei fenomeni 'psichici' che sembrano i più refrattari a questo condizionamento. Non a caso anche nella psichiatria, che pochi decenni or sono sembrava orientata a dare una spiegazione in termini puramente sociologici delle malattie mentali, fino a negarne addirittura l'esistenza, l'importanza dei fattori genetici è oggi largamente riconosciuta; e le terapie di carattere analitico hanno spesso ceduto il posto a terapie farmacologiche fondate sullo studio dei processi chimici che presiedono all'attività cerebrale.
Ma l'obiezione principale all'equiparazione tra scienze sociali e scienze umane nasce dalla stessa difficoltà di delimitare l'ambito di quello che viene chiamato, di solito, il 'mondo umano'. Non sono mancati nella cultura contemporanea i tentativi di affermare la specificità dell'uomo non già negando (o mettendo tra parentesi) la sua realtà biologica, ma cercandone le radici nella particolare struttura dell'organismo umano e nel suo particolare rapporto con l'ambiente. Ernst Cassirer, ad esempio, richiamandosi alla teoria formulata dal biologo Johannes von Uexküll, ha postulato una differenza qualitativa dell'uomo rispetto agli animali, e l'ha indicata nella presenza di un "sistema simbolico" che media il rapporto tra stimolo e risposta, tra sistema ricettivo e sistema reattivo; cosicché il mondo umano verrebbe a configurarsi come un insieme di forme simboliche. Un'impostazione del genere, condivisa da quell'orientamento di pensiero che ha preso il nome di antropologia filosofica, ha trovato un supporto nell'antitesi tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, e nella conseguente affermazione del carattere acquisito della cultura, oggetto di apprendimento e non di trasmissione ereditaria. Cultura, mondo simbolico, linguaggio venivano così assunti a caratteristiche differenzianti del mondo umano; e Alfred L. Kroeber poteva scorgere nell'evoluzione superorganica, sede propria della cultura, un 'salto' nel processo evolutivo. Questi presupposti sono però stati messi in questione dallo sviluppo della ricerca etologica. La stessa contrapposizione fra trasmissione per via genetica e trasmissione sociale, che consentiva di considerare il comportamento animale come il risultato di istinti ereditari e il comportamento umano come prodotto esclusivo di apprendimento, si è rivelata insostenibile: non soltanto molte specie animali sono capaci di apprendimento, e quindi in grado di trasmettere le informazioni acquisite da un individuo all'altro e da una generazione all'altra, ma una parte non trascurabile dei comportamenti umani ha una base istintiva, e dev'essere attribuita a processi diversi dall'apprendimento. Al pari degli animali, anche l'uomo agisce sulla base di disposizioni 'innate' e non soltanto di abitudini acquisite. Ciò ha condotto ad allargare l'ambito della cultura, riconoscendo l'esistenza di forme di cultura presso gli animali, o almeno presso varie specie animali. Neppure il linguaggio può più essere addotto come una peculiarità esclusiva dell'uomo: se per linguaggio s'intende un insieme di segni che deve rendere possibile la comunicazione tra gli individui appartenenti alla stessa specie, allora anche la danza delle api - studiata da Karl von Frisch - rappresenta una specie di linguaggio. Proprio della specie umana è invece un linguaggio verbale reso possibile dalle caratteristiche fisiche dei suoi organi di fonazione. La linea di divisione tra l'uomo e l'animale passa ora per la determinazione delle caratteristiche distintive che il linguaggio, al pari della cultura, presenta nella specie umana.
Ma una precisa delimitazione del 'mondo umano' era impedita anche dall'impossibilità di separare nettamente l'evoluzione culturale dall'evoluzione biologica. All'interpretazione tradizionale - accolta anche dall'antropologia della prima metà del secolo - secondo cui la trasformazione dell'uomo in essere culturale avrebbe avuto luogo una volta terminata la sua evoluzione biologica, si è sostituita una visione più complessa, che concepisce i due tipi di evoluzione come correlati tra loro: se il sorgere della cultura umana è condizionato biologicamente, essa appare d'altra parte una componente della stessa evoluzione biologica. Come ha posto in luce André Leroi-Gourhan, lo sviluppo del cervello (e le capacità culturali che esso rende possibile) presuppone l'autonomizzarsi della mano come strumento peculiare dell'uomo. In realtà, l'equiparazione tra scienze sociali e scienze umane, o l'inclusione delle scienze sociali nella categoria delle scienze umane, obbediva alla tendenza a far valere la loro eterogeneità rispetto alle scienze naturali. Questa tendenza presenta una base sia ontologica che epistemologica. Sotto il profilo ontologico, l'interpretazione delle scienze sociali in chiave di scienze umane rispondeva all'esigenza di tracciare un confine preciso tra natura e cultura, tra la sfera biologica e il 'mondo umano'. Sotto il profilo metodologico, invece, essa rispondeva all'esigenza di sottrarre le scienze sociali al modello epistemologico delle scienze fisiche (ma anche biologiche), facendone un edificio conoscitivo indipendente da queste discipline. Il 'mondo umano' poteva quindi esser concepito come una realtà che si sottrae, per la sua peculiare struttura, a quella ricerca di leggi generali o quanto meno di regolarità che le scienze sociali si erano originariamente proposte.
Ma, al pari del 'mondo umano', anche l'ambito delle scienze umane appare di difficile individuazione. La stessa nozione di scienze umane deriva da quella di "scienze dello spirito", che Wilhelm Dilthey aveva formulato a fine Ottocento richiamandosi alla scuola storica tedesca e all'orientamento 'storico' che essa aveva inteso dare allo studio della società. Di questa scuola Dilthey metteva sì in disparte i presupposti ideologici, il postulato di uno "spirito del popolo" che si esprime nello sviluppo complessivo di una nazione, e anche la metafisica organicistica che ne costituiva l'ancoraggio, ma manteneva il presupposto metodologico del rapporto tra parti e tutto. Dalla scuola storica Dilthey ereditava soprattutto la contrapposizione alle scienze della natura, e quindi il rifiuto della riduzione dei metodi delle scienze dello spirito al loro orientamento rivolto alla determinazione di leggi generali, anche nei termini in cui l'aveva proposta John Stuart Mill nel System of logic, ratiocinative and inductive (1843). Non già che Dilthey negasse il rapporto dell'uomo e della vita sociale con una base biologica o con l'ambiente circostante; anzi, egli indicava nelle regolarità derivanti da tale rapporto il fondamento dell'individuazione, la base dell'articolarsi dello spirito in una forma individuale. Ma questo rapporto era irrilevante ai fini della determinazione dell'ambito delle "scienze dello spirito". Oggi, però, dopo la critica di Max Weber all'impostazione della scuola storica, anche la nozione di "scienze dello spirito" appare non più proponibile; e insieme ad essa viene a cadere la dicotomia istituita tra di esse e le scienze della natura.
Parlare di scienze sociali oppure di scienze umane risponde, a ben guardare, a due prospettive epistemologiche tra loro non conciliabili. Anche quando hanno voluto distinguersi da altre discipline come la fisica o la biologia, facendo valere una sempre più marcata esigenza antiriduzionistica, le scienze sociali hanno pur sempre cercato nei fenomeni da esse studiati regolarità di comportamento. La prospettiva delle scienze umane è del tutto diversa. Antitesi come quella tra spiegazione e comprensione, o la ripresa di nozioni come quella di interpretazione che caratterizza il ricorso all'analisi ermeneutica negli approcci fenomenologici - con il sottinteso che, a differenza dei processi naturali, quelli 'umani' sono suscettibili di una molteplicità di interpretazioni tra loro compatibili, e tutte prive di una possibilità di verifica - mostrano la distanza che separa, nonostante transitori accostamenti, la tradizione metodologica delle scienze umane da quella delle scienze sociali. Che queste si propongano anche di comprendere i fenomeni che costituiscono il loro ambito oggettivo, di ricondurli al comportamento di 'attori' individuali e ai loro rapporti reciproci, di mettere in luce motivazioni e scopi di tale comportamento - come anche Weber ha sostenuto, parlando appunto di sociologia "comprendente" - non vuol dire che rifuggano dalla ricerca di una spiegazione per quanto possibile 'oggettiva', anche se condizionata da un punto di vista specifico. E la ricerca di spiegazione è pur sempre, al di là dei modelli ai quali può richiamarsi, una caratteristica comune dell'impresa scientifica.
L'ambito delle scienze sociali: la società o relazioni tra individui?
Se si vuol determinare in che cosa consista la specificità delle scienze sociali rispetto ad altre discipline scientifiche ci si deve chiedere anzitutto quale sia il loro oggetto o, meglio, il loro ambito oggettivo. E la prima risposta che si presenta è che le scienze sociali avrebbero come oggetto la 'società', concepita come una realtà sui generis distinta da altre realtà, per esempio dalla natura. Da questo punto di vista le varie scienze sociali sono state concepite come discipline settoriali che si riferiscono ad aspetti diversi della società, quando non ne studiano invece - come nel caso della sociologia nell'accezione di Georg Simmel e di Leopold von Wiese - la struttura 'formale'.
Il ricorso alla nozione di società appartiene però a una fase ben precisa della storia delle scienze sociali, cioè a una fase caratterizzata dal predominio di prospettive organicistiche. Parlare di 'società' - o di società umana - al singolare era possibile in quanto si attribuiva ad essa una forma di esistenza irriducibile a quella degli individui che ne fanno parte. Un'impostazione del genere trovava la sua base nel fatto, di per sé innegabile, che gran parte delle istituzioni sociali hanno una durata superiore a quella degli individui, e permangono pur nel variare di questi; ma da tale fatto si inferiva, meno giustificatamente, che hanno anche una sussistenza indipendente da essi. L''organicismo' che questa concezione della società implica è però di due tipi, che occorre tenere logicamente distinti. Da un lato l'impostazione organicistica conduceva a considerare la società come un'entità ontologicamente definita, irriducibile agli individui che ne fanno parte, non senza pesanti implicazioni ideologiche. Di questo genere sono la concezione romantica della società come prodotto di uno 'spirito del popolo' che permane nel corso delle generazioni, determinando la peculiarità di tutte le forme di vita e della cultura del popolo; oppure la nozione di società che sta a base della sociologia positivistica o della marxiana scienza della società. Dall'altro lato si sono avuti invece modelli fondati sull'analogia tra organismo sociale e organismo biologico, che comportavano il frequente ricorso analogico a concetti desunti dalla fisiologia e, in genere, dalle scienze della vita. A questa seconda categoria appartengono soprattutto i modelli impiegati dall'evoluzionismo sociologico (o antropologico). Che i due tipi non coincidano è comprovato, tra l'altro, dalla sociologia spenceriana, per la quale la società, in quanto organismo "discreto" anziché "concreto", comporta una crescente autonomia delle 'parti' rispetto al 'tutto', e lo sviluppo sociale è finalizzato all'instaurazione di una società nella quale l'individuo sarà finalmente sottratto al potere coercitivo dello Stato.
L'eredità dell'impostazione organicistica è presente nelle scienze sociali ogni qual volta si sono fatte valere, al loro interno, prospettive 'olistiche' intese ad affermare la subordinazione dei singoli fenomeni a un fenomeno di portata più vasta. Ancora Durkheim, per esempio, poteva concepire la società come un'entità trascendente rispetto agli individui che ne fanno parte, e tuttavia immanente ad essi, "perché può vivere soltanto in noi e mediante noi"; e proprio richiamandosi a Durkheim un filone dell'antropologia novecentesca - quello che fa capo a Bronislaw Malinowski e ad Alfred R. Radcliffe-Brown - ha analizzato le società primitive in termini di struttura e di funzioni, cioè utilizzando un modello di chiara derivazione biologica. Più ambivalente appare il ricorso alla teoria dei sistemi, quale è stata formulata da Ludwig von Bertalanffy. La nozione di sistema come un insieme di elementi che tendono a raggiungere uno stato di equilibrio dinamico attraverso il duplice processo di trasformazione dell'energia sottratta all'ambiente in attività, e di elaborazione dell'informazione ricevuta in altra informazione, ha una indubbia matrice biologica; anzi, essa utilizza al tempo stesso concetti tratti dalla termodinamica e dalla teoria dell'informazione. Ma la teoria dei sistemi, trasposta in sede sociologica, ha permesso di porre in luce la complessità dei sistemi sociali, il loro rapporto con l'ambiente e le loro relazioni reciproche, la loro capacità di autoregolazione in contrasto con le tendenze entropiche, e ha sottolineato l'importanza del disordine come sfondo su cui si colloca l'azione ordinatrice di ogni sistema.
A questa concezione delle scienze sociali se ne è contrapposta un'altra, che in polemica con le prospettive 'olistiche' prescinde dal concetto stesso di società. Secondo questa impostazione - a cui è stato dato il nome, per altro discutibile, di 'individualismo metodologico' - l'ambito oggettivo delle scienze sociali è costituito da fenomeni e processi i quali derivano da relazioni tra individui, oppure da istituzioni che hanno però anch'esse la loro origine nel comportamento (o nell'azione) individuale. Mentre le prospettive 'olistiche' sono largamente diffuse nella sociologia come nell'antropologia del secolo XIX, la tradizione prevalente nella scienza economica è - se si fa eccezione per la scuola storica tedesca - una tradizione 'individualistica'. Lo stesso modello di homo oeconomicus, definito dallo sforzo di massimizzare i beni che può ottenere attraverso la produzione e lo scambio, poggia sul presupposto di un mercato nel quale agisce una pluralità di soggetti economici in competizione reciproca. È stato però Carl Menger, in polemica con l'impostazione organicistica della scuola storica, a far valere fin dagli anni ottanta del secolo scorso una visione dei fenomeni sociali come prodotto dell'azione di individui che costituiscono (com'egli li chiamava) gli "atomi" della società. Anche per Vilfredo Pareto, la cui opera si colloca sullo spartiacque tra economia e sociologia, i fenomeni sociali sono il risultato di azioni - siano esse 'logiche' oppure 'non logiche' - di soggetti individuali.A questa impostazione, e in particolare all'analisi di Menger, si è rifatto esplicitamente anche Max Weber nel definire l'oggetto della sociologia "comprendente". L'agire a cui questa si riferisce è - com'è detto all'inizio di Wirtschaft und Gesellschaft - un agire fornito di 'senso', a cui cioè gli individui agenti attribuiscono un 'senso' soggettivo riferito all'atteggiamento di altri individui; da questo agire, che può essere di vario genere (razionale rispetto allo scopo, razionale rispetto al valore, affettivo, tradizionale), derivano le relazioni sociali, che sono appunto forme di comportamento di più individui orientate sulla base di aspettative reciproche. E relazioni sono sia la comunità che la società, al pari del gruppo sociale e dei suoi diversi tipi.
Questa definizione dell'oggetto della sociologia può valere, pur con le indispensabili precisazioni, per ogni altra scienza sociale: può valere in maniera immediata quando esse si occupano di microfenomeni sociali, e in maniera indiretta quando studiano invece fenomeni complessi e processi di lungo periodo, siano essi il mutamento culturale o lo sviluppo economico. In una prospettiva del genere anche la nozione di sistema si svincola dalla pretesa di designare la società come un 'tutto' organico: nella teoria di Parsons, ad esempio, i sistemi sono costituiti da interazioni tra individui, poggiano cioè sulle azioni e sulle aspettative reciproche degli 'attori' individuali. Lungi dall'essere intesa in termini di totalità, la società si presenta quindi come una molteplicità di sistemi di diverso tipo - sistemi di interazione in senso stretto, sistemi di organizzazione, sistemi funzionali - che assolvono funzioni di adattamento all'ambiente, di orientamento verso scopi specifici, di integrazione e di mantenimento di modelli latenti.
Nel loro sviluppo le scienze sociali si sono venute sempre più distaccando dalle prospettive 'olistiche' prevalenti nell'Ottocento, per adottare di preferenza modelli esplicativi che si propongono di ricondurre i fenomeni sociali a comportamenti di individui e a relazioni tra individui o - se vogliamo esplicitare il riferimento al 'senso' che la definizione weberiana contiene - a comportamenti e relazioni che hanno come 'soggetto' degli individui umani. La stessa impostazione sistemica appare non soltanto compatibile, ma complementare a un'analisi di carattere 'individualistico': quando si parla di sistema sociale, oppure di un sistema specifico come quello economico o politico o culturale e via dicendo, non si postula affatto che esso rappresenti una realtà di ordine superiore, e neppure un tutto coerente; e neppure si assume che ogni sistema sia deputato in maniera esclusiva allo svolgimento di determinate funzioni, e non possa trovare dei sostituti funzionali oppure avere, d'altra parte, delle funzioni latenti. Su questo punto la critica di Robert K. Merton al funzionalismo antropologico ha segnato una svolta decisiva.
Rimane a questo punto da chiederci quali siano le scienze sociali. Ma se queste rappresentano, come si è detto, non un insieme unitario ma una 'famiglia' di discipline, la risposta non può che essere elencativa, e fare riferimento allo sviluppo dei campi disciplinari che costituiscono tale famiglia. Le prime scienze sociali a costituirsi sono state, tra Sei e Settecento, l'economia politica e la scienza politica: ma, se la prima si è ben presto configurata in forma autonoma, dandosi un oggetto determinato, l'autonomia della seconda sarà poi messa in questione dal sorgere della sociologia, con la sua pretesa di valere come scienza onnicomprensiva della società. Tipicamente ottocentesche, anche nel ricorso a prospettive organicistiche, sono state invece la sociologia e l'antropologia, sia essa culturale o sociale. Altre discipline (e sotto-discipline) si sono venute costituendo ancora tra Otto e Novecento, spesso sulla base del rapporto con corpi dottrinali preesistenti o dall'incontro con le scienze naturali. La determinazione dell'ambito oggettivo delle scienze conduce perciò, inevitabilmente, a considerarne anche i confini e il modo in cui questi si sono venuti spostando nel corso del tempo.
Scienze sociali, diritto, scienza giuridica.
Un posto a sé in questo quadro occupa la scienza giuridica. E ciò in quanto il suo oggetto è rappresentato non tanto da comportamenti quanto piuttosto da norme e da rapporti tra norme. Più precisamente, essa si riferisce a un tipo particolare di norme, cioè a quelle che un gruppo sociale organizzato politicamente - sia esso una tribù o lo Stato o qualsiasi altra formazione politica - ritiene vincolanti per i suoi membri, e di cui esige l'osservanza ricorrendo, se occorre, all'uso della forza per imporla. La scienza giuridica ha un'origine remota: essa risale, nel mondo europeo, allo sforzo di interpretazione e di raccolta compiuto dai giuristi romani di età imperiale, culminato nel Corpus giustinianeo; e il suo sviluppo ha trovato un supporto decisivo - dopo la ripresa della tradizione romanistica interrotta dalla diffusione dei diritti germanici - nel tentativo di delineare un diritto comune, comprendente sia il diritto romano sia quello canonico. Lo studio del diritto ebbe un ruolo importante nelle controversie per la supremazia tra papato e impero, e i giuristi fornirono argomenti in sostegno delle pretese di entrambi. Decisivo fu però l'incontro con le esigenze di unificazione del diritto e della giurisdizione di cui erano portatrici le monarchie assolute e - ove queste mancavano - i principati territoriali. Le scuole giuridiche vennero così integrate, al pari della nascente burocrazia, nel sistema dello Stato moderno, diventando su tutto il continente europeo lo strumento di un'opera di 'fissazione' del diritto che, attraverso le prime codificazioni settecentesche, mise capo al Codice napoleonico e poi ai numerosi codici ottocenteschi, mentre nel mondo anglosassone esse garantivano la continuità della common law, cioè di una giurisprudenza fondata sulle sentenze delle corti.
Formazione del diritto e sviluppo della giurisprudenza appaiono quindi strettamente legati. In ogni caso, e prescindendo dalle dispute dottrinali sulla natura del diritto che tanta parte hanno avuto in essa nei due ultimi secoli, rimane il fatto che la scienza giuridica si è occupata soprattutto di norme e della loro interpretazione, della costituzione di un corpo normativo coerente e organizzato in forma sistematica.
Questo processo di 'razionalizzazione' del diritto ha avuto come termine di riferimento soprattutto lo Stato moderno, che attraverso la lotta vittoriosa contro il particolarismo feudale ha conquistato il monopolio dell'uso della forza legittima all'interno del proprio territorio; e anche quando esso ha lasciato sussistere, accanto alla propria legislazione, altre fonti di diritto, le ha collocate in una posizione subordinata e ne ha condizionato l'esistenza al proprio riconoscimento. In tal modo, tramontata la teoria del diritto naturale e venuta meno la sua funzione di criterio di legittimità del diritto positivo, questo si è configurato, in maniera più o meno esclusiva, come diritto statale o come giurisdizione particolare autorizzata dallo Stato stesso.
In virtù di questo sviluppo le norme giuridiche si sono venute sempre più distinguendo da altri tipi di norme, come quelle del costume o della morale. E il criterio di distinzione è stato individuato nel carattere coattivo delle norme giuridiche, nell'esistenza di un apparato che ne garantisce l'osservanza e di sanzioni che colpiscono i comportamenti vietati. A questa impostazione si è richiamato Hans Kelsen nel costruire una 'dottrina pura' del diritto, fondata sulla distinzione (comune anche a Weber) tra validità normativa (ideale) e validità empirica (reale) delle norme giuridiche, oggetto rispettivamente della scienza giuridica e della sociologia giuridica. In tal modo Kelsen si proponeva di sottrarre la scienza giuridica a ogni elemento estraneo concependo il diritto come un ordinamento autonomo, costituito da norme in rapporto gerarchico tra loro fino a una 'norma fondamentale' da cui tutte le altre derivano.
Questa concezione rigorosamente formalistica del diritto, che tanto successo ha avuto nei decenni centrali del Novecento, escludeva dalla scienza giuridica la considerazione del rapporto tra norme e comportamenti, e quindi del grado di efficacia delle norme e dell'ordinamento nel suo complesso. Ed essa rimandava a un altro tipo di considerazione, quella sociologica (o, per i diritti primitivi, antropologica). In questo spazio lasciato scoperto dalla scienza giuridica si sono collocate sia la sociologia sia l'antropologia del diritto, la prima dedicandosi allo studio della capacità delle norme giuridiche di influenzare il comportamento dei membri della società e, reciprocamente, di recepire le esigenze che emergono dal processo di trasformazione di una società, la seconda prendendo come oggetto sistemi giuridici non fondati sull'azione normativa dello Stato. In realtà, entrambe erano sorte ben prima che emergessero i limiti del formalismo giuridico, anzi ben prima della formulazione della teoria di Kelsen. La sociologia del diritto risale per lo meno a Weber, mentre l'antropologia giuridica ha compiuto i primi passi già a metà Ottocento, con il tentativo compiuto da Henry Sumner Maine in Ancient law (1861) di delineare un'evoluzione dei sistemi giuridici come passaggio dallo status al contratto.
L'appartenenza della scienza giuridica alle scienze sociali risulta quindi per lo meno problematica. A rigore, anzi, l'impostazione formalistica implica che la scienza giuridica non sia una scienza sociale; essa si occupa - per esprimerci nel linguaggio neokantiano di Kelsen - non dell'"essere" ma del "dover essere" delle norme. Ma questa impostazione ha conosciuto, negli ultimi decenni, un graduale declino; e ad esso ha fatto riscontro la ripresa della tradizione della giurisprudenza sociologica, inaugurata all'inizio del secolo da Hermann Kantorowicz e da Eugen Ehrlich. Questa ripresa dev'essere collegata a due motivi fondamentali che trascendono l'ambito disciplinare del diritto: da un lato il mutamento sociale e il proliferare della produzione di norme ha reso sempre più difficile concepire l'ordinamento giuridico come un sistema coerente; dall'altro il processo di globalizzazione ha sempre più imposto il confronto tra norme appartenenti a ordinamenti diversi, e ha altresì favorito l'affermarsi di 'fonti' normative sovranazionali. Ciò ha condotto a considerare sempre più il diritto non tanto come un sistema normativo quanto come un fenomeno sociale, spostando al tempo stesso l'accento dal 'sistema' giuridico alla cultura giuridica: in questa maniera la scienza giuridica si è venuta accostando alle scienze sociali, e ha adottato approcci e modelli caratteristici di quest'ultime.
Scienze sociali e scienze naturali
Altre scienze sociali sono sorte dall'esigenza di studiare i rapporti tra fenomeni sociali e fenomeni di altro genere, che tuttavia condizionano il comportamento degli individui e le loro relazioni. La prima di queste, che abbiamo visto essere considerata da Parsons una delle tre scienze sociali di base, è la psicologia sociale. Di per sé la psicologia non è propriamente una scienza sociale, e infatti essa è nata, nel corso dell'Ottocento, come studio dei rapporti tra corpo e 'mente', tra comportamento fisico e comportamento psichico dell'essere umano - estendendosi poi, in epoca più recente, anche a processi analoghi osservabili presso varie specie animali. Ma, dal momento che lo sviluppo dell'intelligenza e, in generale, degli atteggiamenti dell'individuo presuppone il rapporto con gli altri, la considerazione del processo di socializzazione si è imposta come elemento essenziale dell'indagine psicologica. A partire dai primi decenni del secolo XX si è così sviluppata, ad opera di Gordon W. Allport e di altri studiosi, la psicologia sociale come ramo della psicologia, ma al tempo stesso come disciplina appartenente all'ambito delle scienze sociali. Per fare soltanto un esempio, un'opera come The authoritarian personality di Theodor W. Adorno (1950) ha consentito di mettere in luce la struttura di un tipo di personalità correlato con l'ideologia "etnocentrica" e con tendenze antidemocratiche: così fenomeni come il conservatorismo o l'adesione al fascismo sono stati indagati nelle loro radici psicologiche 'profonde', con il ricorso anche a concetti di origine psicanalitica. Anche la psicanalisi, infatti, sorta con Freud come indagine sull'inconscio e sui suoi rapporti con l'Ego e con il Super-Ego, ha ben presto rivolto la sua attenzione alla dimensione sociale dello sviluppo della personalità. E negli ultimi decenni la scienza cognitiva, proponendo una concezione della mente come elaborazione di informazione, ha aperto nuove prospettive allo studio dell'intelligenza e quindi, indirettamente, anche dei rapporti tra intelligenza e vita sociale.
Un ulteriore gruppo di discipline è indirizzato allo studio dei rapporti tra fenomeni sociali e fenomeni di altro genere, per lo più oggetto di indagine da parte di scienze naturali. Una preoccupazione diffusa nel periodo di costituzione delle scienze sociali è stata quella di affermarne l'autonomia epistemologica e quindi di tracciare un confine netto nei confronti delle discipline che studiavano la 'natura' biologica dell'uomo o il suo condizionamento da parte dell'ambiente. Questa preoccupazione fu espressa soprattutto da Durkheim ne Les règles de la méthode sociologique (1895), attraverso il principio che i fatti sociali possono essere spiegati soltanto sulla base di altri fatti sociali. Ma anche l'antropologia contemporanea fece valere - ad opera di Franz Boas e di Robert H. Lowie - il principio dell'autonomia dell'evoluzione culturale rispetto ai processi biologici e psichici, fino a qualificare il livello della cultura come 'superorganico', distinto da quello della vita organica.
Questo principio è stato ripreso a metà del Novecento, in connessione con la tendenza ad attribuire alla società la responsabilità dei comportamenti individuali, in particolare di quelli considerati devianti. Un'impostazione del genere appare oggi caduta in desuetudine; e si sono venute invece moltiplicando le discipline di confine, che prendono in esame per un verso il condizionamento che la 'natura' biologica o l'ambiente esercitano sulla vita sociale e per l'altro verso l'azione trasformatrice che le società umane hanno svolto, e stanno svolgendo, nei confronti di entrambi.
La genetica non è certo, in quanto tale, una scienza sociale; tuttavia il contributo che essa sta dando allo studio delle società umane è ormai di grande rilievo, ed è destinato ad accrescersi. I comportamenti sociali dell'uomo e lo stesso linguaggio si rivelano sempre più dipendenti da fattori 'innati'. Un ramo specifico della genetica, la genetica delle popolazioni, si è dedicato alla ricostruzione dei processi di diffusione della specie umana sul globo terrestre, pervenendo a risultati che hanno trovato conferma nella ricerca paleoantropologica. Non meno importante è il ruolo assunto dalla demografia, la quale indaga processi sociali che hanno la loro base in fenomeni biologici come la nascita, la crescita, l'invecchiamento, la morte, e si presenta ormai come una disciplina 'ponte' tra scienze sociali e scienze biologiche. Sul versante opposto, quello dello studio dell'azione trasformatrice che le società umane esercitano nei confronti dell'ambiente - dall'ambiente ristretto che costituisce l'habitat di una società primitiva all'intero pianeta -, un'altra disciplina si è venuta sviluppando soprattutto negli ultimi decenni: l'ecologia. Essa si è affiancata a una disciplina più tradizionale come la geografia umana, spesso sovrapponendosi ad essa nello studio delle relazioni tra gli organismi viventi, compreso l'uomo, e i diversi tipi di ambiente. Anche l'ecologia è, al pari della genetica, una scienza naturale; ma essa si è sempre più trasformata in una scienza sociale in seguito all'emergere - nella seconda metà del Novecento - di una duplice preoccupazione: quella relativa alla progressiva riduzione delle risorse, soprattutto alimentari, in rapporto al ritmo di accrescimento della popolazione mondiale, e quella riguardante la minaccia che lo sviluppo industriale e postindustriale reca all'ecosistema complessivo del pianeta. Prospettive e proposte come quelle dei 'limiti dello sviluppo' o dello 'sviluppo sostenibile' hanno trovato la loro base proprio nei risultati della ricerca ecologica.
Se tutte queste discipline si collocano sullo spartiacque che separa le scienze sociali dalle scienze non sociali, altre ancora hanno avuto una ricaduta importante su di esse. È il caso soprattutto dell'etologia. Mentre la genetica e la demografia hanno mostrato la correlazione tra processi sociali e processi biologici, l'etologia ha reso problematico il confine tra comportamento umano e comportamento animale. Ne è derivata una correzione importante rispetto all'antropologia tradizionale, la quale aveva fatto della cultura - e del linguaggio - un attributo esclusivo dell'uomo. L'etologia ha infatti mostrato come molti comportamenti umani trovino riscontro in varie specie animali, e che le differenze tra uomo e animale rivestano carattere quantitativo piuttosto che qualitativo. Non diversamente dall'uomo, anche gli animali entrano in relazione tra loro, hanno una condotta che si può qualificare come sociale, hanno dei loro 'costumi', e quindi una cultura. L'etologia ha così generato una sotto-disciplina, l'etologia umana, che è oggi una scienza sociale a pieno titolo.
Il panorama delle scienze sociali si presenta quindi assai complesso, né deve stupire che esso continui ad arricchirsi di nuove discipline, come avviene soprattutto nello studio dei processi di comunicazione. Se l'impatto dell'informatica è ancora prevalentemente di carattere strumentale, il ricorso all'analogia tra intelligenza e calcolatore ha rappresentato il punto di partenza per studiare in una nuova prospettiva i processi dell'intelligenza artificiale; e forse i modelli di origine informatica sono destinati a prendere il posto che, nel secolo XIX, avevano i modelli biologici. Discipline come la semiotica forniscono una teoria generale dei segni e dei simboli, mentre la sociolinguistica studia il linguaggio come processo di comunicazione tra 'parlanti' e le sue trasformazioni in quanto condizionate dall'appartenenza a gruppi sociali diversi. Ma da questo panorama un fatto emerge in maniera inequivocabile: che i confini delle scienze sociali sono diventati sempre più mobili, che la loro 'famiglia' continua ad arricchirsi di nuovi membri, e che questo processo è lungi dall'essere concluso.
Scienze sociali, storiografia, storia comparata
Del tutto diverso è il rapporto tra le scienze sociali e la storiografia.Quando le prime muovevano ancora i primi passi, la storiografia era ormai se non una disciplina in senso proprio, certamente un'attività coltivata da secoli; e nel corso del Seicento aveva conosciuto un affinamento tecnico rilevante, investendo anche il dominio della 'storia sacra' ed estendendosi alla storia ecclesiastica. Nel corso del secolo XVIII, poi, la storiografia illuministica aveva formulato un quadro complessivo della storia dell'umanità all'insegna dell'idea di progresso, allargando l'orizzonte storico oltre i confini del mondo europeo e spostando l'interesse dalla storia politica (e politico-militare) alla storia dei 'costumi', e quindi al processo di incivilimento. Se fino a tutto il Settecento lo sviluppo della storiografia e la nascita delle scienze sociali rappresentano fenomeni paralleli che non interferiscono tra loro - soltanto la cultura scozzese fece ricorso a categorie sociologiche in senso lato nell'interpretare la storia - in seguito le cose vennero a cambiare. Le scienze sociali mettevano infatti in questione il monopolio che la storiografia aveva tradizionalmente detenuto per quanto riguarda la conoscenza delle vicende umane. La scuola storica tedesca, con la sua aspirazione a dar vita a un edificio scientifico su base storica che abbracciasse tutti gli aspetti della vita sociale e ne cogliesse le 'tendenze' evolutive, costituisce in larga misura una reazione alla minaccia rappresentata dal sorgere di discipline indipendenti, che si proponevano di scoprire le 'leggi' della società e del suo sviluppo.
Diventa così chiaro il motivo per il quale scienze sociali e storiografia hanno per lungo tempo avuto rapporti antagonistici, quando pur ne avevano. Per un verso, infatti, anche le scienze sociali si riferivano a un materiale storico, seppure riguardante per lo più la contemporaneità; si riferivano ai processi dello sviluppo capitalistico o al funzionamento della monarchia assoluta o, più tardi, alla formazione di una società industriale. Tuttavia la limitazione alla contemporaneità non era affatto costitutiva della loro impostazione: se le 'leggi' della produzione e della distribuzione della ricchezza erano cercate attraverso lo studio dello sviluppo inglese assunto come esemplare, se l'analisi delle forme di governo traeva lo spunto dalle differenze tra l'assetto politico inglese e quello francese, già l'interpretazione della nascente società industriale guardava all'indietro, e poggiava sul suo confronto con un altro tipo di società organica, il 'sistema cattolico' poggiante su una base militare e teologica, che si era affermato nel corso del Medioevo.
Dopo metà Ottocento, poi, l'antropologia risalirà agli inizi della storia greca e romana, avvalendosi di essa per comprendere lo sviluppo della cultura umana al suo emergere dallo stato selvaggio. E proprio l'antropologia tardo-ottocentesca perveniva a mettere sullo stesso piano, in uno sforzo di integrazione reciproca, la documentazione storica e la documentazione etnografica: basti pensare ad Ancient society di Lewis H. Morgan, pubblicata nel 1877. Per l'altro verso, però, scienze sociali e storiografia sembravano non soltanto distinte, ma irrimediabilmente divergenti nel loro orientamento metodologico. Mentre le scienze sociali andavano in cerca di regolarità, elaborando quindi 'tipi' di organizzazione sociale o determinando correlazioni di carattere causale o anche soltanto statistico tra processi sociali diversi, la storiografia si proponeva di ricostruire ogni fenomeno storico nella sua individualità, ossia in ciò che lo differenzia anche da fenomeni ad esso (apparentemente) simili. Il postulato della scuola storica secondo cui ogni popolo ha un proprio 'spirito', un proprio carattere nazionale, e ogni epoca ha anch'essa - secondo il paradigma rankiano - una fisionomia peculiare che la distingue da qualsiasi altra, agiva da spartiacque tra scienze sociali e storiografia.
Al rapporto tra scienze sociali e storiografia fu così applicato il criterio di distinzione che Wilhelm Windelband aveva fatto valere tra scienze naturali e scienze storiche, fondato sull'orientamento "nomotetico" delle prime e su quello "idiografico" delle seconde.
In realtà, la cultura positivistica tentò di attenuare questa distanza, estendendo anche alla storiografia quel compito di ricerca di 'leggi' che avrebbe dovuto elevarla a dignità di scienza; ma questo tentativo non approdò a risultati consistenti. Più significativo fu lo sforzo del marxismo di dare alla ricerca storica una base sociologica, studiando i processi storici in termini di rapporti tra classi sociali; ma la teoria a cui esso faceva riferimento, cioè la teoria della società formulata da Marx, appariva sempre più distante dalle direzioni in cui la sociologia si andava sviluppando già a fine Ottocento. Soltanto più tardi, all'inizio del Novecento, la ricerca storica si propose di stabilire un rapporto positivo con le scienze sociali: ne sono testimonianza la proposta, da parte di Henri Berr, di una 'sintesi' storica in grado di procedere al di là della semplice raccolta di fatti fino alla formulazione di leggi generali, o la new history di Charles A. Beard e di James H. Robinson. E ad esse fece seguito lo sforzo compiuto dalla scuola delle "Annales" per attuare un'integrazione delle più diverse scienze sociali - oltre che della geografia - sotto l'egida della storiografia. Così per gran parte del Novecento si può osservare, nel panorama della ricerca storica, una spaccatura tra il paradigma storicistico, predominante soprattutto in ambito tedesco (e italiano), spesso pregiudizialmente ostile alle scienze sociali e soprattutto alla sociologia, e altri paradigmi, presenti sia nella storiografia francese che in quella anglosassone, i quali aspiravano a impiegare i modelli elaborati dalle nuove discipline ponendosi quindi sul loro stesso terreno.
Già Max Weber, all'inizio del secolo, aveva posto le basi metodologiche per realizzare questo nuovo rapporto. Le scienze sociali hanno per lui una funzione strumentale in vista della comprensione dei singoli processi storici nella loro individualità; ma da questo presupposto Weber non traeva affatto la conclusione dell'irrilevanza del sapere nomologico per la storiografia. Al contrario, se questa vuol essere conoscenza - allo stesso titolo delle scienze naturali, anche se in maniera diversa - deve avvalersi di concetti e di 'leggi', cioè di regolarità empiricamente determinate, per stabilire relazioni tra i fenomeni storici e cioè per 'spiegarli'. Ma questi concetti generali e queste 'leggi' sono offerti, appunto, dalle scienze sociali, dalla teoria economica come dalla teoria sociologica. Pur nell'autonomia reciproca che Weber riconosceva ad esse, il rapporto con le scienze sociali diventava così la condizione della scientificità della storiografia.A questo movimento dalla storiografia verso le scienze sociali ha fatto riscontro, nella seconda metà del Novecento, un movimento in senso inverso.
Se fin dall'inizio l'antropologia aveva intrattenuto uno stretto rapporto con la storia, altre discipline si sono venute svincolando in misura crescente dal riferimento esclusivo alla contemporaneità: con Joseph A. Schumpeter, ad esempio, la teoria dei cicli economici ha cercato di offrire una spiegazione di processi plurisecolari, e anche la demografia è andata in cerca di tendenze di lungo periodo. Un caso a sé è rappresentato dalla sociologia, caratterizzata nella prima metà del secolo dall'interesse prevalente per processi sociali in corso che potevano essere osservati empiricamente, dai processi migratori dall'Europa in America allo sviluppo urbano e ai rapporti di classe nella società statunitense. Proprio all'interno della sociologia si è determinato, parallelamente all'esaurirsi dell'impostazione parsonsiana, la tendenza verso una sociologia 'storica', che facesse uso di materiale storico e che fosse orientata verso l'analisi di processi sociali di più lunga durata.
Lo studio dei processi di modernizzazione condotto, a partire dagli anni Settanta, da autori come Reinhart Bendix, Barrington Moore jr., Theda Skocpol sembrava richiedere la determinazione delle diverse vie alla 'modernità' percorse dai singoli paesi, e degli esiti a cui avevano condotto sul terreno politico. La sociologia storica promosse perciò la comparazione tra contesti nazionali differenti, e si trasformò in 'storia comparata'. La storia comparata ha rappresentato, negli ultimi decenni, il terreno d'incontro tra scienze sociali e storiografia, in una prospettiva metodologica che si richiama assai più a Weber (ma anche al marxismo) che non alle pretese imperialistiche della scuola delle "Annales" e ai suoi troppo vaghi tentativi di concettualizzazione. La comparazione tra regimi totalitari e regimi democratici, sviluppata con particolare riguardo alla via autoritaria alla 'modernità' prevalsa in paesi come la Germania e il Giappone, ha comportato infatti l'integrazione tra ricerca storica e metodi di indagine propri delle scienze sociali. Ciò non vuol dire che si sia addivenuti a una 'fusione' e neppure a un'assimilazione di queste con la storiografia: le scienze sociali hanno mantenuto le loro caratteristiche epistemologiche, ma la distanza che le separava in passato dalla ricerca storica appare ormai largamente ridotta. Da parte sua la storiografia, svincolata dal paradigma storicistico, ha spesso rivendicato la sua natura di scienza, e precisamente di 'scienza sociale storica'.
A ciò facevano riscontro altri due fenomeni: da un lato il riconoscimento sempre più esplicito della storicità delle 'leggi' formulate dalle scienze sociali, dall'altro il rilievo che all'interno di parecchie discipline, soprattutto dell'economia, hanno assunto gli approcci di tipo dinamico. Lungi dall'enunciare regolarità di comportamento 'astratte', fornite di una validità atemporale, le 'leggi' economiche o sociologiche si sono rivelate valide limitatamente a un particolare ambito storico, cioè a uno specifico sistema economico o a una data società. D'altra parte, le scienze sociali si sono venute interessando in misura crescente non di equilibrio ma di mutamento e di 'fattori' del mutamento: la teoria schumpeteriana dello sviluppo economico ha trovato un pendant, dopo Parsons, nella ricerca delle modalità di trapasso dalle società tradizionali alle società moderne, delle condizioni che rendono possibile lo sviluppo sociale e la trasformazione delle strutture politiche. Il 'tempo' storico ha così riacquistato, dopo la caduta delle prospettive macrostoriche della sociologia e dell'antropologia ottocentesche, pieno diritto di cittadinanza nelle scienze sociali.
Presupposti di valore e rapporto con la prassi
Non diversamente dalla moderna scienza della natura, anche le scienze sociali sono sorte con un esplicito intento conoscitivo, ossia con l'intento di conoscere la struttura della società e le sue 'leggi'. Ad esso si congiungeva però, fin dall'inizio, uno scopo pratico, che troviamo infatti presente nel programma dell'economia politica settecentesca e poi chiaramente enunciato da Comte con il suo richiamo a Bacone: la previsione fondata sulle 'leggi' deve rendere possibile l'intervento consapevole sul corso delle cose, rivolto a indirizzarlo verso determinati fini. Che poi questi fini venissero presentati come corrispondenti allo sviluppo oggettivo della società, cioè allo sviluppo della divisione del lavoro e all'accrescimento della "ricchezza delle nazioni" oppure al completamento della società industriale, ha un'importanza tutto sommato secondaria. Rimane il fatto che alle scienze sociali è stata fin dall'origine attribuita anche una funzione pratica.
Tuttavia il rapporto tra conoscenza scientifica dei fenomeni sociali e impiego dei risultati delle scienze sociali si è ben presto rivelato tutt'altro che univoco; e ciò in quanto i fini che la ricerca si proponeva di conseguire, lungi dall'essere dipendenti da quei risultati, condizionavano fin dall'inizio il suo orientamento. Soprattutto nella cultura tedesca le scienze sociali furono, per tutto l'Ottocento, concepite in funzione della politica 'nazionale' - e non a caso la political economy della scuola classica si trasformò in Nationalökonomie; anche la politica sociale che veniva proposta su tale base, per esempio dai "socialisti della cattedra", aveva come scopo ultimo quello di garantire, attraverso l'integrazione delle classi lavoratrici, le condizioni necessarie per il perseguimento degli obiettivi di potenza dello Stato.
La conseguenza di tale impostazione era il riconoscimento dei 'giudizi di valore' come elemento integrante delle scienze sociali, dalla cui ricerca ci si attendeva di poter trarre indicazioni di carattere scientifico non soltanto sui mezzi da adottare, ma anche sugli obiettivi da perseguire in sede politica. Ad essa si è però contrapposta la tesi weberiana della Wertfreiheit, cioè del necessario carattere 'avalutativo' delle scienze sociali.
Max Weber ammetteva che la conoscenza della realtà sociale è sempre vincolata a presupposti 'soggettivi', e quindi a valori che presiedono alla selezione del dato empirico; ma riteneva che questa relazione di valore - com'egli la chiamava impiegando il linguaggio neokantiano - non fosse di ostacolo alla possibilità di pervenire a una 'verità' oggettivamente valida, a condizione però che non si traducesse nella formulazione di giudizi di valore. Egli faceva perciò valere una netta distinzione tra scienza empirica e determinazione di norme o direttive per la prassi. Al pari delle scienze naturali, anche le scienze sociali procedono - o, almeno, devono procedere - alla determinazione di rapporti causali tra i fenomeni a cui si riferiscono, cioè ne offrono una spiegazione. Che il tipo di spiegazione sia differente (così come differente è la funzione del sapere nomologico) non vuol dire che l'intento esplicativo sia proprio soltanto delle scienze naturali.
Una volta definito - sulla base di uno specifico 'punto di vista' che esprime appunto la relazione a determinati 'valori' - l'ambito e la direzione della ricerca, questa può (e deve) procedere in base a regole metodiche che ne assicurano l'oggettività, così come fanno le scienze naturali. Weber ammetteva inoltre che i valori possono essere oggetto di indagine per quanto attiene alle condizioni e ai mezzi della loro realizzazione, cioè alla loro coerenza con i mezzi impiegati per realizzarli e alla loro compatibilità reciproca; ma riteneva che questa critica 'tecnica' non comportasse affatto un giudizio sulla 'validità' dei valori, il quale esula dall'ambito dell'indagine empirica ed è invece questione di fede, oppure oggetto di riflessione filosofica.La tesi weberiana dell'avalutatività delle scienze sociali ha rappresentato un ideale metodico largamente condiviso, in quanto permetteva di salvaguardare l''oggettività' delle scienze sociali pur riconoscendo la molteplicità (e la relatività) dei 'punti di vista' da cui la ricerca muove, e quindi il suo legame con una particolare situazione storica. Essa si è però scontrata con la tendenza a istituire un più stretto legame tra teoria e prassi, facendo delle scienze sociali uno strumento di trasformazione della società in vista di precisi obiettivi politici.
Questa tendenza ha assunto, nel corso del Novecento, forme molteplici che possono però essere ricondotte a due varianti principali, corrispondenti alla diversa modalità del processo di trasformazione: da un lato una variante rivoluzionaria e dall'altra una variante riformistica. La prima variante si trova soprattutto nei tentativi di collegare scienze sociali e marxismo, facendo di esse il veicolo di una concezione della società fondata sulla prospettiva della transizione dal capitalismo a una società senza classi.
La seconda variante, prevalente soprattutto nella cultura anglosassone, concepisce invece le scienze sociali come strumento per il miglioramento graduale delle condizioni materiali di vita degli uomini e per la diffusione del benessere. Alla prima alternativa corrisponde uno stretto rapporto tra scienze sociali, concezione del mondo e 'utopia' (anche quando questa viene presentata come scientificamente fondata); alla seconda corrisponde invece la loro finalizzazione a un'opera di 'ingegneria sociale'.
Entrambe queste tendenze affondano le loro radici nella fase iniziale di sviluppo delle scienze sociali. Il carattere utopico è fortemente presente nella sociologia positivistica, come del resto - nonostante la pretesa di fondare un socialismo 'scientifico' - nella marxiana scienza della società; mentre l'economia politica si è configurata piuttosto come una tecnologia sociale, come un insieme di indicazioni strumentali per il conseguimento di fini prefissati. Ma, con il venir meno dell'aspirazione a costituire la scienza onnicomprensiva della società, anche la sociologia ha dismesso la propria originaria tendenza utopica per trasformarsi in ingegneria sociale, cioè nella proposta di indicazioni per affrontare e risolvere problemi specifici.
A differenza dell'utopia, che si propone di realizzare una società 'ideale' più o meno alternativa allo stato di cose esistente, l'ingegneria sociale ha di mira la correzione dei mali della società e la ricerca del benessere.
Anche l'ingegneria sociale è, in realtà, una forma di intervento ispirata a presupposti di valore; lo è in quanto essa aspira non soltanto a individuare i problemi sociali, ma a darne una soluzione che si ritiene scientificamente corretta, o la migliore possibile. Essa non è quindi neutrale rispetto ai fini da perseguire; non si limita a fornire una serie di indicazioni sulle vie da percorrere per la realizzazione dell'una o dell'altra soluzione.
Lo scienziato sociale impegnato in un'attività 'ingegneristica' è portatore di valori, cioè di una linea politica che può coincidere, ma che non coincide necessariamente, con quella del governo o dell'organizzazione committente. Ciò apre tutta una serie di questioni - che sono state largamente dibattute nel corso degli anni Sessanta e Settanta - sul ruolo dell'economista o del sociologo, e sul compito 'critico' che, in quanto intellettuale, è chiamato ad assolvere. Questo compito, infatti, si presta a sua volta a una duplice interpretazione. Da una parte esso può venir inteso nel senso che la conoscenza della realtà sociale assolve, in quanto tale, una funzione demistificante rispetto al modo in cui essa viene presentata da parte di determinate posizioni ideologiche, quale che sia poi la base sociale o l'orientamento di queste; dall'altra si è presentata con una più esplicita caratterizzazione politica, cioè come critica delle implicazioni ideologiche che, in maniera più o meno esplicita, sottostanno alla stessa analisi delle scienze sociali. Nella prima di queste due accezioni il compito critico attribuito alle scienze sociali non contrasta con il postulato della 'avalutatività'; nella seconda, invece, la scienza sociale orientata criticamente si propone di svolgere una critica dell'assetto sociale presente, e quindi delle strutture di potere sulle quali esso riposa.
Specializzazione, unificazione, integrazione
Come tutte le discipline scientifiche, anche le scienze sociali hanno conosciuto, soprattutto nel corso dell'ultimo secolo, un processo di crescente specializzazione. Non soltanto le scienze sociali nel loro insieme, ma ognuna di esse si presenta ormai come una 'famiglia' di discipline o - se vogliamo - di sottodiscipline. Questo processo s'inquadra nel più generale fenomeno della divisione del lavoro scientifico e dell'istituzionalizzazione della ricerca, comune a tutte le scienze. Ma esso ha anche un'altra origine più specifica: la complessità della società contemporanea, che ha generato - e viene generando - nuovi oggetti di studio, ai quali necessariamente si rivolge l'attenzione degli studiosi di scienze sociali. In un'epoca di continuo mutamento le scienze sociali si vedono costrette ad affrontare problemi prima sconosciuti, a spiegare fenomeni che non rientravano nel loro tradizionale campo di indagine, a metterli in relazione con fenomeni già noti. E ciò richiede anche il ricorso a nuove tecniche di ricerca. Così non soltanto l'ambito oggettivo, ma anche i quadri teorici delle scienze sociali si vanno sempre più articolando; né si può ipotizzare un ritorno all'indietro.
Al fenomeno della specializzazione scientifica rivolse la sua attenzione già Comte, che vi scorgeva un pericolo per il compito 'sintetico' da lui attribuito alla 'filosofia positiva' - un pericolo in qualche maniera parallelo a quello della specializzazione del lavoro industriale, generatrice di conflitti tra le classi. E la storia successiva delle scienze sociali è piena di analoghe preoccupazioni, che si manifestavano nell'appello a un'unità perduta da ricostituire. Da ciò ha preso l'avvio la tendenza all'unificazione delle scienze sociali, sia considerate come un edificio teorico autonomo, sia ricondotte a una costruzione unitaria che trovava il suo modello in qualche disciplina ad esse estranea. La stessa sociologia era stata del resto concepita, in origine, come una 'fisica sociale', mentre concetti e schemi esplicativi desunti dalla biologia furono largamente impiegati per tutto l'Ottocento: ancor oggi, del resto, metafore di stampo organicistico fanno parte del lessico delle scienze sociali.
L'esigenza di pervenire all'unificazione delle scienze sociali ha infatti una duplice matrice. Essa trae origine, in primo luogo, dalla consapevolezza che ogni scienza sociale è in grado di cogliere soltanto un aspetto particolare della vita sociale, che la sua capacità di spiegazione è limitata, oppure - all'opposto - dalla pretesa di una particolare disciplina di valere come modello per le altre. Particolarmente significativo è, sotto questo duplice profilo, il caso della scienza sociale più formalizzata, cioè della scienza economica. Da una parte essa si trova costretta, per spiegare processi di lungo periodo, a far ricorso a 'fattori' non economici, e quindi a teorie desunte dalla sociologia o dalla scienza politica o, più semplicemente, dalla ricerca storica. Dall'altra essa si è proposta (o è stata proposta) come modello epistemologico per tutte le scienze sociali, sulla base del presupposto che ogni individuo agisce sempre, in tutti i campi, in base al principio di economia, e che quindi la scienza economica è in grado di fornire l'apparato teorico indispensabile per spiegare anche il comportamento politico o altri tipi di comportamento. La teoria della 'scelta razionale', elaborata in sede economica, si è così venuta diffondendo anche in altre discipline, a partire dalla scienza politica. La seconda matrice della tendenza all'unificazione delle scienze sociali è da ricercarsi invece nel confronto con le scienze naturali, nella convinzione che condizione della scientificità delle scienze sociali sia l'adeguamento ai procedimenti e al linguaggio di altre scienze che siano pervenute a un più elevato grado di sviluppo.
Questa seconda matrice si trova soprattutto nel programma neopositivistico dell'unità della scienza, che rivela un'esplicita ispirazione fisicalistica. Se Comte pensava a una sociologia fondata su un sistema di leggi analogo a quello della fisica e dipendente, pur nella sua autonomia, dai sistemi di leggi delle discipline che la precedono nell'enciclopedia del sapere positivo, il neopositivismo si è proposto invece di 'ridurre' il linguaggio della sociologia - e, con esso, quello di qualsiasi scienza, sociale o no - al linguaggio della fisica, assunto come paradigmatico in virtù della possibilità di ricondurlo a enunciati di carattere osservativo. L'unificazione linguistica rappresentava così la contropartita di un programma di ricerca radicalmente empiristico, fatto valere contro la dicotomia epistemologica tra scienze sociali e scienze naturali. In realtà, questo programma ebbe scarsa incidenza sul lavoro effettivo delle scienze sociali, e fu ben presto abbandonato già nel corso degli anni Cinquanta; anche la sua riproposizione sotto forma di un modello unico di spiegazione, adottato (o da adottare) da qualsiasi scienza, non resistette alle critiche che gli furono rivolte. Insieme alla fisica, l'altra disciplina a cui le scienze sociali hanno spesso guardato come al loro modello è la biologia; e ciò quando la società venne concepita come un organismo da studiare nelle sue 'funzioni', e le sue istituzioni vennero equiparate a organi che dovevano assolvere ognuno determinate funzioni vitali necessarie alla vita del tutto. Anche se il funzionalismo sociologico e antropologico si è, nel corso del tempo, depurato dei suoi presupposti organicistici, il programma di una riduzione delle scienze sociali alla biologia è tutt'altro che tramontato.
Ancora di recente Edward O. Wilson lo ha riproposto come condizione affinché le scienze sociali possano rientrare in quella che egli chiama la "sintesi moderna": una sintesi fondata sull'estensione alla vita sociale della teoria dell'evoluzione e, in particolare, della selezione naturale. Non più la fisiologia del primo Ottocento, ma una sociobiologia di impostazione evoluzionistica, collegata ai progressi della genetica e delle neuroscienze, è diventata così la base per una nuova versione del programma di unificazione delle scienze sociali. E c'è più di un indizio che fa supporre che all'informatica possa, in futuro, essere attribuito un compito 'unificante' analogo a quello della fisica o della biologia.
La tendenza all'unificazione delle scienze sociali non ha però dato finora il risultato che i suoi sostenitori si erano prefissi. Diverso è il caso della tendenza all'integrazione, che lasciando da parte qualsiasi pretesa di costruire una scienza unitaria della società punta piuttosto a combinare tecniche di ricerca e risultati di discipline diverse - di più scienze sociali oppure tra scienze sociali e scienze naturali o tra scienze sociali e ricerca storica. Se la tendenza all'unificazione poggia sul postulato che ogni disciplina fa parte di un tutto unitario, il processo di integrazione presuppone piuttosto che nessuna scienza sociale sia autosufficiente, e che l'articolazione in discipline sia il prodotto di una divisione del lavoro scientifico storicamente determinata, e quindi destinata anch'essa a modificarsi. Dal processo di integrazione sono sorte - come si è visto - e continuano a sorgere nuove direzioni di ricerca, destinate a dar luogo a nuove discipline o sotto-discipline. Lungi dal produrre un sistema di scienze ordinato gerarchicamente, esso ha piuttosto aperto vie inesplorate alla conoscenza dei fenomeni sociali, dei loro rapporti reciproci e del loro condizionamento da parte di fenomeni di altro genere.
vedi anche:
Antropologia ed etnologia; Demografia; Diritto; Ecologia; Econometria; Economia; Epistemologia delle scienze sociali; Etologia; Genetica; Geografia umana; Giurisprudenza; Metodo e tecniche nelle scienze sociali; Politica: scienza della politica; Psicanalisi; Psichiatria; Psicologia sociale; Semiotica; Sociobiologia; Sociologia; Statistica applicata alle scienze sociali; Storia comparata).
Albert, H., Topitsch, E. (a cura di), Werturteilsstreit, Darmstadt 1971.
Bohnen, A., Individualismus und Gesellschaftstheorie, Tübingen 1975.
Brown, J.R. (a cura di), Scientific rationality: the sociological turn, Dordrecht 1984.
Cassirer, E., Philosophie der symbolischen Formen, 3 voll., Berlin 1923-1929 (tr. it.: Filosofia delle forme simboliche, Firenze 1961-1966).
Cassirer, E., An essay on man. An introduction to philosophy of human culture, New Haven, Conn., 1944 (tr. it.: Saggio sull'uomo, Milano 1948).
Comte, A., Cours de philosophie positive (1830-1842), 6 voll., Paris 1877⁴.
Comte, A., Lettres d'Auguste Comte à John Stuart Mill: 1841-1846, Paris 1877.
Dilthey, W., Einleitung in die Geisteswissenschaften (1883), in Gesammelte Schriften, 12 voll., Leipzig 1914-1958.
Dilthey, W., Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften (1910), Frankfurt a.M. 1914 (tr. it.: La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in Critica della ragione storica, a cura di P. Rossi, Torino 1954²; rist. 1969, pp. 143-289).
Durkheim, É., De la division du travail social: étude sur l'organisation des sociétés supérieures, Paris 1893 (tr. it.: La divisione del lavoro sociale, Milano 1962).
Durkheim, É., Les règles de la méthode sociologique, Paris 1895 (tr. it.: Le regole del metodo sociologico, Milano 1963).
Durkheim, É., Leçons de sociologie: physique des moeurs et du droit (1898-1900), Paris 1950 (tr. it.: Lezioni di sociologia: fisica dei costumi e del diritto, Milano 1973).
Eibl-Eibesfeldt, I., Grundriss der vergleichenden Verhaltensforschung: Ethologie, München 1967, 1987⁷ (tr. it.: I fondamenti dell'etologia, Milano 1976).
Gallino, L., L'incerta alleanza. Modelli di relazione tra scienze umane e scienze della natura, Torino 1992.
Gardner, H., The mind's new science. A history of the cognitive revolution, New York 1985 (tr. it.: La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, Milano 1988).
Gouldner, A.W., The coming crisis of western sociology, New York 1970 (tr. it.: La crisi della sociologia, Bologna 1972).
Habermas, J., Zur Logik der Sozialwissenschaften, Tübingen 1967 (tr. it.: Logica delle scienze sociali, Bologna 1970).
Hollis, M., Philosophy of social sciences, Cambridge, Mass., 1994.
Kelsen, H., Reine Rechtslehre, Wien 1934 (tr. it.: La dottrina pura del diritto, Torino 1960).
Kelsen, H., General theory of law and State, Cambridge, Mass., 1945 (tr. it.: Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano 1951).
Luhmann, N., Die Wissenschaft der Gesellschaft, Frankfurt a.M. 1990.
Margolis, J., Science without unity. Reconciling the human and natural sciences, Oxford 1987.
Marx, K., Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-1858), Berlin 1953 (tr. it.: Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, 2 voll., Firenze 1968-1970).
Marx, K., Engels, F., Die deutsche Ideologie (1845-1846), Berlin 1932 (tr. it.: L'ideologia tedesca, in Opere complete, vol. V, Roma 1972).
Merton, R.K., Social theory and social structure, Glencoe, Ill., 1949, 1957², 1968³ (tr. it.: Teoria e struttura sociale, Bologna 1959, 1966², 1971).
Mill, J.S., A system of logic, ratiocinative and inductive: being a connected view of the principles of evidence and the methods of scientific investigation (1843), London 1961 (tr. it.: Sistema di logica, Roma 1968).
Münch, R., Theorie des Handelns. Zur Rekonstruktion der Beiträge von Talcott Parsons, Émile Durkheim und Max Weber, Frankfurt a.M. 1982.
Myrdal, G., The political element in the development of economic theory, London-New York 1958 (tr. it.: Il valore nella teoria sociale, Torino 1966).
Neurath, O., Empirische Soziologie, Wien 1931.
Pareto, V., Trattato di sociologia generale, Firenze 1916.
Parsons, T., Shils, E.A. (a cura di), Toward a general theory of action, Cambridge, Mass., 1951.
Pomian, K. (a cura di), La querelle du déterminisme. Philosophie de la science d'aujourd'hui, Paris 1990 (tr. it.: Sul determinismo. La filosofia della scienza oggi, Milano 1991).
Rickert, H., Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, Tübingen 1896-1902.
Riedl, R., Die Spaltung des Weltbildes. Biologische Grundlagen des Erklärens und Verstehens, Berlin 1985.
Robbins, L., An essay on the nature and significance of economic science, London 1932, 1935² (tr. it.: Saggio sulla natura e l'importanza della scienza economica, Torino 1947²).
Rossi, P., Specializzazione del sapere e comunità scientifica, in La memoria del sapere (a cura di P. Rossi), Roma-Bari 1988, pp. 315-357.
Rossi, P. (a cura di), La storia comparata. Approcci e prospettive, Milano 1990.
Saint-Simon, C.-H. de, Mémoire sur la science de l'homme, Paris 1811.
Saint-Simon, C.-H. de, Du système industriel, 3 voll., Paris 1821-1822.
Sartori, G., Morlino, L. (a cura di), La comparazione nelle scienze sociali, Bologna 1991.
Schumpeter, J.A., Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, München-Leipzig 1912 (tr. it.: Teoria dello sviluppo economico, Firenze 1971).
Schumpeter, J.A., Business cycles: a theoretical, historical and statistical analysis of the capitalistic process, New York 1939 (tr. it. parziale: Il processo capitalistico, Torino 1978).
Stark, W., The fundamental forms of social thought, London 1962.
Thomas, D., Naturalism and social sciences, Cambridge 1979 (tr. it.: Naturalismo e scienza sociale, Bologna 1982).
Tönnies, F., Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig 1887 (tr. it.: Comunità e società, Milano 1963).
Vanberg, V., Die zwei Soziologien. Individualismus und Kollektivismus in der Sozialwissenschaft, Tübingen 1975.
Van den Daele, W., Weingart, P. (a cura di), Perspectives on the emergence of new disciplines, The Hague 1976.
Weber, M., Die 'Objektivität' sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, in Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre (1904), Tübingen 1922, 1973⁴, pp. 146-214 (tr. it.: L''oggettività' conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1958, pp. 53-141).
Weber, M., Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik (1906), in Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Tübingen 1922, 1973⁴, pp. 215-290 (tr. it.: Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura, in Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1958, pp. 143-307).
Weber, M., Der Sinn der 'Wertfreiheit' der soziologischen und ökonomischen Wissenschaften (1917), in Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Tübingen 1922, 1973⁴, pp. 489-540 (tr. it.: Il significato della 'avalutatività' delle scienze sociologiche e economiche, in Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1958, pp. 309-375).
Weber, M., Wirtschaft und Gesellschaft, 2 voll., Tübingen 1922, 1972⁵ (tr. it.: Economia e società, 2 voll., Milano 1961).
Wilson, E.O., Sociobiology. The new synthesis, Cambridge, Mass., 1975 (tr. it.: Sociobiologia. La nuova sintesi, Bologna 1979).
Windelband, W., Präludien. Aufsätze und Reden zur Einleitung in die Philosophie, Tübingen 1884, 1924⁹ (tr. it.: Preludi, Milano 1948).
Le moderne scienze sociali si articolano in una pluralità di discipline teoriche, storiche e normative aventi per oggetto lo studio dei contesti sociali: dalla teoria economica alla sociologia, all'antropologia, alla scienza politica e alla psicologia sociale fino alla storia sociale ed economica e alla storia della cultura, del diritto, della morale e della religione. L'aspirazione a conoscere la realtà sociale ha una preistoria che risale all'antichità greca; i problemi allora discussi e le soluzioni proposte entrarono a far parte della metafisica medievale, determinante per la visione del mondo dell'Europa cristiana. Con la nascita delle moderne scienze naturali, a partire dalla rivoluzione copernicana nel XVI secolo, quella metafisica subì un'erosione che portò a una visione del mondo totalmente diversa. A cominciare dal XVII secolo questo mutamento coinvolse anche la riflessione sui contesti sociali, che si affrancò dall'antica impostazione metafisica e diede origine a una filosofia sociale fondata su basi antropologiche, nel cui quadro si svilupparono le scienze sociali moderne.
Questo processo fu avviato da Thomas Hobbes, che con la problematica e il metodo della sua filosofia dello Stato esercitò un influsso decisivo sul pensiero successivo in questo ambito. Già in Hobbes si incontrano sia il naturalismo, che avrebbe caratterizzato lo sviluppo delle scienze sociali nel Settecento, sia l'individualismo metodologico, che divenne componente essenziale di una tradizione di studi sociali sviluppatasi nell'ambito dell'illuminismo anglo-scozzese, il cui risultato più importante è stato l'economia politica classica e neoclassica del XIX e del XX secolo.
Da un orientamento collettivistico nato nell'ambito dell'illuminismo francese ebbe origine nell'Ottocento la sociologia, che fino ai giorni nostri ha conservato in gran parte questo suo carattere originario. Un orientamento decisivamente collettivistico è quello nato dal tentativo marxista di associare idee dell'illuminismo francese e scozzese a concezioni derivate dall'idealismo tedesco.
Nell'Ottocento lo storicismo portò a una svolta antinaturalistica nelle scienze dello spirito; il rapporto fra teoria e storia, fra spiegazione e comprensione divenne un tema centrale del dibattito metodologico in varie scienze sociali. Un altro tema di discussione fu offerto dall'orientamento normativo di molti studi nel campo delle scienze sociali e dalle critiche a esso rivolte dai sostenitori del principio di avalutatività.
a) L'impostazione naturalistica
b) Teorie e leggi
Si definisce 'teoria' un sistema di enunciati formulato con l'ausilio di uno specifico apparato concettuale e destinato a cogliere caratteristiche generali della realtà, ossia invarianze (regolarità), in base alle quali spiegare nessi concreti - eventi, situazioni, sviluppi. Gli enunciati fondamentali dei sistemi teorici sono quindi enunciati nomologici che descrivono invarianze di questo tipo. Se si accetta una concezione realista, occorre distinguere questi enunciati dai fatti (nomici) descritti (v. Bunge, 1967, vol. I, pp. 305-379). Vi sono varie versioni del realismo (v. Musgrave, 1977): il realismo moderato si limita ad assumere che le teorie contengano descrizioni vere o false di nessi reali utilizzabili per spiegare determinati aspetti dell'accadere. Non si afferma né che la verità di tali descrizioni è certa, né che esse contengono sempre verità 'ultime', non ulteriormente riducibili, né che sono complete e quindi capaci di spiegare tutto.
Al contrario del realismo, lo strumentalismo non attribuisce un carattere descrittivo ai sistemi di enunciati teorici, ma li tratta come semplici strumenti per dedurre enunciati osservativi da altri enunciati dello stesso tipo, ossia soprattutto come strumento di previsione. Finora è stato sostenuto di rado uno strumentalismo di principio, in quanto per i fini delle scienze sociali è sufficiente il realismo moderato; esistono tuttavia tendenze strumentaliste, specialmente nel pensiero economico. L'influsso delle tesi di Thomas Kuhn (v., 1962; per le critiche mossegli v. Andersson, 1988) ha contribuito inoltre alla diffusione di concezioni relativistiche.
Dal punto di vista della forza esplicativa rispetto a fenomeni concreti vi sono notevoli differenze tra le varie teorie (v. Bunge, 1967, vol. II, pp. 44-53). Anzitutto queste possono essere più o meno generali, ossia avere un campo d'applicazione più o meno esteso. Una teoria sociologica, ad esempio, può riferirsi solo a piccoli gruppi, mentre un'altra può valere per gruppi di ogni tipo. Le teorie possono poi presentare un diverso grado di precisione: possono attribuire agli individui presi in considerazione un comportamento finalizzato in generale, o tendente a una minimizzazione dei costi, o tendente a una massimizzazione dei benefici (quest'ultimo comportamento implica logicamente gli altri due). Le teorie possono avere inoltre un diverso grado di approfondimento: ad esempio, una teoria monetaria può mettere in relazione tra loro due grandezze macroeconomiche come il livello dei prezzi e la quantità di moneta, allo scopo di spiegare i movimenti inflazionistici e deflazionistici, mentre una teoria più approfondita può scoprire le forze e i meccanismi (concatenazioni di azioni individuali) che stanno dietro i fenomeni da spiegare. Un grado più elevato di generalità, di precisione o di approfondimento contribuisce ad aumentare la forza esplicativa di una teoria. Talvolta una teoria più approfondita fornisce una spiegazione correttiva di teorie più generiche, garantendone la validità approssimativa in particolari condizioni (v. Popper, 1972; v. Malewski, 1964). Si consideri ad esempio la 'legge ferrea dell'oligarchia' enunciata da Roberto Michels, secondo la quale non possono esserci organizzazioni democratiche durevoli (v. Michels, 1911): analizzando un'organizzazione sindacale Seymour Lipset, Martin Trow e James Coleman (v., 1956) hanno invece dimostrato che in determinate circostanze una tale possibilità esiste. Questa analisi implica dunque una spiegazione correttiva della legge di Michels.
Quando gli enunciati nomologici vengono formulati come enunciati condizionali generali, la loro generalità dipende dall'antecedente ('se') e la loro esattezza dal conseguente ('allora'). Un antecedente logicamente più forte riduce la generalità e quindi il contenuto d'informazione dell'enunciato, in quanto ne restringe il campo d'applicazione; un conseguente logicamente più forte accresce invece l'esattezza dell'enunciato e quindi il suo contenuto d'informazione. Lo schema logico (x) (P(x)f3®Q(x)), spesso usato per caratterizzare gli enunciati nomologici, non tiene conto del fatto che da un enunciato di questo tipo conseguono infinite proposizioni condizionali controfattuali. Dalla teoria quantitativa della moneta, ad esempio, consegue che in un qualsiasi sistema sociale a economia monetaria un aumento della massa monetaria fa prevedere un processo inflazionistico. Gli enunciati nomologici contengono asserzioni su possibili eventi o situazioni, indipendentemente dal tempo e dal luogo in cui essi effettivamente ricorrono. Lo schema logico (x) (P(x) → Q(x)) inoltre non specifica quali specie di concetti ricorrano nell'antecedente e nel conseguente, né il grado di complessità di questi ultimi. I concetti in questione possono essere qualitativi, comparativi o quantitativi. Un enunciato nomologico può constatare che in determinate condizioni esiste una funzione di un certo tipo, ad esempio una funzione della domanda in cui si esprime la relazione tra la richiesta di un bene di consumo e il suo prezzo.Gli enunciati nomologici possono essere classificati in base a vari criteri. È possibile ad esempio distinguere leggi di coesistenza, che constatano la presenza simultanea di certe proprietà, e leggi di successione che asseriscono il succedersi di determinati stati. Le leggi stocastiche constatano, a differenza di quelle deterministiche, che in certe condizioni vi è una data probabilità che si verifichino certi eventi (v. Bunge, 1967, vol. I, p. 336). Vi sono inoltre enunciati nomologici che constatano l'esistenza di una relazione tra due grandezze a condizione che non intervengano influssi perturbatori (v. Gadenne, 1984, pp. 40 ss.). In questi casi viene postulata una catena causale 'aperta', che ammette il possibile intervento di altri fattori. Così un enunciato nomologico in psicologia può constatare il manifestarsi di una tendenza ad agire in un certo modo sotto l'influsso di determinati motivi, senza escludere peraltro che tale tendenza possa essere eliminata dall'intervento di altri motivi 'estrinseci'. Una teoria contenente enunciati di questo tipo implica (v. Bunge, 1967, vol. I, p. 385) un 'modello ideale' che rappresenta determinati aspetti dei sistemi reali. Il suo carattere 'ideale' è dato dal fatto che gli elementi di disturbo non svolgono alcun ruolo. Nella realtà questi modelli sono spesso attuati in modo approssimativo, oppure si cerca di approssimarli artificialmente in esperimenti. Si fa allora l'ipotesi, controfattuale, che i corrispondenti sistemi reali siano 'chiusi', che cioè su di essi non agiscano forze rilevanti per la spiegazione del processo in questione.
Si possono distinguere due specie di 'chiusure' dei sistemi reali, quella fattuale e quella nomica. Nel caso della chiusura fattuale si suppone che al di fuori del sistema non vi sia nessun elemento di cui si debbano prendere in considerazione gli effetti; nel caso della chiusura nomica si assume invece di aver tenuto conto di tutte le regolarità rilevanti, e che quindi non vi siano altre forze che possano svolgere un ruolo essenziale (v. Bergmann, 1957, pp. 93 ss.).
Nelle scienze sociali gli enunciati nomologici sono spesso accompagnati da una clausola ceteris paribus per segnalare la loro incompletezza. In generale si deve tener conto che in questo caso si tratta di sistemi aperti, sia dal punto di vista fattuale che da quello nomico. Già per questa ragione le idealizzazioni assumono un ruolo importante nella teoria delle scienze sociali. Poiché non di rado la classe dei possibili influssi perturbatori non è esattamente delimitabile, è difficile stabilire fino a che punto le condizioni di un determinato modello si avvicinino alla situazione in un sistema reale, così che si possa contare sul verificarsi delle relative conseguenze. Per questo motivo è spesso arduo verificare empiricamente le teorie. Talvolta durante l'elaborazione di un sistema teorico risulta che certi enunciati nomologici sono validi solo in condizioni 'ideali', cioè in condizioni limite, non realizzabili se non in modo approssimativo (v. Brodbeck, 1959). Solo quando si scoprono leggi più generali, capaci di spiegare i 'casi ideali' come casi particolari, è possibile mostrare su che cosa si fondi la validità approssimativa delle leggi ideali. Un'idealizzazione di questo genere è costituita in economia dal modello della concorrenza perfetta (v. Knight, 1921, pp. 76 ss.). Una teoria più generale, dotata di maggior forza esplicativa, dovrebbe poter determinare per ciascun caso il grado di approssimazione di questo modello.
c) Modelli e spiegazioni
Per spiegare fatti concreti (eventi, situazioni, processi), è necessario applicare alle condizioni esistenti gli enunciati nomologici delle teorie, in modo che la descrizione dei fatti da spiegare possa essere logicamente dedotta dal corrispondente sistema di enunciati: enunciati nomologici, enunciati descrittivi ed eventuali ipotesi ausiliarie (ad esempio sulla mancanza di influssi perturbatori). Si costruisce a tale scopo un modello del sistema reale al quale si riferisce la spiegazione. Un esempio tipico è sempre stato il modello del sistema solare elaborato da Newton per spiegare i moti dei pianeti. Per arrivare a una spiegazione adeguata si parte spesso da un modello con notevoli semplificazioni e idealizzazioni e si passa poi a modelli sempre più complessi, in cui tali semplificazioni e idealizzazioni vengono gradualmente eliminate fino a ottenere un modello che contenga una descrizione sufficientemente esatta del sistema. Questo procedimento di approssimazione mediante modelli sempre più vicini alla realtà è detto comunemente 'metodo di riduzione dell'astrazione' (in proposito v. Lakatos, 1970; v. Koopmans, 1957, pp. 142 s.).
A causa della sua generalità un sistema teorico è compatibile con un numero infinito di modelli. Le possibilità tipiche di applicazione di una teoria vengono di solito illustrate mediante modelli semplici e fortemente idealizzati. In economia, ad esempio, si suppone che il comportamento degli individui dipenda solo da moventi economici, che non vi siano costi di transazione, che l'informazione sia completa e che i fattori in gioco si adeguino istantaneamente alle variazioni dei prezzi. Poiché spesso la complessità dei sistemi reali è così grande da non consentire una spiegazione dettagliata dei singoli processi, nelle scienze sociali ci si accontenta non di rado di modelli che per la loro astrattezza consentono solo 'spiegazioni di principio' (v. Hayek, 1967), ossia spiegazioni che chiariscono sotto determinati aspetti il funzionamento di principio di determinati sistemi.
Nasce allora il problema di stabilire fino a che punto sia possibile verificare l'adeguatezza delle spiegazioni, e soprattutto degli enunciati nomologici di cui esse si servono, quando la complessità dei sistemi reali sembra consentire solo spiegazioni di principio. Forti dubbi in proposito sono stati avanzati negli ultimi decenni per quanto riguarda le teorie e i modelli economici, che nel campo delle scienze sociali sono fra i sistemi di enunciati più altamente sviluppati (v. Hutchison, 1960²; v. Caldwell, 1984). Evidentemente nell'ambito dei modelli consueti gli enunciati nomologici fondamentali di queste teorie, e soprattutto le ipotesi circa il comportamento degli individui, sono difficilmente verificabili. Contro le verifiche compiute in situazioni sperimentali sono state sollevate di recente serie obiezioni (v. Simon, 1987; v. Tversky e Kahnemann, 1987). D'altra parte sembra che in economia si possano ottenere spiegazioni più adeguate specificando meglio i dispositivi istituzionali rilevanti per i sistemi reali (v. Coleman, 1987). Sotto questo riguardo alcune tendenze recenti verso un istituzionalismo teorico (property rights approach, public choice theory, ecc.: v. Furubotn e Pejovich, 1974; v. Brunner, 1979) hanno portato a un considerevole miglioramento e ampliamento delle possibilità di spiegazione. È risultato inoltre che questo tipo di approccio può essere visto in generale come alternativo ad altri, per esempio al funzionalismo sociologico.
a) Lo storicismo come movimento antinaturalistico
La moderna scienza storica coi suoi metodi di critica delle fonti si è sviluppata nel XIX secolo nell'ambito dello storicismo, ossia di quel movimento culturale che si era proposto di esplorare scientificamente nel suo sviluppo storico il mondo dell'uomo e di delinearne la peculiarità rispetto al mondo della natura. Non è possibile caratterizzare lo storicismo mediante un'unica dottrina di base (v. Rossi, 1977), perché le sue varie forme si differenziano tra loro anche su questioni essenziali. Lo storicismo tedesco può essere inteso come un movimento che ha cercato d'integrare la critica kantiana della ragion pura con una critica della ragione storica, ossia con un'indagine sulle condizioni di possibilità della conoscenza storica (ibid.). Si trattava soprattutto di affermare l'autonomia delle cosiddette scienze dello spirito rispetto alle scienze naturali, privilegiando come fine la conoscenza dell'accadere storico e come procedimento il metodo della comprensione.
b) Lo storicismo nella discussione sul metodo
Uno storicismo metodologico radicale fu propugnato da Johann Gustav Droysen (v., 1937), che partiva da una distinzione ontologica tra il mondo della natura e quello della storia, contestando la possibilità di spiegare i fatti storici in base a regolarità. Droysen raccomandava il metodo comprendente in esplicita opposizione a quello delle scienze naturali. In seguito tale metodo è stato privilegiato anche per le scienze sociali, senza essere peraltro contrapposto sistematicamente a quello delle scienze della natura. L'ermeneutica, in quanto dottrina del comprendere, ha continuato ad avere un ruolo notevole nella discussione sulla metodologia delle scienze sociali, ultimamente per opera soprattutto di Hans Georg Gadamer, Karl Otto Apel e Jürgen Habermas. Un movimento affine è quello che si ricollega, nell'ambiente anglosassone, a R.G. Collingwood, Peter Winch, Henrik von Wright e Ludwig Wittgenstein.Nell'economia politica il dibattito sul rapporto fra teoria e storia ebbe inizio con la controversia tra Carl Menger e Gustav von Schmoller (v. Menger, 1883 e 1884; v. Schmoller, 1883), in cui Schmoller assunse una posizione radicalmente antinaturalistica (v. Meyer, 1988). Nel quadro di una concezione olistica dei fenomeni sociali, egli propose una spiegazione causale basata principalmente su due tipi di cause: le forze psichiche e le istituzioni sociali. Non rendendosi conto dell'importanza delle regolarità nell'identificazione delle cause, Schmoller concepiva questa spiegazione come una sorta di descrizione completa. Tuttavia, in contrasto con molti rappresentanti dell'individualismo metodologico, Schmoller sosteneva che le scienze sociali dovessero essere fondate su ipotesi psicologiche. Già la vecchia scuola storica aveva messo in evidenza che la considerazione dello sviluppo storico è essenziale per il pensiero economico.
Nei paesi di lingua tedesca la contrapposizione tra la scuola storica e quella marginalista si è mantenuta fino al termine della seconda guerra mondiale. Walter Eucken (v., 1947) ha tentato di dare al problema della 'grande antinomia' di teoria e storia una soluzione che salvaguardasse la generalità della teoria rispetto alla varietà delle forme economiche storicamente esistenti, istituendo una differenza tra la verità e l'attualità dei modelli.
c) L'analisi dello storicismo metodologico
Lo storicismo metodologico radicale viene a trovarsi in difficoltà già per il fatto di considerare l'accadere storico come un concatenamento causale. I nessi causali infatti implicano l'esistenza di regolarità, sicché lo storico dovrebbe ammettere enunciati nomologici, se non altro come strumenti ausiliari per le sue analisi. La presenza stessa di giudizi causali individuali rende dunque problematica l'interpretazione storicistica delle rappresentazioni di eventi storici.
Per quanto riguarda il metodo comprendente, che lo storicismo preferisce al metodo esplicativo fondato sulle regolarità, si assume che le sue norme siano codificate nell'ermeneutica come tecnologia, o che una tale codificazione sia realizzabile. Una simile tecnologia presuppone però l'esistenza di regolarità nella sfera della comunicazione sociale (v. Albert, 1988, pp. 120-143), e pertanto è incompatibile con lo storicismo radicale. In effetti, già i moralisti scozzesi del Settecento avevano adoperato metodi comprendenti nel quadro di una concezione naturalistica.
Un'altra considerazione critica nasce dal fatto che gli storici cercano di ricostruire gli eventi passati in base a ciò che ne rimane (le 'fonti'). L'idea che da fonti attuali si possano trarre conclusioni sul passato urta contro l'inammissibilità logica di deduzioni che amplino il contenuto delle premesse. Solo se si ammette l'esistenza di regolarità è possibile ricostruire il passato in base alle fonti. Si può allora tentare una ricostruzione dell'accaduto che permetta di spiegare l'attuale situazione delle fonti deducendola, con l'ausilio delle regolarità rilevanti, dai fatti ipoteticamente ricostruiti. Una ricostruzione adeguata dell'accaduto comporta cioè un'attività esplicativa fondata sul sapere nomologico (v. Goldstein, 1962); la ricostruzione in questione può essere poi verificata nello stesso modo in base a nuove fonti e può eventualmente essere riveduta. La scienza storica viene così ricondotta all'applicazione del metodo ipotetico-deduttivo proprio delle scienze positive. Inoltre essa cerca in generale di spiegare gli eventi stessi che sono al centro dell'attenzione dello storico, ma nemmeno ciò è possibile senza richiamarsi (in modo implicito o esplicito) a regolarità.Gli esponenti della filosofia analitica della storia affermano spesso che la scienza storica ha una struttura narrativa (v. White, 1983); già Droysen aveva indicato che si tratta di un problema di modalità di rappresentazione e che esistono altre descrizioni possibili (v. Droysen, 1937, pp. 273 ss.; v. Weber, Kritische Studien..., 1951², p. 278). Ogni rappresentazione presuppone però una ricostruzione adeguata degli avvenimenti e quindi una spiegazione (sulla critica del narrativismo v. Goldstein, 1976, pp. 129-182). Inoltre le narrazioni contengono di solito elementi causali, e vengono quindi ammesse, almeno implicitamente, delle regolarità. Spesso le regolarità con cui ha a che fare la storia hanno un carattere banale, cosicché non è necessario formularle esplicitamente.
d) La problematica della comprensione
Il privilegiamento del metodo comprendente non è affatto legato allo storicismo radicale: questo metodo può avere infatti un senso anche nel quadro di una concezione naturalistica.
Nelle scienze sociali il 'comprendere' ha per lo più come oggetto i nessi di senso: si tratta principalmente del significato di segni e complessi di segni di varia specie, che possono avere il carattere di sintomi, di segnali o di simboli (v. Bühler, 1965²), assolvendo rispettivamente una funzione espressiva, orientativa o rappresentativa. Il linguaggio come 'strumento di rappresentazione' adempie tutte queste funzioni; col suo aiuto gli individui sono in grado di esprimere sentimenti, atteggiamenti e opinioni di ogni genere, di influire sui comportamenti, sulle disposizioni e sulle opinioni di altri individui, di descrivere stati di cose reali o possibili, nonché di argomentare. L'identificazione del senso delle espressioni linguistiche è quindi un problema fondamentale del comprendere. Poiché le fonti scritte sono una delle basi essenziali della ricerca storica, questo tipo di comprensione è di grande importanza per essa. In tale contesto lo scopo primario del comprendere è di identificare il senso che gli autori dei testi hanno associato alle loro espressioni: quest'obiettivo è stato perso di vista dall'ermeneutica filosofica ispirata a Heidegger (per un'analisi critica v. Hirsch, 1967, pp. 245 ss.).
Ma i testi che gli storici adoperano come fonti sono il prodotto di azioni umane che hanno un rapporto causale con altre azioni: sono ad esempio sottoprodotti dell'attività amministrativa di determinate burocrazie. Chi utilizza le fonti come base della ricerca è tenuto ad accertare il contesto causale in cui esse sono nate, e per far questo deve comprendere non solo i testi, ma anche le azioni che hanno portato alla loro produzione e quelle che da essi sono state influenzate. La comprensione delle azioni è una comprensione di moventi, che mira a identificare nel comportamento in questione componenti dotate di senso (le intenzioni o finalità dell'agente; le sue ipotesi sulla natura della situazione, sui mezzi possibili e sui loro effetti; le sue aspettative, le sue valutazioni degli scopi e dei mezzi, le norme in base alle quali orienta il suo agire, ecc.). Si cerca di identificare queste componenti perché si attribuisce a esse un ruolo causale rispetto alle azioni in questione.
Ciò dimostra che il metodo comprendente non è affatto in contrasto con un'impostazione causale e con la connessa ricerca di un sapere nomologico. Dal dibattito sul carattere causale dei moventi e sulla loro importanza per la spiegazione delle azioni è risultato che a essi può essere effettivamente attribuito un ruolo causale (v. Tuomela, 1988; v. Dretske, 1988); anche per spiegare le azioni è dunque necessario un sapere nomologico. A questo proposito Max Weber sosteneva la necessità dell'adeguatezza di senso e dell'adeguatezza causale di queste spiegazioni. Le ipotesi interpretative in cui alle azioni viene attribuito un determinato senso sono quindi, al tempo stesso, tentativi di identificarne le cause; tali ipotesi sono soggette in linea di principio al controllo empirico. Per la comprensione delle azioni non possono essere trascurati i risultati ottenuti dalla psicologia nello studio della motivazione e delle sue regolarità. Non è pertanto accettabile una rigida separazione della psicologia dalle scienze sociali teoriche. Se alle ipotesi di comportamento di tipo contenutistico, che per principio sono soggette alla critica psicologica, si volesse sostituire una 'logica dell'azione', una 'logica della decisione' o una 'prasseologia' formale, ciò significherebbe rinunziare al metodo esplicativo proprio delle scienze positive.In alcuni casi la ricerca di componenti dell'agire umano dotate di senso può essere compiuta solo richiamandosi alla comprensione di testi disponibili sia al ricercatore, sia alla persona le cui azioni sono oggetto di indagine: ciò avviene ad esempio quando si voglia spiegare non solo l'esistenza, ma anche il contenuto di una previsione che un astronomo comunica ad altri o di una sentenza emessa da un giudice. Per poter spiegare i comportamenti in questione in relazione agli aspetti menzionati occorre consultare i testi pertinenti: nel primo caso quelli di astronomia, nel secondo quelli giuridici (leggi, commenti, raccolte di sentenze). Tali testi vanno presi in considerazione solo in quanto mettono in luce fattori aventi rilevanza causale per la spiegazione dell'azione di cui si tratta.
e) Il problema della storicità delle regolarità sociali
Dire che nella ricerca storica è necessario il sapere nomologico non significa affermare la necessità di 'leggi storiche' specifiche, ossia di leggi che determinano nella sua totalità il corso degli eventi storici e presuppongono quindi che esso abbia uno scopo. Leggi di sviluppo di questo tipo, che in seguito alla secolarizzazione della filosofia della storia d'ispirazione teologica hanno influito sul pensiero di scienziati sociali come Hegel, Comte o Marx, non hanno niente in comune col sapere nomologico (v. Popper, 1957): esse non sono fondate sull'idea di causalità tipica delle scienze naturali, bensì sull'idea che la storia ha un decorso conforme a un piano e tende a uno stato finale. Nell'ambito del naturalismo i processi storici possono essere meglio intesi in base all'analogia con l'idea darwiniana di un processo determinato dalla mutazione e dalla selezione, sostituendo alla mutazione la scoperta di nuove soluzioni (innovazioni) e all'ereditarietà la tradizione e l'imitazione.
Un altro problema è quello, presente nel pensiero marxista, della storicità delle leggi sociali. Ad esempio Marx parla di "leggi naturali della produzione capitalistica" e vede lo scopo ultimo della sua opera nella "scoperta della legge del moto economico della società moderna", aderendo alla concezione secondo cui ogni periodo storico ha le proprie leggi e non esistono leggi generali della vita economica (v. Marx, 1867). Secondo Nikolaj Bucharin, Marx avrebbe sottolineato il carattere rigorosamente storico della propria teoria economica e la relatività (storica) delle sue leggi (v. Bucharin, 1919, p. 49). Tuttavia, come risulta dalle spiegazioni dello stesso Bucharin, le leggi dell'economia politica sono 'storiche' solo in quanto le condizioni generali in esse formulate si realizzano de facto solo in un determinato stadio evolutivo della vita sociale. Tale carattere storico in realtà non riguarda la natura intrinseca delle leggi in questione, ma solo il manifestarsi delle condizioni per la loro applicabilità. Secondo questa concezione gli enunciati nomologici dell'economia politica sono applicabili solo alle società capitalistiche, cioè quando siano presenti certe condizioni sociostrutturali.
Anche Oskar Lange (v., 1963, pp. 63 ss.) parla di leggi 'storiche' e distingue regolarità di diversa portata, valide - a seconda della durata delle condizioni richieste per la loro efficacia - per parecchie o addirittura per tutte le formazioni sociali. Anche per Lange la 'storicità' delle leggi è compatibile col carattere di generalità che di solito viene associato al concetto di legge.
Di una vera storicità delle regolarità sociali si potrebbe parlare solo se la validità dei relativi enunciati fosse limitata a determinati ambiti spazio-temporali (non a fatti strutturali), ma con ciò verrebbe meno la loro generalità (v. Popper, 1984⁸, pp. 34 ss.). I sostenitori dello storicismo moderato vorrebbero adoperare queste regolarità (le cosiddette 'quasi leggi') come componenti di 'teorie storiche' per la spiegazione di fatti concreti (v. Mannheim, 1935, pp. 130 s., sui principia media; v. Löwe, 1935, p. 101; v. Mackenroth, 1953, pp. 111 ss.). Le invarianze soggette a una delimitazione spazio-temporale espresse da queste 'quasi leggi' non sono una peculiarità delle scienze sociali, giacché si ritrovano anche nelle scienze della natura (v. Popper, 1957). Ma non è detto che ci si debba limitare a munire i relativi enunciati di un 'indice' spazio-temporale che li relativizzi storicamente; si può anche cercare di appurare le condizioni per cui le invarianze in questione ricorrono proprio in quel determinato ambito spazio-temporale, riferendole a tali condizioni relativamente invarianti. Una simile relativizzazione strutturale porta a eliminare il riferimento spazio-temporale. Tra le 'quasi leggi' strutturalmente relativizzate possono essere annoverate le regolarità presenti in determinate formazioni sociali utilizzate dai marxisti: esse acquistano così la generalità richiesta per le leggi, giacché le formazioni sociali in questione sono di solito determinate da caratteri strutturali generali. Non è poi da escludere che si possano spiegare queste regolarità in base a teorie di livello più elevato. Una terza specie di relativizzazione, quella analitica, assicura la generalità di queste leggi, ma determina una perdita di contenuto d'informazione dei corrispondenti enunciati; in questo tipo di relativizzazione gli enunciati vengono espressi in forma condizionale in modo tale da ricondurli alle condizioni da cui sono deducibili logicamente.
Naturalmente può sempre sorgere la questione se le regolarità finora scoperte abbiano effettivamente un carattere generale, o se invece si sia erroneamente attribuito tale carattere a regolarità che di fatto sono storicamente limitate: si pensi ad esempio alla 'legge ferrea del salario' dell'economia classica o ad altri enunciati analoghi. Tale problema non può essere risolto affermando la storicità delle leggi finora trovate; è necessario piuttosto mostrare caso per caso che la generalità ipotizzata non sussiste. A tal fine non è sufficiente una filosofia generale della storia che affermi la storicità dei fatti sociali.
a) I due orientamenti dei programmi epistemologici delle scienze sociali
Nelle moderne scienze sociali è possibile distinguere due specie di programmi epistemologici di orientamento naturalistico, che si propongono cioè, in contrasto con l'impostazione storicista, di scoprire le regolarità dei fenomeni sociali: i programmi individualistici e quelli collettivistici (olistici). Nel primo caso si cerca di spiegare tutti i fenomeni con il gioco combinato dei comportamenti e delle disposizioni degli individui; nel secondo caso le varie formazioni sociali (gruppi, classi, associazioni, ecc.) sono viste come entità sui generis, che ubbidiscono a regolarità proprie e non sono quindi spiegabili in termini individualistici (v. Bohnen, 1975; v. Vanberg, 1975).
b) La tradizione individualistica
Thomas Hobbes, che si iscrive nella tradizione individualistica, è stato il primo a porsi, nel quadro di una metafisica materialistica, il problema delle condizioni di possibilità di un ordinamento sociale cercando di risolverlo mediante il metodo galileiano analitico-sintetico (v. Watkins, 1973, pp. 34 ss.). Nell'ambito di un esperimento mentale Hobbes scompone la società nei suoi elementi costitutivi (gli individui), scopre le leggi che determinano il loro comportamento e da tali leggi deduce l'ordinamento che ne è la necessaria conseguenza. Le ipotesi fondamentali di Hobbes sono che il comportamento individuale è determinato dall'interesse egoistico e che la scarsità dei beni è una situazione di partenza generale, che rende inevitabili la concorrenza e il conflitto. Da queste premesse discende la soluzione hobbesiana secondo la quale la pace, condizione essenziale di una vita sociale ordinata, può essere garantita solo se si riesce a istituire un monopolio della violenza il cui titolare sia in grado di assolvere tale compito (v. Mackie, 1980, p. 10, dove si nota come Hobbes abbia scoperto un caso paradigmatico del 'dilemma del prigioniero' formulato dalla moderna teoria dei giochi). Il cosiddetto 'stato di natura' da cui Hobbes prende le mosse è un caso limite, che di fatto è realizzabile solo in modo approssimato. Le leggi causali da lui postulate hanno forma di imperativi ipotetici che si ricollegano ai bisogni fondamentali dell'uomo.
Il successivo dibattito, pur rifacendosi costantemente alla concezione di Hobbes, ha portato a modificare le sue ipotesi di partenza e la soluzione da lui data. David Hume modificò l'ipotesi dell'interesse egoistico in modo da tener conto anche dell'interesse per il benessere degli altri, e cercò di dimostrare che in determinate circostanze la consapevolezza dei vantaggi della cooperazione porta a stabilire norme giuridiche rispettate da tutti (ibid., pp. 82 ss.). Queste norme possono essere salvaguardate da sanzioni che nascono nella vita sociale su basi naturali, attraverso reciproche ricompense e punizioni. Finché è sufficiente la minaccia di comportarsi in modo non cooperativo, si può fare a meno di un'autorità esterna. Il principio di reciprocità - cioè l'ipotesi che il comportamento degli individui appartenenti a un sistema sociale è guidato in larga misura dal fatto che i comportamenti aventi conseguenze negative o positive per gli altri vengono da questi rispettivamente puniti o premiati - ha sempre avuto un ruolo importante nella tradizione individualistica, fino alle moderne teorie dello scambio. Sebbene l'osservanza delle norme giuridiche sia nell'interesse a lungo termine di tutti, e quindi ci si possa attendere un comportamento conforme a esse, secondo Hume interessi immediati possono determinare la violazione di tali norme (ibid., pp. 106 ss.). A ciò si può ovviare con l'istituzione di un governo, ossia creando dei ruoli i cui titolari siano direttamente interessati all'osservanza delle norme in questione e dispongano del potere necessario per imporla.
A Hume si riallaccia Adam Smith, che può essere anch'egli incluso nella tradizione individualistica. In genere Smith è considerato erroneamente un economista puro; in realtà egli vedeva la società come un sistema di azioni il cui funzionamento può essere compreso mediante lo studio dei comportamenti individuali e delle loro regolarità, e cercò una spiegazione unitaria dei più svariati fenomeni sociali indagando i rapporti tra morale, diritto, economia, politica e religione, entro una cornice che ammetteva e in parte spiegava il mutamento e lo sviluppo sociali (v. Campbell, 1971, pp. 82 e 235). Il fondamento del suo approccio esplicativo, ossia la teoria dei sentimenti morali, è di fatto una sociopsicologia in cui, fra l'altro, la formazione dei giudizi etici è spiegata come risultato dell'interazione fra i comportamenti individuali, sotto l'influsso dei bisogni e dei sentimenti; in questo contesto hanno un ruolo primario i sentimenti retributivi (gratitudine, rancore, ecc.), i processi di confronto sociale e le diverse posizioni degli agenti e degli osservatori. Su queste basi Smith edificò la sua teoria economica, incentrata sul meccanismo dei prezzi come regolatore della produzione e della distribuzione dei beni. In essa il mercato è concepito, nell'ambito di norme giuridiche, come un sistema di controllo sociale autoregolato, il cui funzionamento ubbidisce a determinate regolarità (v. Taylor, 1960, pp. 77 ss.). Come altri rappresentanti dell'illuminismo scozzese, Smith conduce la sua analisi del sistema sociale su basi individualistiche, mettendo in evidenza gli effetti non intenzionali derivanti dall'intreccio dei comportamenti individuali e studiando gli effetti dei dispositivi istituzionali in base a determinate ipotesi sulla natura umana e su situazioni sociali tipiche. Le sue ricerche comparate sul sistema della libertà naturale e altri sistemi possono considerarsi come analisi di tecnologia sociale miranti a definire un ordinamento della società che garantisca nel modo più efficace il benessere dell'uomo.
Nell'Ottocento, specialmente per influsso di David Ricardo, il pensiero economico si svincolò dall'analisi di altri ambiti sociali e divenne una disciplina specializzata, incentrata su un sistema teorico astratto le cui leggi dovrebbero spiegare il funzionamento dell'economia di mercato. Ricardo condivide con Smith l'idea che il capitalismo concorrenziale sia un sistema autoregolato che provvede ad adeguare l'offerta dei beni prodotti alla domanda e i loro prezzi ai costi di produzione (ibid., pp. 180 ss.); solo per quanto riguarda le leggi della distribuzione dei redditi la visione di Ricardo è più pessimistica.
Poco dopo il 1870 si compì nel pensiero economico la cosiddetta rivoluzione marginalista, che portò all'economia pura (neoclassica). Tale rivoluzione fu preparata dalle scoperte di alcuni studiosi (von Thünen, Cournot, Gossen), che implicavano la possibilità di matematizzare le ipotesi fondamentali della teoria. La nuova teoria soggettiva del valore (teoria dell'utilità) avrebbe dovuto consentire una spiegazione unitaria dei comportamenti individuali, e quindi di tutti i fenomeni economici. La teoria neoclassica, concepita e sviluppata da Menger, Jevons, Walras e Marshall, è stata ulteriormente rielaborata fino ai nostri giorni con l'impiego di metodi matematici e rappresenta l'edificio teorico più ampiamente sviluppato nell'ambito delle scienze sociali. Appare oggi chiaro che quest'approccio della scienza economica può essere esteso, con l'introduzione di condizioni di base istituzionali che finora non erano state prese in considerazione, a tutti i campi della vita sociale, offrendo così un'alternativa ad altri approcci, ad esempio al funzionalismo sociologico. Un orientamento individualistico si ritrova anche in alcuni sociologi come Georg Simmel, Max Weber e Vilfredo Pareto.
c) La tradizione collettivistica
Impressionato come Smith dai successi della fisica newtoniana, Henri de Saint-Simon concepì una scienza della società in cui questa viene intesa come una totalità le cui leggi di movimento consentono di prevedere le future configurazioni sociali (v. Fehlbaum, 1970, pp. 8 ss.). Come in precedenza Condorcet e Turgot, Saint-Simon riteneva che il corso della storia avesse una regolarità e che la sua direzione - ma non la sua velocità né le circostanze particolari - fosse determinata dall'idea di progresso. La nuova scienza doveva essere al servizio della riforma sociale e costituire la base di un'organizzazione della società che indirizzasse verso uno scopo comune tutte le attività sociali. Mentre per Saint-Simon il dominio sull'uomo doveva essere sostituito da un'amministrazione 'oggettiva', guidata dalla forza stessa delle cose, il che avrebbe prodotto la scomparsa dello Stato, i suoi discepoli operarono una trasformazione della teoria (ibid., pp. 93 ss.), mettendo in risalto la necessità dello Stato e della gerarchia. Al posto dell'economia fondata sulla concorrenza doveva subentrare un'economia centralizzata e la nuova società - in nome di una nuova religione dell'umanità - doveva avere un carattere teocratico.
Al sansimonismo aderì Auguste Comte, che coniò per la nuova scienza il nome di sociologia. La tradizione collettivistica di cui fu l'iniziatore portò, attraverso Émile Durkheim, alla sociologia moderna, in particolare a Talcott Parsons e agli esponenti della moderna teoria sistemica che a lui si riallacciano. Durkheim va considerato una figura chiave della sociologia moderna; egli criticò la tradizione individualistica e la soluzione da essa data al problema dell'ordinamento sociale, contrapponendovi la tesi che la società è una realtà sui generis, che non può essere compresa coi metodi propri del pensiero economico. Il fatto che i contratti economici presuppongono un sistema giuridico e delle regole deontologiche dimostra che l'esistenza e l'efficacia delle norme è condizione determinante perché vi sia un ordinamento sociale. Norme di ogni genere contraddistinguono l'organizzazione sociale, che non è quindi riconducibile a disposizioni individuali. Le leggi dell'organizzazione sociale devono essere assunte come supremi principî esplicativi. Alla diffusione del funzionalismo di Durkheim - che ha influenzato anche la ricerca antropologica - ha contribuito soprattutto la sua analisi del suicidio fondata sulla teoria dell'anomia.
Talcott Parsons, che ha cercato di ricollegare la tradizione individualistica e quella collettivistica, nel suo funzionalismo sistemico ha privilegiato di fatto l'approccio durkheimiano (v. Bohnen, 1975, pp. 63 ss.). Nella sua analisi Parsons è partito dal problema hobbesiano dell'ordinamento sociale cercando di dimostrare che la tradizione utilitarista non è stata in grado di risolvere questo problema (v. Vanberg, 1975, pp. 172 ss.), in quanto non ha tenuto conto del ruolo svolto nella vita sociale dai valori e dalle norme e dal consenso sociale che essi creano. Parsons ha ripreso la tesi di Durkheim secondo cui la società è una realtà sui generis e nel costruire il suo apparato concettuale ha utilizzato il vocabolario della teoria dei sistemi, senza tuttavia essere in grado di formulare col suo ausilio enunciati nomologici che dessero alla sua teoria sistemica un valore esplicativo. L'orientamento programmatico di Parsons non era in sintonia con le sue argomentazioni concrete (ibid., pp. 184 ss.), in quanto le sue analisi dei fenomeni sociali erano in realtà basate sul paradigma individualistico dell'interazione e sul principio di reciprocità. I sociologi che si riallacciano a Parsons spesso hanno rinunziato del tutto a cercare spiegazioni, utilizzando il vocabolario della teoria dei sistemi senza associarvi l'aspirazione a un'analisi teorica nel senso corrente del termine (cfr. ad esempio Niklas Luhmann).
Sullo sfondo di una filosofia della storia in cui motivi dell'illuminismo tedesco e francese erano associati a quelli dell'idealismo tedesco, Karl Marx si propose di svelare la legge del movimento economico della moderna società borghese. Nelle leggi dell'economia politica, che cercò di sviluppare rifacendosi soprattutto a Ricardo, Marx volle scoprire l'anatomia della società borghese. Come i moralisti scozzesi, egli perseguiva una spiegazione unitaria di tutti i fenomeni sociali che li riconducesse a fatti strutturali nell'ambito della produzione - alla relazione tra forze produttive e rapporti di produzione - e ai loro mutamenti. I conflitti di origine sociostrutturale sono visti come il motore dello sviluppo storico. Per Marx i modi di produzione, ossia le forme e le condizioni della produzione, sono i principali determinanti della struttura sociale e si sviluppano secondo regolarità proprie, attraverso le quali si formano nuove strutture. Nella sociologia moderna l'idea di conflitti sociostrutturali e della loro importanza per lo sviluppo della società è stata ripresa soprattutto da Ralf Dahrendorf (v. Bohnen, 1975, pp. 79 ss.) in antitesi al funzionalismo di Parsons. Anche il neomarxismo della scuola di Francoforte ha preso le distanze sia dal positivismo della scuola di Durkheim, sia dal funzionalismo sistemico di tipo parsoniano, propugnando una considerazione dialettica della totalità (v. Vanberg, 1975, pp. 201 ss.) in cui il modo abituale di costruire teorie viene rifiutato a favore di una 'teoria critica' (v. § 5e; sull'odierno marxismo ortodosso v. Vanberg, 1975, pp. 224 ss.).
d) Confronto tra i programmi epistemologici individualistici e collettivistici
In sostanza vi sono dunque tre diversi approcci alla spiegazione dei fatti sociali, di cui due ascrivibili all'orientamento collettivistico e uno all'orientamento individualistico: il marxismo, che attribuisce un ruolo primario ai rapporti di forza di origine strutturale, e ai conflitti che ne derivano, e che ricerca le spiegazioni in base a leggi di sviluppo; il funzionalismo della scuola di Durkheim, che pone l'accento sulle norme, sui valori e sul consenso normativo e tende a stabilire regolarità legate al carattere autoregolativo dei sistemi sociali; l'individualismo, che considera di importanza primaria, nel quadro dei dispositivi istituzionali, i comportamenti riconducibili agli interessi individuali e le interazioni dei singoli, ricercando regolarità che spiegano i fenomeni sociali sulla base del concorso di azioni individuali.
Di fatto i rappresentanti delle tradizioni collettivistiche sono costretti per lo più a richiamarsi a enunciati di tipo psicologico e a interpretazioni individualistiche. D'altra parte, gli individualisti non hanno mai negato l'importanza dei fatti sociostrutturali; sebbene riconducano la formazione delle norme e il loro ancoraggio sociale alle interrelazioni tra comportamenti individuali, mettono però in rilievo l'importanza delle regolamentazioni normative e dei dispositivi istituzionali per tali comportamenti e per i processi sociali. Inoltre hanno tenuto conto - ad esempio servendosi del principio di reciprocità - del ruolo spettante all'impiego della forza e alla minaccia di ricorrere a essa. Lo stesso vale per il risalto dato dal funzionalismo alle conseguenze non intenzionali dei comportamenti individuali, riconoscendo l'importanza delle cosiddette funzioni latenti. Non si può dunque affermare che certi fenomeni sociali vengano ignorati da un indirizzo e chiariti invece dall'altro; le differenze consistono piuttosto nel diverso modo di analizzare e spiegare i fenomeni in questione.
A questo proposito, quando si tratta di stabilire se determinate formazioni sociali (gruppi, classi, società, culture) debbano essere considerate come entità sui generis è necessario distinguere il problema della priorità descrittiva da quello della priorità esplicativa (v. Brodbeck, 1958; v. Vanberg, 1975, pp. 250 ss.). Nel primo caso si tratta di un problema di formazione di concetti (definibilità dei caratteri collettivi mediante il ricorso a caratteri individuali); nel secondo caso si tratta di un problema esplicativo (in che misura è necessario ricorrere a determinate regolarità per spiegare il comportamento di collettività sociali). La tesi della priorità descrittiva poggia su un equivoco, in quanto è legata all'idea che un'analisi individualistica non possa tener conto dei caratteri relazionali degli individui. Per quanto riguarda la tesi della priorità esplicativa, non di rado essa è fondata sull'idea erronea che una spiegazione individualistica non possa individuare le cause sociali dei fenomeni da spiegare (v. Vanberg, 1975, pp. 255, 258 ss.). Risulta pertanto che molte critiche contro il riduzionismo della tradizione individualistica si basano su fraintendimenti di ordine metodologico. Inoltre i tentativi di spiegazione funzionalistici sono in genere affetti da carenze metodologiche (v. Hempel, 1959, pp. 271-307) connesse in parte con la scarsa specificabilità dei sistemi autoregolativi. Ad ogni modo, nelle scienze sociali i pregi delle varie teorie possono essere valutati comparativamente solo in base alle loro capacità esplicative.
5. Scienza sociale e prassi sociale
a) Il problema dei valori come problema metodologico
La trattazione di problemi normativi fa parte dell'eredità filosofica degli antichi, e anche i filosofi sociali dell'età moderna si sono confrontati con simili problemi; è quindi comprensibile che essi siano riemersi nelle scienze sociali sviluppatesi nell'ambito della filosofia sociale moderna. Già nel Settecento, con la cosiddetta 'legge di Hume', si affermò la tesi secondo cui da enunciati fattuali non è possibile trarre conseguenze normative (giudizi di valore, enunciati relativi al dovere); contro questa tesi non sono state finora avanzate obiezioni valide. Sebbene le moderne scienze sociali si siano dedicate soprattutto all'analisi dei contesti fattuali, nell'ambito di queste ricerche s'incontrano ripetutamente proposizioni normative più o meno esplicite, la cui connessione con enunciati fattuali appare spesso poco chiara.
Da questa situazione è nato all'inizio del secolo, soprattutto per influsso di Max Weber, il dibattito tuttora in corso sui giudizi di valore nelle scienze sociali. Le argomentazioni in proposito si riallacciano di solito al principio metodologico dell'avalutatività, formulato da Weber nella sua analisi delle possibilità di una ricerca sociale. Secondo tale principio, una scienza fattuale può informare sulle possibilità d'azione, ma non può produrre enunciati normativi, ossia giudizi di valore (v. Weber, Die 'Objektivität'..., Der Sinn..., Wissenschaft..., 1951²). Questa concezione venne criticata soprattutto perché si assunse che una scienza avalutativa in senso weberiano non potesse avere alcuna utilità pratica per la soluzione di problemi sociali. Alla soluzione weberiana della problematica dei valori sono state inoltre attribuite debolezze intrinseche e conseguenze nichiliste (per il dibattito sui giudizi di valore v. Albert e Topitsch, 1971; v. Keuth, 1988).
Nelle sue indagini Weber ha toccato quasi tutti gli aspetti del complesso problema, ma manca in esse un'analisi logica dei giudizi di valore. Nelle discussioni odierne sono risultate insostenibili certe interpretazioni radicali in cui non si tiene conto del riferimento alla realtà di questi enunciati (ad esempio le interpretazioni puramente espressive). Lo stesso può dirsi delle interpretazioni che non tengono conto della funzione normativa di questi giudizi (ad esempio riducendoli a enunciati fattuali, a giudizi su valori 'quasi fattuali' o su caratteri 'non naturali'), come pure delle interpretazioni che non spiegano la pretesa di validità oggettiva associata di solito ai suddetti giudizi.
Secondo un'interpretazione plausibile (v. Kraft, 1937), un giudizio di valore ha un riferimento (normativo) alla realtà in quanto evidenzia determinati fatti ai fini del comportamento (atteggiamento o azione). In tal caso si fa per lo più implicito riferimento a una corrispondente regola o norma (standard di valore, massima di comportamento) per la quale si chiede un riconoscimento universale; a ciò è connessa l'aspettativa che i destinatari del giudizio di valore si comportino in conformità. Ad esempio la proposizione 'la distribuzione del prodotto sociale nel paese P nel periodo di tempo T è ingiusta' andrebbe così interpretata: 'la distribuzione... è di fatto tale da non corrispondere a una norma (criterio di giustizia) che possa aspirare a un riconoscimento universale, e pertanto va incontro a un giudizio negativo'. Così formulato tale giudizio contiene elementi prescrittivi che non compaiono nei giudizi puramente cognitivi (enunciati con valore di verità). Nella discussione su un simile giudizio si può mettere in dubbio l'applicabilità alla situazione in questione perché essa è oggettivamente diversa da quella ipotizzata nel giudizio stesso, ma si può anche mettere in dubbio la norma.
Riguardo all'aspetto metodologico della problematica dei valori si possono distinguere tre gruppi di questioni: il problema delle valutazioni nel campo d'indagine delle scienze sociali (ossia in che misura le valutazioni debbano essere oggetto degli enunciati di queste scienze), il problema delle valutazioni nel metalivello (ossia in che misura gli enunciati di tali scienze debbano fondarsi su valutazioni) e il problema delle valutazioni nel linguaggio-oggetto (ossia in che misura gli enunciati delle scienze sociali debbano avere essi stessi il carattere di giudizi di valore).Il primo di questi problemi non è controverso. Poiché le valutazioni, in quanto modalità del comportamento umano, sono costitutive dei fatti sociali, esse appartengono senz'altro al campo d'indagine delle scienze sociali. Gli enunciati che parlano di valutazioni, ossia le descrivono o le spiegano, non sono essi stessi giudizi di valore nel senso menzionato; tali enunciati hanno carattere cognitivo e non sono quindi toccati dal principio weberiano dell'avalutatività.
Lo stesso può dirsi del secondo problema. È ovvio che la ricerca nel campo delle scienze sociali - come ogni altra attività scientifica e analogamente ad altri ambiti della prassi sociale - dipende da giudizi di valore che riguardano ad esempio la scelta dei problemi rilevanti, l'utilizzabilità di ipotesi e metodi, l'adeguatezza di spiegazioni e teorie. Finché tali giudizi di valore sono finalizzati alla conoscenza, non nascono particolari difficoltà: i problemi di valore possono trasformarsi in problemi di tecnologia della ricerca, da trattarsi come questioni fattuali. Esiste peraltro in tutte le scienze la possibilità che valutazioni di carattere non cognitivo portino a privilegiare determinati enunciati fattuali (teorie, spiegazioni, descrizioni). Le concezioni inficiate da componenti ideologiche non possono però essere confutate svelando i giudizi di valore in esse contenuti, ma solo mediante verifiche fattuali.
La terza delle problematiche elencate è la problematica dei valori vera e propria. Evidentemente né la presenza di valutazioni nel campo d'indagine delle scienze sociali, né il necessario ricorso a valutazioni nella prassi della ricerca obbligano ad accogliere giudizi di valore nei sistemi di enunciati relativi ai fatti sociali. Nell'analizzare il problema dei giudizi di valore si possono distinguere quattro sottoproblemi: uno terminologico, uno semantico (in senso lato), uno metodologico e uno normativo. Il primo di essi - se cioè il concetto di scienza debba essere definito in modo che gli enunciati scientifici possano contenere giudizi di valore - è banale. La risposta può essere rilevante solo se la questione diventa quella dell''essenza' o del 'vero concetto' della scienza, così che la risposta, sotto veste cognitiva, ha nello stesso tempo una componente programmatica: si ha in tal senso un enunciato criptonormativo. Il secondo sottoproblema, quello semantico, può essere risolto mediante lo schema interpretativo per i giudizi di valore sopra indicato. Il terzo, quello metodologico, può essere così formulato: quali finalità richiederebbero l'impiego di giudizi di valore, e in quali circostanze se ne potrebbe invece fare a meno? Se si parte dallo schema interpretativo già indicato, risulta che nei sistemi di enunciati delle scienze sociali una finalità cognitivo-informativa (conoscenza di contesti sociali) rende superflui i giudizi di valore: partendo da altre finalità, sarebbero possibili altre risposte. A ciò si è obiettato che il linguaggio delle scienze sociali è inevitabilmente incentrato sui valori, sia perché dall'apparato concettuale di queste scienze non sono eliminabili le valutazioni (v. Myrdal, 1958), sia perché in caso contrario andrebbero addirittura perdute conoscenze importanti (cfr. Strauss, in Albert e Topitsch, 1971). Se quest'obiezione si riferisce al fatto che il linguaggio delle scienze sociali è vicino a quello comune, è sufficiente far notare che si può astrarre dalle connotazioni valutative presenti nei concetti in questione. Se invece l'obiezione è fondata sul fatto che ai giudizi di valore viene attribuito un carattere descrittivo, sarà necessario rimandare alla discussione sul carattere di questo genere di enunciati (v. Kraft, 1937; v. Mackie, 1977). Inoltre un'interpretazione descrittiva dei giudizi di valore di stampo platonico consentirebbe di dedurre conseguenze normative solo a condizione di violare la già citata legge di Hume.
La soluzione del problema dei giudizi di valore dipende dunque in ultima analisi dalla risposta che si dà al problema riguardante il compito della scienza. A questo proposito è stata avanzata la tesi che per rendere utilizzabili sul piano pratico le scienze sociali è necessario integrarle con premesse valutative (cfr. Weisser, in Albert e Topitsch, 1971). A ciò si può obiettare che le scienze naturali trovano con successo un'applicazione pratica senza essere integrate da premesse valutative: esse consentono infatti di dedurre previsioni utilizzabili sul piano pratico (rilevanti ai fini del comportamento), per controllare i processi nel campo d'indagine delle singole scienze e per costruire apparati di utilità pratica. Analogamente si potrebbero avere nelle scienze sociali previsioni dotate di rilevanza pratica, come quelle atte a influenzare processi e a pianificare formazioni sociali (organizzazione), ad esempio in rapporto alla progettazione di costituzioni valide e alle direttive per una prassi legislativa efficace.
b) Tecnologia sociale e prassi sociale
Per l'utilizzazione pratica delle conoscenze fornite dalle scienze sociali è opportuno talvolta dare alle informazioni rilevanti la forma di sistemi tecnologici di enunciati riferiti a determinate finalità possibili (v. Weber, Die 'Objektivität'..., 1951²; v. Popper, 1957). Per trarre le relative conclusioni non è necessaria alcuna integrazione con premesse di valore, non avendo questi sistemi un contenuto normativo. Sono però necessari, come in ogni processo di deduzione logica, dei criteri per decidere quali conseguenze siano rilevanti, e questi criteri dovranno risultare dalla formulazione del corrispondente problema tecnologico (ad esempio: 'in che modo un governo può, in una data situazione, salvaguardare la stabilità dei prezzi dei beni di consumo senza produrre determinati effetti su altre variabili economiche, o senza adoperare determinati mezzi da definire?'; oppure: 'quale legislazione è necessaria per introdurre, nel quadro di un ordinamento che garantisce certe libertà, determinate forme di sicurezza sociale?'). La trasposizione in forma tecnologica degli enunciati delle scienze sociali viene fondata in questi casi su desiderata ipoteticamente definiti che hanno, dal punto di vista logico, il carattere di limitazioni alla soluzione del relativo problema pratico. Non sono qui necessarie premesse valutative, perché la rilevanza di un sistema tecnologico ai fini della soluzione di determinati problemi concreti non implica una legittimazione della sua applicazione pratica.
I sistemi tecnologici non forniscono cioè una risposta alla domanda: 'cosa si deve fare?', ma solo alla domanda: 'cosa si può fare?'; la loro importanza pratica sta nelle informazioni che essi forniscono circa le possibilità di agire e di produrre effetti. Bisogna distinguere tra un sistema tecnologico di enunciati e la sua applicazione a situazioni concrete, ossia tra la tecnologia sociale e la politica. Quando questi sistemi vengono posti a base di un comportamento pratico, occorre prendere decisioni che presuppongono giudizi di valore (decisioni sulle finalità e sui mezzi da impiegare); esse non sono deducibili dalla tecnologia, ma nel prenderle si può tener conto delle conoscenze tecnologiche. Le obiezioni a questa soluzione dei problemi pratici sono fondate spesso sulla mancata distinzione tra premesse valutative all'interno dei sistemi di enunciati e fondamento valutativo degli enunciati stessi. Teorie puramente informative possono dunque essere adoperate con successo nella pratica; elementi essenziali per la loro applicabilità sono il contenuto d'informazione e la rilevanza per i relativi problemi pratici.
c) Il problema delle previsioni nelle scienze sociali
Per quanto riguarda l'applicazione pratica degli enunciati delle scienze sociali è possibile distinguere due tipi di previsioni, a seconda dell'influenzabilità della situazione da parte degli agenti interessati: quelle tecnologiche e quelle non tecnologiche. In queste ultime la situazione non è influenzabile, e quindi l'agente non può far altro che aspettare l'evento previsto, senza poterlo provocare né impedire (si pensi ad esempio al normale consumatore rispetto alla prospettiva di un processo inflazionistico). Nelle previsioni tecnologiche esiste invece la possibilità d'influenzare la situazione: l'avverarsi della previsione dipende dal comportamento della persona o del gruppo interessati. Le loro alternative d'azione rappresentano infatti delle circostanze aventi rilevanza causale, che concorrono a modificare le condizioni d'applicazione delle teorie, portando così a previsioni differenti. In questo caso le condizioni d'applicazione di una teoria in determinate situazioni possono essere distinte, in base alla rilevanza per l'azione, in due categorie: condizioni strumentali, influenzabili dal soggetto interessato, e condizioni autonome, non influenzabili da esso. Si pensi ad esempio al detentore del monopolio di vendita di un dato bene, che è in grado di variare il prezzo del bene e di trarre dalla funzione di domanda previsioni alternative per il suo smercio: in tal caso i prezzi che il monopolista può scegliere sono condizioni strumentali (parametri d'azione), mentre i bisogni dei consumatori possono costituire delle condizioni autonome. Ciò dimostra che la distinzione tra le due specie è relativa alla situazione e dipende dalla posizione sociale, in questa costellazione, dell'istanza che mette in pratica la teoria in questione.
Per quanto riguarda l'influenzabilità degli eventi sociali da parte di determinate istanze, un problema specifico delle scienze sociali è quello della riflessività dei loro enunciati. Esso nasce dal fatto che quando gli enunciati riferentisi alla realtà sociale influenzano gli orientamenti e le motivazioni di determinate persone - ad esempio in quanto vengono creduti veri - diventano per ciò stesso causalmente rilevanti per gli eventi sociali. Un noto esempio di questo fenomeno è dato dalla diffusione di voci sulla insolvenza di una banca: se i depositanti prestano fede a tali voci, possono essere indotti a chiedere tutti insieme il rimborso dei loro depositi, provocando così l'effettiva insolvenza dell'istituto (sul dibattito circa la possibilità di previsioni relative ai comportamenti collettivi coronate da successo v. Morgenstern, 1928; v. Merton, 1984¹¹; v. Grunberg, 1986).
d) La distinzione tra fini e mezzi nelle scienze sociali
Specialmente nel pensiero economico s'incontra l'idea che sia possibile neutralizzare l'aspetto valutativo di una parte dei problemi pratici, così che le decisioni circa l'impiego dei mezzi siano riconducibili a problemi puramente cognitivi. Per far questo si dovrebbero distinguere le questioni relative ai fini, che richiedono in ultima istanza decisioni etiche, dalle questioni relative ai mezzi, che hanno un carattere scientifico e richiedono decisioni (tecniche o economiche) eticamente neutre: la scienza non può infatti asserire nulla sulla scelta dei fini, ma - dati determinati fini - può suggerire i mezzi adatti per conseguirli identificando in tal modo liceità ed efficacia dei mezzi.
Ad esempio, è stata avanzata un'ipotesi sul 'senso dell'economia' in base alla quale tutti gli scopi vengono ricondotti nell'ambito del consumo, mentre la produzione è vista come un insieme di attività strumentali volte a rendere possibili i consumi. Si suppone cioè che l'economia in quanto scienza debba assumere come dati i bisogni, ma possa valutare scientificamente tutti i processi che portano al loro soddisfacimento, e quindi la produzione (v. Robbins, 1935², pp. 24 ss.). In tal modo, però, la distinzione tra fini e mezzi correntemente applicata alle azioni degli individui subisce un problematico trasferimento in un contesto sociale globale: partendo da uno scopo plausibile (il soddisfacimento dei bisogni di tutti gli individui), l'economia viene vista come un sistema cooperativo posto al servizio di tale scopo, con il compito di superare la naturale scarsità dei beni. In quest'ottica tutti i fatti rilevanti (ad esempio i prezzi e le loro variazioni) assumono una funzione che possono adempiere o no; ciò porta a un funzionalismo orientato in senso normativo, basato su una 'finzione comunistica' in cui la società è immaginata come una formazione complessiva avente una scala di valori comune. Questa concezione (v. Myrdal, 1953, p. 54 e passim) è incompatibile con le premesse individualistiche del pensiero economico.La critica a questa impostazione parte dal fatto che ricondurre tutti gli scopi alla sfera del consumo implica una decisione avente rilevanza etica: quella di sottoporre a una valutazione puramente strumentale le condizioni di lavoro nel campo della produzione, prescindendo da una loro autonoma valutazione morale. L'ipotesi che i bisogni siano dati è di fatto una scelta unilaterale; inoltre la neutralizzazione etica della sfera dei mezzi è possibile solo se si accetta il principio che essi sono giustificati dai fini. La concezione basata sulla distinzione fini-mezzi poggia quindi sull'identificazione dei fini con certi valori fondamentali, identificazione da cui si trae la conseguenza che i mezzi sono soggetti solo a una valutazione derivata (strumentale) (per una critica di questa concezione v. Myrdal, 1958, pp. 213-223; v. Weber, Der Sinn..., 1951², pp. 513 ss.). Si suppone allora che i fatti in questione siano classificabili in due categorie mutuamente esclusive: i fini, soggetti a una valutazione diretta, e i mezzi, valutabili solo indirettamente. Non si può tuttavia escludere che certi fatti, classificati come mezzi in uno specifico contesto, siano soggetti anche a una valutazione autonoma. La distinzione tra fini e mezzi ha senso solo con riferimento a specifici contesti: non vi sono 'fini in sé' e 'mezzi in sé'. Certamente si possono costruire sistemi tecnologici in cui a fini possibili, stabiliti in via ipotetica, si fanno corrispondere mezzi possibili per realizzarli; ma questi sistemi hanno carattere cognitivo e non consentono una valutazione né degli scopi, né dei mezzi. La scienza può cioè dare giudizi sull'efficacia dei mezzi e pronunziarsi anche sulla realizzabilità e sulla compatibilità di determinati fini, ma non può fornire le valutazioni occorrenti per l'azione.
e) La problematica della 'teoria critica'
Nell'ambito del neomarxismo della scuola di Francoforte è stata elaborata una concezione secondo cui la scienza 'tradizionale' ha avuto origine da una visione ristretta del sapere e dev'essere superata o integrata da una scienza 'critica' (v. Horkheimer, 1937): una scienza derivante dalla critica marxiana dell'economia politica, che nasca dall'interesse emancipatorio, che abbia una struttura logica diversa da quella del pensiero tradizionale e in cui possa attuarsi l'unità di teoria e prassi. Karl Otto Apel e Jürgen Habermas hanno inquadrato questa 'teoria critica' in uno schema che implica una classificazione delle scienze analoga a quella che s'incontra già, in altra forma, nella sociologia della conoscenza di Max Scheler. In questo schema vengono distinte tre specie di conoscenza, a ciascuna delle quali è associato rispettivamente, come condizione trascendentale, un interesse tecnico, uno pratico e uno emancipatorio. Nel primo caso (quello delle scienze analitico-empiriche) l'interesse è rivolto al dominio; nel secondo (quello delle scienze storico-ermeneutiche) è rivolto alla comprensione; nel terzo (quello delle scienze di orientamento critico) è rivolto alla liberazione. La 'teoria critica della scienza', che secondo Habermas (v., 1965) sfugge alle insidie del positivismo e che dovrebbe indicare la connessione tra le regole logico-metodologiche e gli interessi che guidano la conoscenza, tiene conto quindi solo di interessi che possono definirsi 'pratici' nel senso usuale del termine. L'interesse per la conoscenza pura viene rifiutato come un fraintendimento oggettivistico; a ciò corrisponde il tentativo di ridurre l'idea di verità a un consenso idealmente raggiungibile tra i membri della società. Nei suoi lavori più recenti Habermas si è peraltro allontanato dalle posizioni che in precedenza aveva sostenuto con Apel.
La concezione dei due studiosi si prefiggeva di tener conto delle peculiarità delle varie scienze, attribuendo a ciascuna di esse un diverso carattere metodologico in relazione ai diversi interessi conoscitivi. La teoria che postula tali interessi si è rivelata però insostenibile (v. Albert, 1975); è stato inoltre osservato che delle suddette peculiarità si può tener conto anche partendo da una concezione metodologica unitaria. Le scienze storiche e l'ermeneutica sono interpretabili nell'ambito del metodo ipotetico-deduttivo, e la conciliazione della teoria con la prassi non richiede una particolare 'teoria critica'. A tale proposito si possono distinguere due funzioni, quella di chiarire e quella di indirizzare; entrambe possono essere svolte con l'aiuto delle scienze positive. I risultati di queste sono utilizzabili per criticare le concezioni dominanti, scalzando anche illusioni profondamente radicate come il platonismo dei valori e l'ipostatizzazione di entità collettive. La critica dell'ideologia è dunque possibile con gli strumenti delle scienze fattuali; i suoi risultati inoltre sono utilizzabili per risolvere problemi d'indirizzo, posto che soddisfino i requisiti usuali.
f) Il problema dell'ordinamento sociale come problema di tecnologia sociale
Già più di tre secoli fa Thomas Hobbes tentò di risolvere, nel quadro di una concezione naturalistica, il problema di un ordinamento sociale adeguato con l'ausilio di enunciati sociotecnologici (v. Watkins, 1973; v. Mackie, 1980). A tale scopo egli avanzò delle ipotesi sulla natura e sulla situazione dell'uomo, da cui sembravano derivare certe conseguenze per la convivenza sociale (v. sopra, § 4b). La tecnologia sociale di Hobbes è improntata all'idea regolativa di assicurare la pace. Il mezzo per raggiungere questo fine è l'istituzione di un monopolio della forza che impedisca ai cittadini di ricorrere alla violenza per risolvere i loro conflitti e che li difenda da attacchi esterni. L'assicurazione della pace appare quindi l'unico criterio di valutazione per gli ordinamenti sociali.
Nel successivo dibattito le ipotesi hobbesiane furono in parte messe in dubbio e modificate e vennero elaborati altri criteri per valutare l'adeguatezza degli ordinamenti sociali. Tuttavia il modo in cui Hobbes aveva impostato la soluzione del problema si è dimostrato fecondo: anche in recenti teorie la scarsità di beni è vista come un carattere essenziale della condizione umana e viene messo in risalto il ruolo dell'interesse egoistico (v. Buchanan e Tullock, 1962; v. Buchanan, 1975).
Nel dibattito su questi problemi si è avuta spesso l'impressione che fosse necessario stabilire una scienza normativa capace di ricavare dall'analisi dei contesti sociali norme valide per la convivenza umana. Senza una scienza di questo genere non sarebbe possibile risolvere il problema di un ordinamento sociale adeguato. Ma in effetti questo problema può essere in gran parte trattato nel quadro di un'impostazione sociotecnologica analoga a quella adottata da Hobbes e dai moralisti scozzesi, in cui le conoscenze rilevanti vanno applicate a contesti concreti. Il problema delle condizioni di possibilità di un ordinamento sociale adeguato può essere riformulato in termini di tecnologia sociale in modo corrispondente al metodo generale della prassi razionale. I criteri valutativi che vengono allora considerati rilevanti da chi partecipa alla discussione possono essere trasformati in caratteristiche di funzionalità da porre alla base di un'analisi comparata di ordinamenti sociali alternativi (v. Albert, 1978). Nel far questo è importante confrontare i possibili sistemi di dispositivi istituzionali sotto l'aspetto della loro funzionalità, ossia della misura in cui soddisfano i criteri di efficienza formulati in base al punto di vista adottato. Il fatto che i criteri valutativi in questione possano essere controversi non impedisce dunque di trattare scientificamente il problema dell'ordinamento sociale, se si decide di enuclearne gli aspetti relativi alla tecnologia sociale. Questo procedimento può anche facilitare una discussione razionale dei criteri stessi, in quanto concentrare l'attenzione sulle possibilità reali serve a indicare quali compromessi possano essere presi in considerazione.(V. anche Individualismo metodologico; Metodi e tecniche nelle scienze sociali; Previsione; Scienze sociali; Spiegazione e comprensione).
I termini 'spiegazione' e 'comprensione', ai quali si deve aggiungere 'interpretazione', hanno una notevole importanza nel dibattito sulle scienze umane e sociali, in quanto veicolano questioni teoriche cruciali. A partire dalla loro istituzionalizzazione (fine del XIX secolo) tali scienze si sono impegnate a definire i propri obiettivi, metodi e funzioni. Non potevano perciò evitare di interrogarsi sulle loro relazioni con le scienze della natura. È da tutto ciò che è nata la distinzione tra spiegazione e comprensione.
La distinzione solleva complessi problemi epistemologici, che vanno ben al di là di una semplice discussione terminologica, poiché tali parole riassumono in sé diverse impostazioni di ricerca. Ne sono nate delle controversie che hanno accompagnato endemicamente la storia delle scienze sociali, dalla fine del secolo scorso ai giorni nostri, aventi per oggetto il futuro stesso delle scienze umane e, in fin dei conti, il loro valore conoscitivo.
La riflessione sui concetti di spiegazione e di comprensione appare nelle scienze umane in un contesto che vede il trionfo delle scienze della natura. Questo trionfo porta le scienze umane a domandarsi se esse stesse debbano modellarsi per quanto possibile sulle scienze della natura o se la specificità del loro oggetto debba condurle a concepirsi come distinte da queste. Tale problema ha avuto e continua ad avere due opposte soluzioni.
La prima può essere definita 'positivistica' (le virgolette servono a ricordarci che il positivismo è un movimento culturale complesso che, come vedremo subito, conosce diverse incarnazioni). Tale soluzione è monistica: la scienza è unica, e le scienze sociali ed umane debbono conformarsi alle scienze della natura, sia nei loro obiettivi che nei loro metodi. L'obiettivo principale delle scienze della natura è quello di spiegare, di stabilire la ragion d'essere dei fenomeni osservati o, in altri termini, di ricercare le cause dei fenomeni fisici, chimici o biologici. L'obiettivo delle scienze sociali sarà quindi, per esempio secondo Émile Durkheim, quello di spiegare i fenomeni sociali e cioè di determinare le loro cause. Coloro che optano per una concezione positivistica delle scienze sociali fanno dunque della spiegazione l'obiettivo fondamentale.
La seconda soluzione è al contrario dualistica: scienze umane e scienze della natura riguardano due distinti universi di discorso. Le scienze umane infatti non si interessano tanto ai fatti quanto ai loro significati. Così il biografo di sant'Agostino, di Rousseau o di Goethe - afferma Dilthey - si interroga sul senso che tali personaggi storici hanno voluto dare alla propria vita. A Dilthey fa eco Georg Simmel quando sottolinea che lo storico della Rivoluzione francese difficilmente può esimersi dal presentarla cancellando tutta la propria soggettività; egli la presenterà immancabilmente con simpatia o con antipatia, come la fine o l'inizio di un mondo, come una promessa o un fallimento. L'obiettivo qui non è la spiegazione, ma quello di comprendere o di interpretare. Qualsiasi fenomeno culturale non esiste che attraverso il senso che esso ha per gli uomini. Le scienze umane non dovranno quindi ispirarsi alle scienze della natura. Questa, sommariamente riassunta, è la posizione degli antipositivisti.
a) Il paradigma positivistico
È indispensabile per afferrare il senso di tale contrapposizione soffermarsi sul movimento culturale che apparve nella prima metà del XIX secolo e che si è definito 'positivismo'. Il primo punto da sottolineare è che si tratta di un movimento culturale complesso. Il neopositivismo di un Carnap ha poco a che vedere, per esempio, con il positivismo di Comte. Durkheim è influenzato da quest'ultimo, ma se ne distingue per molti aspetti. Milton Friedman è considerato 'positivista', ma in un senso molto particolare: tale qualifica indica in questo caso che l'economista di Chicago difende una posizione epistemologica secondo la quale una teoria scientifica deve soddisfare un solo requisito e non può essere valutata che sulla base di un solo criterio: la sua congruenza con la realtà. Il termine 'positivismo' ha un senso ancora diverso per gli storici positivisti, che assegnano alla loro disciplina una funzione fondamentale, quella di stabilire la veridicità dei fatti. Un altro esempio: il filosofo della scienza Karl R. Popper si è sempre detto ostile al positivismo, ma ciò significa che egli si oppone a un particolare positivismo, quello del Circolo di Vienna, e non accetta la teoria della scienza di Carnap. Ciononostante Popper è stato spesso considerato positivista, e a buon diritto se con ciò si intende che nella sua epistemologia una teoria scientifica si giudica esclusivamente in base alla sua congruenza con la realtà.
Ma per quanto diversi siano i positivismi, vi è tuttavia un nucleo comune la cui esistenza giustifica il fatto che si parli del positivismo al singolare. Si può caratterizzare questo nucleo attraverso le seguenti proposizioni. Innanzitutto il positivismo (più esattamente il denominatore comune ai diversi positivismi) considera la scienza una forma di conoscenza superiore, più solida delle altre. Così Popper non nega l'esistenza di una conoscenza metafisica o di una conoscenza storica; egli pensa però che queste non possano pervenire allo stesso grado di certezza e che abbiano natura diversa da quella della conoscenza scientifica. In secondo luogo il positivismo vede nell'adozione di procedure di indagine che eliminano completamente, almeno in teoria, la soggettività del ricercatore, il segreto dell'efficacia della scienza. In terzo luogo, esso considera obiettivo della scienza quello di ricercare le cause dei fenomeni osservati. Del resto, è determinando con procedure impersonali le vere cause dei fenomeni che la scienza riesce a prevederli: la sua capacità predittiva è dunque un effetto della sua capacità esplicativa. Il positivismo ritiene infine che esista in linea di principio per ogni problema un'unica teoria vera. Spiegazione, obiettività, procedure impersonali, verità unica, sono dunque le sue principali parole d'ordine.
Occorrerà certo introdurre delle sfumature e tener conto, a questo proposito, di divergenze che talvolta riguardano anche punti cruciali. Così alcuni positivisti, a cominciare da Comte, considerano la ricerca di cause una ricaduta nella metafisica. Lo scienziato comtiano deve limitarsi a ricercare le regolarità alle quali i fenomeni osservati obbediscono, deve stabilire delle 'leggi'. Di fatto, i tentativi compiuti per eliminare il concetto di causa dal discorso scientifico sono falliti: una legge non è generalmente altro che una relazione ipotetica del tipo 'Se A allora B'; se ne conclude che, date certe condizioni, A è causa di B. Ad ogni modo, il tema dell'opposizione tra 'legge' e 'causa' che aveva suscitato tanto interesse tra i primi positivisti, ha perduto del tutto o quasi la sua attualità. Durkheim, per molti aspetti vicino a Comte, non ha d'altronde esitato a utilizzare il concetto di causa.
Un altro esempio di divergenza: il positivismo di Carnap si presenta come un 'fisicalismo'. Esso afferma che è possibile, almeno in teoria, tradurre ogni enunciato scientifico in una lista di constatazioni fattuali. In altri termini, una buona teoria scientifica si distingue da una cattiva in quanto può essere ridotta a protocolli irrefutabili. Anche tale concezione è stata abbandonata.Come ben dimostrano questi due esempi, non solo il positivismo è un movimento culturale complesso ma, su molti argomenti, presenta forti divergenze al suo interno. Tali esempi permettono però di mettere in luce anche le convergenze soggiacenti alle divergenze. Comte rifiuta, laddove Durkheim accetta, il concetto di causa; entrambi però ricercano le regole che consentono alle scienze sociali di raggiungere l'oggettività. Comte pensava di affermare il pensiero scientifico escludendo il ricorso al concetto di causa; Durkheim pensava di fare della sociologia una scienza interdicendo al sociologo qualsiasi enunciato relativo agli stati soggettivi degli attori sociali. La stessa cosa vuole fare Carnap con il suo fisicalismo.Sotto nomi diversi, il positivismo ha influenzato tutte le scienze umane, come pure le scienze della natura. L'empiriocriticismo di Mach ha ambizioni analoghe a quelle del fisicalismo di Carnap: una buona teoria fisica è per definizione riducibile a un insieme di enunciati fattuali. Il behaviorismo in psicologia riprende un certo numero di principî basilari del positivismo. Lo psicologo deve limitarsi a studiare relazioni tra fatti osservabili. Così, la psicofisiologia studierà le reazioni del soggetto, le sue 'risposte' a determinati 'stimoli'. Lo schema stimolo/risposta riassume il programma della psicologia behaviorista di attenersi a ciò che è osservabile. Ed è questa regola che farà della psicologia una scienza, distinguendola dalla psicologia 'letteraria' che si trastulla con gli stati di coscienza dell'individuo. In altri termini, proprio perché esclude il ricorso all'introspezione caratteristico della psicologia 'letteraria', la psicologia behaviorista può proporsi come modello di ogni psicologia scientifica futura. Il behaviorismo ebbe un'influenza immensa, ma ben presto dimostrò tutta la sua fragilità. Clark Hull ed Edward C. Tolman videro subito che per spiegare i comportamenti animali, anche in un quadro sperimentale, era impossibile non introdurre delle nozioni soggettive (la 'fame', la 'paura', ecc.).
Durkheim è, se non il fondatore, il primo grande esponente della sociologia positivistica. Egli vuole avvicinarsi il più possibile al modello delle scienze della natura come lui lo intendeva. La sociologia deve stabilire le cause dei fenomeni sociali analizzando, con l'aiuto di procedure impersonali, le relazioni tra i dati di fatto. Tali procedure sono quelle definite nella Logica di John Stuart Mill. Così ne Il suicidio vengono messe in evidenza le correlazioni tra il tasso di suicidi e un certo numero di variabili (età, sesso, stato civile, luogo di residenza, ecc.) e, a partire da uno studio di queste correlazioni, si cerca di stabilire una tipologia del fenomeno e naturalmente di individuarne le cause. L'obiettivo di Durkheim è evidentemente quello di stabilire in sociologia delle leggi analoghe nella loro forma alle leggi delle scienze della natura, a quella di Boyle o a quella di Mariotte per esempio, vale a dire delle funzioni (così i tassi di suicidi sono legati all''anomia' e all''egoismo' secondo una curva a U). La metodologia durkheimiana sembra prefigurare la metodologia positivistica che Carl G. Hempel cercherà di fissare nell'ambito delle scienze umane. Ma se per questo aspetto ricorda Hempel, per altri Durkheim mostra di avere una concezione della causalità 'ristretta', che i positivisti moderni rigetteranno. Secondo tale concezione a un medesimo effetto corrisponde sempre un'identica causa: "Così [...] se il suicidio dipende da più di una causa, è perché, in realtà, vi sono più specie di suicidio" (v. Durkheim, 1897).
In antropologia, come ha felicemente notato Ernest Gellner, il funzionalismo di Bronislaw Malinowski è la manifestazione più chiara dell'influenza del positivismo. Così come la psicologia behaviorista si contrappone alla psicologia introspettiva, o il positivismo sociologico alla filosofia sociale e politica, il funzionalismo malinowskiano si contrappone all'antropologia 'storica', con le sue incertezze e soprattutto con la sua incapacità di eliminare la soggettività dell'antropologo. Per Malinowski l'antropologia è lo studio delle relazioni di implicazione ed esclusione reciproche che sussistono tra le istituzioni sociali e politiche. Tale programma ha avuto dei precursori. Già Montesquieu aveva mostrato che i regimi politici (democrazia, aristocrazia, ecc.) si caratterizzano per un insieme di tratti che si implicano reciprocamente. George P. Murdock realizzerà in modo particolarmente rigoroso il programma funzionalistico: a partire dai dati tratti dagli archivi di Yale su un insieme statisticamente significativo di società 'senza scrittura', egli studia le correlazioni tra le istituzioni relative al matrimonio, alla parentela, alla residenza, ecc.In ogni caso, il funzionalismo malinowskiano è l'equivalente in antropologia del behaviorismo in psicologia. Studiando le correlazioni tra i dati fattuali esso si propone di raggiungere dei risultati incontestabili e spogliati di ogni elemento soggettivo. Lo struttural-funzionalismo sociologico si definirà a partire da un programma praticamente identico a quello del funzionalismo antropologico.
In economia, il positivismo assume la forma di imperativo: evitare ogni ipotesi sulle motivazioni individuali degli attori economici. Tali ipotesi appaiono a un Friedman del tutto oziose. La sola cosa che conta per l'economista 'positivista' è di verificare se la teoria spiega i fatti e se consente delle previsioni confermate dalla realtà.
Esiste dunque nelle scienze umane, sin dalle origini, un potente movimento di ispirazione positivistica. Il suo obiettivo è di spiegare i fenomeni psicologici, sociali, economici o politici, con ambizioni simili a quelle delle scienze della natura, e in particolare quella di eliminare del tutto la soggettività dell'osservatore. Occorre rompere con le discipline interpretative, con la storia e con la psicologia introspettiva attenendosi al dato osservabile ed evitando ogni riferimento alla soggettività degli attori. Il positivismo ha una concezione monistica della scienza: non vi è alcuna differenza fondamentale tra le scienze della natura e le scienze dell'uomo. Le divergenze tra positivisti concernono soprattutto i mezzi che garantiscono l'obiettività della pratica scientifica.
L'influenza del positivismo è stata immensa. Esso ha introdotto una separazione netta tra 'spiegazione' e 'comprensione', 'spiegazione' e 'interpretazione'. La sociologia secondo Durkheim, l'antropologia secondo Malinowski, la filosofia della scienza secondo Popper, l'economia secondo Friedman, la psicologia secondo Skinner, intendono essere scienze esplicative in opposizione alle discipline interpretative quali l'antropologia 'pre-strutturalista', la psicologia tradizionale o la storia così come è considerata dai positivisti.
b) Il paradigma interpretativo
Positivisti e antipositivisti sono d'accordo sulla distinzione tra due tipi di discipline: quelle orientate verso l'interpretazione e quelle orientate verso la spiegazione dei fenomeni umani. Mentre però i primi vedono nella spiegazione di tali fenomeni il solo obiettivo che possa darsi una vera scienza, i secondi giudicano tale obiettivo illusorio.
Più precisamente, un Heinrich Rickert o un Wilhelm Windelband ritengono che le scienze umane non possano per la natura stessa del loro oggetto mirare soltanto alla spiegazione. Esse si propongono anche di restituire il senso di una istituzione, di una vita, di un avvenimento, ecc., e non solo di spiegarlo. E quando cercano di spiegare un fenomeno, un dato avvenimento storico ad esempio, esse non possono eliminare la soggettività dello studioso. Quando uno storico, o un sociologo, ricerca le cause di tale avvenimento, egli non può evitare di privilegiare quella causa o quel tipo di cause rispetto ad altre, in funzione della propria sensibilità personale e della sensibilità del proprio tempo. L'idea di stabilire le cause obiettive di un fatto sociale o storico è illusoria. In breve, non c'è oggettività quando le scienze sociali e umane si propongono di 'interpretare', ma neppure quando si propongono di 'spiegare'.
La contrapposizione tra positivisti e antipositivisti - tra quanti vogliono assimilare le scienze umane alle scienze della natura, che mirano innanzitutto alla spiegazione obiettiva dei fenomeni psichici, sociali, ecc., e quanti le considerano discipline del tutto diverse - è al centro di due querelles sul positivismo, quella della fine del XIX secolo e quella degli anni sessanta che ha avuto due protagonisti, Karl R. Popper e Theodor W. Adorno. L'eco di quest'ultima con il tempo si è spenta; sopravvive nelle scienze sociali francesi (v. per esempio Dosse, 1995), ma assai attenuata, e questo per due ragioni: indubbiamente per una sorta di effetto-usura e poi perché la discussione ha finito per far emergere una soluzione che ci proponiamo di presentare in seguito.
c) Geografia del positivismo
Non è forse inutile affrontare, seppure brevemente, una questione di storia delle idee, quella della diversa influenza del positivismo a seconda dei paesi e delle discipline. Il riferimento al caso di Durkheim ci consente di insistere su un punto importante, ossia sul fatto che tale diffusione è in parte il risultato di contingenze storiche. Il positivismo era un movimento culturale molto forte in Francia nel periodo in cui scriveva Durkheim. Émile Littré, un allievo di Comte, era un intellettuale di grande prestigio, che esercitava una grande influenza politica all'alba della Terza Repubblica. Egli riteneva che la sua missione consistesse nel diffondere il positivismo di Comte (non però la sua 'oscurantista' religione dell'umanità). I successi delle scienze della natura e l'influenza politica di Littré sono i fattori principali che probabilmente spiegano perché il positivismo fosse più influente in Francia che in Germania in questo periodo. In Germania i successi delle scienze non furono meno grandi; esse non ebbero però un sostenitore così influente come Comte. D'altra parte, i Tedeschi avevano avuto, nella persona di Hegel, una sorta di sostituto funzionale di Comte. Ora, Hegel era assai screditato alla fine del XIX secolo, nel momento cioè in cui si istituzionalizzavano le scienze sociali e il ritorno al kantismo era molto in voga in numerosi circoli intellettuali. Si consideri poi che, sotto l'influenza di Leopold von Ranke e di Theodor Mommsen in particolare, l'indagine storiografico-erudita si era radicata in Germania piuttosto che in Francia. Tali circostanze spiegano perché i sociologi tedeschi, come Simmel, Weber o Sombart, nel definire la sociologia si confrontassero con gli storici piuttosto che con gli scienziati, e perché ricavassero i loro principî epistemologici da Kant piuttosto che dal positivismo. Se è importante richiamare l'attenzione su tali differenze è perché, fino ai nostri giorni, esse hanno sempre avuto un certo peso. Come ha mostrato Raymond Aron, un Lévi-Strauss appartiene a pieno titolo alla tradizione fondata da Durkheim. Lo strutturalismo è in effetti una variante del positivismo, in quanto anch'esso si propone semplicemente di mettere in evidenza relazioni fra dati osservabili. Così, quando studia i miti, lo strutturalista non ne indagherà affatto la genesi o il suo senso, ma studierà soltanto le regolarità che si possono scoprire analizzando insiemi di miti.
Cosa pensare delle obiezioni degli antipositivisti? La persistenza della discussione deriva dal fatto che i loro argomenti sono in parte giusti. Il fatto che lo si riconosca e che allo stesso tempo si riconosca l'importanza delle esigenze del positivismo spiega come mai la querelle non ricompaia oggi che ai margini della comunità scientifica.In effetti, se le scienze umane si pongono spesso problemi di spiegazione, esse si pongono anche problemi che riguardano, nella loro stessa formulazione, l'interpretazione: la Rivoluzione francese è stata o no una buona cosa? Il 1793 era implicito nel 1789? Stalin era inevitabile? La civiltà europea è al tramonto? La pittura moderna è un segno della morte dell'arte? Tali domande non sono evidentemente prive di interesse. Vi sono questioni che, per loro propria natura, sono questioni di interpretazione; si può dare loro una risposta più o meno interessante e 'giusta', ma è vano ricercare una risposta vera.
Un problema è di tipo interpretativo quando la risposta che gli si può dare implica necessariamente l'intervento di giudizi di valore. Per fare un esempio meno grossolano di quelli sopra richiamati, si pensi al lavoro del biografo. Comporre una biografia significa per lo storico - come ha ben visto Simmel (v., 1892) - tentare di unificare gli innumerevoli dati di cui dispone secondo determinati principî direttivi, dando risalto ad alcuni fatti piuttosto che ad altri. Un altro storico, che abbia scelto altri principî di unificazione, darà un peso differente agli stessi fatti. Le due biografie, pur incompatibili, potranno entrambe essere ritenute 'giuste'. Non è invece possibile considerare l'una superiore all'altra. Si ha qui un esempio tipico della situazione interpretativa. In questo caso la risposta alla questione posta non può, in linea di principio, essere unica. Non può esservi una biografia definitiva di un dato personaggio storico. D'altra parte, lo storico non può pretendere di raggiungere l'obiettività. Una biografia può essere più o meno 'giusta', ma non 'obiettiva'. Il biografo introduce inevitabilmente nel suo lavoro dei giudizi di valore, giudicando per esempio questo dato biografico 'importante' e quest'altro 'secondario'. Beninteso, nessun criterio oggettivo può essere associato a questi aggettivi. Come non può essere oggettiva, così una biografia non può essere definitiva: una biografia che annulli tutte le altre è impensabile, anche se è possibile, per esempio, immaginare una teoria definitiva dell'eccezione religiosa americana (v. § 6a).
Interpretare non è naturalmente prerogativa del biografo. Anche lo storico della Rivoluzione francese dovrà scegliere delle linee direttive, ordinare gli avvenimenti in funzione di tali principî. La sua interpretazione potrà essere più o meno 'giusta', ma non potrà essere unica o obiettiva. Così i 'dualisti' della prima querelle sul positivismo hanno ragione quando insistono sul fatto che, allorché le scienze umane si interrogano sul senso di un avvenimento, esse si pongono un tipo di domanda che non ha equivalenti nelle scienze della natura. Il senso di una vita o di un avvenimento non è unico, la storia della Rivoluzione francese viene sempre riscritta daccapo, come le biografie di Luigi XIV o di Pietro il Grande, e ciò non dipende in genere dalla scoperta di elementi nuovi, ma piuttosto dal fatto che, per definizione, un nuovo punto di vista è sempre possibile e si legge sempre il passato alla luce del presente. Stalin ci fa vedere Pietro il Grande in modo diverso. Occorre inoltre notare, con gli antipositivisti, che ci si può trovare in una situazione interpretativa anche quando si affrontano problemi di tipo causale. Uno stato di cose può essere così complesso che non si può pretendere di individuare tutte le cause che lo determinano e ancor meno valutare obiettivamente l'importanza relativa dei singoli fattori. Quando Marx afferma che la conquista dell'America Latina fu una causa importante del declino del mondo feudale e della nascita del mondo borghese, egli enuncia una proposizione vera. La conquista provocò un afflusso di metalli preziosi e questo un'inflazione cronica. Ora, mentre il signore feudale in tale situazione difficilmente poteva mantenere la stessa rendita senza correre i rischi di una jacquerie, il borghese poteva ottenere prestiti, investire e arricchirsi, in quanto rimborsava i suoi debiti con una moneta svalutata. Ma se non vi sono dubbi sull'esistenza di questa causa, non possiamo pronunciarci in merito alla sua importanza rispetto ad altri fattori, come quelli religiosi evocati da Weber o le innovazioni tecniche. Non si può dunque ricostruire in modo obiettivo la rete causale che ha determinato l'ascesa della borghesia; si può invece in modo assolutamente certo rispondere alla questione se la conquista dell'America Latina contribuì a questa ascesa: qui le dimensioni dell'interpretazione e della spiegazione convergono.
L'origine delle confusioni che caratterizzano le ricorrenti querelles sul positivismo che si sono avute in un passato più o meno recente non è dunque molto difficile da identificare. I dualisti dimenticano che le scienze umane e la sociologia in particolare si pongono questioni che riguardano non solo l'interpretazione ma anche la spiegazione. I monisti commettono l'errore opposto: dimenticano che le scienze umane si pongono anche questioni di interpretazione. Quando poi i dualisti riconoscono che le questioni di spiegazione concernono anche le scienze umane, essi non si rendono conto dell'impossibilità di individuare la totalità delle cause di un fenomeno, e non vedono che, relativamente a una data causa, il sociologo può dare una risposta certa al problema del carattere reale o fittizio della causa in questione.
La confusione deriva inoltre dal fatto che alcuni riducono il positivismo ad alcune varianti che potremmo definire di positivismo 'duro'. Ora, che si tratti delle scienze umane o delle scienze della natura, non si è obbligati a sottoscrivere tali forme di positivismo, né a trattare, come fa Friedman, come una scatola nera gli assiomi che descrivono il comportamento dell'attore sociale o economico. Quando i fisici utilizzano il concetto di forza, si riferiscono a un'entità non osservabile. Ma si ricorre a tale concetto perché esso si dimostra indispensabile. Il sociologo può allo stesso modo introdurre entità non osservabili e, come il fisico, sottoporle a critica. Così, l''orrore del vuoto' che Descartes considerava indispensabile nella spiegazione di ogni sorta di fenomeno fisico è scomparso dal discorso scientifico, mentre le invisibili 'forze' della dinamica sono state conservate. Le stesse scienze della natura non cercano più di eliminare tutte le entità non osservabili ma, appunto, solo quelle di cui conviene disfarsi.
Allorché le questioni poste dalla sociologia classica o moderna riguardano la spiegazione, i positivisti hanno ragione. In questo caso i principî metodologici delle scienze della natura si applicano come tali alle scienze umane. Il sociologo può avere le stesse ambizioni di rigore e di obiettività del biologo o del fisico: utilizzare delle procedure che permettano di neutralizzare la soggettività del ricercatore, cercare di giungere alla miglior teoria possibile per spiegare i fenomeni, ecc.
Si deve richiamare infine l'attenzione su un'ambiguità linguistica. Talvolta i termini 'comprensione' e 'interpretazione' sono considerati come sinonimi e quindi 'sociologia comprendente' e 'sociologia interpretativa' come espressioni equivalenti. In questo caso, si ammette implicitamente che il corrispondente indirizzo sociologico coincide con il programma definito dagli antipositivisti. È molto importante sottolineare che non è affatto in questo senso che Weber parla di 'sociologia comprendente'. Perciò, a più riprese, quando impiega tale espressione, egli precisa: "la sociologia comprendente, nel mio senso". L'approccio weberiano si discosta infatti sia da quello positivistico che da quello interpretativo.
4. La sociologia comprendente nel senso di Weber
Weber non è certo il solo ad applicare il paradigma della sociologia comprendente, ma è tra i sociologi classici quello che per primo ha attirato l'attenzione sulla sua importanza. Per Weber anche le scienze sociali ricercano le cause di un fenomeno: la spiegazione è dunque il loro obiettivo primario. Così, nell'Etica protestante, egli si interroga sulle cause che determinarono lo sviluppo del capitalismo moderno. Ma poiché le cause ultime dei fenomeni collettivi risiedono in azioni, atteggiamenti e credenze individuali, la spiegazione di un fenomeno non è completa se non rende conto di tali fattori. Comprendere un'azione, ecc., 'renderne conto', significa certo ritrovarne le cause, ma si deve subito aggiungere che per Weber tali cause coincidono con il senso che l'azione ha per l'attore individuale. Così la causa del fatto che io taglio della legna è che desidero farla bruciare per scaldarmi. La spiegazione sociologica è dunque completa allorché il sociologo è riuscito a portare alla luce il senso per gli attori degli atteggiamenti, azioni e credenze individuali che sono le cause del fenomeno che egli cerca di spiegare.
Questi principî definiscono l'approccio che dopo Schumpeter viene indicato con l'espressione 'individualismo metodologico'. Weber ha sempre applicato nelle sue analisi l'individualismo metodologico e lo ha esplicitamente teorizzato in più occasioni: "La sociologia comprendente (nel nostro senso) deve guardare all'individuo singolo e al suo agire come al proprio 'atomo' - se qui è consentito questo pericoloso raffronto [...]. Concetti come 'Stato', 'associazione', 'feudalesimo' e simili designano per la sociologia, in generale, categorie di determinate forme di agire umano in società; ed è loro compito riportarle all'agire 'intelligibile' e cioè, senza eccezione, all'agire degli uomini che vi partecipano" (v. Weber, Gesammelte..., 1922; tr. it., pp. 256-257). Come l'economia "anche la sociologia deve procedere in modo strettamente individualistico dal punto di vista metodologico" (cit. in Mommsen, 1965).
Notiamo incidentalmente che ancora oggi, confondendo il genere con la specie, si ritiene che l'individualismo metodologico implichi una concezione utilitaristica del comportamento. Si tratta di un fraintendimento in quanto nulla ci obbliga a ritenere che un'azione abbia sempre per l'attore il senso di servire al proprio interesse.
Si può illustrare quanto detto finora attraverso alcuni esempi tratti dagli studi weberiani di sociologia della religione. Perché, si chiede Weber, nella Roma antica, nella Prussia moderna e anche altrove, i funzionari, i militari e il personale politico tendenzialmente si sentivano attratti da culti che, come il mitraismo o la massoneria, proponevano un'immagine disincarnata della trascendenza, consideravano quest'ultima sottoposta a regole e concepivano la comunità dei fedeli come gerarchicamente ordinata attraverso il ricorso a riti iniziatici (v. Weber, Wirtschaft..., 1922)? Perché gli imperatori romani, da Commodo a Giuliano, hanno protetto il mitraismo, e i re di Prussia la massoneria? Gli articoli di fede di queste religioni si accordavano con quella che si può chiamare la 'filosofia' sociale e politica di funzionari, militari o politici: un sistema sociale - inteso come un sistema gerarchico-funzionale - presuppone il controllo di un'autorità centrale percepita come legittima e che opera secondo regole impersonali; nello stesso tempo, come effettivamente accade nel caso dello Stato romano o prussiano, questo ordinamento gerarchico deve essere fondato su competenze controllate attraverso procedure formalizzate. Agli occhi di questi attori sociali i principî di organizzazione politica dello Stato si conformano pienamente alla giusta 'filosofia' politica e i riti iniziatici del mitraismo o della massoneria esprimono gli stessi principî sul piano metafisico-religioso. Si deve certo ricorrere ad altri fattori per spiegare l'espansione di tali culti, e sottolineare per esempio che il mitraismo, a differenza del cristianesimo, non proibiva ai propri adepti di praticare altri culti. Alcuni fattori particolari spiegano perché la massoneria non trovò presso la monarchia francese lo stesso sostegno che ebbe presso la monarchia prussiana o inglese. Ma ciò che spiega in primo luogo il successo di tali culti è il fatto che essi contengono rappresentazioni dell'ordine sociale che appaiono valide ad alcune categorie di attori sociali. Un altro esempio, tra le decine che si potrebbero trarre da Economia e società come pure dai saggi di Sociologia delle religioni: i contadini abbracciano facilmente la magia, ci dice Weber, perché l'incertezza caratteristica dei fenomeni naturali li fa considerare governati da volontà capricciose; essi avrebbero al contrario notevoli difficoltà ad ammettere che l'ordine delle cose è sottomesso a una volontà unica, la qual cosa implicherebbe un minimo di coerenza e prevedibilità (v. Weber, 1920-1921 e Wirtschaft..., 1922). È per questo, possiamo aggiungere, che il termine paganus, il quale in origine significa 'contadino' (si pensi al francese paysan), venne utilizzato per designare i 'pagani'. Cum grano salis, si potrebbe dire che i contadini di Weber sono popperiani: abbracciano il politeismo o l'animismo piuttosto che il monoteismo perché quelle 'teorie' appaiono loro più congruenti con il carattere aleatorio dei fenomeni naturali osservati.
L'approccio weberiano soddisfa le esigenze del positivismo, di rendere le scienze sociali altrettanto solide quanto quelle della natura, e allo stesso tempo sfugge alla ingenuità del positivismo 'duro', secondo il quale per essere scientifiche le scienze sociali debbono rinunciare a occuparsi di fenomeni soggettivi. Gli stati di coscienza individuali sono fatti come gli altri: pretendere di eliminarli non significa rispettare, bensì contraddire i principî della scienza. Alcuni autori hanno obiettato che la nozione weberiana di 'senso' (per l'attore) non è chiara e che perciò il concetto di 'comprensione' è incerto. È questa una delle obiezioni mosse alla 'sociologia comprendente' weberiana da un positivista come Theodore Abel. È sufficiente, per rispondere a tale obiezione, precisare che il senso per l'attore si identifica in linea generale con le ragioni che egli adduce a fondamento delle sue credenze.
Certo, come ha messo in rilievo proprio Weber, l'azione individuale può essere ispirata non solo da motivazioni attinenti, da un lato, a quella che egli chiama la 'razionalità strumentale', e dall'altro lato alla 'razionalità assiologica', ma anche dall'attaccamento alla tradizione e da motivazioni affettive. Se il senso per l'attore è la causa delle sue azioni, questo senso non si riduce sempre a motivazioni razionali. Ma non per caso Weber, nella celebre classificazione di Economia e società, pone la categoria dell'azione tradizionale e dell'azione affettiva dopo le due altre categorie dell'azione razionale rispetto allo scopo e razionale rispetto al valore; quelle gli appaiono infatti meno importanti di queste per il sociologo. La differenza di importanza si misura soprattutto nelle analisi concrete di Weber. Solo eccezionalmente egli si accontenta di fare appello all'attaccamento alle tradizioni o a fattori affettivi, specialmente quando si tratta di render conto della diffusione delle credenze religiose, e insiste sempre sul ruolo limitato di tali fattori.
D'altra parte, 'comprendere' un'azione o una credenza non è affatto una pratica misteriosa che riguarda l''intuizione'. 'Comprendere' un'azione significa costruire una teoria di quest'ultima che soddisfi i requisiti che definiscono abitualmente una teoria scientifica. Allorché si vede qualcuno tagliare della legna in inverno, si può formulare l'ipotesi che il suo intento sia quello di procurarsi i mezzi per scaldarsi. Se egli lo conferma, o meglio ancora se mette della legna nel camino e se cerca di accendere il fuoco, non vi sarà ragione di procedere oltre. Ma il sociologo può certamente difendere un'interpretazione del comportamento dell'attore anche se smentita da quest'ultimo. Non vi è ragione di supporre che l'attore conosca del tutto il senso della propria azione, ancor meno che egli sia capace di enunciarlo o disposto a farlo. Ma solo se l'ipotesi meno complicata e più verosimile si dimostra insostenibile se ne ricercheranno altre. Per sostenere che il nostro uomo vuole mostrare al suo vicino come si taglia la legna, si dovrà per esempio stabilire che il vicino partecipa effettivamente alla scena e che aveva bisogno di essere istruito su questo punto. Per affermare che egli sacrifica a un culto oscuro, per esempio al dio dei tagliaboschi, si dovrà dimostrare questa ipotesi appurando alcune circostanze: per esempio, se il nostro uomo assiste ad altre cerimonie importanti dello stesso culto. In breve, la validità di una teoria che assegna determinate ragioni a un'azione si stabilisce come per tutte le altre teorie: essa deve essere coerente e congruente con i fatti conosciuti. Lungi dall'essere misteriosa l'operazione della 'comprensione' consiste dunque nel risolversi in favore della teoria che, fra tutte quelle intrinsecamente coerenti, meglio si accorda con i fatti. La sociologia comprendente non si discosta in alcun modo dai principî che governano la ricerca scientifica negli altri ambiti. Non vi sono, in questo orientamento, 'criteri specifici' di validità scientifica.
Le 'ragioni' sono entità non osservabili, ma questo non condanna il sociologo all'arbitrarietà. Ricostruire le invisibili ragioni che hanno ispirato i personaggi storici è un obiettivo essenziale della storia, e questa giunge frequentemente a delle conclusioni certe: benché lo storico non disponga di testimonianze dirette su questo punto, egli può per esempio affermare che, se Lenin avesse ritenuto la guerra utile alla rivoluzione, non si sarebbe pronunciato contro di essa nel 1915 (v. Sokoloff, 1993), o che le rivolte antifeudali dei contadini francesi alla fine del XVIII secolo derivavano dal fatto che i diritti feudali impedivano loro di avvantaggiarsi dell'espansione dei mercati, e non già dal fatto che tali diritti imponevano l'abbandono dell'economia di sussistenza (v. Root, 1994).
Può infine essere esaminata un'altra interpretazione del comportamento del tagliatore di legna: non è impossibile che tale comportamento sia privo di senso, cioè non obbedisca ad alcuna ragione, e che il nostro uomo abbia semplicemente la mania di tagliar legna senza che questa azione sia guidata da alcuna finalità, né quella di scaldarsi, né quella di fare dell'esercizio, né quella di compiere un rituale, né altre. In questo caso la sua azione può e deve essere analizzata esclusivamente come l'effetto di uno stato d'animo. Ma si converrà che il comportamento in questione si situa ai limiti della normalità.
Dobbiamo evitare di introdurre teorie psicologiche congetturali, inutilmente complicate o francamente inaccettabili. Così il sociologo non può ammettere che l'adesione a un sistema di credenze si spieghi 'in ultima analisi' con il fatto che tali credenze sono conformi agli interessi del soggetto sociale. Secondo alcune varianti particolari di queste teorie utilitaristiche tali interessi sarebbero determinati dalla posizione di classe dell'attore. Si tratta di teorie inammissibili - osserva giustamente Weber - nella misura in cui pretendono di avere una validità generale.In uno dei testi di Sociologia delle religioni, Weber prende posizione, in effetti in modo un po' equivoco, contro due teorie della religione particolarmente influenti ai suoi tempi (e che lo sono anche ai nostri giorni): quella di Marx e quella di Nietzsche. Per Marx le credenze religiose sono al servizio degli interessi di classe, hanno la 'funzione' di difendere tali interessi; per Nietzsche, esse sono 'dettate' ai soggetti sociali da interessi psicologici risultanti dalla loro posizione nella società. Ecco il testo di Weber: "Si è tentato di interpretare il rapporto tra etica religiosa e posizioni di interessi, in modo tale da far apparire la prima come una mera 'funzione' di quest'ultime. Non soltanto nel senso del cosiddetto materialismo storico [...] ma anche in senso puramente psicologico" (v. Weber, 1920-1921; tr. it., vol. I, p. 330). Weber parla qui di etica 'religiosa', ma il rilievo si applica evidentemente all'etica e all'assiologia in generale. Nella spiegazione marxista i valori religiosi assolvono una determinata 'funzione': servire gli interessi della classe dominante. Ora, avverte Weber, non si possono spiegare i valori con la loro funzione sociale e ancor meno con quella particolarissima funzione che è la difesa degli interessi della classe dominante. Da parte sua, il funzionalismo nietzscheano spiega i valori religiosi supponendo che essi abbiano una funzione psicologica benefica per i 'dominati'.
Nel testo qui richiamato Weber si limita a esprimere i propri dubbi sulla spiegazione marxista e a rigettarla senza discuterla, forse perché gli sembra squalificata dal suo riduzionismo estremo. Il termine stesso 'materialismo storico' appare a Weber una stranezza, senza dubbio perché esso propone di attribuire delle cause 'materiali' ai processi storici e in particolare alla genesi delle credenze collettive. Il fatto che le teorie funzionaliste marxiana e nietzscheana dei valori siano prese in considerazione insieme indica a ogni modo che Weber rifiuta le spiegazioni del materialismo storico per ragioni esclusivamente scientifiche. Dobbiamo fare questa precisazione perché, al tempo in cui Weber scriveva, il marxismo aveva in Germania una indubbia influenza politica. Ora, come è noto, Weber seguiva con passione la vita politica tedesca (v. Mommsen, 1959).
A differenza della teoria marxiana, la teoria nietzscheana del risentimento è discussa nei dettagli nel seguito del testo. Il cuore dell'argomento di Weber è che i meccanismi proposti da Nietzsche spiegano forse la sensibilità di alcuni individui a determinate dottrine etiche di carattere religioso, e più generalmente a determinati valori, ma che essi non riescono a spiegare in generale l'influenza di teorie e valori. L'interesse, e specialmente l'interesse determinato dalla posizione sociale, può far sì che si presti attenzione a una teoria, ma non è sufficiente a spiegare che vi si creda. Abbracciare una dottrina significa percepirla come 'persuasiva'. Non vi è certezza né pratica né teorica che non riposi su determinate ragioni: si accetta una teoria quando si hanno delle ragioni per accettarla, e non perché si ha un interesse ad accettarla.
Senza dubbio Weber avrebbe concesso agli storici, per richiamare qui un esempio a lui caro, che il calvinismo riuscì a conquistare i piccoli artigiani delle città perché - come Balzac aveva già dimostrato nel suo Catherine de Médicis - cristallizzava dei risentimenti, e i borghesi perché conferiva loro quella dignità negata dal cattolicesimo (v. Trevor-Roper, 1967). Ma ciò non basta a spiegare il successo 'fulminante' di questo movimento religioso e la sua diffusione nelle più diverse realtà geografiche.
Come ha osservato Robert A. Nisbet (v., 1966), sulla scia di Marx, Freud e Durkheim, i sociologi sono propensi ad ammettere che azioni, atteggiamenti e credenze dei soggetti sociali si possano spiegare evocando delle cause nascoste. In virtù di un siffatto causalismo, questi autori hanno favorito la banalizzazione dell'idea di 'falsa coscienza'. Essi rifiutano il concetto di comprensione poiché partono dal presupposto che il senso per l'attore non costituisce la causa delle sue azioni, ammettendo così che la coscienza è strutturalmente falsa. Forse non si è ancora misurata l'importanza della rivoluzione intellettuale contenuta in questa 'nuova' psicologia.Il concetto di falsa coscienza descrive indubbiamente dei processi psicologici reali. Il soggetto sociale si inganna sulle proprie ragioni o motivazioni: io credo in quel che dice un amico, ma il mio spirito critico è 'accecato' dall'amicizia. Se viene impiegata in un contesto come questo, la nozione di falsa coscienza non presenta difficoltà particolari; essa descrive una classe di stati di coscienza ben definiti ed empiricamente individuabili: qualsiasi osservatore può constatare che quanto dice il mio amico è falso, che io non me ne rendo conto, che lo difendo con deboli argomenti, ma che d'altra parte do chiaramente l'impressione di agire in buona fede, ecc. In un altro senso si può utilizzare il concetto di falsa coscienza anche per descrivere il caso in cui un soggetto assume una situazione nuova sotto categorie improprie, semplicemente perché non dispone di categorie adeguate. In breve, il concetto di falsa coscienza può descrivere in modo perfettamente accettabile stati di coscienza ben determinati. Ma tutt'altra cosa è supporre che la coscienza sia strutturalmente falsa, come accade in alcune tradizioni di pensiero, e specialmente in quelle che partono dal presupposto secondo cui, poiché non possono esistere certezze obiettivamente fondate, ogni sentimento di certezza è illusorio e attesta la falsa coscienza del soggetto. Un'obiezione decisiva può essere immediatamente mossa a tale teoria: perché mai chi la sostiene sarebbe immunizzato contro la falsa coscienza?
L'approccio della sociologia comprendente può fornire delle teorie che obbediscano a criteri di scientificità analoghi a quelli che definiscono le scienze della natura. Questo rilievo è essenziale, poiché conferma che il concetto di scientificità non deve essere definito diversamente a seconda che si tratti delle scienze dell'uomo o delle scienze della natura. Due esempi classici illustreranno questo punto.
a) Una teoria di sociologia della religione (Smith-Tocqueville-Weber)
Il fenomeno della religiosità americana è apparso profondamente enigmatico a molti grandi sociologi. Esso infatti rappresenta una sfida alla 'legge' evolutiva enunciata da Comte, dallo stesso Tocqueville, da Durkheim e da Weber, secondo la quale la modernità comporta ciò che Schiller, Balzac, lo stesso Weber e altri ancora hanno chiamato il 'disincantamento del mondo'. Questa legge è perfettamente fondata, anche se approssimativa e passibile di eccezioni, per esempio quella americana. Ora, l'enigma deriva proprio dal fatto che gli Stati Uniti sono la società in cui, secondo i principî che ispirano la legge in questione, il disincantamento dovrebbe essere più pronunciato. Perché la società più moderna, e anche la più materialistica, rimane invece la più religiosa delle nazioni occidentali? Proprio per il suo carattere sconcertante il caso ha richiamato l'attenzione di Smith, Tocqueville, Weber e di molti autori moderni. Ma questi ultimi non paiono aver apportato elementi fondamentalmente nuovi: un po' come la teoria sul pendolo è in sé conclusa dopo Huygens, si ha l'impressione che la teoria policefala di Smith-Tocqueville-Weber esaurisca largamente il tema dell'eccezione religiosa americana.
La religiosità americana si spiega, osserva innanzitutto Smith, con la diversificazione dell'offerta religiosa: ciascuno può trovare nelle innumerevoli sette presenti sul territorio americano, e che risalgono alle ondate successive di immigrazione, un corpo dogmatico conforme alle sue aspirazioni. Quando invece, come nell'Inghilterra di Smith, l'offerta religiosa è monopolistica, chi, per una ragione o per l'altra, non può accettare un dato punto del dogma o del culto non ha altre soluzioni se non quella di uscire dalla comunità dei fedeli. La teoria di Smith rende conto senza dubbio di una parte del fenomeno dell'eccezione americana. Essa spiega forse anche il fatto che oggi i paesi dove l'ateismo è più sviluppato sono quelli, come i Paesi Scandinavi, in cui esiste una Chiesa dominante in situazione di monopolio quasi perfetto, avente per di più lo statuto di religione di Stato.
La teoria smithiana spiega dunque sia l'eccezione americana che molti dati relativi, segnatamente, ai tassi differenziali di ateismo. Ma essa non spiega che parzialmente l'eccezione americana. Tocqueville completa la costruzione teorica di Smith. La fioritura di istituzioni religiose in America (una moltitudine di sette, non una Chiesa dominante) ha avuto altri effetti oltre quelli su cui ha insistito Smith. Essa ha reso poco plausibile la concorrenza tra religione e politica che si era creata per esempio in Francia durante la Rivoluzione del 1789. Di conseguenza, le sette americane hanno conservato alcune funzioni sociali essenziali (sanità, istruzione, assistenza) che nelle nazioni europee sono passate nelle mani dello Stato. Il carattere federale dello Stato americano, con la delimitazione delle sfere di competenza delle strutture federali, ha agito nello stesso senso. Ne deriva che il cittadino americano incontra le istituzioni religiose nella sua vita di tutti i giorni; come potrebbe sviluppare in queste circostanze dei sentimenti negativi nei loro confronti? Oltre a ciò, la molteplicità delle sette ha fatto sì che si sviluppasse una grande tolleranza nei confronti delle 'credenze dogmatiche'. Poiché le credenze variano da una setta all'altra, si è rapidamente arrivati all'idea secondo cui le verità dogmatiche dipendono in larghissima misura dalla valutazione personale. Questa valorizzazione dell'interpretazione personale del dogma, latente nel protestantesimo, si rafforza là dove esiste una pluralità di sette.
Tutto questo ha prodotto, a sua volta, un effetto di cruciale importanza: essendo le credenze dogmatiche molto diverse, il fondo comune del protestantesimo americano è di natura molto più 'morale' che 'dogmatica'. I cristiani e i protestanti in particolare si riconoscono nei valori morali di cui il cristianesimo è portatore piuttosto che negli articoli di fede che entrano in concorrenza con l'interpretazione scientifica del mondo. Di conseguenza, la religiosità americana ha risentito meno di quella francese dei progressi della scienza.
Weber aggiunge a questa teoria un elemento essenziale (v. Boudon, 1993). L'importanza del mito egualitario negli Stati Uniti (che si spiega col suo carattere di paese di immigrazione) fa sì che i simboli della stratificazione sociale (nel linguaggio, nell'abbigliamento, ecc.) siano molto meno marcati che in Francia o in Germania. Ora, poiché esiste sicuramente una stratificazione negli Stati Uniti, e poiché la vita sociale nei suoi aspetti più semplici e ricorrenti comporta che si sappia 'con chi si ha a che fare', vale a dire che si possa valutare immediatamente il posto dell'altro nella scala sociale, è importante poter disporre di simboli di stratificazione. Poiché le differenze nell'abbigliamento, nel linguaggio, nei gesti, nei segni ufficiali di distinzione (onorificenze, titoli più o meno altisonanti), ecc., non hanno negli Stati Uniti l'importanza che hanno altrove, sono le appartenenze religiose a servire da "sostituti funzionali" (per usare l'espressione di Robert K. Merton). Perché vengono ad assumere questa funzione? Perché sulla base della storia dei fenomeni migratori, esiste una correlazione fra appartenenza religiosa e ondate migratorie, e quindi fra tale appartenenza e la posizione nel sistema di stratificazione, poiché un gruppo ha più chances di far parte delle élites se corrisponde a una immigrazione più antica. Se la teoria di Smith-Tocqueville-Weber dell'eccezione religiosa americana non è stata quasi messa in discussione in seguito, e non è stata integrata se non nei dettagli, è perché essa fornisce una spiegazione dei fenomeni esaminati perfettamente soddisfacente dal punto di vista scientifico. Allo stesso tempo, questa teoria continua a ispirare un gran numero di ricerche (v. Chaves e Cann, 1992).
Perché tale teoria è soddisfacente? Perché le sue proposizioni empiriche sono congruenti con la realtà (è vero che esistono delle sette negli Stati Uniti, e una religione dominante in Francia, in Germania o in Inghilterra; che i compiti educativi e assistenziali sono più spesso svolti da istituzioni religiose negli Stati Uniti che non in Francia o in Germania; che l'ateismo è più diffuso in Inghilterra che non negli Stati Uniti, ecc.). In breve, questa teoria contiene numerose proposizioni di cui si può valutare la congruenza con la realtà e che da questo punto di vista (popperiano) sono quindi perfettamente accettabili. Molte altre sue proposizioni, però, non sono empiricamente verificabili: allorché si è in disaccordo con un sistema dogmatico, si tende a ricercarne un altro (Smith); si possono avere sentimenti negativi nei confronti di istituzioni di cui si apprezzano i servizi (Tocqueville); quando si sente di appartenere a una comunità e le opinioni divergono sul tema A e convergono sul tema B si tende a definire la comunità sulla base di B (Tocqueville); la competizione cristallizza l'ostilità (Tocqueville); l'interazione elementare non può fare a meno di simboli di stratificazione (Weber), ecc. Tutte queste proposizioni sono altrettanto poco direttamente 'controllabili' quanto quelle che postulano l'esistenza di forze che fanno oscillare il pendolo. Ma esse sono scientificamente ammissibili, perché di ciò che enunciano possiamo trovare moltissime applicazioni in altri casi. Questi enunciati 'psicologici' o 'sociologici' sono ammissibili quanto gli enunciati 'fisici' della legge del pendolo di Huygens.
Tale esempio è sufficiente a dimostrare che si trovano facilmente nelle scienze sociali teorie che possono essere valutate in base agli stessi criteri che si utilizzano per valutare una teoria delle scienze della natura. La teoria policefala in questione è accettabile quanto quella di Huygens e per le stesse ragioni: perché essa soddisfa autorevolmente i criteri, popperiani e non popperiani, che permettono di valutare una teoria scientifica.
Pur non dichiarandosi positivista, Weber afferma costantemente la capacità della sociologia - come lui la intende - di essere solida quanto le scienze della natura. D'altra parte, egli appare pienamente cosciente, nelle sue analisi come nei suoi testi teorici, del fatto che la sociologia da lui preconizzata non si discosterà dalle procedure delle altre scienze. Nel sottolineare che il sociologo deve innanzitutto ricercare le cause reali dei fenomeni collettivi, egli condivide l'obiettivo centrale del positivismo. Nell'affermare il principio secondo cui è necessario scacciare i 'fantasmi collettivi', considerando i fenomeni collettivi come il risultato di atti, credenze o atteggiamenti individuali, e individuando nel 'senso per l'attore' di tali atti, credenze e atteggiamenti la loro causa reale, egli definisce un criterio che permette al sociologo di evitare il ricorso a entità non osservabili. Questi principî gli appaiono tali da rendere la sociologia una scienza come le altre. Si tratta per il sociologo di ritrovare le cause dei fenomeni che studia costruendo teorie esplicative che siano congruenti con la realtà e i cui elementi non osservabili siano scientificamente ammissibili. L''ansia esistenziale' di cui Weber parla nella sua teoria della magia, l'ansia di sopravvivere che è alla base delle ricette mediche utilizzate dall'agricoltore o dal pescatore, non è più direttamente osservabile delle 'forze' di Huygens; ma chi solleverà la benché minima obiezione dinanzi a tale concetto? Se le si esamina con attenzione, le teorie proposte da un Tocqueville o da un Weber (e naturalmente da altri) per spiegare gli innumerevoli fenomeni enigmatici che essi studiano, riposano sempre su un insieme di proposizioni psicologiche come quella appena evocata; tali proposizioni hanno da una parte la caratteristica di non essere direttamente controllabili, dall'altra quella di essere scientificamente ammissibili perché, come le forze di Huygens, veicolano dei concetti (quali appunto 'l'ansia di sopravvivere') indispensabili alla spiegazione dei fenomeni più diversi.
b) Una teoria di sociologia della conoscenza (Tocqueville)
Perché gli intellettuali francesi - si domanda Tocqueville ne L'ancien régime - alla vigilia della Rivoluzione credevano così fortemente nell'idea di Ragione con la R maiuscola e perché questa fede si diffuse alla velocità della luce fra la popolazione francese? La questione ha tutti i caratteri di un enigma, perché lo stesso fenomeno non si produsse nello stesso periodo, per esempio, né in Inghilterra né negli Stati Uniti.
In effetti, secondo Tocqueville, gli scrittori e i cittadini francesi della fine del XVIII secolo avevano buoni motivi per credere nella Ragione. La Francia di quel tempo era in uno stato tale che le istituzioni tradizionali a molti apparivano illegittime. Così, secondo l'istituzione della divisione in 'stati', la nobiltà era superiore al Terzo stato, ma i nobili non partecipavano né agli affari politici locali, né alla vita economica, e consumavano il loro tempo a Versailles; quelli tra loro, sovente squattrinati, che rimanevano in campagna si aggrappavano tanto più ai loro privilegi quanto più erano sprovvisti di mezzi economici (è per questo motivo che venivano chiamati hobereaux, ossia falchi). Non vi era dunque alcuna ragione per trattare i nobili come superiori. Una simile superiorità giuridica era il prodotto della tradizione, ma veniva percepita come una disfunzione e di conseguenza come illegittima. La stessa cosa può dirsi di molte altre istituzioni. Tutto ciò generò la convinzione che le tradizioni sono cattive, le istituzioni sono prive di funzioni, nient'altro che residui di un morto passato, lo status delle persone è disgiunto dalla loro importanza sociale, e nel complesso all'origine di tutti i mali vi è l'eternizzazione di un ordine ormai obsoleto. Si stabilisce allora un'equazione: tradizione = caos = ineguaglianza = ingiustizia = istituzioni che non funzionano affatto; e per opposizione, ragione = pianificazione = eguaglianza = giustizia = progresso.
Da qui la visione 'artificialista' delle società sviluppata dai filosofi illuministi, e l'ardente volontà di ricostruire la società secondo un piano razionale: tutti "pensano che convenga sostituire con regole semplici ed elementari attinte alla ragione e alla legge naturale, le consuetudini complesse e tradizionali che reggono la società del loro tempo" (v. Tocqueville, 1856; tr. it., p. 230). Tocqueville non considera mai queste credenze (che peraltro non condivide) come prive di senso. Al contrario, nel contesto francese, gli intellettuali avevano delle buone ragioni per credervi, così come i loro colleghi inglesi avevano delle buone ragioni per non farlo. In Inghilterra infatti i nobili avevano un ruolo fondamentale nella vita sociale, politica ed economica a livello locale. La superiorità accordata ai costumi e alle tradizioni era dunque percepita come funzionale e di conseguenza come legittima. Dietro la valorizzazione della Ragione contro la tradizione che caratterizzava la situazione francese, Tocqueville scopre in altri termini un procedimento argomentativo che ne fonda il senso per ciascun individuo e spiega quindi come essa sia potuta diventare collettiva. Tale argomentazione poggiava su una vera e propria teoria politica, la quale afferma per esempio che le distinzioni sociali possono essere percepite come legittime a condizione di essere fondate su funzioni sociali la cui importanza è riconosciuta da tutti. La presenza in forma latente di tale argomentazione nella mente degli individui spiega perché l'appello dei philosophes alla Ragione avesse incontrato un successo immediato tra la popolazione. Al limite, si può ben spiegare una credenza collettiva, secondo Tocqueville, mostrando che essa è il risultato di una argomentazione implicita che forse nessuno degli attori ha mai sviluppato pienamente, ma che si può con qualche verosimiglianza attribuire all'attore ideale che li rappresenta tipicamente.
Si deve sottolineare che il modello della sociologia comprendente nel senso di Weber può essere considerato una generalizzazione di quello della rational choice, in cui i fenomeni collettivi sono analizzati come prodotti dell'aggregazione di azioni individuali, la causa di queste azioni è il senso per l'attore e tale senso consiste nelle ragioni che l'attore ha di compiere l'azione in questione; ma qui interviene una restrizione rispetto al modello weberiano: le ragioni degli attori consistono sempre, secondo il modello della rational choice, in considerazioni di interesse.Questo accostamento ci consente di fare una considerazione. Le scienze sociali appaiono oggi caotiche. Tale impressione deriva dal fatto che esse utilizzano molteplici paradigmi: paradigmi positivistici di tipo causale, paradigma utilitarista, paradigmi antipositivistici. Il paradigma della sociologia comprendente nel senso di Weber è, a quanto sembra, il solo che abbia una reale capacità di unificazione. (V. anche Epistemologia delle scienze sociali; Individualismo metodologico; Positivismo e neopositivismo).
Boudon, R., European sociology: the identity lost, in Sociology in Europe. In search of identity (a cura di B. Nedelmann e P. Sztompka), New York-Berlin 1993, pp. 27-44.
Chaves, M., Cann, D., Regulation, pluralism and religious market structure: explaining religious vitality, in "Rationality and society", 1992, IV, 3, pp. 272-290.
Dosse, F., L'empire du sens, Paris 1995.
Durkheim, É., Le suicide. Étude de sociologie, Paris 1897 (tr. it.: Il suicidio. Studio di sociologia, Torino 1969).
Gerth, H.H., Mills, C.W., Introduction, in M. Weber, From Max Weber. Essays in sociology, New York-Oxford 1946 (tr. it. in: Max Weber. Da Heidelberg al Midwest, Milano 1991).
Mommsen, W., Max Weber und die deutsche Politik, 1890-1920, Tübingen 1959.
Mommsen, W., Max Weber's political sociology and his philosophy of world history, in "International social science journal", 1965, XVII, 1, pp. 23-45.
Nisbet, R.A., The sociological tradition, Glencoe, Ill., 1966 (tr. it.: La tradizione sociologica, Firenze 1977).
Root, H.L., La construction de l'état moderne en Europe. La France et l'Angleterre, Paris 1994.
Schweisguth, E., Grunberg, G., Bourdieu et la misère: une approche réductionniste, in "Revue française de science politique", 1996, XLVI, 1, pp. 134-155.
Simmel, G., Die Probleme der Geschichtsphilosophie: eine erkenntnistheoretische Studie, München-Leipzig 1892 (tr. it.: Problemi di filosofia della storia, Torino 1982).
Sokoloff, G., La puissance pauvre. Une histoire de la Russie de 1815 à nos jours, Paris 1993.
Tocqueville, A., L'ancien régime et la Révolution, Paris 1856 (tr. it.: L'antico regime e la rivoluzione, Torino 1989).
Trevor-Roper, H., Religion, the Reformation and social change and other essays, London 1967 (tr. it.: Protestantesimo e trasformazione sociale, Roma-Bari 1975).
Weber, M., Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, 3 voll., Tübingen 1920-1921 (tr. it.: Sociologia delle religioni, 2 voll., Torino 1976).
Weber, M., Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Tübingen 1922 (tr. it.: Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1967).
Weber, M., Wirtschaft und Gesellschaft, 2 voll., Tübingen 1922 (tr. it.: Economia e società, 2 voll., Milano 1961).
sommario:
□ Bibliografia
1. La statistica e l'immanenza della variabilità
Statistica è parola dai tanti, forse troppi, significati. Essi riflettono, nella loro varietà, le istanze conoscitive e operative attraverso le quali sono andati storicamente affermandosi i diversi corpi di dottrina di cui si compone la disciplina che porta quel nome. Per quanto datate, e talvolta ingenue, molte istanze sono ancora oggi riconoscibili nel vario attuarsi della ricerca quantitativa, in tutte le sue declinazioni.La statistica è soprattutto un metodo. Un metodo che è luogo di incontro e di confronto tra scienze della natura e scienze dell'uomo, tra pensiero scientifico e pensiero filosofico, tra osservazione empirica e astrazione matematica; un metodo che riprende e rinnova il canone sperimentale - il canone dell'ipotesi e della prova - in tutte le scienze positive che trattano pluralità. I suoi principî, i suoi linguaggi, sono entrati nei più svariati settori del sapere, come linea di pensiero e come momento del confronto critico tra ragione ed esperienza, tra idea e fatto, tra la realtà quale è (il dato) e quale potrebbe essere (il modello), nel contesto della 'variabilità individuale'. Con queste due parole - ma, più correttamente, si dovrebbe dire variabilità interindividuale - si allude, nel linguaggio della scienza, alle differenze, anzitutto quantitative, che sussistono tra gli elementi di un insieme rispetto a uno o più caratteri. Sono le proprietà dell'insieme l'oggetto della statistica in quanto metodo scientifico.
Scienza è ricerca di invarianti e il metodo statistico ricerca invarianti: gli invarianti emergenti dalla variabilità. Essi si esprimono in 'costanti caratteristiche': valori medi, misure di disuguaglianza, indicatori della forma distributiva, parametri di relazione tra variabili. Ogni costante statistica dev'essere criticamente intesa, perché rivela una proprietà di un insieme, nascondendone altre. È sempre una molteplicità di indicatori a dare la misura e il senso delle caratteristiche di un insieme. A un valor medio, ad esempio, dovrebbe sempre accompagnarsi il grado di allontanamento da esso dei valori mediati: la variabilità, appunto.
Un aforisma popolare, ripreso in un divertente sonetto di Trilussa, irride argutamente la statistica, osservando che, se a un uomo sono toccati due polli e a un altro non ne è toccato nessuno, essa attribuisce ugualmente un pollo a testa. Così facendo, la statistica calcola un valor medio, la media aritmetica, che è, come ogni media, una reductio ad unum, un'astrazione. Ogni astrazione risponde a un'ipotesi. L'ipotesi della media aritmetica è l'equidistribuzione: un pollo a ciascuno. Non dice, quella media, come sono andate le cose: dice, i polli essendo un 'carattere trasferibile', come sarebbero andate nell'ipotesi di cui è espressione. In quanto è media, essa riassume e nasconde le situazioni individuali. Lo 'scarto' tra queste e la media esprime allora la distanza tra distribuzione reale (due polli a una persona, zero polli all'altra) e distribuzione virtuale (un pollo a persona: il pollo medio aritmetico); una sintesi, ad esempio una media aritmetica, delle differenze assolute tra i singoli valori e il loro valor medio offre una misura, una delle tante misure, della disuguaglianza.
Sono, questi appena accennati, i primi e più immediati strumenti investigativi delle scienze alle prese con la variabilità individuale. Certo, un valor medio è una quantità fittizia, ancorché possibile; tale è, ad esempio, il 'reddito medio pro capite' degli abitanti di una città, di una nazione: un dato che vale per ciò che rivela e non per ciò che occulta. Tali sono pure la 'velocità media' di una nube di molecole gassose, o il 'tempo di dimezzamento' di un aggregato di atomi radioattivi. Concetti essenziali alla teoria cinetica dei gas e alla teoria del decadimento nucleare; subito integrati, in quei contesti, dall'assetto della variabilità attorno al valore medio: rispettivamente, la legge di distribuzione (sincronica) delle velocità molecolari e la legge (diacronica) dell'emissione radioattiva. Sono leggi statistiche: non attengono all'evento singolo, non codificano il percorso di una particolare molecola, non prevedono il decadere di questo o quel nucleo, ma traggono le proprietà statistiche dei rispettivi insiemi. Astrazioni, dunque. Ma senza astrazioni non si dà scienza.
Nelle scienze non sperimentali la statistica è apparsa anzitutto nel suo momento classificatorio, che è una prima forma di astrazione. Sostituendo alla vaga pluralità degli enti singoli una più sintetica gradualità tipologica, la classificazione spoglia i fatti dei loro aspetti inessenziali e li riduce a simboli di categorie concettuali, a eventi enumerabili. Senza classi e sistemi di classi non avrebbero potuto affermarsi, a lato delle scienze fisiche (divenute, con la rivoluzione galileiana, quantitativo-sperimentali e ipotetico-deduttive), altre scienze della natura non direttamente riducibili al paradigma meccanico-causale e le stesse scienze dell'uomo: tutte le scienze dove la qualità non è necessariamente una quantità non misurata e dove non è possibile isolare e graduare le relazioni causali rendendo artificialmente ininfluente ora questo ora quel fattore.
E proprio l'assetto classificatorio ha costituito, talora, il presupposto statistico per la modellizzazione delle conoscenze fondate sull'osservazione di fenomeni spontanei in cui intervengono numerose variabili. Così è stato nelle scienze della vita, dove una lunga preparazione descrittiva e tassonomica - un modo di far scienza, da Linneo (1758) in poi, al di fuori del paradigma fisico-astronomico - ha costituito la premessa di una grande intuizione storico-evolutiva: un'intuizione profondamente innovatrice enunciata senza alcuna apparente matematizzazione. Questa verrà assai più avanti e avrà il rigore e l'eleganza di un teorema. Un teorema fondato su probabilità statistiche: il paradigma razionale di una cultura che aveva a lungo sofferto dell'incapacità di tradursi in assunti quantitativi e formali.
2. La statistica e la realtà sociale: l''aritmetica politica'
'Statistica' è vocabolo che allude, ora come sostantivo ora come aggettivo, a tutta una varietà di procedure dietro le quali non è facile intravedere una comune matrice intellettuale. Dalle elementari osservazioni di regolarità collettive all'interpretazione statistica dei fenomeni profondi della natura e dell'uomo, il panorama dei concetti e dei metodi è andato facendosi assai vario e composito: una lunga storia di intenti e di strumenti, che par quasi arbitrario comprendere sotto un'unica denominazione.
Nell'accezione più banale, 'statistica' evoca una raccolta di dati numerici (essi non sono, a dir vero, il punto d'arrivo, bensì il punto di partenza dell'analisi statistica) e in questo senso la si fa derivare dallo stesso etimo italiano donde vengono parole attinenti alle faccende degli Stati: espressione, in quell'ambito, di repertorio informativo, di documentazione quantitativa. Vi si sono riconosciute storicamente, e ancora vi si riconoscono, le grandi rilevazioni pubbliche intese alla descrizione numerica delle comunità organizzate, per un'azione di governo fondata sulle cose, argomentata nei dati. È, questa, una prima e pur vaga radice storica di una disciplina dei fenomeni collettivi sviluppatasi in tante e complesse diramazioni variamente intrecciate. Denominata, nel Seicento, 'Notitia rerumpublicarum' ('Staatenkunde' nella lingua del paese dove era sorta, la Germania, presto acquisendo dignità universitaria, soprattutto per merito di H. Conring e G. Achenwall) e motivata dall'esigenza di dati quantitativi sulle condizioni di popoli e di luoghi, essa ha dato alla disciplina un'immediata ragione pratica di essere, offrendo altresì ai metodi che verranno una prima realtà di riferimento.
Ma l'autentica radice storica della statistica in re sociali cresce piuttosto intorno al ceppo, anch'esso secentesco, dell'empirismo inglese: presso il cenacolo baconiano della nascente Royal Society, ove appaiono - ad opera anzitutto di John Graunt (1662) e di William Petty (1676) - alcuni inusitati tentativi di indagine quantitativa su popolazioni, alla ricerca di regolarità numeriche negli eventi umani. Sono i primi passi di una scienza classificatoria, enumerativa, comparativa, da cui sono venuti alcuni abbozzi di discipline oggi autonome: la demografia, la statistica economica, la matematica attuariale. Se E. Halley (1693), astronomo newtoniano, dava esempi suggestivi di una teoria quantitativa degli eventi demografici, J. Arbuthnot (1710), W. Derham (1713), J.P. Süssmilch (1741) traevano da certe 'costanti' delle popolazioni i segni di un provvidenziale 'ordine divino', offrendo nuovi argomenti alle dispute intorno alla predestinazione e al libero arbitrio. Espressioni in parte decadenti di una linea di pensiero che culminerà in un trattato sulla crescita delle popolazioni, di Th. R. Malthus (1798), destinato ad avere grande influenza sul pensiero naturalistico e su quello socioeconomico.
Questa linea di ricerca non mirava a descrivere una collettività per se stessa, ma piuttosto a trarre dalle realtà osservate, assunte come espressioni storiche contingenti di categorie fenomeniche, le leggi di tendenza delle popolazioni, le loro determinanti remote, le loro implicazioni collettive. Audaci induzioni, etichettate come 'Political arithmetic' per il loro tradurre in numeri e rapporti tra quantità - dominio sino allora incontrastato delle scienze della ϕύσιϚ - gli eventi della πόλιϚ, le vicende dell'uomo. Non mancano tra le due correnti, quella tedesca e quella inglese, interrelazioni e sovrapposizioni di qualche rilievo: comune è il contesto empirico, la realtà umana, comune è l'interesse a una rappresentazione oggettiva e quantitativa. Nell'una, tuttavia, prevale l'intento politico-amministrativo, nell'altra quello naturalistico-conoscitivo. Due tendenze tuttora presenti nelle partizioni dell'odierna demografia.
3. La statistica dalle scienze della natura alle scienze dell'uomo
Se la genesi sociale della statistica in quanto rappresentazione può ritrovarsi nelle attese delle collettività umane, se una prima ragione euristica viene dalla filosofia empirista, la statistica, in quanto metodo induttivo, muove da tutt'altre premesse. Dall'antica pratica descrittiva essa non ha tratto che il nome. Concetti e algoritmi hanno una diversa origine. Vengono anzitutto dai problemi della misura e dell'errore, in astronomia, che risalgono ancora al Seicento e che trovano nel Settecento e nel primo Ottocento coerenti formalizzazioni: i teoremi per il trattamento delle approssimazioni strumentali ripetute di una medesima grandezza fisica, giunti, attraverso i principî della probabilità (codificati da J. Bernoulli, 1713, da P.S. Laplace, 1812, da S.D. Poisson, 1836, e dalla grande scuola probabilistica francese avviata da Fermat e da Pascal intorno alla metà del XVII secolo), a dare un assetto metodologico alla ricerca sperimentale, in re naturali, sui fenomeni espressi dalla variabilità.
Sono qui le premesse della metodologia statistica per il trattamento della variabilità di grandezze sempre idealmente riferite ad ampi insiemi fenomenici, ma sempre concretamente limitate a loro sottoinsiemi. Ciò soprattutto nella sperimentazione biologica, dove hanno avuto origine gli strumenti intellettuali e tecnici dell''induzione statistica', presto traghettati anch'essi nel versante socioeconomico. Ha scritto Ronald A. Fisher, il caposcuola della metodologia statistica induttiva: "Statistica è studio di popolazioni, di aggregati di individui. Le teorie scientifiche che trattano proprietà di aggregati di individui, come la teoria cinetica dei gas, la teoria della selezione naturale e la teoria chimica dell'azione di massa, sono essenzialmente statistiche e perciò suscettibili di errata interpretazione non appena se ne perde di vista la natura statistica. Nella teoria dei quanta, ciò è chiaramente riconosciuto. I metodi statistici intervengono anche negli studi sociali ed è principalmente con l'aiuto di tali metodi che questi studi possono innalzarsi al rango di scienza. Questa particolare dipendenza degli studi sociali dai metodi statistici ha provocato l'infelice malinteso di far considerare la statistica come un ramo dell'economia, mentre in verità i metodi usati nel trattamento dei dati economici [...] hanno avuto sviluppo nella biologia e nelle altre scienze naturali" (v. Fisher, 1944, p. 2).
È vero: le teorie e i principali metodi della statistica sono sorti nelle scienze della natura e ne hanno costituito l'innervatura logica e metodologica, concettuale e algoritmica: modus operandi della ricerca e modus intellegendi dei fenomeni. Un'immagine della realtà ormai essenziale a un sapere sempre più intessuto di leggi statistiche: leggi di popolazioni, siano esse di particelle o di viventi. È la filosofia naturale venuta con l'evoluzionismo biologico, con la termodinamica, con la teoria della radioattività, con la genetica; una filosofia naturale suggellata dalla meccanica quantistica. "La fisica quantistica - ha scritto Einstein - tratta unicamente di aggregati e le sue leggi valgono per le moltitudini, non per gli individui" (v. Einstein e Infeld, 1951; tr. it., p. 294).
La conquista della variabilità - del suo ruolo, della sua genesi, delle sue leggi distributive - è stata la chiave di volta di una grande rivoluzione scientifica, che ha visto affermarsi agli albori del XX secolo una fisica statistica e una biologia statistica. Nelle realtà indagate da codeste scienze si rivela un'immanente accidentalità: quella che volge la freccia termodinamica del tempo verso lo stato più probabile, quella che gioca nella trasmissione dei caratteri ereditari come in una partita a dadi: la grande partita dell'evoluzione, che la genetica di popolazioni traduce in una relazione tra probabilità (il principio di equilibrio allelico e genotipico, detto 'teorema di Hardy-Weinberg', 1908). È l'irriducibile casualità a fare di una pluralità di accadimenti un fenomeno statistico, dell'induzione statistica un canone scientifico: il canone di una filosofia naturale aperta a una lettura non deterministica del mondo.
È vero altresì che interi corpi di dottrina apprestati dalla statistica naturalistica - in particolare dal movimento biometrico, molto attivo in Inghilterra tra fine Ottocento e primo Novecento: la culla di tanta bella metodologia - sono diventati patrimonio comune a tutte le 'statistiche applicate', e, ciò che più conta, hanno ricevuto, da queste, apporti e adattamenti metodologici. L'estensione alla fenomenologia sociale dei metodi messi a punto dalla ricerca biometrica ne ha spesso accresciuto il contenuto tecnico-formale. A cominciare dai metodi per la misura della variabilità individuale, essenziali all'analisi naturalistica, imbattutisi nel problema della disuguaglianza economica, così da suscitare, da Vilfredo Pareto (1896), a M.O. Lorenz (1905), a Corrado Gini (1914), a Henri Theil (1967), a Camilo Dagum (1977) e ad altri ancora, nuovi sviluppi concettuali e formali. Ne è venuta la 'teoria della concentrazione', di particolare rilievo nello studio della distribuzione del reddito e della ricchezza. Anche l'analisi delle serie dinamiche, sorta come misura della 'dispersione' di successioni di dati biodemografici e sociodemografici (W. Lexis, 1876), si è data nuovi strumenti per la sintesi delle variazioni di grandezze economiche (prezzi, produzioni, ecc.): dalla teoria dei 'numeri indici', di grande importanza nella statistica economica, ai metodi per l''analisi delle serie storiche', in particolare delle serie storiche economiche (v. Previsione). Ma, prima ancora, l'apporto transdisciplinare ha riguardato la definizione delle proprietà formali dei modelli assunti a rappresentare le leggi distributive della variabilità empirica, a una e a più dimensioni.
Ciò è avvenuto anzitutto nella teoria della regressione e della correlazione, forse il contributo teorico più rilevante della scuola biometrica. Così, il 'coefficiente lineare di correlazione' - che il metodo statistico deve all'astronomo A. Bravais (1846), al biometrista F. Galton (1888) e al logico matematico K. Pearson (1896) - viene adattato dallo psicologo Charles Spearman (1904) ai numeri interi delle graduatorie dei caratteri associati e diventa il 'coefficiente di correlazione ordinale', che porta il suo nome: un agile strumento investigativo che ha aperto la via a tutta una metodologia detta 'non parametrica', di utile impiego quando la traduzione delle qualità in quantità risulti incerta o troppo riduttiva e ovunque il modello lineare si riveli inadeguato.
I modelli hanno appunto costituito la principale pietra d'inciampo nell'applicazione al sociale dei canoni statistici di ascendenza astronomica o naturalistica (v. Simulazione, modelli di). Anzitutto perché, in quel contesto, i caratteri non sono sempre riducibili a scale quantitative e più spesso la classificazione ha luogo per scale 'nominali' o, quando sia ammessa una graduatoria, per scale 'ordinali'. Da questo stato di cose ha tratto origine e significato, grazie agli strumenti del calcolo automatico, un modo nuovo di scandagliare le interazioni tra più caratteri compresenti nelle unità elementari di un insieme statistico, siano essi quantitativi o qualitativi: è la cosiddetta 'analisi statistica multivariata', oggi di gran voga anche in sociologia, dove lo schema bivariato apprestato dalla scuola biometrica trascura e confonde - quand'anche sia applicabile - fattori non trascurabili e dove si impone di considerare simultaneamente le relazioni tra più caratteri, senza alcun vincolo di modelli retti da ipotesi non sempre verificabili.
Ampio è il contesto fenomenico di siffatti metodi - dalla sociologia all'ecologia, alla psicologia, alla zoologia, all'archeologia - a cominciare dall''analisi dei fattori', ideata da C. Spearman (1904), che vide in essa una "rivoluzione copernicana" per tutto un settore della conoscenza sino allora rinchiuso nel ghetto delle discipline non quantitative. Sviluppata da L.C. Thurstone (1947), è oggi divenuta un metodo esplorativo che semplifica la complessità multicaratteriale dei fenomeni sociali, puntando a identificare, attraverso le relazioni multiverse di un gran numero di variabili, alcuni fattori soggiacenti (le 'variabili latenti'). Così anche l''analisi delle componenti principali', di largo impiego nell'indagine sociale, venuta dalle intuizioni di F. Galton (1888), F.Y. Edgeworth (1892), K. Pearson (1901) e dalle soluzioni di H. Hotelling (1933).
Ancora per sottrarre l'osservazione a ogni rigidità modellistica prefabbricata è andato più recentemente formandosi un corpo di dottrina, denominato 'analisi dei dati', dovuto a un'intuizione fisheriana ripresa e approfondita da J.P. Benzécri (1973): un metodo di esplorazione dei dati statistici di un insieme, inteso per se stesso, senza alcuna pretesa inferenziale. In quell'ambito, ha rilievo l''analisi delle corrispondenze' tra diverse tipologie classificatorie fondata sul confronto, al calcolatore, delle frequenze delle rispettive classi ordinali. Di particolare significato nelle scienze umane sono pure le tecniche per razionalizzare i criteri di classificazione, a cominciare da quella per la scelta della migliore riduzione in gruppi omogenei, detta, con espressione alla moda, 'analisi dei clusters': una tassonomia numerica che risale a un'idea di Karl Pearson, ma che ha avuto grande sviluppo nella seconda metà del XX secolo, a seguito dei moderni strumenti di calcolo automatico. Ai problemi di classificazione è rivolta pure l''analisi discriminante' (F. De Helguero, 1906; R.A. Fisher, 1936; C.R. Rao, 1952), una tecnica che interviene nell'attribuzione, a uno fra più gruppi multivariati e transvarianti, di ogni nuovo elemento individuale che si aggiunga all'osservato.
4. Statistica e leggi distributive: la variabilità e i suoi modelli
Che le disuguaglianze individuali possano conformarsi a leggi distributive è intuizione antica, resa efficacemente in questo passo di un celebre dialogo platonico, il Fedone: "Credi tu ci sia niente di più raro al mondo che trovare, per esempio, o un uomo o un cane o un altro essere qualsiasi estremamente grande o estremamente piccolo? E così che trovar cosa estremamente veloce o lenta, estremamente brutta o bella, estremamente bianca o nera? Non ti sei accorto che di tutte codeste qualità gli estremi dall'uno e dall'altro lato sono rari e pochi, e che invece le qualità intermedie sono abbondanti e molte?". In queste parole non c'è soltanto l'ovvia constatazione dell'immanente variabilità: c'è l'attenzione al fatto che i caratteri e le attitudini, le grandezze e gli attributi, tendono a differire tra i singoli secondo una legge.
Ventiquattro secoli più tardi, Adolphe Quételet, un astronomo intento a cercare un ordine naturale nelle forme e nelle vicende dell'uomo, in quanto essere biologico e in quanto essere sociale, darà veste matematica a quella remota intuizione. S'accorgerà, infatti, di sorprendenti analogie formali tra la variabilità di taluni caratteri antropometrici, classificati in distribuzioni di frequenze, e il modello distributivo degli errori strumentali di misura formalizzato da A. De Moivre (1733), K.F. Gauss (1809), P.S. Laplace (1812), F.W. Bessel (1838), e ben noto agli astronomi. (Questi erano soliti riassumere le replicate determinazioni strumentali di una medesima grandezza nella loro media aritmetica, secondo un criterio il cui fondamento razionale è nel 'principio dei minimi quadrati' dovuto a Gauss e Legendre, 1806). "La tabella è formata - scriveva Quételet (v., 1844, p. 55) con emozione - esattamente alla stessa maniera delle misure dell'ascensione retta della polare". Commenterà poi (v. Quételet, 1871, p. 18), ed è quasi una parafrasi del brano platonico: "Quelli di un'estrema piccolezza, come quelli di una grandezza estrema, sono assai rari e allontanandosi da questi punti estremi [...] il loro numero aumenta. La curva sotto la quale si raccolgono è della più grande regolarità". Se Adolphe Quételet ritrovava la curva degli errori nella distribuzione di frequenza dei perimetri toracici dei soldati dei reggimenti scozzesi, James Clerk Maxwell, adottando il medesimo criterio formale, vedeva conformarsi a quel modello la distribuzione delle velocità individuali in una popolazione di molecole gassose. "Sembra - queste le sue prudenti parole (v. Maxwell, 1860, p. 382) - [...] che le velocità molecolari siano distribuite fra le particelle secondo la stessa legge degli errori di osservazione nella teoria dei minimi quadrati".
Quel modello - la cosiddetta 'curva di Gauss' - è lo schema limite di riferimento nell'analisi della variabilità di caratteri quantitativi risultanti dall'assommarsi degli effetti di innumerevoli fattori di variabilità: l'inverarsi empirico di un teorema fondamentale della convergenza stocastica, il 'teorema centrale del limite'. Dove Adolphe Quételet vedeva le 'maladresses' di una natura intenta a realizzare l''uomo medio' (l'analogo sociale - nella visione queteletiana - del centro di gravità dei corpi), l'odierno biostatistico vede il risultato asintotico di una casualità naturale profonda: il concorso additivo di molteplici fattori indipendenti di variabilità, genetici e ambientali. Era dunque necessario ridurre, per astrazione classificatoria, la variabilità individuale nella forma della distribuzione di frequenza - da allora, uno dei più comuni ferri del mestiere statistico - così da rimuovere quello che Ronald A. Fisher avrebbe definito (1962) "[...] il più grande ostacolo al pensiero razionale [...], l'ostacolo della variabilità". Che Quételet interpretasse la variabilità di alcuni caratteri biometrici dei viventi come il risultato degli errori commessi dalla natura nel riprodurre il tipo immutabile della specie - una visione fissista e creazionista presto superata dall'avanzare delle conoscenze - nulla toglie alla portata metodologica del suo contributo. (Sembra essere questa, del resto, la sorte di tanta metodologia: anche la 'teoria della regressione' venne ideata per dimostrare una tesi scientificamente infondata, dalla quale la teoria prese il nome, stranamente rimasto).
Quell'incontro tra modello astratto e distribuzione empirica segna l'atto di nascita della statistica come metodo della ricerca sull'uomo - l'uomo naturale e l'uomo sociale - nel contesto della variabilità immanente. Una variabilità che, nel raccordo tra dato individuale e dato collettivo, andava a toccare l'eterna questione del libero arbitrio. Che Quételet affidava alla provvidenza empirica dei 'grandi numeri'. "Essa fa rientrare - questa la tesi - i fenomeni sociali, osservati per masse, nell'ordine del mondo fisico". Una 'fisica sociale', dunque. Sulle orme di una linea di ricerca tendente a ricondurre gli accadimenti della vita umana all'arte combinatoria suscitata dai giochi d'azzardo - da J. Bernoulli (1713) a P.S. Laplace (1814), ad A.A. Cournot (1843): quest'ultimo divide con Quételet, nelle storiografie, il merito di aver fondato su basi quantitative le scienze sociali -, Quételet (1835) aveva colto svariate regolarità nella cadenza di eventi demografici e sociali, oltre alla già nota sproporzione numerica tra i sessi nelle nascite umane, diventata quasi un menabò semantico nel divenire delle sintassi probabilistiche della statistica; altre serie dinamiche di eventi oscillanti intorno a costanti collettive insospettate sembravano rivelare le tracce di un arcano ordine collettivo. La cadenza degli eventi sociali (anche i delitti) appariva come regolata da un'urna segreta e immutabile, contenente in numeri assegnati le parti previste nel grande copione della commedia umana, che una misteriosa lotteria, affidata alle imperscrutabili bizzarrie del caso, assegnerebbe ai singoli. Dunque, un nuovo determinismo, un determinismo collettivo, che reggerebbe allo stesso modo natura e società, caratteri metrici e qualità morali dell'uomo.
Questa dell'unificazione concettuale di scienze naturali e scienze sociali all'ombra di un medesimo paradigma resta una tentazione seducente e ricorrente: dalla filosofia positivista di Comte a quella neopositivista del Wiener Kreis, e ad altro ancora. Si tramanda, di autore in autore, da Comte a Mill, da Spencer a Pareto, da Weber a Neurath, l'anelito all'unità del sapere. Auguste Comte (1830) propugnava una sociologia capace di cogliere "[...] le invariabili leggi naturali della società", John Stuart Mill (1843) esortava alla ricerca delle "[...] leggi empiriche del vivere sociale", Herbert Spencer (1870) puntava alla "[...] riduzione dei fenomeni sociali a relazioni di grandezza". Un'aspirazione che sempre ritorna: ancora Pareto (1916) non esitava a proporsi di "[...] costruire una sociologia sul modello della meccanica celeste". Più tardi, Bertrand Russell (1948) auspicava "[...] una scienza sociale [...] fondata su leggi valide per grandi numeri". Ma l'assunto ha un significato del tutto nuovo. Dai tempi di Quételet, di Comte, di Mill, il quadro scientifico di riferimento è profondamente cambiato. Alle regolarità dei grandi numeri si è ormai imparato a guardare in tutt'altro modo, nella consapevolezza che l''urna' dei fenomeni sociali non è preordinata e soprattutto non è immutabile e che la variabilità dei caratteri dell'uomo, come di qualunque specie vivente, ha tutt'altra genesi e tutt'altra funzione. Questa, delineata da Darwin in tutta la sua indeterminatezza evolutiva; quella, svelata da Mendel in tutta la sua casualità combinatoria.
Trattare di statistica applicata alle scienze sociali significa ripensare codesti intenti, discutere i problemi che li hanno suscitati. E non soltanto perché "chi non conosce la storia della propria scienza è destinato a ripercorrerla" (Santayana), ma anche e soprattutto perché quel passato conserva una sua indubbia attualità. È un fatto che si trascorre dalla fenomenologia naturale a quella economica e a quella sociologica, perdendo in valore nomico, in sistematicità teorica. Ed è proprio sul terreno sociale che tutti i tentativi di una 'scienza unificata', prima e dopo il fervido discutere del circolo viennese, hanno finito per arenarsi. Non tanto nell'economia, di per sé oggettiva e quantitativa, quanto nella sociologia, dove non è facile configurare un coerente assetto nomologico e dove entrano in gioco giudizi di valore che la sospingono inevitabilmente dall''essere' al 'dover essere'.
5. L''inferenza statistica' e il problema dell'induzione
L'interazione metodologica tra statistica naturalistica e statistica economico-sociale impronta pure il capitolo concettualmente più controverso della disciplina: l''induzione statistica'. Essa ricorre quando l'osservato è soltanto una parte dell'osservabile e si devono evincere, da quello, le proprietà di questo. Le informazioni tratte dall'osservato - e in quei limiti esaurienti - rappresentano così una parte circoscritta (in gergo: un 'campione') di un più ampio insieme, sia esso composto da una pluralità finita di elementi e quindi interamente percepibile e rilevabile, se non percepito e rilevato, o sia invece da assumere come un 'universo' categorico di riferimento, virtualmente illimitato. Il campione è una scelta di opportunità nella prima fattispecie, di necessità nella seconda.
È questo il contesto metodologico dell''inferenza statistica', ossia dei criteri e degli algoritmi per l'induzione delle proprietà statistiche di un insieme da quelle di un suo sottoinsieme. Se la conoscenza della realtà sociale, riferita a popolazioni finite, si è avvalsa a lungo di rilevazioni 'per totalità' - le grandi rilevazioni censuarie che rispecchiavano per lo più realtà statiche, cosicché i dati acquisiti potevano valere per un ampio tratto di tempo - non per questo era rimasta inavvertita l'esigenza di una più agile e immediata conoscenza delle realtà demografiche, economiche, sociali. Risalgono alla fine del XIX secolo i primi interrogativi coerenti sul valore conoscitivo di rilevazioni limitate a campioni assunti in ragione di una loro accertata rappresentatività: rilevazioni dalla validità induttiva strettamente subordinata alla scelta, sempre soggettiva, degli elementi campionari. Ma presto gli sviluppi teorici del calcolo delle probabilità - la più importante radice storica del metodo statistico, anch'essa venuta dal 'grande secolo' (v. Probabilità) - porteranno al riconoscimento del valore induttivo di campioni formati affidando alla pura casualità - ora assoluta, ora guidata da opportune stratificazioni delle popolazioni - l'individuazione dei costituenti il campione. Ancora un criterio oggettivo prestato dalla ricerca sperimentale (passata dallo studio dell'uniforme allo studio del variabile) all'indagine sociale (rivolta a collettività umane sempre più rapidamente mutevoli).
La possibilità di trarre la rappresentatività di un campione dalla essenziale casualità del criterio di individuazione dei suoi componenti - argomentata da A.L. Bowley (1923), matematizzata da Jerzy Neyman (1934) e arricchita poi dalle varie scuole metodologiche (rilevante il contributo di Leslie Kish, 1970) - diverrà l'assunto teorico portante della 'teoria dei campioni casuali'. Le proprietà statistiche di un campione casuale possono differire, e in generale differiscono, da quelle della 'popolazione' che è chiamato a rappresentare (e ciò per effetto dell''errore di campionamento': l'errore casuale intrinseco al procedimento), ma il metodo garantisce che tale differenza tende a essere tanto più improbabile quanto più è grande, e assegna le regole per valutarne l'errore medio; un errore che diminuisce con l'ampliarsi del campione. È questo il fondamento teorico di tutte le odierne rilevazioni campionarie in ambito economico, demografico, sociale, politico: dal 'controllo di qualità' alle 'analisi di mercato', ai 'sondaggi demoscopici', e alle tante rilevazioni periodiche pubbliche, quali ad esempio, in Italia, quelle sul costo della vita e sulle forze di lavoro. Il ricorso a indagini per campione è un'esigenza della società moderna, obbligata a conoscere, con tempestività e duttilità, realtà che si rinnovano.
Questo della statistica 'inferenziale' (o, come sarebbe più corretto dire, 'induttiva') è il corpo di dottrina più suggestivo e dibattuto del metodo statistico. Codificando i principî teorici, essenzialmente probabilistici, per indurre le proprietà statistiche (ignote) di un insieme da quelle (note) di un suo sottoinsieme interamente o parzialmente casuale, l'inferenza statistica va a toccare una delle questioni più controverse del pensiero filosofico: la 'giustificazione dell'induzione', ossia la ricerca di un fondamento razionale dell'abitudine a protendere al di là del conosciuto i dati dell'esperienza, a estendere a un tutto, determinato o indeterminato, le caratteristiche accertate in una parte di esso, anche minima. E qui comincia il distinguo tra le diverse linee di pensiero, dall'empirismo estremo all'estremo razionalismo. Esse trovano composizione nella formulazione bayesiana dell'inferenza induttiva, che gradua, in termini probabilistici, il valore delle conoscenze generali e quello dell'informazione campionaria (v. Probabilità).
La teoria statistica delle inferenze da campioni ritrova così - anzitutto nella 'teoria della stima' (stima dei parametri della popolazione attraverso le costanti del campione) - gli interrogativi sull'induzione sollevati da David Hume (1748), e dà al problema che fu definito 'lo scandalo della filosofia' una propria soluzione empirica. Quel problema perde infatti la sua tradizionale rigidità quando l'atto induttivo attiene a proprietà statistiche, a enunciati probabilistici. Il fondamento dell'induzione statistica è nell'immanente variabilità fenomenica e nella necessità di trarne, per il conoscere e per l'agire, espressioni sintetiche, leggi di tendenza, regolarità collettive. La generalizzazione di una proprietà statistica espressa dalla variabilità individuale - il balzo dal noto all'ignoto - ha infatti, per l'inerzialità empirica dei grandi numeri, più forza induttiva e più valore nomico della estensione di una proprietà individuale invariante (sempre esposta alla smentita dell'evento controfattuale); e l''induzione per enumerazione' non è più res puerilis, come nella logica di un sapere che enunci proprietà invarianti, eventi ripetitivi, uniformità deterministiche: è momento induttivo essenziale al rivelarsi delle leggi. Leggi statistiche, emergenti dalla pluralità diseguale.
L'immanenza della variabilità condiziona le stesse scienze sperimentali. Il metodo statistico vi interviene con concetti e strumenti in cui ritornano le 'sperienze' galileiane e le 'tabulae' baconiane. Scienza è sempre confronto tra ipotesi e dato, ma nei fenomeni espressi dalle disuguaglianze individuali, il raccordo metodico tra il dato e l'ipotesi impone di sottrarre il momento della prova al dubbio più insidioso per una ricerca calata nella variabilità: il sospetto, tanto più incombente quanto più esiguo è l'osservato, che l''errore di campionamento' ne tradisca le proprietà statistiche. È questa la ragion d'essere della teoria statistica per il controllo di un'ipotesi al vaglio dei dati empirici, introdotta nel primo trentennio del XX secolo dai continuatori della scuola biometrica, e soprattutto da R.A. Fisher, al quale si devono, fra l'altro, metodologie fondamentali, ove il modello teorico di riferimento è ancora la 'gaussiana': dalla 'teoria della significatività' (1922) alla 'teoria del piano degli esperimenti' (1935). Anche di questi strumenti intellettuali e formali hanno preso ad avvalersi le discipline economiche e sociologiche.
E proprio in tali ambiti hanno trovato una ragione empirica le metodologie inferenziali 'non parametriche'. Più lasche, ma per questo più adatte a fenomeni non assoggettabili a modelli formali e dove la misura, ove sia possibile, va intesa come indicazione di tendenza, come approssimazione di una qualità graduabile, non come l'espressione di un ordinamento metrico rigoroso dotato di additività e di proporzionalità. È da chiedersi, del resto, cosa significhi la precisione in certi contesti, ed è da ricordare che anche nelle cosiddette 'scienze dure' si conviene di riguardare talune misure come approssimazioni numeriche di un intervallo di indifferenza intrinseco alla definizione stessa di misura. Più che la caduta di un mito (il mito della certezza), il segno di un'accresciuta consapevolezza metodologica.
6. Variabilità statistica e scienze sociali
Le sintassi statistiche passano attraverso una varietà di campi semantici, e tuttavia si avverte ancora una certa carenza di scambi transdisciplinari: nei concetti, più che negli algoritmi. Se, nelle scienze della materia e della vita, la statistica è diventata la chiave interpretativa di tutta una realtà profonda, non altrettanto sembra essere avvenuto nelle scienze dell'uomo. Eppure, il fenomeno umano è di per sé collettivo, la realtà sociale è fatta di quelle che Einstein chiamava, in senso figurato, 'le moltitudini': esprime variabilità, ossia disuguaglianza tra gli individui. Il modus intellegendi statistico, che tanta parte ha avuto nella fisica del micromondo e nella biologia evoluzionistica, quale riscontro gnoseologico ha avuto nelle discipline sociali? E quale valore euristico ha assunto, in quei contesti, il modus operandi della statistica? Degli strumenti dell'indagine statistica le scienze sociali si avvalgono da tempo, sedotte dal facile uso dei programmi di calcolo automatico preconfezionati. La domanda è se l'appropriarsi degli strumenti non implichi la conoscenza dei principî da cui traggono origine e significato.
'Scienze sociali' è denominazione che copre un ampio arco culturale, assai differenziato al proprio interno, e si deve perciò distinguere. Attorno all'economia, scienza quantitativa capace di astrazioni, sono cresciute discipline statistiche altamente formalizzate, a cominciare dall'econometria; quell'econometria in cui Edmond Malinvaud (1993) vede "[...] anzitutto un metodo per il trattamento induttivo delle osservazioni, analogo a quello adottato nelle scienze naturali, per utilizzare i dati sperimentali" (v. Econometria). Le altre discipline sociali, se si eccettua in parte la demografia (v. Demografia) e certa psicologia, sembrano, da un lato, patire l'oggettiva difficoltà di darsi un linguaggio di tipo matematico (quasi che non possa darsi scienza in altro linguaggio e quasi che un ragionamento sia matematico solo se passa attraverso calcoli); e, dall'altro, appagarsi di un facile descrittivismo episodico, quando non di un oscuro verbalismo chiuso in se stesso. (Dice, beffardo, Mefistofele, nel celebre dialogo faustiano: "Proprio là dove mancano i concetti compare a tempo opportuno una parola").
Il fragile impianto teorico e il limitato grado di generalità induttiva hanno esposto le scienze sociali a ogni manicheismo filosofico: dallo scientismo positivistico all'idealismo antiscientifico. Le scienze sociali sono prima di tutto le scienze dell'agire umano, individuale e collettivo. Esse sono tutte attraversate dalla 'variabile uomo', nella sua complessità naturale e sociale. Una complessità che sembra opporsi a un assetto razionale delle conoscenze anche all'interno della scienza che del comportamento umano ha fatto l'oggetto della propria ricerca: la psicologia. Di lì muove l'interrogativo di B.F. Skinner (v., 1975; tr. it., p. 73): "Perché è tanto difficile trattare scientificamente del comportamento umano? Perché, in questo campo, sono miseramente falliti tutti i metodi che avevano riportato splendidi successi altrove? Forse che il comportamento umano oppone eccezionali ostacoli alla scienza?".
La scelta di Skinner è drastica: la rinuncia alla statistica, il rifiuto di osservare pluralità. Ignora così la variabilità individuale - come già aveva fatto, e con qualche ragione, Claude Bernard (1865) nel fondare la fisiologia come scienza sperimentale; indaga sul singolo, preferendo osservare - questo il suo assunto - "cento volte uno stesso soggetto piuttosto che cento soggetti una volta sola". Nulla quaestio. È ovvio che si può far scienza - e si fa scienza - su un solo soggetto come su cento soggetti: ma, nell'una e nell'altra fattispecie, scienza è nel generalizzare i risultati, nell'andare al di là dell'osservato. Non sussiste incompatibilità - anzi, v'è integrazione - tra l'indagare un soggetto e l'indagare una pluralità non invariante di soggetti, perché esistono leggi 'singolari' e leggi 'plurali'. Senza una siffatta consapevolezza, che le ha portate ad appagarsi di probabilità statistiche e di valori medi, intere scienze oggi all'avanguardia non sarebbero mai esistite.
Spostare l'oggetto dell'osservazione da un singolo individuo a un insieme di individui significa cambiare canone di lettura. Per aver saputo guardare agli insiemi di individui Charles Darwin (1859) ha rinnovato la biologia, dimostrando che è attraverso le popolazioni che le specie evolvono, ed evolvono more statistico, giocando con la variabilità individuale: una variabilità essenziale, dovuta a eventi combinatori e casuali di cui Gregor Mendel (1866) ha colto gli algoritmi; e sono algoritmi statistici. Ma è pur vero che la sintesi di una pluralità, anche la sua riduzione a un valor medio, che annulla la variabilità, pone problemi di interpretazione circa la natura della variabilità stessa. E certo sarcasmo di Claude Bernard sul significato di una media di grandezze non trasferibili contiene un preciso avvertimento: che la media non trae la sua unica ragione scientifica di essere da un principio formale, ma presuppone l'assunzione critica dei valori mediati.
Il problema del 'come' si misura non è estraneo al problema del 'cosa' si misura. E la misura per la misura, se può talora sembrare un passo avanti nelle conoscenze, può essere, e talvolta è, la goffa mascheratura di un'assenza di idee, cui nessun mezzo automatico di calcolo può sopperire. Il pericolo di un ricorso irrazionale ai metodi quantitativi, di un fraintendimento della logica e del metodo della statistica, è sempre incombente. E tanto più oggi, che i linguaggi informatici rendono ogni elaborazione più facile, più immediata. Sembra essersi diffusa l'opinione che basti raccogliere una qualche casistica, introdurla in un calcolatore, praticarvi un programma di calcolo, esibire un po' di coefficienti, per essere scienziati sociali. È così che si effettuano tante analisi multivariate, suscitando reazioni non sempre immotivate contro gli 'eccessi del quantitativo'.
Scienza è sviluppo di ipotesi, è lotta col dubbio. Non è un semplice raccoglier dati, da cui trarre, come per magia, mediante regole formali, statistiche e non statistiche, una qualche trascendente verità. Una qualunque costante statistica - un indice di correlazione, ad esempio, in cui si può vedere una matematizzazione del canone milliano delle 'variazioni concomitanti' - è sempre e soltanto la misura di uno stato di fatto. Può suggerire un'ipotesi, avvalorare una tesi, contraddire una teoria; ma in quanto sia illuminata dallo spirito critico. La trappola delle fallacie logiche è sempre pronta a scattare. Con opportuna ironia è stato detto che calcolando automaticamente concordanze statistiche sui gemelli umani monozigoti si giungerebbe ad annoverare gli indumenti fra i caratteri trasmessi per via genetica. Ed è sempre attuale la storiella ottocentesca messa in giro da Thomas H. Huxley, secondo la quale doveva sussistere una relazione lineare di proporzionalità, nelle contee inglesi, tra la quantità di latte prodotto e il numero delle donne nubili, perché le mucche fanno molto latte se possono cibarsi di trifoglio, pianta impollinata dai bombi, dei cui nidi sono ghiottissimi i topi campagnoli, predati a loro volta dai gatti; e questi sono notoriamente protetti dalle zitelle....
È sempre un'idea a dare significato a un dato, coerenza a un calcolo, contenuto a uno schema formale. Ne è prova l'avventura scientifica di Francis Galton, il fondatore della scuola biometrica, giustamente annoverato tra i pionieri degli studi sulla correlazione e di quelli sul comportamento umano. Nel salto dalla metodologia alla fenomenologia, dalle covarianze statistiche alle determinanti fenomeniche, Galton incorse infatti in una fallacia logica, a proposito di una questione che va dalla biologia alla sociologia e alla psicologia: la questione, antica e nuova, dell'intreccio (e del distinguo) di fattori ereditari e di fattori ambientali. Come intendeva le correlazioni positive tra le dimensioni corporee di padri e figli alla stregua di prove dirette di un'eredità biologica (ma quelle covarianze avrebbero potuto provare anche la tesi opposta), così Galton (1889) vedeva nel concordare della collocazione sociale di ascendenti e discendenti un indizio di trasmissione ereditaria delle capacità, delle attitudini. Il genoma allora, prima e più che le condizioni al contorno, farebbe del figlio del barcaiolo un futuro barcaiolo e del figlio del re un futuro re? Ancora la sovrapposizione di due ordini di fattori, genetici e ambientali o, per dirla con Galton, di nature e nurture. Ancora la necessità di separare gli effetti di variabili che si confondono. Che è il problema dei problemi della ricerca sociale.
7. Statistica come canone di lettura
Nel sociale giocano componenti non sempre facilmente riducibili a paradigmi scientifici preesistenti. E non si può certo pretendere di trapiantare, sic et simpliciter, nelle scienze dell'uomo gli schemi concettuali della genetica o della termodinamica, nell'illusione di una facile sintesi interdisciplinare che ha senso solo se è confronto critico di modelli, di concetti; e tuttavia alcuni paradigmi naturalistici possono valere come schemi di riferimento (v. Simulazione, modelli di). Ogni società ha un suo assetto demografico, ogni assetto demografico ha una sua storia, naturale e sociale. Come una popolazione - che è il soggetto dell'evoluzione - cambia per il cambiare delle frequenze genotipiche, anche in ragione dell'idoneità adattativa degli individui e dei gruppi, così nel divenire sociale altri fattori si sovrappongono e fanno dell'umano una complessa intersezione di variabili naturali e non naturali. Sono l'etologia e la sociobiologia a ricordare che nelle azioni di un vivente si rivela anche il messaggio codificato nell'alfabeto degli acidi nucleici; ma le componenti extragenetiche sono tutt'altro che trascurabili. Ancora una volta le scienze naturali, con il distinguo tra 'genotipo' e 'fenotipo', offrono un paradigma di riferimento e fanno intendere la sterilità delle posizioni estreme: del 'genetismo' radicale come del radicale 'ambientalismo'.
Si parla, a questo proposito, di 'complessità del sociale', del conseguente 'ritardo storico' delle scienze sociali, dell'esigenza di una 'riduzione della complessità'. In questo senso, tutta una metodologia statistica è avanzata andando oltre i tradizionali schemi di correlazione, per trattare simultaneamente numerose variabili attraverso gli strumenti automatici di calcolo, così da ridurle, compattandole, ad alcune essenziali coordinate. Se l'osservare pluralità, sempre necessario per la conoscenza del fenomeno sociale, è diventato altrettanto necessario per la conoscenza dei fenomeni della natura, sembra lecito domandarsi quali idee possa suggerire alla ricerca sociale, intesa come ricerca dell'essere, la nuova filosofia naturale. Un interrogativo che risale a Herbert Spencer (1876), al suo rifarsi al paradigma darwiniano in un ardito tentativo di sintesi tra l'uomo naturale e l'uomo sociale; donde il 'darwinismo sociale': un tragico fraintendimento storicistico. A Spencer era sfuggita infatti l'essenza accidentalistica dell'evoluzione biologica, la sua natura profonda, non deterministica e non finalistica. Evoluzione altro non è che cambiamento delle frequenze statistiche di alleli e genotipi, nel giuoco alterno di caso e necessità, lungo le generazioni. Ne è prova la struttura probabilistica della genetica di popolazioni.
È difficile scorgere l'equazione in cui potrebbe essere scritto un possibile 'teorema fondamentale' della dinamica delle società, una sorta di legge statistica del mutevole trascorrere degli elementi sociali attraverso le generazioni. Non sono tuttavia da trascurare alcuni suggestivi spunti culturali diretti a una visione unitaria, o almeno interdisciplinare, di tutti i fenomeni naturali e sociali che si trasformano nel tempo: dalle aperture di Ervin Laszlo (1985) verso "[...] una teoria sistemica generale dell'evoluzione che valga tanto per gli atomi e le molecole del cosmo quanto per gli organismi viventi e le società umane della biosfera" alle teorie di Ilya Prigogine (1978) sui "sistemi lontani dall'equilibrio" entro "una storia intessuta dalla necessità delle leggi e dalla casualità delle fluttuazioni": una storia di sistemi che divengono su di una scala plurivoca di possibilità, tra momenti eversivi e momenti autocorrettivi, attuando e superando la complessità; una complessità ove l'accidentalità del singolo evento diventa essenziale all'irreversibilità dei processi. Ciò che invita alla ricerca delle regole del gioco comuni ai diversi modelli evolutivi. Delle regole e dei linguaggi. Forse non ha soltanto un significato episodico che il concetto di 'deriva genetica' - un evento biologico dovuto all'erraticità statistica dei piccoli numeri - abbia suggerito quello di 'deriva sociale', in un'immagine dell'evoluzione culturale ripresa dall'evoluzione naturale, al punto che l'insorgere, in quella, di una nuova idea viene intesa alla stregua dell'insorgere, in questa, di una mutazione. Certo, la trasmissione delle 'informazioni' di generazione in generazione risponde a processi assai differenti, ma qualche analogia modellistica è sempre possibile (nella prospettiva delineata da Luca Cavalli-Sforza, 1971).
Se Laszlo intende l'evoluzione biologica e l'evoluzione sociale quali "[...] aspetti di uno stesso processo fondamentale", Prigogine vede nelle equazioni che governano lo sviluppo delle popolazioni biologiche una "[...] nuova interdisciplinarità tra le scienze della natura e le scienze umane". Ipotesi suggestive. Non v'è dubbio che in qualche misura il paradigma evoluzionistico offra uno schema concettuale di riferimento alle scienze dell'uomo, in "stretta analogia - così Prigogine - con la cinetica chimica". Ma, nella vicenda sociale, le relazioni interindividuali (la comunicazione, la suggestione) insidiano ogni preteso equilibrio, in cui non sempre è da vedersi l'effetto d'insieme del comporsi stocastico di ineguaglianze individuali, ma piuttosto la conseguenza dell'uniformarsi delle azioni dei singoli. Quasi il tendenziale livellarsi delle velocità nella cinetica molecolare, ma con una differenza essenziale: nella termodinamica (quella termodinamica che Prigogine vede aperta - e così la chimica dei processi - all'incontro con le scienze umane) l'esito più probabile è assenza di movimento, è disordine entropico, è stasi; nella società, l'esito più probabile può essere invece una maggior dinamica, un movimento orientato e diretto. La risultante univoca collettiva non viene allora dal concorso di tante plurivocità individuali: è spesso la somma di tante univocità parallele, appagate dall'adeguarsi a simboli comuni, a comuni obiettivi. Che possono anche scaturire da una sorta di liberazione improvvisa dell'inconscio individuale, del suo farsi collettivo. E le stesse componenti casuali possono avere un effetto ora convergente ora divergente. I sommovimenti sociali, ad esempio, o anche soltanto le fluttuazioni di un mercato finanziario, non sembrano facilmente riconducibili ai teoremi che reggono tanta fenomenologia fisica e non fisica.
La mutuazione di paradigmi, sempre opportuna, può essere allora fuorviante. Anche perché, nel contesto umano, i quadri etici di riferimento - sempre incombenti sulle immagini scientifiche del mondo - sono quanto mai coinvolgenti, e all'analisi dell'essere spesso si sovrappone la postulazione di un dover essere. Scriveva Pareto (v., 1916, p. 76): "Si possono facilmente considerare con l'indifferenza scettica della scienza sperimentale le formiche; è molto più difficile considerare allo stesso modo gli uomini". Tuttavia, l'avvicinarsi e il confrontarsi, nell'intreccio evoluzionistico di natura e storia, delle ricerche sull'individuo naturale e sull'individuo sociale lasciano intravedere le premesse di una possibile ϰοινή metodologica sul tema dell'uomo, capace di superare certa voluta incomunicabilità tra gli addetti ai diversi settori del pensiero. Essi sono storicamente passati da fasi di forte attrazione a fasi di sdegnosa repulsione, alla maniera - anche questo è un modello - dei porcospini di Schopenhauer, sospinti dal freddo ad accostarsi l'un l'altro, ma subito costretti ad allontanarsi per non pungersi a vicenda e perciò condannati all'eterna ricerca di un equilibrio impossibile.
Superato il tradizionale steccato tra natura e storia, tra scienze della materia e scienze della vita, il paradigma statistico sembra apprestare i fondamenti di una intersezione metodologica tra le scienze positive. Il sogno di Laplace, di Condorcet, di Quételet, di Spencer, di Pareto, di Weber, di Neurath, di Carnap che ancora ritorna. Eppure, certe scienze sociali - che tanto s'avvalgono, e tanto disinvoltamente, di non pochi strumenti formali della statistica - appaiono adesso più incerte. Quasi che il tramonto del determinismo classico ne abbia ridotta l'aspirazione scientifica, spingendole in una crisi d'identità in cui sembra esprimersi il rimpianto di un paradigma perduto.
Se la filosofia naturale ispirata al modello meccanicistico e retta da leggi quantitative assolute e inderogabili escludeva dal sapere scientifico le discipline sociali - e queste le avevano tentate tutte pur di imitare quella gnoseologia - la scienza che ha sciolto i lacci del più rigido determinismo sembra andare metodologicamente incontro alla ricerca sull'uomo: una scienza naturale in cui è entrato il tempo, il tempo del divenire; una scienza di pluralità discrete, di cui si possono addurre solo le proprietà statistiche e prevedere, non i singoli eventi, bensì le loro probabilità. Ed è tutto ciò che questa scienza può offrire.
(V. anche Metodo e tecniche nelle scienze sociali; Previsione; Probabilità; Scienze sociali; Simulazione, modelli di).
Benzécri, J.P., L'analyse des données, t. II, L'analyse des correspondences, Paris 1973.
Blalock, H.M., Social statistic, New York 1979 (tr. it.: Statistica per la ricerca sociale, Bologna 1969).
Boltzmann, L., Vorlesungen über Gastheorie, Leipzig 1895.
Bowley, A.L., The precision of measurements estimated from samples, in "Metron", 1923, n. 2-3.
Castellano, V. (a cura di), La statistica come metodologia delle scienze sociali, Roma 1967.
Cavalli-Sforza, L.L., Similarities and dissimilarities of sociocultural and biological evolution, in Mathematics in the archaeological and historical sciences, Edinburgh 1971.
Dagum, C., A new model of personal income distribution: specification and estimation, in "Économie appliquée", 1977, XXX, 3.
De Helguero, F., Per la risoluzione delle curve dimorfiche, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1906; rist. in Scritti vari, Padova 1922.
Einstein, A., Infeld, L., The evolution of physics, Princeton, N.J., 1951 (tr. it.: L'evoluzione della fisica, Torino 1953).
Fisher, R.A., On the mathematical foundations of theoretical statistics, in "Philosophical transactions of the Royal Society of London", 1922, CCXXII.
Fisher, R.A., Theory of statistical estimation, in "Proceedings of the Cambridge Philosophical Society", 1925, XXII.
Fisher, R.A., Statistical methods for research workers, Edinburgh 1944 (tr. it.: Metodi statistici ad uso dei ricercatori, Torino 1948).
Fisher, R.A., The design of experiments, Edinburgh 1935.
Fisher, R.A., The use of multiple measurements in taxonomic problems, in "Annals of eugenics", 1936, VII.
Fisher, R.A., Uncertain inference, in "Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences", 1936, LXXI.
Fisher, R.A., Statistical methods and scientific induction, in "Journal of the Royal Statistic Society", B, 1955, XVII.
Fisher, R.A., La probabilità matematica nelle scienze naturali, in "La scuola in azione", 1962, XX.
Gini, C., Sulla misura della concentrazione e della variabilità dei caratteri, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, LXXIII, Padova 1914.
Gini, C., Intorno alle basi logiche e alla portata gnoseologica del metodo statistico, in "Statistica", 1946, nn. 1-4.
Hahn, H., Neurath, O., Carnap, R., Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis, Wien 1929 (tr. it.: La concezione scientifica del mondo. Il Circolo di Vienna, Roma-Bari 1979).
Hotelling, H., Analysis of a complex of statistical variables into principal components, in "Journal of psychology", 1933, XXIV.
Kendall, M.G., Statistics: theory and practice, London 1984.
Kish, L., Survey sampling, New York 1965.
Kotz, J., Johnson, N.L. (a cura di), Encyclopedia of statistical sciences, 9 voll., New York 1982-1988.
Laszlo, E., Evolution, New York 1985 (tr. it.: Evoluzione, Milano 1986).
Lazarsfeld, P.F., Mathematical thinking in the social sciences, New York 1969.
Lorenz, M.O., Methods for measuring concentration of wealth, in "Journal of the American Statistical Association", 1905, LXX.
Maxwell, J.C., Illustration of the dynamical theory of gases (1860), in The scientific paper of James Clerk Maxwell, vol.I, Cambridge 1890.
Neyman, J., On the two different aspects of the representative method: the method of stratified sampling and the method of purposive selection, in "Journal of the Royal Statistical Society", 1934, XCVII.
Pareto, V., Cours d'économie politique, libro II, Lausanne 1896 (tr. it.: Corso d'economia politica, Torino 1949).
Pareto, V., Trattato di sociologia generale, Firenze 1916; nuova ed., Milano 1964.
Poincaré, H., Science et méthode, Paris 1914 (tr. it.: Scienza e metodo, Torino 1997).
Prigogine, I., Non-equilibrium statistical mechanics, New York 1962.
Prigogine, I., From being to becoming. Time and complexity in the physical sciences, New York 1978 (tr. it.: Dall'essere al divenire. Tempo e complessità nelle scienze fisiche, Torino 1986).
Prigogine, I., Stengers, I., La nouvelle alliance, Paris 1979 (tr. it.: La nuova alleanza, Torino 1981).
Quételet, A.L., Sur l'homme et sur le développement de ses facultés. Essai de physique sociale, Bruxelles 1835.
Quételet, A.L., Recherches statistiques, Bruxelles 1844.
Quételet, A.L.,Lettres sur la théorie des probabilités appliquées aux sciences morales et politiques, Bruxelles 1846.
Quételet, A.L., Physique sociale, t. I, Bruxelles-Paris-Saint-Pétersbourg 1869.
Quételet, A.L., Anthropométrie, Bruxelles-Leipzig-Gand 1871.
Rao, C.R., The use and interpretation of principal component analysis in applied research, in "Sankhya", 1964, XXVI.
Russell, B., The scientific outlook, London 1931 (tr. it.: La visione scientifica del mondo, Bari 1934).
Russell, B., Human knowledge. Its scope and limits, New York 1948 (tr. it.: La conoscenza umana. Le sue possibilità e i suoi limiti, Milano 1963).
Scardovi, I., Statistica come metodologia delle scienze naturali, Centro linceo interdisciplinare di Scienze matematiche, quaderno n. 37, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1977.
Scardovi, I., Fondements statistiques des sciences sociales, in "Epistemologia", 1982, V (n. speciale).
Skinner, B.F. e altri, Problems of scientific revolution, progress and obstacles in the sciences, London 1975 (tr. it.: Lo scosceso e difficile sentiero delle scienze del comportamento, in Rivoluzioni scientifiche e rivoluzioni ideologiche, a cura di R. Harré, Roma 1977).
Spearman, C., The proof and measurement of association between two things, in "American journal of psychology", 1904, XV.
Theil, H., Economics and information theory, Amsterdam 1967.
Thurstone, L.L., Multiple factor analysis, Chicago 1947.
Volterra, V., Sui tentativi di applicazione delle matematiche alle scienze biologiche e sociali, in "Archivio di fisiologia", 1906, III.
Yule, G.U., Kendall, M.G., An introduction to the theory of statistics, London 1965.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1993)
Su quali siano l'oggetto e il metodo dell'economia, esistono oggi e sono esistite in passato opinioni diverse. Per questo non cercheremo di fornire una definizione esatta di questo campo di studi, ma piuttosto di delineare in estrema sintesi le concezioni che si sono succedute nel tempo e quelle che sono presenti nel dibattito di oggi. Prima di imboccare questo sentiero, tuttavia, proveremo a fornire alcune indicazioni generali sul campo di lavoro degli economisti e sui suoi rapporti con le altre scienze. Gli economisti hanno di fronte una realtà complessa e in continuo movimento. Da questa isolano alcuni aspetti che assumono a oggetto del loro lavoro d'analisi; quindi procedono alla costruzione di teorie, introducendo ipotesi semplificatrici per isolare quelli che ritengono i principali elementi del problema che intendono affrontare. Le differenze tra i vari approcci dipendono dalle scelte compiute in questo processo di astrazione, e particolarmente da quelle compiute nella sua prima fase.Possiamo distinguere per quest'aspetto due impostazioni di fondo, radicalmente diverse, sulle quali torneremo in dettaglio più avanti: l'impostazione degli economisti classici e quella degli economisti marginalisti. Secondo la concezione classica, prevalente nel periodo della nascita dell'economia come scienza e fino alla seconda metà dell'Ottocento, l'economia politica riguarda l'organizzazione di una società caratterizzata dalla divisione del lavoro e dallo scambio di merci tramite il mercato; si tratta quindi di una scienza sociale, che studia questioni quali la distribuzione del reddito o il ritmo di accumulazione del capitale. Secondo la concezione marginalista, affermatasi a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, il problema economico coincide con quello del calcolo razionale: come ottenere il massimo risultato in presenza di un dato ammontare di risorse disponibili; si tratta quindi di un problema logico, in quanto tale suscettibile di trattazione matematica (come problema di massimo - o minimo - vincolato), e che come tutti i ragionamenti assiomatici risulta 'astorico', nel senso che la struttura dell'analisi - il complesso delle cosiddette leggi economiche, o più precisamente dei teoremi di base - non cambia quando ci si riferisca a società lontane fra loro nel tempo e nello spazio e radicalmente diverse fra loro quanto ad assetto istituzionale.
L'economista austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950) distingueva tre fasi principali nel lavoro dell'economista: la fase della 'visione preanalitica', che suggerisce i problemi da studiare e, almeno nelle grandi linee, il modo in cui iniziare ad affrontarli; la fase della 'concettualizzazione', in cui si tenta di 'razionalizzare' la complessa realtà che ci si trova di fronte creando categorie mentali che permettono di eliminare dalla scena - di astrarre da - gli aspetti secondari, concentrando l'attenzione sulle caratteristiche distintive considerate più rilevanti (come accade, appunto, con i concetti di salario, rendita, profitto); infine, la fase della 'teorizzazione' vera e propria, in cui si collegano in strutture logiche - in modelli - gli elementi identificati nella fase precedente.
Le differenze tra approcci economici come quello classico e quello marginalista cui si accennava sopra vengono spesso discusse considerando solo l'ultima delle tre fasi di lavoro di cui parla Schumpeter, cioè i modelli teorici che costituiscono il risultato ultimo della ricerca economica; in realtà, tuttavia, queste differenze dipendono principalmente dal procedimento di astrazione-concettualizzazione, cioè dalla prima delle due fasi, e possono essere identificate in modo più preciso confrontando le diverse concezioni del problema economico e il diverso 'contenuto' dei concetti utilizzati.
Il rapporto tra l'economia e le altre scienze sociali, e in particolare tra economia e storia, si pone in modo diverso a seconda di come viene concepita l'economia. Consideriamo ad esempio la semplice dicotomia tra impostazione classica e impostazione marginalista proposta sopra, cioè tra la concezione dell'economia come scienza sociale e storicamente determinata, e la concezione dell'economia come scienza assiomatica del comportamento razionale. Vediamo subito che nel primo caso tutta la struttura teorica - la base concettuale prima ancora che i sistemi di modelli analitici - va sviluppata e modificata nel tempo in una continua interazione tra ricerca economica e ricerca storica. Nel secondo caso, invece, quelli che mutano nel tempo sono considerati dati esogeni del problema economico: la tecnologia, le preferenze del consumatore, o altri più specifici vincoli al funzionamento del mercato, che l'economista marginalista assume come dati il cui studio è demandato a campi di ricerca separati da quello dell'economia, mentre la struttura del problema economico permane invariata nel tempo. Allo stesso modo, la concezione dell'economia come studio dei fattori che determinano l'evoluzione nel tempo della divisione del lavoro e le sue conseguenze (principalmente in termini di accumulazione, occupazione, distribuzione del reddito) implica una stretta interrelazione tra il lavoro dell'economista e quello, ad esempio, del sociologo che analizza l'evolversi della struttura sociale. Viceversa, la concezione dell'economia come scienza del comportamento razionale - ogni soggetto è un homo œconomicus che fonda ogni sua azione su un calcolo razionale - implica l'esclusione dal campo dell'economia di problemi quali il contrasto tra passioni e interessi nel determinare la condotta umana di cui tanto si è discusso dal XVI al XVIII secolo (v. ad es. Hirschman 1977), mentre le determinanti delle preferenze del consumatore, ad esempio, vengono considerate come problema di pertinenza della psicologia sociale, il cui campo d'analisi viene nettamente distinto da quello dell'economia.Un rapporto di condizionamento reciproco può essere infine individuato fra diritto ed economia. Sul piano dell'analisi è bene ricordare che il fondatore dell'economia moderna, Adam Smith, si è occupato sistematicamente di diritto e che, per un altro verso, il sociologo Max Weber si è occupato, sia pure marginalmente, oltre che di economia, anche di diritto. Se ci poniamo dal punto di vista dello sviluppo economico, possiamo rilevare che le stesse innovazioni tecnologiche sono talvolta favorite e talvolta contrastate dal sistema giuridico, e che quest'ultimo muta nel tempo anche per effetto di impulsi generati dalle innovazioni tecnologiche: basti pensare all'elettricità, all'automobile, all'aeroplano, all'elettronica. Sui problemi dell'oggetto e del metodo dell'economia e del suo rapporto con le altre scienze sociali avremo più volte occasione di tornare nel seguito, esaminando lo sviluppo del pensiero economico. Qui ci limitiamo a sottolineare che l'economia, come tutte le scienze che studiano la società, è storicamente condizionata, giacché la società stessa cambia in modo irreversibile nel tempo storico: le scienze sociali vanno viste come cerchi che in parte si sovrappongono e che si muovono tutti nella storia.
b) La nascita dell'economia politica: William Petty
Un punto di svolta fondamentale è costituito dalla nascita e dal consolidarsi, attorno al XV-XVI secolo, degli Stati nazionali, i quali vengono posti al centro della riflessione degli scienziati sociali; a essi corrisponderà, in campo economico, la nozione di sistema economico che fin dal XVI secolo costituisce un concetto-base per la nascente scienza dell'economia politica. In breve: ai tempi dell'antica Grecia e di Roma gli scambi sul mercato sono massimamente irregolari; poi, via via, diventano meno irregolari; ma è solo nel secolo XVII che cominciano ad assumere caratteristiche di relativa regolarità e uniformità, dopo i cambiamenti politici che si sono affermati nei secoli XV, XVI e XVII. Nello stesso periodo, cambiamenti decisivi si verificano anche nel campo delle scienze naturali, nelle quali si afferma l'idea che compito dello scienziato è quello di 'scoprire', al di sotto della superficie complessa e variegata dei fenomeni sperimentati dai nostri sensi, le 'leggi' - cioè relazioni quantitative precise e invariabili - che costituiscono l'intelaiatura del mondo naturale. La ricerca di leggi quantitative corrisponde, nel pensiero di Hobbes (1588-1679), a una concezione materialistico-meccanica dell'uomo e del mondo: il metodo d'indagine - la logica delle quantità (logica sive computatio, come dice Hobbes) - corrisponde alla natura stessa dell'oggetto indagato. A parere di vari studiosi dell'epoca, la perfezione matematica delle leggi naturali è sanzionata dal fatto che in essa si rispecchia la mano del Creatore. Caratteristica in questo senso è l'affermazione di Galileo (1564-1642), secondo il quale "questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo) [...] è scritto [da Dio] in lingua matematica" (cfr. G. Galilei, Il saggiatore, 1623, in Opere, 1890-1909, a cura di A. Favaro, vol. VI, Firenze 1896, p.232). Così fra il XVII e il XVIII secolo la vecchia fisica e la vecchia chimica intese come descrizione delle qualità sensibili degli oggetti lasciano il campo alla scienza moderna di Newton (1642-1727) e Lavoisier (1743-1794). Il metodo induttivo baconiano, fusione di empirismo e razionalismo, è ripreso alla metà del XVII secolo dai fondatori della Royal Society inglese, fra i quali appare una figura chiave per la nascita dell'economia politica, William Petty (1623-1687).
Fra gli autori che, nel XVI e XVII secolo, affrontano questioni economiche, sono ancora numerosi quelli che ne discutono considerandole innanzitutto un problema morale, come accade negli innumerevoli trattati sull'usura pubblicati in quel periodo. Ma sono molti anche quanti, sulla scia di Machiavelli (1469-1527), indirizzano le loro opere ai sovrani consigliandoli su come mantenere e accrescere la potenza economica dei loro Stati: i cosiddetti cameralisti, spesso osservatori intelligenti della realtà in cui operano, ma nel complesso non molto sensibili a quella esigenza di sistematicità che costituisce un requisito fondamentale della scienza moderna. Di frequente i cameralisti vengono inclusi, assieme a vari altri autori di scritti sull'economia del periodo che va dal XVI alla seconda metà del XVIII secolo, sotto l'etichetta di mercantilisti (un'etichetta che in realtà vari storici del pensiero economico considerano troppo generica, riferita ad autori molto diversi l'uno dall'altro). Il termine 'mercantilisti' designa tradizionalmente i fautori di uno Stato interventista, in particolare attraverso dazi sul commercio e divieti alle importazioni, al fine di assicurare una bilancia commerciale attiva e quindi l'afflusso di metalli preziosi, ma anche al fine di favorire lo sviluppo delle manifatture nazionali proteggendole dalla concorrenza estera.Lo spirito 'laico' di Niccolò Machiavelli e dei cameralisti - per fare solo due esempi che illustrano la nuova concezione del mondo che comincia ad affermarsi - si fonde con la nuova metodologia scientifica dell'induttivismo baconiano e con la concezione materialistico-meccanica di Hobbes nel caso di William Petty, il fondatore dell' 'aritmetica politica'. "Il metodo che intendo seguire è tuttora inconsueto: invece di usare solo comparativi e superlativi, e argomenti intellettuali, ho deciso di esprimermi in termini di numero, peso e misura (come esempio dell'aritmetica politica che ho tanto perseguito); di usare solo argomenti fondati sulla sensazione, e di considerare unicamente quelle cause che hanno fondamenta visibili nella Natura; lasciando quelle che dipendono dalle mutevoli menti, opinioni, appetiti e passioni di singoli uomini, alla considerazione di altri." (v. Petty 1963, p.244).
L'aritmetica politica, come si vede, si contrappone al metodo logico-deduttivo proprio della Scolastica: Petty non intende semplicemente rilevare e descrivere la realtà "in termini di numero, peso e misura", ma piuttosto sceglie di esprimersi in quei termini nel tentativo di interpretare la realtà individuandone le caratteristiche principali. In questo senso, e per il suo contributo alla formazione del sistema dei concetti (prezzo naturale, merce e mercato, sovrappiù, ecc.) che costituiscono le fondamenta della scienza economica, Petty può essere considerato - come afferma Marx - il fondatore dell'economia politica. Prima di Adam Smith, al quale spesso viene attribuito questo ruolo, dobbiamo ancora ricordare almeno François Quesnay, medico di Madame de Pompadour e fondatore della scuola dei fisiocrati, come più tardi furono chiamati i suoi seguaci (allora noti come les économistes): sostenitori dell'esistenza di un 'ordine naturale' che, pur non implicando un rifiuto assoluto dell'intervento dello Stato nell'economia, avrebbe dovuto comportare una maggiore libertà da vincoli per gli sviluppi spontanei dell'economia. Quesnay (1694-1774) fornisce, con i suoi celebri Tableaux économiques, una rappresentazione analitica del funzionamento del sistema economico, come società divisa in classi sociali tra le quali ha luogo un circuito di scambi che realizza contemporaneamente la distribuzione del reddito tra le diverse classi e la condizione per il ripetersi regolare del processo produttivo: l'attività economica è concepita come un 'flusso circolare' di produzione e di scambio, una concezione che caratterizzerà tutta l'economia politica classica fino a Marx e che, come vedremo, è stata riproposta in epoca recente da Piero Sraffa.
c) L'economia politica classica: Adam Smith
Adam Smith (1723-1790) non può essere considerato il fondatore dell'economia politica, ma è comunque assai più di un semplice sistematizzatore di teorie sviluppate dai suoi predecessori. A lui infatti dobbiamo una visione moderna dei compiti e del metodo dell'economia politica, e alcuni importanti contributi analitici attuali per vari aspetti ancora oggi.Il problema al centro della riflessione di Smith è quello della divisione del lavoro: come può funzionare (sopravvivere e prosperare) una società basata sulla divisione del lavoro? Nell'affrontare questo problema Smith raccoglie in un sistema teorico ben strutturato varie linee d'analisi proposte e sviluppate da autori precedenti. Così Smith riprende dai fisiocrati la concezione di produzione, distribuzione e consumo del reddito come processo circolare; e dal filone dell'illuminismo sociologico scozzese una visione della società in cui 'passioni' e 'interessi' si intrecciano e possono integrarsi, anziché entrare necessariamente in conflitto; e su queste basi sviluppa la sua teoria della 'natura e cause della ricchezza delle nazioni', basata sul legame tra sviluppo della divisione del lavoro e allargamento degli scambi di mercato.
Vediamo meglio, sia pur solo per brevi cenni, i principali aspetti di questo sistema teorico, esposto da Smith in un ampio trattato organico di economia politica, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), che costituirà la base dei successivi sviluppi dell'economia politica classica fino a Marx. Innanzitutto, come si è appena accennato, l'approccio classico rappresenta il funzionamento del sistema economico come un processo circolare (o, meglio ancora, a spirale). All'inizio del processo produttivo abbiamo determinate quantità di varie merci, che vengono utilizzate come mezzi di produzione e come mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel processo produttivo. Al termine del processo produttivo otteniamo un prodotto che è costituito dalle stesse merci, anche se in quantità diverse. Possiamo dire che il sistema produttivo è 'vitale' se la quantità prodotta di ogni merce è eguale o superiore alla quantità della stessa merce che era stata utilizzata nei vari settori come mezzo di produzione o di sussistenza. Il sovrappiù (un concetto centrale nelle analisi della scuola classica, prima e dopo Smith) è costituito dall'eccesso del prodotto rispetto alle quantità utilizzate nel processo produttivo; il sovrappiù è quindi composto di varie merci.In un sistema economico basato sulla divisione del lavoro, il prodotto delle imprese appartenenti a ciascun settore non corrisponde al fabbisogno di mezzi di produzione del settore stesso (inclusi i mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel settore); perciò ciascun settore preso isolatamente non è in grado di continuare la propria attività, ma deve entrare in contatto con gli altri settori dell'economia per ottenere da essi i propri mezzi di produzione in cambio di una parte almeno del proprio prodotto. Si ha così quella rete di scambi che caratterizza le economie 'di mercato'.
I rapporti di scambio tra i vari settori, e quindi tra le varie merci, sono vincolati dalla necessità di permettere la 'riproduzione' del sistema: ogni settore deve ottenere, grazie alla cessione dei propri prodotti, almeno i mezzi di produzione e di sussistenza necessari per continuare il processo produttivo. Ma, data l'esistenza del sovrappiù, questa condizione da sola non è in grado di permettere la determinazione univoca dei rapporti di scambio tra le varie merci: questi rapporti di scambio infatti, oltre a garantire a ciascun settore la disponibilità di mezzi di produzione e di sussistenza per continuare la produzione, determinano la ripartizione del sovrappiù tra i vari settori e tra le varie classi sociali. Quesnay assumeva rapporti di scambio tali che di tutto il sovrappiù, generato dalla classe 'produttiva' (cioè nel settore agricolo), si appropriavano le classi proprietarie (nobili e clero), mentre la classe 'sterile' (imprenditori e lavoratori delle manifatture) non faceva altro che trasmettere nel prodotto il valore dei mezzi di produzione e di sussistenza impiegati nel processo produttivo. Smith invece distingue tra suddivisione in settori del sistema economico e suddivisione in classi sociali della popolazione; e propone quella che dopo di lui è divenuta la partizione standard in tre classi sociali: lavoratori, capitalisti e proprietari terrieri, cui corrispondono tre tipi di reddito: salari, profitti e rendite.Nell'analizzare il funzionamento del sistema sociale così schematizzato, Smith abbandona la vecchia identificazione tra ricchezza delle nazioni e produzione economica complessiva del paese, tipica del punto di vista degli economisti 'consiglieri del principe'; e adotta una concezione moderna, identificando la ricchezza di un paese con il grado di sviluppo raggiunto dal sistema economico, misurabile attraverso il reddito pro capite. Di conseguenza, per Smith spiegare la ricchezza delle nazioni significa essenzialmente spiegare il livello del reddito pro capite.
Tale livello corrisponde al prodotto di due variabili: la produttività per lavoratore e la quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione. La seconda variabile dipende sia da fattori economici sia dalle consuetudini sociali; Smith contrappone ripetutamente le consuetudini di una società feudale a quelle della nascente società capitalistica a tutto vantaggio di quest'ultima. La produttività per lavoratore dipende dallo sviluppo raggiunto dalla divisione del lavoro (grazie, dice Smith, "a tre diverse circostanze: primo, all'aumento di destrezza di ogni singolo operaio; secondo, al risparmio del tempo che di solito si perde per passare da una specie di lavoro a un'altra; e infine all'invenzione di un gran numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro e permettono a un solo uomo di fare il lavoro di molti"). Ma la divisione del lavoro progredisce solo se c'è un allargamento dei mercati, che è necessario per assorbire il maggior prodotto di un'impresa in cui cresce il numero dei lavoratori e simultaneamente cresce la produttività di ciascuno di essi. Di qui la posizione liberista di Smith. Infatti egli è favorevole all'abbattimento degli ostacoli al libero commercio, che può mettere in moto una spirale virtuosa: l'allargamento dei mercati favorisce una crescente divisione del lavoro, e quindi un aumento della produttività, che permette un aumento del reddito pro capite, e quindi un ulteriore allargamento dei mercati. L'espansione dell'area del mercato nella società, inoltre, stimola un aumento della quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione.
Il coordinamento delle attività individuali è assicurato dal mercato, che 'premia' quanti producono ciò che è maggiormente richiesto, e 'punisce' quanti si dedicano ad attività che gli altri considerano inutili. L'interesse individuale agisce quindi da molla per il conseguimento dell'interesse collettivo.
Tuttavia, come si accennava sopra, ciò non significa che Smith sposi le tesi del medico e filosofo olandese Bernard de Mandeville (1670-1733): tesi sintetizzate nel detto "vizi privati, pubbliche virtù", e centrate sul riconoscimento dell'egoismo come fondamento del benessere collettivo. Nella sua opera La teoria dei sentimenti morali, infatti, Smith sottolinea il ruolo di una 'morale della simpatia' (nel senso etimologico di 'sentire insieme') nel guidare le azioni individuali. La ricerca dell'interesse personale risulta automaticamente vincolata da tale morale, escludendo quelle azioni (come la sofisticazione degli alimenti da parte dei commercianti) che potrebbero danneggiare altri. La diffusa adesione dei cittadini alla 'morale della simpatia', affiancata e sostenuta dalle istituzioni pubbliche per la difesa dell'ordine e l'amministrazione della giustizia, costituisce dunque un presupposto necessario per la tesi liberista, sostenuta da Smith nella Ricchezza delle nazioni, secondo cui il benessere collettivo è meglio conseguito affidandosi al libero perseguimento degli interessi individuali nell'ambito di un'economia di mercato concorrenziale. Conviene sottolineare qui che Smith propone questa tesi, senza sviluppare un concetto preciso di massimizzazione del benessere collettivo e prescindendo dalla distribuzione del reddito tra le diverse classi sociali, essenzialmente in base al confronto fra le istituzioni feudali ancora persistenti nella sua epoca e le nuove istituzioni dell'economia di mercato, ancora in via di affermazione. I meriti della costruzione smithiana, come si vede, risiedono principalmente nell'aver fornito un quadro concettuale organico e solido per l'interpretazione dello sviluppo dei sistemi economici. Per vari aspetti tuttavia l'analisi di Smith lasciava ampio spazio per ulteriori progressi, specie nel senso di una maggiore coerenza formale; e ciò anche su questioni centrali come la teoria del valore e della distribuzione.
d) David Ricardo
La costruzione di una solida struttura analitica per l'economia politica classica costituisce il contributo principale dell'opera dell'inglese David Ricardo (1772-1823). Punto di partenza della sua riflessione analitica è il contrasto d'interessi tra i proprietari terrieri, politicamente dominanti, e la nascente borghesia industriale, contrasto che si manifestava nel dibattito sui dazi all'importazione dei cereali. A parere di Ricardo, i dazi spingevano verso l'alto i prezzi dei cereali e quindi, data la loro importanza nei consumi dei lavoratori, anche i salari; ciò spingeva verso il basso i profitti, rallentando il processo di accumulazione e frenando lo sviluppo del sistema economico.Alla base dell'analisi di Ricardo è il concetto di sovrappiù, definibile - come si è già accennato - come la parte del prodotto che resta disponibile una volta ricostituite le scorte iniziali di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati. Ricardo, seguendo la teoria della popolazione di Thomas R. Malthus (1766-1834), assume che il salario sia pari al livello di sussistenza (inteso non in senso biologico, ma come minimo tenore di vita accettabile da parte dei lavoratori di una data società in un dato periodo storico), e in tal modo considera i salari come corrispondenti ai consumi necessari dei lavoratori. Perciò, accogliendo la tripartizione smithiana della società nelle classi dei lavoratori, proprietari terrieri e capitalisti, il sovrappiù risulta ripartito tra rendite - che vengono utilizzate essenzialmente in consumi di lusso - e profitti, largamente destinati agli investimenti.Il problema della rendita viene poi superato grazie alla teoria della rendita differenziale; secondo tale teoria, la rendita viene pagata solo sulle terre più fertili e corrisponde alla differenza tra i costi di produzione relativi alla meno fertile tra le terre in coltivazione, e i costi relativi alle terre più fertili.
Il profitto risulta così definito come grandezza residuale, cioè come quella parte del sovrappiù che non viene assorbita dalla rendita. Il saggio di profitto è allora determinabile come rapporto tra profitti e capitale anticipato. Ma ciò richiede che profitti e capitale anticipato siano espressi in termini di grandezze omogenee: o interpretandoli come quantità diverse di una stessa merce, il 'grano' (come, secondo l'interpretazione di Sraffa, Ricardo fa in un saggio del 1815), o misurando prodotto e mezzi di produzione in valore, come Ricardo fa nei Principî dell'economia politica e della tassazione del 1817. In quest'opera, infatti, egli - come vari altri economisti classici prima e dopo di lui - ricorre a una teoria del valore-lavoro contenuto, secondo la quale le merci si scambiano in proporzione alle quantità di lavoro direttamente o indirettamente necessario alla loro produzione; ma occorre sottolineare che Ricardo è consapevole delle carenze di questa teoria. (Tali carenze consistono essenzialmente nel fatto che beni prodotti con le stesse quantità di lavoro ma su un arco di tempo più o meno lungo - ad esempio vino 'giovane' e vino 'invecchiato' - dovranno avere prezzi diversi).Ricardo è anche noto per la sua 'teoria dei costi comparati', con cui mostra i vantaggi della divisione internazionale del lavoro permessa dal commercio internazionale.
e) Karl Marx
La struttura analitica sviluppata dalla scuola classica fino alle opere di Ricardo viene ripresa dal tedesco Karl Marx (1818-1883), che pone però al centro della sua attenzione il contrasto d'interessi tra borghesia e proletariato.Con la sua 'teoria dello sfruttamento', Marx cerca di mostrare che i profitti derivano da 'lavoro non pagato' pur in un sistema che rispetti il criterio capitalistico di scambio tra valori eguali. A tale scopo egli riprende la teoria del valore-lavoro contenuto - dei cui limiti, peraltro, è ben consapevole. (Marx tentò anche - ma senza successo - di mostrare che i risultati ottenuti in base a tale teoria restano validi quando ci si basa piuttosto sui 'prezzi di produzione', che rispettano la condizione di uniformità del saggio di profitto nei vari settori). Marx, dunque, assume che le merci si scambino sul mercato in proporzione al lavoro contenuto in esse, cioè alle quantità di lavoro direttamente e indirettamente necessario a produrle. Ciò vale anche per la forza-lavoro, che ha un valore pari al lavoro contenuto nei mezzi di sussistenza che costituiscono il consumo necessario dei lavoratori. Il valore d'uso della forza-lavoro (che è cosa diversa dal valore di scambio, così come il valore di scambio del carbone è ben distinto dal suo valore d'uso, che consiste nel fornire calore) sta nel fornire lavoro al capitalista che l'ha acquistata: tanto lavoro quanto il capitalista riesce a ottenere e quindi, date le consuetudini sociali che regolano la lunghezza della giornata lavorativa, di regola un numero di ore di lavoro superiore a quelle 'contenute' nella forza-lavoro stessa.
Questo eccesso di lavoro prestato rispetto a quello richiesto per la semplice riproduzione dei beni necessari al consumo dei lavoratori, o 'pluslavoro', corrisponde al valore del 'plusprodotto' o sovrappiù, e costituisce quindi la fonte dei profitti e delle rendite.Questa situazione di sfruttamento è celata agli occhi dell'osservatore superficiale dal 'feticismo delle merci', cioè dal fatto che i rapporti di cooperazione per il funzionamento del sistema economico tra i lavoratori appartenenti ai vari settori appaiono in un'economia capitalistica come rapporti di scambio tra merci sul mercato. Occorre rilevare che nel Marx del Capitale il concetto di sfruttamento sostituisce quello giovanile, di derivazione smithiana ed hegeliana, di alienazione, corrispondente al fatto che sono sottratti al controllo del lavoratore, e costituiscono quindi 'altro da sé' (alius), sia i mezzi di lavoro, sia il prodotto del lavoro, sia il processo produttivo, e che, di conseguenza, il lavoro risulta per il lavoratore come un mezzo per un fine distinto - procurarsi il salario, e quindi i mezzi di sussistenza -, anziché come diretta autorealizzazione dell'individuo nella società.
Lo sfruttamento che caratterizza il modo di produzione capitalistico (e, in forma ancor più diretta, i modi di produzione precedenti, come il feudalesimo e lo schiavismo) è a parere di Marx superabile con il passaggio a un modo di produzione più avanzato, il comunismo. La transizione dal capitalismo al socialismo, caratterizzato dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e che sembra costituire nella visione di Marx una fase di preparazione al comunismo, sarebbe inevitabile conseguenza di alcune 'leggi di movimento del capitalismo', in particolare la crescente bipolarizzazione tra un proletariato sempre più vasto ('processo di proletarizzazione') e sempre più povero ('legge dell'immiserimento crescente') e una borghesia sempre più ricca e più forte ('legge della concentrazione capitalistica'), che sarebbe alla fine sfociata in una rivoluzione. Di fatto, questa parte almeno della visione di Marx è stata direttamente contraddetta dall'evoluzione concreta delle società capitalistiche, nelle quali si sono verificati un notevole miglioramento del tenore di vita dei lavoratori e la crescita di una classe media impiegatizia e professionale, con interessi distinti sia da quelli dei grandi capitalisti industriali e finanziari sia da quelli dei lavoratori non qualificati.Marx prospetta due schemi di analisi generale, quello della riproduzione semplice e quello della riproduzione su scala allargata, o dell'accumulazione. Il primo rientra nella categoria degli schemi circolari, il secondo nella categoria degli schemi a spirale, in cui una parte almeno del sovrappiù è impiegata produttivamente.
Entrambi gli schemi debbono rispettare la condizione della riproducibilità: le quantità delle merci prodotte che entrano fra i mezzi di produzione debbono essere eguali o superiori alle quantità delle stesse merci impiegate nel processo produttivo. Inoltre, se si fa l'ipotesi che in tutti i mercati viga la concorrenza, deve verificarsi una seconda condizione: l'unicità del saggio del profitto. In una successiva approssimazione si può fare l'ipotesi che certi mercati siano non concorrenziali, con profitti più alti della norma; tuttavia, prima d'introdurre una tale ipotesi occorre assicurarsi della coerenza logica dell'analisi nel caso più semplice della concorrenza generalizzata, dimostrando che in una tale ipotesi il saggio del profitto è unico. Ora, già nello schema di riproduzione semplice di Marx, la prima condizione - quella della riproducibilità - è rispettata, ma non lo è la seconda, quella relativa all'unicità del saggio del profitto. È questo il famoso problema della trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di produzione cui si è già accennato; per esso Marx indica, con un breve accenno, una soluzione puramente intuitiva, proponendosi di fornirne in seguito una trattazione analitica, ciò che tuttavia poi non fa effettivamente. Seguendo l'analisi di Sraffa - di cui parleremo più avanti - l'erroneità della teoria del valore-lavoro risulta in modo ancora più compiuto: fra i 'valori' espressi dal lavoro contenuto e i prezzi vi è proporzionalità solo nell'ipotesi, non rilevante in un'economia capitalistica, di un saggio dell'interesse, e quindi del profitto, pari a zero.
La teoria del valore-lavoro si muove a un alto livello di astrazione. A un livello molto più vicino alla realtà concreta si muove invece una tesi che in Marx è appena accennata, ma che assume poi grande rilievo per essere stata sostanzialmente accolta anche da economisti non marxisti come Joseph Schumpeter e lo statunitense John Kenneth Galbraith (n. 1908): è la tesi della tendenza alla progressiva concentrazione delle unità produttive, un processo che troverebbe il suo principale impulso nella diffusione delle economie di scala, a loro volta imputabili al progresso scientifico e organizzativo. Un tale processo sembrava trovare ampio riscontro nel fenomeno delle fusioni e poi nella comparsa e nella crescita di grandi e grandissime imprese, nazionali e transnazionali, un fenomeno che assume particolare rilievo tra la fine del secolo scorso e il principio del nostro e quindi dopo la seconda guerra mondiale. Secondo diversi economisti questo processo avrebbe spinto le economie capitalistiche nella direzione di una sorta di collettivismo privato, preludio di un collettivismo pubblico. Tuttavia, negli ultimi due decenni il processo di concentrazione ha subito un netto rallentamento o addirittura un rovesciamento, in quanto, grazie anche a grandi innovazioni, come quelle connesse con l'elettronica, si sono creati nuovi spazi per le piccole imprese. Inoltre, la tesi del processo di concentrazione trascura il fatto che non di rado le piccole imprese avviano innovazioni poi sviluppate dalle grandi imprese: in tal modo, le piccole imprese possono contrastare gli effetti negativi sull'efficienza e sulla capacità d'innovare che le grandi imprese potrebbero subire con la loro burocratizzazione.
f) Il marginalismo
Il momento cruciale per la 'rivoluzione marginalista' è comunemente indicato negli anni tra il 1871 e il 1874, quando escono le opere principali dei capifila della scuola marginalista austriaca, Carl Menger (1840-1921), di quella inglese, William Stanley Jevons (1835-1882), e di quella francese, Léon Walras (1834-1910). Infatti nel 1871 escono sia i Principî di economia pura di Menger sia la Teoria dell'economia politica di Jevons, nel 1874 gli Elementi di economia politica pura di Walras. Va ricordato comunque che la rivoluzione marginalista aveva avuto importanti precursori, quali il francese Antoine-Augustin Cournot (1801-1877), e che tra i suoi cofondatori, per quanto riguarda il ramo inglese, Alfred Marshall (1842-1924; i suoi Principî di economia appaiono nel 1890) riveste probabilmente un'importanza superiore a quella di Jevons; in Italia, le idee di Marshall conseguono una discreta diffusione grazie soprattutto agli scritti di Maffeo Pantaleoni (1857-1924). Le differenze fra l'approccio austriaco dell'imputazione, quello francese dell'equilibrio economico generale, e quello marshalliano degli equilibri parziali sono notevolissime, sia per quanto riguarda il metodo sia per quanto riguarda la visione di fondo del funzionamento del sistema economico. Ma prima di considerare più da vicino i tre principali filoni di ricerca tradizionalmente inclusi sotto l'etichetta del marginalismo conviene indicare alcuni elementi di fondo che li accomunano, contrapponendoli all'approccio classico illustrato sopra.
La contrapposizione è stata sintetizzata da Sraffa individuando nell'approccio classico la "presentazione del sistema della produzione e del consumo come processo circolare", "in netto contrasto con l'immagine offerta dalla teoria moderna di un corso a senso unico che porta dai 'fattori della produzione' ai 'beni di consumo"' (v. Sraffa, 1960, p. 121). In questo modo, Sraffa richiama sinteticamente le differenze di fondo tra l'approccio classico e quello marginalista, relative alla visione del problema economico e del funzionamento dell'economia, e alla struttura dell'analisi, particolarmente nel campo della teoria del valore e della distribuzione che è quello dove più direttamente si esprime l'impostazione di fondo dei diversi approcci economici. Come si accennava sopra presentando l'approccio classico, esso ha al centro della sua analisi il problema del modo in cui può riprodursi, e crescere nel tempo, una società basata sulla divisione del lavoro; l'approccio marginalista invece considera il problema economico come consistente nell'individuare l'ottima distribuzione delle risorse scarse tra gli usi alternativi possibili, date le preferenze dei soggetti economici.
Pertanto, l'impostazione marginalista tradizionale concepisce il problema del valore come relativo alla determinazione di prezzi e quantità 'di equilibrio', cioè tali da assicurare l'eguaglianza tra domanda e offerta, derivati dal confronto fra le dotazioni iniziali di risorse produttive e le preferenze degli agenti economici. (L'impostazione non muta nella sostanza, quando dai modelli di puro scambio si passa ai modelli di scambio e produzione, di modo che il rapporto tra le dotazioni iniziali e la soddisfazione dei desideri è mediato dall'attività produttiva, oltre che dall'attività di scambio e di consumo; o quando fra le risorse produttive sono inclusi anche mezzi di produzione prodotti).
Di fronte al problema del valore così concepito, la tesi centrale delle teorie marginaliste tradizionali (quelle che Keynes chiama teorie classiche, e tra le quali prende ad esempio l'analisi di Arthur Cecil Pigou, 1877-1959, successore di Marshall sulla cattedra di economia politica dell'Università di Cambridge) è che un sistema economico in cui prevalga la concorrenza perfetta e che non sia soggetto a continui disturbi esogeni tende a raggiungere una posizione di equilibrio dotata di caratteristiche di ottimalità, nel senso che non è possibile migliorare la posizione di qualche soggetto economico senza peggiorare la posizione di qualcun altro. In particolare, le teorie marginaliste tradizionali sostengono che in regime di concorrenza pura il salario reale si muove, assieme a tutti gli altri prezzi relativi, verso un livello tale da assicurare l'eguaglianza tra domanda e offerta di lavoro, cioè la piena occupazione.Fra i meccanismi riequilibratori automatici che portano il sistema economico verso la piena occupazione, alcuni teorici marginalisti hanno messo in rilievo la flessibilità del rapporto tra capitale e lavoro: se sotto la pressione della disoccupazione il salario reale diminuisce, le imprese troveranno più conveniente utilizzare tecniche produttive che sostituiscono lavoratori a capitale, di modo che il rapporto capitale-lavoro diminuisce, e una data dotazione originaria di 'capitale' permette d'impiegare un numero di lavoratori via via crescente, fino a giungere alla piena occupazione. Questa tesi e in generale l'impostazione stessa della teoria del valore e della distribuzione, come si accennava, hanno assunto forme diverse in autori appartenenti a filoni diversi dell'approccio marginalista tradizionale. Ad esempio il filone francese dell'equilibrio economico generale inaugurato da Walras, ripreso e sviluppato al principio del secolo dall'italiano Vilfredo Pareto (1848-1923) e poi, negli ultimi trent'anni, da autori quali lo statunitense Kenneth Arrow (n. 1921, premio Nobel nel 1972) e il francese Gerard Debreu (n. 1921, premio Nobel nel 1983), è basato sull'ipotesi che siano considerate date, da un lato, le preferenze dei soggetti, dall'altro le quantità disponibili, specificate in termini fisici, delle risorse iniziali (diversi tipi di capacità lavorative, di terre, di beni capitali).
Il filone inglese di Jevons e Marshall, a differenza del filone francese, tende a considerare come variabili da determinare all'interno della teoria anche le quantità disponibili delle varie risorse, utilizzando come dati esogeni le funzioni di utilità e disutilità dei vari soggetti economici (cioè considerando l'offerta di lavoro, ad esempio, come determinata dal confronto fra il salario, e quindi l'utilità dei beni acquistabili con esso, e il sacrificio che il lavoratore compie, cioè la disutilità del lavoro). Inoltre Marshall presenta la sua analisi come tentativo di sintesi tra l'approccio classico e quello marginalista 'puro', sostenendo che l'analisi classica commette l'errore di concentrarsi 'sul lato dell'offerta', mentre quella marginalista nella versione più estrema commette l'errore speculare di concentrarsi 'sul lato della domanda'. Marshall, viceversa, concentrando l'attenzione sulla singola impresa o sulla singola industria (con il metodo 'dell'analisi parziale', cioè considerando offerta e domanda di ciascun bene come indipendenti da quanto contemporaneamente avviene sugli altri mercati), individua prezzo e quantità 'normali'. Le variabili 'normali' corrispondono a una situazione di equilibrio del mercato considerato, e sono determinate dall'intersezione di una curva di offerta, che esprime l'andamento dei costi di produzione al variare della quantità prodotta, e una curva di domanda, che esprime le preferenze del consumatore. Le due curve rappresentano due funzioni che legano la quantità offerta e quella domandata all'andamento del prezzo del singolo bene. L'offerta è considerata funzione crescente del prezzo, almeno a partire da un certo livello di produzione in poi, in quanto, secondo il cosiddetto 'postulato della produttività marginale decrescente', il costo necessario a ottenere una unità addizionale di prodotto cresce al crescere della quantità prodotta, e pertanto gli imprenditori sono disposti ad aumentare la quantità offerta solo se il prezzo aumenta compensando l'aumento dei costi.
Le varie giustificazioni addotte per il postulato della produttività marginale decrescente sono comunque risultate o irrealistiche, o incompatibili con l'ipotesi di concorrenza e/o con l'ipotesi di 'isolabilità' delle vicende del mercato considerato rispetto agli altri mercati, ipotesi che è alla base del metodo degli equilibri parziali. Di fatto, il postulato della produttività marginale decrescente è motivato essenzialmente da un'esigenza analitica di simmetria con il postulato dell'utilità marginale decrescente. Secondo quest'ultimo, l'utilità di una dose addizionale di bene consumato diminuisce al crescere della quantità consumata; perciò il consumatore sarà disposto ad acquistare dosi addizionali del bene solo a prezzi man mano decrescenti, e la domanda risulterà funzione decrescente del prezzo.
Abbiamo infine la scuola austriaca di Menger e dei suoi allievi, delle cui caratteristiche distintive ci occuperemo nel prossimo paragrafo. È possibile attribuire una concezione di fondo sostanzialmente unitaria ai vari filoni dell'approccio marginalista: quella cui si accennava sopra, di un 'corso a senso unico', caratterizzato da un punto di partenza (sia esso costituito dalle risorse inizialmente disponibili, o dalle risorse originarie, o dalle disutilità) e da un punto di arrivo, costituito dalla soddisfazione dei gusti dei consumatori. Ma questa comune concezione di fondo assume poi una varietà notevole di connotati nelle diverse scuole che si ricollegano ad essa.
Comunque, la comune concezione di fondo facilita una valutazione sintetica del contributo teorico delle scuole marginaliste, in quanto essa implica l'esistenza di aspetti centrali comuni anche nella struttura analitica delle diverse scuole. Intanto, per quanto riguarda le preferenze dei singoli consumatori è comune l'ipotesi di indipendenza del sistema di preferenze di ciascun soggetto economico dalle preferenze degli altri: l'unica influenza riconosciuta delle scelte altrui sulle scelte di ciascun singolo consumatore è quella indiretta, che passa attraverso i prezzi che si determinano sul mercato. Le 'esternalità', cioè il fatto che il comportamento degli altri ha un'influenza decisiva sul mio sistema di preferenze - come nel caso degli 'effetti di dimostrazione', per cui se tutti i miei vicini comprano la televisione a colori anch'io sarò indotto a comprarla -, sono escluse dalla struttura analitica della teoria marginalista tradizionale. Questa concezione delle scelte di consumo è caratterizzata da un individualismo estremo: ciascun individuo decide per sé, sulla base di preferenze che la teoria assume come date e che quindi si suppone non interagiscano con il comportamento altrui. In tal modo essa appare contrapposta all'assunzione classica, forse valida soprattutto come prima approssimazione rudimentale, ma probabilmente più 'concreta' di quella marginalista, di un comportamento di consumo sostanzialmente simile all'interno di ciascuna classe sociale. In quella che è tradizionalmente chiamata 'ipotesi classica', infatti, i profitti sono destinati all'accumulazione di capitale, cioè agli investimenti, e le rendite dei proprietari terrieri sono destinate essenzialmente a consumi di lusso; quanto ai salari, per i classici - che avevano ben presenti le condizioni del tempo in cui vivevano - il comportamento di consumo è reso omogeneo da ragioni obiettive, cioè dal fatto che il salario si colloca al livello di sussistenza (un livello che tuttavia, come si è già accennato, dipende dalle condizioni storico-sociali).
Un secondo elemento comune alla struttura analitica dei vari filoni dell'approccio marginalista è costituito dal ruolo centrale che in essi gioca il 'principio di sostituzione', nella produzione come nel consumo: al variare dei prezzi relativi dei diversi beni di consumo, la quantità consumata dei beni il cui prezzo è cresciuto si riduce, mentre viceversa cresce quella dei beni il cui prezzo è diminuito; analogamente, al variare dei prezzi relativi dei 'fattori di produzione', quelli il cui prezzo è aumentato vengono sostituiti da quelli il cui prezzo è diminuito. Un terzo elemento comune, che appare una conseguenza logica della struttura analitica dell'approccio marginalista, e che lo differenzia nettamente dall'approccio classico, è dato dalla simmetria nella trattazione delle variabili distributive. Infatti salario e saggio del profitto (o, nelle trattazioni 'disaggregate', i prezzi dei servizi dei diversi fattori produttivi) sono posti su uno stesso piano, come determinati (assieme alle quantità utilizzate di capitale e lavoro) dalla realizzazione sui rispettivi mercati dell'equilibrio tra domanda e offerta. Così salario e saggio di profitto corrispondono, dal lato della domanda, alla produttività marginale di lavoro e capitale. Simultaneamente, dal lato dell'offerta, salario e saggio del profitto corrispondono al 'costo reale' dei rispettivi fattori di produzione: la penosità marginale del lavoro e il sacrificio dell'astinenza dal consumo nel caso del capitale. In altre formulazioni teoriche dell'approccio marginalista, specie nelle moderne riformulazioni assiomatiche della teoria dell'equilibrio economico generale, il saggio d'interesse (che spesso nella terminologia marginalista sostituisce il saggio del profitto come 'prezzo' dell'uso del capitale) è collegato alle 'preferenze intertemporali' dei soggetti economici tra consumo presente e consumo futuro.
Le critiche al marginalismo, che nel passato assumevano carattere occasionale o frammentario, in tempi recenti si sono intensificate, soprattutto dopo la pubblicazione dell'opera di Sraffa nel 1960. Torneremo più oltre su tali critiche; qui ci limitiamo a ricordare alcuni aspetti particolarmente problematici della teoria dell'equilibrio economico generale formulata da Léon Walras e poi ripresa e ampliata da Vilfredo Pareto. Walras rappresenta il sistema economico con un sistema di equazioni elaborate originariamente dai cultori della meccanica razionale (Walras aveva studiato ingegneria, Pareto era ingegnere). Walras sviluppa la sua teoria attraverso tre approssimazioni successive, rappresentate rispettivamente da: 1) equazioni dello scambio; 2) equazioni dello scambio e della produzione e, infine, 3) equazioni dello scambio, della produzione, dell'accumulazione e del credito. L'assunzione di partenza - che resta valida anche nelle successive approssimazioni - è che esista una dotazione iniziale di beni capitali fisici (che includono le risorse naturali) e di capitali personali (capacità di lavoro delle persone). Inoltre sono incluse fra i dati del problema le preferenze - le funzioni di utilità - dei singoli soggetti e la tecnologia; le imprese operano tutte in condizioni di concorrenza. Sulla base di queste premesse Walras dimostra che il numero delle equazioni eguaglia il numero delle incognite - prezzi e quantità dei beni e dei servizi - e che il sistema di equazioni, nei tre casi che egli considera, è determinato.
Sulla scia di Walras, numerosi economisti matematici affrontano i problemi dell'esistenza, unicità e stabilità delle soluzioni per il modello di puro scambio; i risultati cui è giunto questo filone di ricerca possono essere sintetizzati come segue: a) sotto condizioni sufficientemente generali, il sistema ha soluzioni economicamente significative (con valori non negativi per i prezzi e le quantità di equilibrio delle varie merci); b) in generale è possibile una molteplicità di equilibri; c) la stabilità dell'equilibrio è dimostrabile solo ricorrendo a ipotesi particolari, troppo specifiche perché a tali dimostrazioni possa essere attribuita validità generale. (Questi risultati sono stati elaborati in modo rigoroso in riferimento a modelli assiomatici di equilibrio economico generale proposti negli anni cinquanta da Arrow e Debreu; tali modelli considerano anche 'equilibri intertemporali', trattando come merci diverse una stessa merce in momenti diversi del tempo e prendendo come date le preferenze dei soggetti economici tra diverse quantità di beni non solo in un dato momento nel tempo, ma anche tra momenti diversi: meno uova e più galline oggi e più uova e meno galline domani). Comunque, la fragilità - secondo alcuni critici l'insostenibilità - della costruzione di Walras e Pareto appare in piena luce nella terza approssimazione. Walras infatti assume che all'inizio di un certo periodo vi sia una dotazione "data a caso" ("criée au hasard") di beni capitali, intesi in senso lato; nella terza approssimazione egli ammette che si producano nuovi beni capitali, particolarmente quelli che risultano scarsi e che forniscono il più alto rendimento. Ma, nella logica della sua costruzione, suppone che tali beni entrino in funzione, non nello stesso periodo, bensì nel periodo successivo; nulla però assicura che, in tale periodo successivo, avrà luogo l'unicità dei rendimenti dei beni capitali. Mentre nel caso dei beni di consumo l'aggiustamento dei prezzi e delle quantità avviene in uno stesso periodo e quindi le correzioni potranno dar luogo a movimenti convergenti verso certi livelli normali, così non è nel caso dei beni capitali, in particolare di quelli fisici. Pertanto, nel sistema di Walras non si ha in generale un unico tasso di rendimento in tutti i settori produttivi; ciò è una logica conseguenza del fatto che tale teoria segue 'l'ottica della scarsità' anziché 'l'ottica della riproducibilità', in quanto essa si fonda non sulla concezione classica dell'attività economica come processo circolare o a spirale, ma sulla concezione di un corso a senso unico, che parte da una certa dotazione di fattori produttivi e si conclude con l'offerta di un certo gruppo di beni di consumo: le risorse "date a caso" portano a rendimenti "dati a caso".
g) La scuola austriaca
I teorici della scuola austriaca (oltre a Menger, vanno ricordati almeno i suoi allievi Friedrich von Wieser, 1851-1926, ed Eugen von Böhm-Bawerk, 18511914) adottano un'ottica soggettiva radicale, in base alla quale il valore di ciascun bene o servizio viene dedotto dall'utilità che esso ha per il consumatore finale, direttamente nel caso dei beni di consumo o indirettamente nel caso dei beni di produzione; in quest'ultimo caso si 'imputa' al mezzo di produzione una quota dell'utilità che il bene prodotto ha per il consumatore, calcolando tale quota in proporzione al contributo del bene o servizio considerato al processo produttivo (da cui l'espressione 'teoria dell'imputazione').Le prime fasi di sviluppo della scuola austriaca furono comunque caratterizzate dall'aspro scontro metodologico con la cosiddetta 'scuola storica tedesca', tra i cui rappresentanti ricordiamo Wilhelm Roscher (1817-1894) e Gustav von Schmoller (1838-1917). La scuola storica attribuiva importanza centrale allo studio dell'evolversi delle istituzioni, criticando l'eccesso di astrazione e di astoricismo dell'impostazione marginalista; ma finiva in realtà col ridurre l'economia alla semplice descrizione di vicende e situazioni specifiche. Contro questa posizione, la scuola austriaca sostenne la necessità di ragionamenti deduttivi rigorosi basati su premesse generali, riportando nel complesso una vittoria culturale schiacciante. Una influenza della scuola storica tedesca può comunque essere individuata nella cosiddetta scuola istituzionalista, attiva ancora oggi soprattutto negli Stati Uniti, dove il suo principale esponente è stato Thornstein Veblen (1857-1929). La scuola austriaca 'moderna', in particolare con Friedrich von Hayek (1899-1992), si caratterizza per un deciso sostegno a posizioni radicalmente liberiste, e si differenzia dal marginalismo tradizionale nella visione del funzionamento dell'economia: in particolare, l'atto di scelta compiuto dal soggetto economico è visto come esperimento in condizioni di incertezza, il cui risultato modifica le aspettative e le conoscenze iniziali in un processo continuo; rispetto all'approccio marginalista francese e anglosassone, il concetto di equilibrio perde così il suo tradizionale ruolo analitico centrale come soluzione del problema economico.
Tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta, inoltre, Hayek, riprendendo e sviluppando una teoria proposta da un altro esponente di rilievo della scuola austriaca, Ludwig von Mises (1881-1973), sostenne in vari scritti una teoria monetaria del ciclo economico (la cosiddetta 'teoria del risparmio forzato'), che dopo un discreto successo iniziale fu relegata in secondo piano dall'affermazione della teoria keynesiana. Secondo la teoria del risparmio forzato, mentre il livello di equilibrio di lungo periodo della produzione corrisponde alla piena occupazione dei lavoratori e al pieno utilizzo della capacità produttiva disponibile, nel breve periodo è possibile un'accelerazione degli investimenti finanziati da un'espansione dell'offerta di moneta da parte delle banche, a scapito di una riduzione non desiderata dei consumi, cioè di un risparmio non desiderato - o 'forzato' - prodotto dall'aumento dei prezzi che riduce il potere d'acquisto dei lavoratori salariati; in un secondo momento, quando entra in funzione la nuova capacità produttiva corrispondente agli investimenti addizionali, l'accresciuta offerta di prodotti genera una spinta deflazionistica, e quindi un aumento del potere d'acquisto dei lavoratori e una ripresa dei consumi, con una distruzione di risparmio che riporta il sistema economico alla situazione di partenza. Questa teoria permette di conciliare il riconoscimento di un'influenza dei fenomeni monetari sui livelli di produzione con la concezione marginalista tradizionale secondo la quale prezzi relativi e quantità di equilibrio (inclusi i livelli di produzione e di occupazione) sono determinati esclusivamente dai fattori reali: disponibilità di risorse, tecnologia, preferenze dei consumatori. In questo senso, nonostante le caratteristiche specifiche che abbiamo appena richiamato, la scuola austriaca può essere a buona ragione collocata all'interno della tradizione marginalista.
h) Dalla statica alla dinamica
Come si è accennato sopra, l'approccio marginalista in tutte le sue varie formulazioni imposta il problema economico come centrato sul confronto fra risorse disponibili e preferenze dei consumatori finali, e risolve tale problema determinando prezzi e quantità di equilibrio che assicurino l'eguaglianza tra quantità domandate e offerte dei vari beni e servizi. Tramite l'operare del principio di sostituzione, i mercati assicurano l'eliminazione di scarsità ed eccedenze, e quindi l'ottima utilizzazione delle scarse risorse disponibili. In particolare, in condizioni di concorrenza il normale funzionamento del mercato del lavoro fissa il salario a un livello tale da assicurare la piena occupazione della forza-lavoro disponibile. L'impostazione marginalista è dunque essenzialmente statica: dati l'ammontare di risorse disponibili, la tecnologia e i gusti dei consumatori prevalenti in un dato momento del tempo, la teoria determina prezzi e quantità di equilibrio. L'evoluzione di un sistema economico nel tempo è legata al cambiamento dei dati: risorse disponibili, tecnologia e gusti dei consumatori. Così essa può essere studiata in due modi: o tramite analisi di statica comparata, cioè determinando prezzi e quantità di equilibrio prima con l'iniziale insieme di dati e poi con quello nuovo, e confrontando le due soluzioni per individuare l'effetto del cambiamento dei dati; oppure tramite analisi dinamiche, cioè introducendo una precisa ipotesi sull'evoluzione nel tempo di uno o più fra i dati del problema, e determinando così un sentiero regolare per lo sviluppo del sistema economico. In entrambi i casi, comunque, restano generalmente esclusi dall'analisi sia i problemi di transizione da un equilibrio all'altro, sia quelli di spiegare all'interno della scienza economica i cambiamenti nella tecnologia o nelle abitudini di consumo.
L'aspetto sorprendente della 'rivoluzione marginalista', se consideriamo la sua natura essenzialmente statica, è che essa ha luogo proprio in un tempo in cui i cambiamenti tecnologici, che hanno caratterizzato il capitalismo industriale sin dal suo apparire, tendono a crescere, non a diminuire, d'importanza, come tendono a crescere d'importanza i cambiamenti nelle abitudini di consumo (e spesso questo secondo fenomeno è condizionato dal primo). D'altra parte, i cambiamenti tecnologici sono all'origine del processo di sviluppo economico, che costituiva il problema teorico fondamentale per economisti classici come Smith, ma che scompare del tutto dall'orizzonte teorico dei marginalisti. Per spiegare tale svolta paradossale sono state indicate diverse ragioni, tre in particolare, che qui ci limitiamo a ricordare e a commentare molto concisamente. La prima ragione si ricollega all'aspirazione a un maggior rigore. Ciò implica l'applicazione sistematica dei metodi matematici, cosa agevole se si assumono costanti la tecnologia e le abitudini di consumo, ma ben più difficile nel caso di problemi dinamici. Quella statica era considerata solo un'analisi di prima approssimazione; ma i modelli di norma erano concepiti in modo da rendere impossibile il passaggio all'analisi dinamica: per far questo occorreva ricominciare da capo.
La seconda ragione è legata a motivi di natura ideologica. La teoria classica era sfociata nei cosiddetti socialisti ricardiani e poi nell'analisi di Marx, che aveva finalità dichiaratamente rivoluzionarie. Per esorcizzare gli sviluppi di tipo marxista, e quindi rivoluzionari, si diffuse la tendenza a rifiutare l'impostazione stessa delle teorie classiche, abbandonando l'esame oggettivo dei rapporti sociali di produzione e rivolgendo lo studio verso le caratteristiche soggettive dei bisogni e quindi dell'individuo astrattamente considerato. La terza ragione si ricollega alla crescita del reddito individuale di strati sempre più ampi della popolazione. Mentre al tempo dei classici la gran massa della popolazione viveva al livello della sussistenza e il problema delle preferenze dei consumatori si poneva solo per un'esigua minoranza di privilegiati, nelle nuove condizioni quel problema si poneva invece per una maggioranza sempre più ampia; e le teorie marginaliste davano il massimo rilievo alle preferenze dei consumatori. Le tre ragioni vanno forse considerate congiuntamente, ricordando che i classici non erano riusciti a risolvere in modo soddisfacente il problema del valore. Un'ulteriore spinta all'affermazione del marginalismo fu data dalla sua vittoria nello scontro con la nuova scuola storica, che tendeva a risolvere la teoria nella storia economica.
Non sarebbe esatto, tuttavia, affermare che la costruzione marginalista sia integralmente statica. In effetti, vari economisti tentano di affrontare, all'interno dei diversi filoni dell'approccio marginalista, il problema delle situazioni 'di squilibrio', generalmente considerate come oscillazioni di breve periodo attorno alle situazioni 'di equilibrio' implicanti, come si è detto, il pieno utilizzo delle risorse disponibili. In questo quadro viene affrontato il problema del ciclo economico. Esso è attribuito a shock, cioè a variazioni improvvise e impreviste dei dati del problema che spingono il sistema economico fuori dell'equilibrio per qualche tempo prima che l'operare delle forze di mercato ve lo riporti; oppure a fenomeni monetari che si sovrappongono alle forze 'reali' determinanti l'equilibrio di mercato. Si tratta, in ogni caso, di eventi che rendono non più di equilibrio i prezzi relativi prevalenti nella situazione precedente; il protrarsi dello squilibrio e la sua trasformazione in ciclo economico sono ricollegati all'incapacità del mercato di condurre istantaneamente i prezzi relativi ai valori coerenti con il nuovo equilibrio. Da questa base comune, le specifiche teorie del ciclo si differenziano per l'accento posto su prezzi relativi particolari, quali salario reale, tasso d'interesse e tasso del profitto. In particolare Marshall e vari economisti americani della Scuola di Chicago mettono l'accento sui movimenti del salario e del tasso d'interesse confrontati con le aspettative sulle variazioni dei prezzi; lo svedese Knut Wicksell (1851-1926) sugli scostamenti del tasso d'interesse monetario da quello 'naturale' corrispondente al tasso di rendimento degli investimenti; l'inglese Ralph Hawthrey (1879-1975) sui movimenti dei tassi d'interesse sui crediti a breve termine, e quindi sul 'ciclo delle scorte'; l'inglese Dennis Robertson (1890-1963) su cause monetarie per quanto riguarda i cicli brevi, e sull'addensarsi degli acquisti per il rinnovo di impianti e beni di consumo durevoli determinato dall'alternarsi di 'sciami' di innovazioni con periodi di relativo ristagno tecnologico per quanto riguarda i cicli di media durata. Alle teorie austriache del risparmio forzato che almeno in parte derivano da quella di Wicksell, si è già accennato nel paragrafo precedente.
Da queste tradizioni provengono anche due economisti che tuttavia si scostano dalle fondamenta tradizionali dell'approccio marginalista in misura sufficiente da essere considerati 'eretici', fondatori di nuove scuole di pensiero: Schumpeter e Keynes.
i) Joseph Schumpeter e lo sviluppo ciclico dell'economia
L'economista austriaco Joseph Schumpeter (18831950) si contrappone alla tradizione marginalista (di cui pure dichiara di accettare le principali elaborazioni teoriche, come soluzione però di un problema specifico, quello 'statico', concernente la raffigurazione di un sistema economico che non cambia nel tempo) per il suo tentativo di costruire una teoria dello sviluppo. Tale teoria è basata sulle innovazioni, introdotte dagli imprenditori e finanziate dai banchieri; imprenditori e banchieri risultano così le figure attive, le cui scelte determinano l'evoluzione dell'economia, mentre le scelte di consumo e di risparmio, che risultavano centrali nella teoria tradizionale, appaiono qui come secondarie. Tutte le principali nozioni della teoria tradizionale risultano modificate da questo cambiamento d'ottica; ad esempio, la nozione di concorrenza della teoria statica risulta 'travolta' dalla forza della concorrenza dinamica, che viene dagli imprenditori che introducono nuovi processi produttivi o nuovi prodotti. I profitti degli imprenditori-innovatori derivano da beni nuovi, che riescono ad affermarsi nel mercato, e dai minori costi rispetto alle imprese che utilizzano i vecchi metodi produttivi; e, dato che la domanda di finanziamenti alle banche proviene essenzialmente dagli imprenditori-innovatori, sono le opportunità d'investimento aperte dalle innovazioni e la loro redditività che determinano i tassi d'interesse.
Il ciclo economico è spiegato dall'andamento irregolare del flusso delle innovazioni. Queste, d'altra parte, sono d'importanza molto diversa: le innovazioni di portata storica - la macchina a vapore per usi fissi e per il trasporto per terra o per mare, l'elettricità, l'automobile, l'aereo, oggi la microelettronica - danno origine a 'cicli di lunga durata' (i 'cicli Kondrat'v' di durata approssimativamente cinquantennale); le innovazioni di minor rilievo, che spesso s'innestano in quelle maggiori e ne costituiscono sviluppi specifici, danno origine a cicli di durata più breve: i 'Juglar', di circa nove anni, e i 'Kitchin', di circa tre anni (dal nome degli economisti che li hanno studiati sistematicamente, anche sul piano empirico). Il modello teorico di Schumpeter è originariamente presentato nella Teoria dello sviluppo economico del 1912 ed è poi riproposto, con diverse importanti modificazioni, nel trattato su I cicli economici del 1939, nel quale l'analisi teorica si combina con quella empirica (storica e statistica). Schumpeter parte dall'analisi del 'flusso circolare', ossia del processo economico che riproduce uniformemente se stesso: un concetto simile, se pure non identico, a quello dei classici e di Sraffa. La rottura di tale flusso è provocata dagli imprenditori tramite le innovazioni, ossia nuove e più efficienti combinazioni di fattori produttivi, dalle quali emerge il profitto. Gli imprenditori-innovatori per finanziare le innovazioni domandano prestiti alle banche, le quali creano mezzi di pagamento addizionali. Compare quindi una schiera di imitatori, crescono gli investimenti e, di conseguenza, la domanda di beni di consumo; si sviluppa così la fase di prosperità. Dalla prosperità si passa alla flessione, man mano che vengono a maturazione i frutti delle innovazioni e man mano che crescono le produzioni delle imprese che non s'innovano ma si avvantaggiano della generale prosperità. Alla fine del ciclo, il sistema dei prezzi risulta cambiato e i redditi reali accresciuti. Pertanto, il nuovo ciclo parte da un livello più alto del reddito complessivo e di quasi tutti i redditi individuali: cicli e sviluppo risultano le manifestazioni di un unico processo, il processo dello sviluppo ciclico.
Secondo Schumpeter, tale processo è caratterizzato da una tendenza di lungo periodo verso la concentrazione delle imprese, una tendenza condizionata dalla crescente importanza delle economie di scala nelle principali attività economiche. In tal modo sono emerse quelle grandi o grandissime imprese, specialmente nell'industria e nella finanza, che in diversi casi hanno assunto rilevanza internazionale. Schumpeter sostiene che nelle grandi imprese, le quali organizzano grandi laboratori di ricerca, l'innovazione tende a essere trasformata in un'attività di routine. La crescita assoluta e relativa delle grandi imprese e la burocratizzazione del processo innovativo renderebbero superflua la figura centrale del capitalismo moderno, l'imprenditore, e renderebbero pertanto sempre più difficile la sopravvivenza del capitalismo, favorendo l'avvento del socialismo centralizzato: il collettivismo pubblico verrebbe a sostituire un sistema che tende ad assumere sempre più le caratteristiche di un collettivismo privato. In tal modo Schumpeter, che ideologicamente era un conservatore, analiticamente si avvicina a Marx che aveva già considerato, sia pure per brevi cenni, la tendenza alla concentrazione; Marx, tuttavia, sosteneva l'ineluttabilità dell'avvento del socialismo su basi in gran parte diverse: il ruolo principale era svolto dal crescente immiserimento delle masse.
Oggi appare chiaro che la tendenza alla concentrazione, che è stata osservata in diverse importanti attività economiche, è stata interpretata in termini troppo schematici sia da Marx sia da Schumpeter. In particolare, Schumpeter ha sottovalutato gravemente il ruolo che tuttora svolgono gli inventori individuali e il ruolo dei ricercatori e degli inventori che operano in istituti universitari e in altri organismi autonomi. Il flusso delle nuove idee e delle invenzioni che hanno una tale origine riveste importanza essenziale anche per le grandi imprese, i cui laboratori spesso sviluppano invenzioni di provenienza esterna. Schumpeter ha inoltre sottovalutato il ruolo che piccole e piccolissime imprese possono avere e spesso hanno avuto nell'avviare importanti innovazioni, che in seguito sono riprese e sviluppate dalle grandi. Per di più, anche come conseguenza di certe innovazioni, come quelle connesse all'elettronica, sono sorti nuovi spazi per le piccole imprese, il cui peso, nonostante la tendenza verso la concentrazione, era sempre rimasto considerevole e negli ultimi due decenni è progressivamente cresciuto in tutti i paesi industrializzati.
l) Max Weber, la sociologia e il processo di burocratizzazione
Joseph Schumpeter è un economista, ma è anche un sociologo e un politologo: possono essere classificate con queste ultime due etichette alcune sue opere, come L'imperialismo e le classi sociali e Capitalismo, socialismo e democrazia. Un altro grande studioso, quasi contemporaneo di Schumpeter, Max Weber (1864-1920), viene generalmente considerato come un sociologo, ma è stato professore di economia politica (prima a Friburgo, poi a Heidelberg) e si è occupato fra l'altro anche di temi strettamente economici (quali i fondamenti della teoria marginalista del valore, in una recensione del 1908 a un libro di Brentano). La sua opera principale comunque resta Economia e società, pubblicata postuma nel 1922. Weber e Schumpeter sono due cospicui esempi dell'ampia sovrapposizione che spesso si crea fra le scienze sociali, in particolare fra economia e sociologia. Un altro esempio dello stretto collegamento tra economia e sociologia è fornito dall'opera dell'italiano Vilfredo Pareto, anche se, come si è accennato sopra, il contributo di Pareto alla teoria economica rientra nel filone marginalista dell'equilibrio economico generale e fa capo quindi a una concezione che ha contribuito più a separare che ad avvicinare le due discipline.
L'opera di Weber riguarda l'interpretazione del capitalismo moderno, concepito come un grandioso processo di trasformazione, che, a sua volta, è in primo luogo l'espressione di un processo di razionalizzazione non solo dell'attività economica, ma dell'organizzazione della società intera. Tale processo s'incontra e per certi versi si scontra con le convinzioni religiose, che possono essere più o meno favorevoli allo 'spirito del capitalismo'; tale processo s'incarna, fra l'altro, in una progressiva burocratizzazione dell'organizzazione statale e del sistema produttivo. Il processo di cui parla Weber si contrappone sotto diversi aspetti, se non altro sotto l'aspetto quantitativo, al processo di crescente proletarizzazione delineato da Marx. L'evoluzione storica ha dato ragione a Weber, non a Marx, giacché la burocrazia pubblica e privata è cresciuta enormemente nei paesi sviluppati, mentre la quota dei proletari - operai salariati- è cresciuta fin verso la fine del secolo scorso, e in seguito, durante questo secolo, ha mostrato tendenza a declinare. (Negli ultimi cento anni la massa degli impiegati è cresciuta dal 5 al 30% della popolazione attiva in Italia, dal 12 al 45% in Inghilterra e dal 14 al 49% negli Stati Uniti, con l'avvertenza che oggi in Italia la burocrazia pubblica rappresenta oltre la metà del totale, in Inghilterra poco meno della metà e negli Stati Uniti un terzo. La quota del 'proletariato', dopo aver toccato o superato il 50% della popolazione attiva, negli ultimi decenni è scesa nettamente sotto tale livello. Com'è noto, oltre che dagli impiegati e dagli operai, la popolazione attiva è costituita da lavoratori autonomi).
L'economista deve considerare il processo di burocratizzazione congiuntamente all'espansione degli interventi pubblici nella vita economica e, nei tempi più vicini a noi, alla crescita dello Stato sociale e degli apparati fiscale e parafiscale. Le stesse teorie economiche vanno considerate con riferimento a queste tendenze. Così, le politiche economiche ispirate da Keynes non sarebbero state concepibili se il processo di burocratizzazione nel senso di Weber non fosse andato molto avanti. Non pochi modelli teorici vanno visti nella stessa prospettiva. Ad esempio, una teoria delle retribuzioni - salari e stipendi - che miri ad avere efficacia interpretativa non può non riconoscere che nel nostro tempo le retribuzioni nominali sono rigide verso il basso: una rigidità che si ricollega in vari modi alle forme organizzative prevalenti nella burocrazia pubblica e privata e ai sindacati, che per diversi aspetti rientrano nel processo weberiano di burocratizzazione.
m) John Maynard Keynes e la disoccupazione di equilibrio
In opposizione alle tradizioni precedenti (classica e marginalista), che considerano la moneta un semplice 'velo', cioè priva di influenza sui livelli di equilibrio delle variabili 'reali' (quantità prodotte, prezzi relativi di equilibrio e variabili distributive), Keynes (1883-1946) insiste sull'influenza persistente, e non solo come fattore di disturbo ciclico, che le vicende monetarie possono avere su quelle reali. La formulazione matura della teoria keynesiana - quella della Teoria generale del 1936 - può essere illustrata a partire da tre elementi fondamentali: il concetto di domanda effettiva, la teoria degli investimenti e del moltiplicatore del reddito e una teoria monetaria basata sulla 'preferenza per la liquidità'. Consideriamo rapidamente questi tre elementi. La domanda effettiva esprime, per ogni livello di occupazione, l'ammontare di prodotto che gli imprenditori si attendono di vendere sul mercato; ed è considerata da Keynes come funzione crescente - ma a velocità decrescente - del livello di occupazione. Gli imprenditori decidono quanto produrre, e quindi in quale misura utilizzare la capacità produttiva disponibile e quanti lavoratori impiegare, confrontando la curva di domanda effettiva con la curva di offerta. Quest'ultima indica, in corrispondenza di ciascun livello di occupazione, l'ammontare di vendite che gli imprenditori ritengono necessario per recuperare i costi e ottenere un profitto appena sufficiente a indurli a continuare la produzione. La curva di offerta è quindi una funzione crescente del livello di occupazione; inoltre, nella Teoria generale, Keynes afferma che essa tende a crescere man mano più rapidamente a causa dell'aumento progressivo del costo unitario di produzione (postulato della produttività marginale decrescente). Pertanto, per livelli sufficientemente bassi dell'occupazione la curva di domanda effettiva risulterà superiore alla curva di offerta, mentre a un certo punto (detto 'punto di domanda effettiva') le due curve si incontreranno, e per livelli di occupazione superiori la curva di offerta risulterà superiore a quella di domanda.
Il livello di occupazione scelto dagli imprenditori corrisponde al punto di domanda effettiva. In questo modo, osserva Keynes, tutto dipende dalle aspettative degli imprenditori, e più precisamente dalle 'aspettative di breve periodo', relative alle possibilità di smercio dei prodotti. Inoltre, non vi è alcuna ragione per cui il livello di occupazione così determinato debba corrispondere a quello che assicura il pieno utilizzo della capacità produttiva disponibile e, soprattutto, la piena occupazione della forza-lavoro. Le aspettative degli imprenditori risultano realizzate quando la domanda per beni di consumo e d'investimento corrisponde al livello di produzione da loro prescelto; in questo caso, rileva Keynes, anche in presenza di disoccupazione e di capacità produttiva inutilizzata gli imprenditori non hanno alcuno stimolo a espandere produzione e occupazione. A sostenere quest'ultima tesi concorrono gli altri elementi costitutivi della teoria keynesiana, in particolare la teoria dell'investimento e quella della preferenza per la liquidità che illustreremo tra poco. In sintesi, Keynes ricorda che i consumi dipendono essenzialmente dal reddito e quindi dai livelli di produzione, mentre lo stimolo esterno alle variazioni della domanda aggregata viene dagli investimenti; questi, a loro volta, dipendono dalle aspettative degli imprenditori e dal tasso d'interesse, determinato sul mercato monetario: non vi è motivo per cui questi elementi debbano rispondere alla presenza di disoccupazione in modo da stimolarne il riassorbimento. Di qui la tesi della possibilità di 'equilibri di sottoccupazione', cioè di situazioni di disoccupazione persistente.
Il secondo elemento costitutivo della teoria keynesiana, come si è accennato, è la sua teoria dell'investimento. Anche in questo caso Keynes si pone dal punto di vista dell'imprenditore, che decide se e quanto investire confrontando i costi dell'investimento con i ricavi che ci si attendono da esso. Le aspettative dell'imprenditore - che in questo caso sono 'aspettative di lungo periodo', in quanto riguardano un arco di tempo piuttosto lungo, corrispondente alla vita attiva degli impianti in cui si concreta l'investimento - sono secondo Keynes piuttosto 'volatili', in quanto riguardano un futuro incerto, e sono quindi estremamente sensibili a variazioni del 'clima generale di opinioni'. Per confrontare i costi dell'investimento con i ricavi che ci si attende di ottenere da esso negli anni di funzionamento dell'impianto occorre scontare - cioè ridurre a valori attuali, in lire di oggi - il valore atteso dei ricavi, utilizzando il tasso d'interesse; per questa via le vicende monetarie, che come vedremo fra poco determinano il livello dei tassi d'interesse, influiscono sulle vicende 'reali' dell'economia, contribuendo a determinare il livello degli investimenti e, tramite esso, il livello della produzione e dell'occupazione. Infatti il livello della produzione è collegato agli investimenti tramite il cosiddetto 'moltiplicatore': un concetto originariamente elaborato da un allievo di Keynes, Richard Kahn (1905-1989), in un articolo del 1931, per indicare l'impulso espansivo prodotto da un investimento (o da una spesa pubblica) addizionale sul reddito in condizioni di diffusa disoccupazione; l'effetto espansivo è superiore al volume dell'investimento addizionale a causa dell'espansione della spesa per consumi da parte dei lavoratori precedentemente disoccupati e che ora trovano un impiego.
Il terzo elemento fondamentale della teoria keynesiana è costituito dalla teoria della 'preferenza per la liquidità'. Keynes respinge sia la 'teoria quantitativa della moneta', sia la teoria del tasso d'interesse basata sul confronto fra domanda e offerta di 'fondi disponibili per i prestiti'. Consideriamo per prima la teoria quantitativa. Essa si basa sull'equazione degli scambi, MV = PQ, che indica semplicemente che il valore dei beni e servizi scambiati sul mercato (pari a quantità Q moltiplicata prezzo P) è pari al valore della moneta che passa di mano in senso inverso (pari a M, quantità di moneta in circolazione, moltiplicata per V, velocità di circolazione, cioè numero di volte in cui viene utilizzata in media ciascuna unità di moneta in circolazione). La teoria quantitativa sostiene che il livello generale dei prezzi varia in proporzione alle variazioni dell'offerta di moneta (cioè che P varia in proporzione a M), in quanto suppone che sia possibile considerare relativamente stabili sia la velocità di circolazione della moneta V, determinata da fattori istituzionali che cambiano solo molto lentamente, sia il prodotto Q, che le forze di mercato tendono a mantenere al livello di piena occupazione. Viceversa, Keynes sostiene che né l'una né l'altra ipotesi possono essere considerate valide; infatti la velocità di circolazione della moneta cambia anche nel breve periodo, in conseguenza di spostamenti da moneta a titoli e viceversa nelle preferenze dei soggetti economici; il prodotto Q, come si è appena accennato, può variare in quanto per Keynes è possibile che gli imprenditori decidano di non utilizzare appieno la capacità produttiva e la forza-lavoro disponibili.
Come si è accennato sopra, Keynes respinge anche la teoria del tasso d'interesse dominante nella tradizione marginalista, secondo cui esso è determinato sul mercato dei fondi prestabili dal confronto tra l'offerta di tali fondi (i risparmi, che sono funzione crescente del tasso d'interesse) e la domanda, che viene essenzialmente dagli imprenditori. Questi ultimi infatti chiedono denaro in prestito per finanziare gli investimenti, che sono funzione decrescente del tasso d'interesse. Keynes replica che sia i risparmi sia gli investimenti dipendono essenzialmente da altre variabili: i risparmi dal livello del reddito, gli investimenti dalle aspettative degli imprenditori. Il tasso d'interesse risulta invece determinato sul mercato monetario dalla 'preferenza per la liquidità', cioè dalle scelte dei soggetti economici sulla forma in cui tenere la ricchezza accumulata (che è uno stock, e quindi generalmente ha dimensioni ben maggiori del flusso annuo di risparmi e investimenti). Tale scelta riguarda essenzialmente titoli (azioni e obbligazioni) e moneta (legale o bancaria); e dipende sia dai rendimenti, sia soprattutto dalle aspettative di variazioni dei prezzi delle attività finanziarie, che continuamente determinano guadagni e perdite in conto capitale. Le attività più 'liquide' sono quelle che all'occorrenza è più facile trasformare in moneta legale, con probabilità minime di ottenere guadagni o subire perdite in conto capitale: dopo le banconote vengono i depositi di conto corrente, e poi man mano, in ordine di liquidità decrescente, i buoni del Tesoro, le obbligazioni, le azioni, beni rifugio come l'oro e i diamanti, gli immobili.
Il tasso d'interesse dipende dall'offerta di attività liquide (moneta a corso legale e moneta bancaria), cioè dalle scelte delle autorità monetarie, e dalla domanda di moneta, cioè dalla 'preferenza per la liquidità' dei privati. Pertanto il tasso d'interesse risulta determinato sul mercato monetario, e non rappresenta una variabile 'reale' determinata dalle scelte di risparmio e investimento. In questo modo, come si accennava, le vicende monetarie influiscono su investimenti, reddito e occupazione. L'obiettivo fondamentale di Keynes consiste dunque nel mostrare che un'economia di mercato non tende automaticamente alla piena occupazione. Ma il ristagno produttivo e la disoccupazione costituiscono una minaccia per l'organizzazione civile della società. Perciò la stessa sopravvivenza del capitalismo, che sarebbe messa in discussione da condizioni di disoccupazione elevata e persistente, richiede, secondo Keynes, un vigoroso intervento pubblico per stimolare l'attività economica e sostenere l'occupazione.
Negli ultimi cinquant'anni, e in particolare negli anni cinquanta e sessanta, numerosi economisti 'keynesiani' hanno identificato tale intervento pubblico in politiche fiscali e monetarie espansive, cioè in politiche di spesa pubblica in disavanzo per sostenere la domanda aggregata di beni e servizi, e in politiche di espansione della liquidità dirette a ridurre i tassi d'interesse e quindi a favorire gli investimenti. In realtà, Keynes proponeva soprattutto di creare un ambiente di consuetudini e istituzioni, anche internazionali, tale da stimolare sia un clima di aspettative imprenditoriali favorevoli agli investimenti, sia una riduzione dell'incertezza che condiziona le decisioni sui livelli di produzione delle imprese; in quest'ambito rientrano proposte quali la predisposizione di programmi d'investimento pubblici da realizzare nei momenti di ristagno, o la riforma delle istituzioni monetarie e finanziarie internazionali diretta a favorire i commerci e lo sviluppo economico.
L'analisi di Keynes, concentrando l'attenzione su alcuni aspetti del funzionamento del sistema economico, fa passare in secondo piano altri aspetti non meno importanti di quelli considerati; in gran parte degli economisti postkeynesiani, ciò si traduce in una visione eccessivamente semplificata dell'economia. In particolare, l'assunzione della tecnologia data, fatta da Keynes nella Teoria generale per focalizzare l'attenzione sugli elementi al centro della sua analisi, ha spesso indotto gli economisti keynesiani a trascurare il ruolo del cambiamento tecnologico, e quindi a sottovalutare l'importanza dei fattori, anche 'di breve periodo', che lo favoriscono, come dei suoi effetti su reddito e occupazione, ma anche sulla struttura stessa del sistema economico. L'ottica 'aggregata' dell'analisi keynesiana, evidente nell'uso di un indice unico per il 'livello dei prezzi' (un uso che Keynes stesso aveva criticato nel suo Trattato della moneta del 1930), ha portato non solo a trascurare il rapporto tra mutamenti strutturali dell'economia da un lato e andamento del reddito e dell'occupazione dall'altro, ma anche a una perniciosa separazione tra analisi microeconomica (teoria dei prezzi relativi, della struttura dei consumi, delle forme di mercato e della distribuzione del reddito) e analisi macroeconomica (teoria della moneta, del reddito e dell'occupazione), già criticata dallo stesso Keynes ma ormai cristallizzata nella pratica di molti corsi d'insegnamento universitari. Anche da questo probabilmente deriva la scarsa attenzione spesso prestata nella concreta attuazione di politiche fiscali e monetarie espansive alla distinzione tra spese produttive e improduttive.
Nel variegato panorama contemporaneo sono presenti diversi gruppi di economisti, i principali fra i quali si richiamano più o meno direttamente alle maggiori scuole economiche illustrate sopra. Distinguiamo quattro gruppi principali: gli economisti della 'sintesi neoclassica', dominanti per oltre trent'anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, caratterizzati dall'innesto di elementi keynesiani - particolarmente per quel che riguarda la politica economica - sul tronco della tradizione marginalista; gli economisti monetaristi e la scuola delle aspettative razionali, caratterizzati dal rifiuto più o meno radicale dell'intervento pubblico nell'economia e, sul piano più strettamente teorico, da un rifiuto della teoria keynesiana in quanto contraddittoria con la struttura analitica dell'approccio marginalista; gli economisti postkeynesiani, che tendono a sviluppare gli elementi della teoria keynesiana più eterodossi rispetto alla tradizione marginalista; Sraffa e gli economisti che condividono il suo progetto culturale di un ritorno all'impostazione della scuola classica.
a) La sintesi neoclassica
Di fronte all'esperienza della grande depressione degli anni trenta, molti economisti sono indotti a prestare orecchio alle idee di Keynes sui rimedi di politica economica alla disoccupazione, pur senza abbandonare la teoria marginalista del valore e della distribuzione che costituisce la base della loro formazione professionale. Questi economisti perciò cercano di reinterpretare la teoria di Keynes introducendo alcune ipotesi per rendere l'esistenza di disoccupazione compatibile con la teoria marginalista. Lungo questa strada procede in particolare John Hicks (1904-1989, premio Nobel nel 1972). In un articolo del 1939, Hicks propone il cosiddetto schema IS-LM, che traduce la teoria keynesiana nei termini più tradizionali di un modello di equilibrio economico generale semplificato, caratterizzato dalla presenza di tre mercati: il mercato dei beni, quello della moneta e quello dei titoli (quest'ultimo però gioca un ruolo puramente passivo, mentre l'attenzione si concentra sui primi due). Il mercato dei beni è in equilibrio quando l'offerta, cioè la produzione, è eguale alla domanda aggregata (che nell'ipotesi semplificata di un sistema senza rapporti con l'estero, senza spesa pubblica e senza prelievo fiscale corrisponde alla somma della domanda per beni di consumo e di quella per beni d'investimento); e ciò si verifica quando i risparmi, che sono funzione crescente del reddito, sono eguali agli investimenti, considerati funzione decrescente del tasso d'interesse. Il mercato della moneta è in equilibrio quando offerta e domanda di moneta sono eguali; secondo l'ipotesi della moneta esogena, l'offerta di moneta è determinata dalle autorità monetarie che controllano l'emissione di moneta a corso legale e, indirettamente, la quantità di moneta creditizia che può essere creata dalle banche; la domanda di moneta è pari alla somma della domanda di moneta a scopo di transazione, che è funzione crescente del reddito, e della domanda di moneta a scopo speculativo - quella su cui Keynes aveva concentrato l'attenzione, e che esprime la scelta sulla forma, moneta o titoli, in cui tenere la propria ricchezza -, che è considerata funzione decrescente del tasso d'interesse.
Lungo la strada intrapresa da Hicks procede anche Franco Modigliani (n. 1918, premio Nobel nel 1985), economista statunitense di origine italiana, emigrato negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali. Per certi aspetti Modigliani accetta lo schema IS-LM; accanto al mercato dei beni e a quello della moneta (e a quello dei titoli finanziari, che come si è detto resta sullo sfondo), egli però considera esplicitamente anche il mercato del lavoro. Come per gli altri mercati, le variazioni del prezzo tendono ad assicurare l'equilibrio tra domanda e offerta: nel nostro caso, dunque, le variazioni del salario reale - che è il prezzo dei servizi dei lavoratori -, portando in equilibrio domanda e offerta di lavoro, tendono ad assicurare la piena occupazione. Per ottenere il risultato keynesiano, cioè la possibilità di una situazione di disoccupazione persistente, occorre allora introdurre qualche ostacolo che impedisca il libero funzionamento del mercato del lavoro. Quest'ostacolo è individuato nella natura non concorrenziale del mercato del lavoro dovuta alla forza contrattuale dei sindacati.In questo modo la teoria keynesiana viene presentata come un caso particolare della teoria marginalista: quel caso in cui l'equilibrio di piena occupazione non può essere raggiunto, perché il mercato del lavoro non è concorrenziale, per cui la presenza di disoccupazione non influisce sui salari monetari e, tramite questi, sui salari reali. Si ha così la sintesi neoclassica, che in questo dopoguerra, e fino a un'epoca relativamente recente, ha dominato l'insegnamento della macroeconomia nelle università di tutto il mondo (grazie anche al successo del testo Economia di Paul Samuelson - n. 1912, premio Nobel nel 1970 -, che ha avuto oltre 10 milioni di lettori dal 1948 a oggi).
La sintesi neoclassica riassorbe la tesi keynesiana della possibilità di equilibri di sottoccupazione nell'ambito della concezione marginalista tradizionale, legata all'idea di mercati in cui le variazioni del prezzo tendono ad assicurare l'equilibrio tra domanda e offerta. La natura non concorrenziale del mercato del lavoro spiega la disoccupazione, causata come si è detto dalla rigidità dei salari verso il basso; ciò apre la strada a riconoscere l'utilità dell'intervento pubblico nell'economia, perché la disoccupazione può essere combattuta tramite l'utilizzo della politica fiscale e monetaria, utili in generale per regolare l'andamento dell'economia evitandone o riducendone le oscillazioni cicliche. Naturalmente, in presenza di un qualche potere di mercato da parte dei sindacati, l'intervento pubblico diretto a favorire la riduzione della disoccupazione può contemporaneamente favorire un aumento del tasso di crescita dei salari monetari, e quindi dell'inflazione. Il trade-off (relazione inversa) tra disoccupazione e tasso d'inflazione è stato riproposto in un celebre articolo del 1958 dall'economista neozelandese A.W. Phillips (1914-1975); la curva decrescente che rappresenta tale relazione inversa (detta 'curva di Phillips') costituisce, per gli economisti della 'sintesi neoclassica', l'insieme delle possibili scelte di politica economica. Ma, come si accennerà più avanti, tale concezione è stata oggetto di varie critiche negli ultimi venticinque anni.
b) Monetaristi e teorici delle aspettative razionali
All'interno della tradizione marginalista si apre, a partire dagli anni cinquanta, un vivace dibattito sulla plausibilità delle ipotesi necessarie per assicurare il risultato 'keynesiano' di una disoccupazione persistente. Questo dibattito in sostanza riguarda la forza dei meccanismi di mercato nel ristabilire l'equilibrio tra domanda e offerta nel caso del lavoro, e l'opportunità dell'intervento pubblico in campo economico. Fra quanti nutrono fiducia nei meccanismi riequilibratori del mercato e ostilità verso l'intervento pubblico nell'economia, particolare rilievo ha la Scuola di Chicago. Milton Friedman (n. 1912, premio Nobel nel 1976) è considerato il massimo esponente di questa scuola. Egli sviluppa una teoria della moneta diversa da quella di Keynes, riprendendo e sviluppando le tesi della vecchia teoria quantitativa. In particolare, nel lungo se non nel breve periodo, il livello di equilibrio del reddito dipende da fattori 'reali' come le dotazioni di risorse, la tecnologia e le preferenze dei soggetti economici; la velocità di circolazione della moneta è considerata come funzione stabile dei tassi di rendimento dei vari tipi di attività (moneta, titoli, beni, 'capitale umano').
Friedman sostiene quindi che le vicende monetarie, in particolare l'offerta di moneta (che è considerata esogena), possono influire sul reddito e sull'occupazione solo nel breve periodo; nel lungo periodo le variazioni dell'offerta di moneta influiscono solo sul livello generale dei prezzi (in altri termini, la 'curva di Phillips' risulta inclinata negativamente solo nel breve periodo, ma diventa verticale nel lungo periodo).Inoltre Friedman condanna gli interventi di politica monetaria e fiscale diretti a sostenere la domanda globale e quindi il reddito e l'occupazione; non solo perché l'efficacia di questi interventi è limitata al breve periodo, ma anche perché gli stessi effetti di breve periodo sono incerti, e possono anzi risultare negativi. Infatti, ricorda Friedman, gli interventi di politica economica sono soggetti a tre tipi di ritardi e di incertezze: 1) quelli inerenti alla valutazione della situazione su cui intervenire; 2) quelli inerenti al passaggio dalla valutazione alla decisione dell'intervento e alla sua attuazione; e, infine, 3) quelli relativi al passaggio dall'attuazione dell'intervento al momento in cui si esplicano i suoi effetti. A causa di questi ritardi e incertezze è possibile, ad esempio, che gli interventi esercitino gli effetti previsti ma in una situazione diversa, in cui sarebbero necessari interventi di segno opposto. Quindi gli interventi di politica economica possono avere un effetto destabilizzante, cioè ampliare, anziché ridurre, le fluttuazioni del reddito.
Una tesi ancora più estrema viene sostenuta dai teorici delle 'aspettative razionali' (gli statunitensi J.F. Muth, R.E. Lucas, T.J. Sargent). Secondo questi ultimi, i soggetti economici imparano a tener conto dell'intervento pubblico nell'economia, scontandone gli effetti in anticipo; così, ad esempio, una spesa pubblica in disavanzo, cioè non finanziata con un aumento contemporaneo delle tasse, decisa per stimolare la domanda globale, viene controbilanciata da una riduzione dei consumi privati, decisa per accantonare i risparmi con cui pagare le tasse che prima o poi dovranno venire imposte per far fronte agli oneri del debito pubblico con cui viene finanziata la spesa pubblica. Pertanto, la 'curva di Phillips' risulta verticale anche nel breve periodo: gli interventi di politica monetaria e fiscale espansivi possono produrre solo aumenti del tasso d'inflazione, e non del livello di disoccupazione. (Si può notare, per inciso, che queste ipotesi presuppongono che tutti i soggetti economici condividano uno stesso modello di funzionamento dell'economia, e siano dotati di una cultura economica e di una capacità di previsione che sarebbe un eufemismo definire irrealistiche).L'unico tipo di politica economica ammessa dai teorici delle aspettative razionali è quello diretto a ridurre le frizioni nel funzionamento del mercato: le cosiddette 'politiche dell'offerta', consistenti ad esempio nel facilitare la mobilità dei lavoratori da un posto di lavoro a un altro, o nell'assicurare che le qualifiche di cui la forza-lavoro del paese viene dotata corrispondano agli sbocchi professionali offerti dal mercato.
c) I postkeynesiani
Di fronte alla reinterpretazione della teoria di Keynes proposta dalla sintesi neoclassica e alle critiche monetariste, si è avuta una decisa reazione da parte di un gruppo di economisti noti come postkeynesiani (come gli inglesi Joan Robinson, 1903-1983, e Richard Kahn; l'ungherese, naturalizzato inglese, Nicholas Kaldor, 1908-1986 ; gli statunitensi Sidney Weintraub, 1914-1983, e Hyman Minsky, n. 1920).Questi economisti sottolineano che lo schema IS-LM proposto da Hicks e condiviso dagli economisti della sintesi neoclassica relega in secondo piano l'elemento più caratteristico della concezione keynesiana: l'incertezza sul futuro che domina le decisioni degli operatori economici. Nel caso della funzione degli investimenti, ben più importanti del tasso d'interesse sono le aspettative degli imprenditori sulla redditività dei vari progetti d'investimento: aspettative che Keynes considera 'volatili', nel senso che cambiano continuamente, a seconda ad esempio del clima politico e delle condizioni economiche generali.
Nel caso della domanda di moneta, Keynes considera le aspettative sul futuro (per la precisione, sull'andamento futuro del tasso d'interesse) essenziali nel determinare la domanda di moneta a scopo speculativo, che egli considera la componente principale della domanda di moneta, e soprattutto quella che ne determina la continua variabilità. Di fronte alla rilevanza dell'incertezza sul futuro, alla volatilità delle aspettative, e alla conseguente variabilità delle relazioni che legano gli investimenti e la domanda di moneta a scopo speculativo al tasso d'interesse, gli economisti postkeynesiani considerano fuorviante la rappresentazione di mercati in equilibrio, per i beni come per la moneta, cioè la concezione che è alla base dello schema IS-LM. In luogo dell'equilibrio simultaneo dei vari mercati, tipico della tradizione marginalista e ripreso nello schema IS-LM, gli economisti postkeynesiani propongono una caratterizzazione del sistema economico basata su una sequenza di nessi di causa ed effetto: la domanda speculativa di moneta, assieme alla politica monetaria della banca centrale, influisce sul tasso d'interesse; questo a sua volta, assieme alle aspettative, influisce sul livello degli investimenti; gli investimenti, tramite il moltiplicatore, determinano il livello del reddito e dell'occupazione. In questo modo si sottolinea l'influenza che le vicende dei mercati monetari e finanziari esercitano sul reddito e sull'occupazione, in contrapposizione alle tesi della tradizione classica e marginalista sulla 'neutralità' della moneta. Inoltre, vari economisti postkeynesiani sostengono che l'offerta di moneta è endogena: cioè che la quantità di moneta in circolazione (particolarmente la moneta bancaria) non è controllata in modo rigido dalle autorità monetarie, ma dipende, almeno in parte, dalle decisioni di altri soggetti.
d) L'offerta di moneta in Keynes e nei monetaristi
Data l'importanza non solo teorica ma anche pratica che riveste la questione del modo di concepire l'offerta di moneta, conviene ritornare sui punti di vista espressi da Keynes e dai monetaristi.Si è già ricordato che vari economisti postkeynesiani hanno sostenuto che l'offerta di moneta è endogena; hanno sostenuto tale tesi in chiave critica sia dello schema IS-LM di Hicks sia delle teorie dei monetaristi. Ora, è necessario ricordare che la massa monetaria si compone di diversi tipi di mezzi monetari, fra cui i principali sono i biglietti della banca centrale e i depositi presso le banche ordinarie. Se per i biglietti il controllo dell'autorità monetaria è diretto, pur se neppure qui totale, per i depositi è solo indiretto. Le variazioni dei depositi dipendono infatti principalmente dalle decisioni delle imprese; tuttavia, le loro iniziative assumono rilevanza monetaria solo se le banche ordinarie accolgono le richieste di prestiti concedendo aperture di credito o trasformando titoli di credito che non hanno funzioni monetarie, come le cambiali, in depositi, che costituiscono moneta bancaria. A loro volta, le decisioni delle banche ordinarie nel creare depositi possono incontrare un limite superiore nella politica della banca centrale; tuttavia, l'affermazione che la banca centrale è in grado di porre un limite all'espansione della moneta bancaria è ben diversa dall'affermazione che la massa dei mezzi monetari sia determinata dalla banca centrale. Questi due flussi di mezzi monetari dipendono dunque da impulsi significativamente, anche se solo parzialmente, diversi: come è dimostrato dal fatto che in certe circostanze, quali quelle che si verificarono all'insorgere della grande depressione nel 1929, la massa dei biglietti non diminuì e anzi ebbe un sia pur limitato aumento, mentre la massa dei depositi subì una forte contrazione. Fra l'altro, ciò indica che anche nelle fluttuazioni cicliche l'influenza della politica monetaria adottata dalla banca centrale è importante ma non dominante, almeno di norma.
Né la tesi del carattere endogeno né quella del carattere esogeno della moneta sono dunque pienamente valide; sembra tuttavia più vicina al vero la prima tesi. Sia Keynes nella Teoria generale, sia Friedman assumono come esogena la moneta; sotto questo aspetto Hicks nel suo modello IS-LM non tradisce il pensiero di Keynes. Tuttavia, mentre nel caso della teoria keynesiana l'assunzione di moneta esogena può essere abbandonata senza gravi conseguenze (le conseguenze possono essere gravi per lo schema di Hicks), ciò non vale per la teoria monetarista, la quale non può fare a meno di quell'assunzione: soltanto con essa, infatti, la moneta può apparire come motore e non come cinghia di trasmissione. La teoria monetarista tuttavia - l'abbiamo già accennato - considera la moneta come motore non delle quantità reali (che possono variare per effetto della politica monetaria solo in via transitoria), ma solo delle quantità nominali, in particolare dei prezzi. La grave limitazione che i moderni monetaristi hanno in comune con i sostenitori dell'antica teoria quantitativa della moneta - tra cui emerge lo statunitense Irving Fisher (1867-1947) - sta proprio in ciò, che essi non riescono a concepire variazioni generalizzate dei prezzi che non siano da attribuire a variazioni della quantità di moneta, mentre in realtà hanno luogo sia diminuzioni sia aumenti generalizzati dei prezzi non provocati da impulsi monetari. Ad esempio, la moneta non gioca un ruolo attivo quando i prezzi variano perché i salari monetari crescono più rapidamente della produttività del lavoro, o perché variano i prezzi delle materie prime e delle fonti di energia, o per misure di politica tributaria capaci d'influire sui prezzi attraverso i costi; e gli esempi potrebbero continuare. Si verificano indubbiamente circostanze in cui variazioni generalizzate dei prezzi dipendono da quelle della massa dei mezzi monetari; così, per esempio, quando durante una guerra o in tempo di pace la banca centrale aderisce alla richiesta del governo di finanziare il disavanzo del bilancio statale con la creazione di biglietti, può aver luogo un processo inflazionistico.
In breve, la formula con cui Fisher aveva sintetizzato l'antica teoria quantitativa della moneta, rielaborata ma non radicalmente modificata da Friedman, e cioè MV = PQ ovvero P = MV/Q, ha la natura di una tautologia e non può non essere sempre vera; per trasformarla in una formula esplicativa, occorre fare delle ipotesi su quali fra le quattro variabili che compaiono nella formula vadano considerate date, cioè determinate da fattori esterni alla teoria (o 'esogeni'). Se si assumono come dati la velocità di circolazione, V, e la quantità di beni, Q, lasciando liberi di variare M e P; se inoltre si assume che M vari per effetto del finanziamento di un deficit pubblico; allora è vero che le variazioni del livello dei prezzi dipendono da quelle di M. Ma se si ipotizza che il livello dei prezzi vari per impulsi esterni alla formula, come quelli provenienti dai costi cui si è fatto riferimento poco fa, allora la massa dei mezzi monetari e la velocità di circolazione giocano un ruolo passivo e non attivo nelle variazioni dei prezzi. Anzi, se l'autorità monetaria adotta una politica accomodante e accresce la quantità di moneta, man mano che i prezzi aumentano per effetto dell'aumento di certi costi, allora all'aumento di P si accompagna l'aumento di M, ma il secondo aumento è essenzialmente effetto e non causa del primo aumento.
Se invece l'autorità monetaria adotta una politica non accomodante ma restrittiva, può aver luogo una recessione senza che essa blocchi l'aumento dei prezzi. (In un secondo momento, tuttavia, la crescita dei prezzi potrà rallentare o arrestarsi, se proviene da un aumento dei salari, e se questo viene frenato dall'aumento della disoccupazione che si accompagna alla recessione).Il fatto che la relazione P = MV/Q è sempre vera non autorizza dunque ad attribuire sempre alla massa monetaria la responsabilità di aumenti generalizzati dei prezzi. Osservazioni analoghe valgono per flessioni generalizzate dei prezzi, come quelle che avvennero ripetutamente nel secolo scorso: queste flessioni vanno collegate principalmente ad aumenti della produttività del lavoro accompagnati da aumenti più lenti nei salari nominali. In contrasto con certe spiegazioni che s'ispiravano a qualche variante della teoria quantitativa, il ruolo giocato dalla moneta - nel secolo scorso nei paesi più sviluppati la moneta di base era l'oro - fu, se non proprio nullo, decisamente secondario.
e) Piero Sraffa
Il disegno culturale perseguito da Piero Sraffa (1898-1983) è decisamente di vasta portata: operare un capovolgimento delle linee di ricerca della scienza economica, detronizzando l'approccio marginalista dominante e proponendo in suo luogo l'impostazione originaria degli economisti classici.In analogia con la linea d'indagine seguita dagli economisti classici, in Produzione di merci a mezzo di merci (pubblicato nel 1960) Sraffa pone al centro della sua analisi i rapporti che intercorrono in condizioni 'normali' tra i vari settori, o industrie, in cui si articola un sistema economico basato sulla divisione del lavoro. Come si è già accennato a proposito dell'economia politica classica, ciascun settore deve entrare in contatto con gli altri settori dell'economia per ottenere da essi i propri mezzi di produzione in cambio di una parte almeno del proprio prodotto. Si ha così quella rete di scambi che caratterizza le economie basate sulla divisione intersettoriale del lavoro. Come mostra Sraffa, il problema della determinazione dei rapporti di scambio che si stabiliscono tra i vari settori va affrontato, in un'economia capitalistica, simultaneamente al problema della distribuzione del reddito tra le classi sociali dei lavoratori, dei capitalisti e dei proprietari terrieri. L'intersezione tra questi due problemi costituisce ciò che nella tradizione classica è indicato come problema del valore.
La critica dell'approccio marginalista proposta da Sraffa pone in rilievo il fatto che il 'capitale' è in realtà un insieme di mezzi di produzione prodotti, i cui prezzi variano in modo non univoco al variare della distribuzione del reddito, di modo che non è possibile affermare a priori che una riduzione del salario provochi una riduzione nell'utilizzo di 'capitale' rispetto al lavoro.
Senza entrare nei dettagli analitici del dibattito, ci limitiamo a osservare che la critica di Sraffa colpisce una tesi vitale per la tradizione marginalista: l'idea che la riduzione del salario reale causata dalla disoccupazione nel caso di un mercato del lavoro concorrenziale porti a un riassorbimento della disoccupazione stessa, inducendo gli imprenditori a scegliere tecniche a maggiore intensità di lavoro (e a minore intensità di capitale). Questo meccanismo è essenziale per sostenere la tesi della capacità autoregolatrice del mercato, e la visione dell'economia come scienza che studia, appunto, i meccanismi equilibratori del mercato.Inoltre, Sraffa ripropone l'approccio classico (di cui con la sua edizione critica delle opere di Ricardo aveva riscoperto le fondamenta concettuali e la struttura analitica), risolvendo il problema centrale del valore lasciato aperto dagli economisti classici e da Marx. La soluzione di Sraffa consiste nel determinare simultaneamente prezzi relativi e una variabile distributiva 'residuale' (salario o saggio del profitto), data la tecnologia corrispondente a un determinato insieme di livelli di produzione e una variabile distributiva 'esogena'. Sulla scia del lavoro di Sraffa, numerosi economisti - fra i quali diversi italiani - hanno sviluppato i vari aspetti del progetto culturale di ripresa della concezione classica: con analisi di storia del pensiero economico, dirette a chiarire le fondamenta concettuali dell'approccio classico e a distinguerle da quelle proprie dell'approccio marginalista; con lavori di critica a specifiche teorie marginaliste, in particolare relative alla teoria della distribuzione, dell'occupazione, dell'accumulazione, del commercio internazionale, e così via; con sviluppi analitici diretti ad approfondire su punti specifici (come la produzione congiunta, il capitale fisso, la scelta delle tecniche) il contributo offerto nel libro di Sraffa; infine, con lavori meno direttamente connessi all'analisi sraffiana, ma diretti a proporre teorie d'impostazione classica sui diversi problemi dell'economia politica, dalla teoria della distribuzione e dello sviluppo alla teoria delle forme di mercato.
Attualmente fra le forme di mercato sembrano preminenti quelle di tipo oligopolistico, il cui studio può essere utilizzato sia in analisi parziali (analisi di singoli mercati), sia in analisi di carattere generale (come quella consentita dal sistema di Sraffa), sia nell'analisi delle variazioni nel tempo dei prezzi e delle quote distributive. (Un'analisi di questo tipo è stata elaborata dal polacco Michal Kalecki, 1899-1970, noto soprattutto per aver precorso e poi sviluppato in modo originale alcuni aspetti centrali della teoria keynesiana).
4. L'analisi dinamica
a) Diversi tipi di modelli; il processo di meccanizzazione
Le variazioni su cui si concentra l'analisi marginalista sono variazioni istantanee e ipotetiche, fuori dal tempo. In realtà, l'impostazione di quest'analisi è essenzialmente statica: i pochi modelli teorici dinamici che sono stati elaborati nell'ambito del marginalismo comportano spostamenti ipotetici delle funzioni, un metodo che è dubbio rientri nella dinamica. I modelli dell'analisi marginalista non soltanto sono statici, ma soprattutto non sembrano suscettibili, neppure attraverso successive approssimazioni, di sviluppi dinamici. È un limite grave, se si considera che la nostra epoca è dominata dai mutamenti tecnologici e dal processo di sviluppo economico.Gli economisti classici, segnatamente Adam Smith e David Ricardo, attribuivano invece importanza fondamentale a entrambi i fenomeni. Questo è manifestamente vero per Smith (il processo della crescente divisione del lavoro consiste appunto in una serie ininterrotta di mutamenti grandi e piccoli dei metodi produttivi da cui consegue un aumento sistematico della produttività del lavoro), ma è vero anche per Ricardo, non solo e non tanto per la sua famosa analisi riguardante i possibili effetti negativi sull'occupazione derivanti dall'introduzione di macchine, quanto per il fatto che l'analisi delle tendenze delle quote distributive (salari, profitti e rendite) è posta al centro della sua costruzione teorica proprio per la sua importanza fondamentale in relazione al processo di accumulazione e di sviluppo. In particolare Ricardo pensava che la tendenza, da lui presunta, all'aumento progressivo della quota del reddito nazionale destinata alle rendite fondiarie fosse preoccupante proprio perché avrebbe comportato la progressiva compressione della quota destinata ai profitti, da cui dipende il processo di accumulazione.
Fra i modelli teorici di sviluppo non formalizzati, oltre quelli degli economisti classici, troviamo il modello dello sviluppo ciclico di Schumpeter, di cui si è detto, e il modello di Marco Fanno (1878-1965), che riguarda principalmente il ciclo economico ma, subordinatamente, anche il processo di sviluppo. Fra i modelli formalizzati troviamo quello proposto dal grande matematico John von Neumann (1903-1957), e i modelli di derivazione keynesiana elaborati in Gran Bretagna da Roy Harrod (1900-1978) e negli Stati Uniti da Evsey Domar (n. 1914). L'originaria teoria keynesiana aveva essenzialmente carattere statico, ma si è rivelata suscettibile di sviluppi dinamici. Ci sono poi modelli formali di crescita collegati più alla lontana con la teoria keynesiana, come quelli di Nicholas Kaldor e di Luigi Pasinetti (n. 1930). In questi modelli, come già nelle analisi di Smith, si attribuisce il massimo rilievo al progresso tecnico, visto come originato all'esterno del sistema economico.
Quest'ultimo punto merita riflessione. Infatti, mentre certe innovazioni possono essere considerate indipendenti da impulsi economici, altre invece provengono essenzialmente da impulsi di tal genere, come l'espansione della domanda e l'aumento dei costi, cosicché è compito dell'economista studiarli. È da notare che Smith, secondo il quale la divisione del lavoro è condizionata dall'estensione del mercato, aveva già ben compreso che la crescita della domanda influisce in modo significativo sul ritmo del progresso tecnico. Di norma, possono essere considerate in gran parte indipendenti da impulsi economici le innovazioni di grande rilievo, originate da invenzioni scientifiche fuori dall'ordinario, mentre le innovazioni più frequenti, di rilievo più modesto, spesso semplici perfezionamenti di grandi innovazioni, sono indotte principalmente da impulsi economici, fra cui sono appunto l'espansione della domanda e l'aumento dei costi. Particolare importanza assumono le innovazioni determinate da aumenti del costo relativo del lavoro, ossia da aumenti del rapporto fra salari e prezzi delle macchine. In effetti, lo sviluppo del capitalismo industriale moderno è stato caratterizzato da un processo di progressiva meccanizzazione (e in tempi recenti di progressiva automazione) dei processi produttivi. L'aumento della produttività del lavoro che accompagna la meccanizzazione può aver luogo in presenza di salari monetari tendenzialmente stabili, o crescenti più lentamente della produttività; ovvero può aver luogo in presenza di salari monetari che crescono con la stessa velocità o più rapidamente della produttività. In tutti i casi, cresce il rapporto fra salari e prezzi (compresi i prezzi delle macchine); e l'aumento di questo rapporto stimola la sostituzione di macchine a lavoro. Il processo si autoalimenta, nel senso che l'aumento di quel rapporto, che stimola l'introduzione di nuove macchine, fa crescere la produttività; a sua volta, tale aumento consente un aumento dei salari rispetto a tutti i prezzi, compresi i prezzi degli stessi beni acquistati dai lavoratori; di conseguenza, quel rapporto subisce un nuovo aumento. Il processo comporta un aumento sistematico dei salari reali.
Nei periodi in cui l'aumento della domanda globale di beni è stato più lento dell'aumento di produttività è emersa una disoccupazione, che può essere vista come disoccupazione tecnologica in quanto l'aumento di produttività di norma trae origine da innovazioni tecnologiche. Non è affatto necessario, tuttavia, che le innovazioni determinino disoccupazione: spesso la domanda aggregata aumenta alla stessa velocità e anche più rapidamente della produttività, cosicché la disoccupazione non compare o, al contrario, ha luogo un aumento dell'occupazione. D'altra parte, in certe condizioni la domanda aggregata diminuisce: compare allora una disoccupazione particolare, di tipo keynesiano.
b) Le variazioni di lungo periodo dei salari e dei prezzi
L'aumento dei salari reali può aver luogo quando i prezzi dei beni acquistati dai lavoratori diminuiscono mentre i salari monetari restano stabili o aumentano limitatamente; oppure quando i salari monetari aumentano mentre i prezzi restano stabili o crescono più lentamente dei salari. La prima tendenza ha avuto luogo nel secolo scorso (in Inghilterra i prezzi dei prodotti finiti sono diminuiti di oltre il 70%, negli Stati Uniti di quasi la metà, mentre i salari monetari sono aumentati, rispettivamente, del 70% e del 90%, ossia, in media, dello 0,5 o 0,6 % l'anno). La seconda tendenza - salari che aumentano più rapidamente dei prezzi, anch'essi in aumento - ha avuto luogo dopo la fine della seconda guerra mondiale. (Nel periodo compreso fra le due guerre mondiali salari e prezzi hanno subito violente oscillazioni; questo periodo è stato dominato dalla grande depressione e richiede un'analisi a sé stante). Non è indifferente che l'aumento di produttività dia luogo a un aumento dei salari reali attraverso una flessione dei prezzi mentre i salari monetari restano stabili o in moderato aumento, ovvero attraverso un aumento dei salari monetari mentre i prezzi restano stabili o in moderato aumento. Il primo meccanismo infatti stimola il processo di sviluppo, tramite una catena di diminuzioni di costi che si verifica quando l'aumento di produttività ha luogo in un settore che produce mezzi di produzione: in regime di concorrenza, la diminuzione dei costi crea extra-profitti che inducono le imprese a espandere la produzione, provocando diminuzioni di prezzo del prodotto (e quindi ulteriori diminuzioni dei costi nei settori che lo utilizzano come mezzo di produzione) fino a quando gli extra-profitti non vengono riassorbiti.
Questa specifica sequenza, favorevole al processo di sviluppo, viene meno quando - come accade se prevalgono forme di mercato oligopolistiche - i prezzi non diminuiscono e i lavoratori partecipano ai frutti del progresso tecnico tramite aumenti dei salari monetari. In quest'ultimo caso restano, come stimoli allo sviluppo già presenti nel periodo precedente (ma con importanza minore), le innovazioni e gli aumenti della domanda proveniente dall'estero o dal settore pubblico.
La transizione dalla prima alla seconda delle due tendenze alternative, che contrassegnano due successivi periodi storici, è collegata a profonde trasformazioni nella struttura delle moderne economie capitalistiche. Le principali trasformazioni sono la conseguenza del processo di concentrazione, che ha condotto alla formazione di grandi e grandissime imprese, spesso di dimensioni internazionali, e del processo di differenziazione dei prodotti, consentito da un crescente livello del reddito individuale anche nelle fasce relativamente più povere della popolazione e favorito dalla diffusione della pubblicità. I due processi si sono verificati nei mercati dei prodotti industriali e, con caratteristiche particolari, nelle attività finanziarie e creditizie. Al tempo stesso, si sono rafforzati i sindacati dei lavoratori e si sono diffuse, nel mercato del lavoro, varie forme di contrattazione collettiva, ciò che ha contribuito a determinare una crescente rigidità verso il basso dei salari. Nel secolo scorso e ancora fino alla seconda guerra mondiale accadeva che i salari monetari diminuissero; nei moderni paesi capitalistici ciò non si è più verificato dopo la seconda guerra mondiale, anzi, in questi paesi, i salari aumentano almeno in proporzione alla produttività. Corrispondentemente, i prezzi all'ingrosso dei prodotti finiti ben di rado diminuiscono e, se ciò accade, la diminuzione è minima. Restano flessibili verso l'alto come verso il basso i prezzi delle materie prime, nei cui mercati hanno avuto scarsa rilevanza i due processi, sopra ricordati, di concentrazione delle imprese e di differenziazione dei prodotti.
Con salari rigidi verso il basso e flessibilità minima dei prezzi dei prodotti finiti, quando si verifica una crisi o una depressione, la ripresa, che nel passato era pressoché automatica, oggi incontra difficoltà molto maggiori. Infatti, l'aumento della domanda reale non è più stimolato dal meccanismo concorrenziale di diffusione a catena di riduzioni dei costi, extra-profitti, aumenti di produzione e riduzioni dei prezzi. Nelle nuove condizioni, la ripresa può avere luogo o per effetto d'investimenti stimolati da innovazioni, o per un aumento della domanda estera, o per un'azione del governo. Nel caso che le prime due spinte siano insufficienti, è il governo che deve intervenire: la sua azione può consistere non solo in un aumento delle spese pubbliche, ma anche in una politica creditizia attiva. Gli stessi sindacati, spingendo in alto i salari, possono contribuire all'aumento della domanda.Le considerazioni appena svolte si collegano alla storia economica più che alla teoria economica, e costituiscono elementi di un'interpretazione che non è generalmente accolta. Ciò nonostante le abbiamo proposte, perché i più recenti sviluppi della teoria economica (di cui si è discusso sopra, nel cap. 3) ben difficilmente possono essere compresi se non si fa riferimento alle trasformazioni strutturali verificatesi nelle moderne economie capitalistiche. Inoltre, quelle considerazioni possono servire a illustrare un tema fondamentale già ricordato al principio della nostra trattazione, cioè i rapporti fra teoria economica e storia. Gli economisti che ignorano la necessità di tali rapporti continuano imperterriti a costruire modelli fondati sulle ipotesi, del tutto irrealistiche nel mondo di oggi, della concorrenza atomistica e della flessibilità verso il basso come verso l'alto dei prezzi e dei salari.
Pur non analizzandole esplicitamente, Keynes aveva correttamente interpretato le conseguenze di quelle trasformazioni, raccomandando, in particolari condizioni, una politica attiva del credito e una vigorosa espansione delle spese pubbliche, anche in deficit, per promuovere la ripresa economica. Sulla scia di queste raccomandazioni per l'assunzione di un ruolo attivo dello Stato nell'economia, e sulla scia del crescente peso politico dei lavoratori, un programma di spese sociali fu poi sistematicamente elaborato da lord Beveridge (1879-1963), la cui opera Pieno impiego in una società libera (1946), preparata con la collaborazione di Kaldor e ricollegandosi esplicitamente alle teorie keynesiane, ebbe grande influenza sulle politiche sociali di tutti i paesi capitalistici.
Già in passato lo Stato era intervenuto per proteggere le fasce più deboli della popolazione in diversi campi, segnatamente in quelli delle pensioni, della sanità e della disoccupazione. Ma solo dopo la seconda guerra mondiale l'azione pubblica ha assunto le dimensioni che tutti conosciamo. Ciò è stato reso possibile, fra l'altro, dall'accresciuto reddito individuale medio. Tuttavia in alcuni paesi una spesa pubblica eccessiva (anche per il suo utilizzo come 'ammortizzatore sociale' dopo la crisi petrolifera del 1973-1974) ha contribuito negli anni settanta e ottanta alla formazione e alla crescita dei disavanzi pubblici non di breve ma di lungo periodo. A sua volta, ciò ha contribuito - assieme alla diffusione, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, di dottrine monetariste favorevoli all'uso di politiche monetarie restrittive come strumento di lotta all'inflazione - a spingere verso l'alto il tasso dell'interesse, frenando così gli investimenti e la crescita produttiva (non solo nei paesi sviluppati, ma anche e soprattutto nei paesi del Terzo Mondo, spesso appesantiti da enormi debiti esteri). Al tempo stesso, in vari paesi sviluppati si è avuta una reazione dell'opinione pubblica contro l'aumento della pressione fiscale (la cosiddetta 'rivolta fiscale'), e contro l'espansione delle spese pubbliche o, più in generale, contro gl'interventi pubblici nell'economia. La diffusione del monetarismo o di teorie come quella delle aspettative razionali, alle quali si è accennato sopra, costituiscono espressioni teoriche di questa reazione.
L'importanza dell'azione pubblica nella vita economica, comunque, non deve essere misurata semplicemente considerando il peso delle spese pubbliche rispetto al prodotto interno lordo: un peso che in certi paesi giunge al 50% e che nella patria del capitalismo privato, gli Stati Uniti, si aggira sul 35%. Occorre anche considerare il carattere dell'azione pubblica nei diversi settori, specialmente nel fondamentale settore del credito, il cui vertice - la banca centrale - è ormai in tutti i paesi un'istituzione pubblica, pur dotata di autonomia, e la cui base - le aziende di credito - è in vari modi controllata dall'autorità monetaria o è addirittura, in parte, posseduta dallo Stato o da enti pubblici (in Italia la quota dei depositi che fa capo ad aziende di credito pubbliche raggiunge il 70%; in altri paesi sviluppati la quota è minore, ma non è mai trascurabile). D'altra parte, il gran peso assunto dai titoli pubblici nei mercati finanziari ha reso possibile un controllo pubblico della politica creditizia impensabile nel secolo scorso. Anche questi interventi di carattere istituzionale hanno dato luogo ad abusi molto gravi, cosicché anche in questo caso le reazioni contro gl'interventi pubblici sono ben comprensibili. Tuttavia, il rimedio non sta nella condanna globale e acritica di tali interventi; il rimedio sta nell'introduzione di cambiamenti organizzativi tendenti a eliminare gli abusi, promuovendo con decisione, non la riprivatizzazione generalizzata delle aziende - creditizie e non creditizie - controllate dallo Stato, il che non sarebbe possibile, ma una privatizzazione ampia e differenziata secondo un ben meditato ordine di priorità.Si deve osservare tuttavia che l'idea, condivisa da parecchi economisti, che lo Stato da un lato e i sindacati dall'altro costituiscano un male in sé per l'economia, è un'idea erronea. Il fatto è che pur in presenza di sindacati relativamente forti e di un accresciuto ruolo dello Stato nell'economia, dopo la fine della seconda guerra mondiale lo sviluppo economico e civile è stato più, e non meno, sostenuto che nel passato: nonostante errori, eccessi e sprechi di ogni genere, la somma algebrica è stata positiva.
c) Il sottosviluppo
Fra i modelli dinamici ve ne sono alcuni che riguardano lo sviluppo dei paesi arretrati. Quello del sottosviluppo è forse il maggiore problema della nostra epoca, per i suoi riflessi umani, civili, ambientali. Qui possiamo fornire solo alcuni brevissimi cenni.In via preliminare, si può osservare che per diversi importanti aspetti l'analisi dei paesi sottosviluppati può trovare un valido punto di partenza nelle opere degli economisti classici, a cominciare dall'opera di Adam Smith, giacché la situazione odierna dei diversi paesi del Terzo Mondo, pur con profonde differenze, presenta non poche analogie con i paesi europei del Settecento. Gli economisti classici insistevano sull'impiego, produttivo o improduttivo, del sovrappiù, che allora era costituito da tutti i redditi non da lavoro (profitti, interessi e rendite), i quali potevano essere in parte risparmiati o tassati. Oggi la distinzione fra impieghi produttivi e improduttivi non è considerata rilevante dalla teoria moderna, mentre lo è se si considerano i paesi del Terzo Mondo, nei quali pertanto acquista importanza essenziale esaminare sia il reimpiego produttivo del sovrappiù da parte delle stesse unità produttive, sia l'apparato per il trasferimento volontario di una parte del sovrappiù (sistema creditizio), sia l'apparato per il trasferimento coattivo (sistema tributario).
Al tempo stesso, acquista importanza essenziale distinguere il sovrappiù che è tale per l'intera economia dal 'sovrappiù' che è tale solo per singoli privati: il primo comporta una crescita del reddito, il secondo una sua redistribuzione. Con riferimento ai profitti, questa distinzione corrisponde a quella proposta, sulla scia degli economisti classici, da Alberto Breglia (1900-1955), fra profitti 'sterili' e profitto 'fecondo'. I primi sono profitti 'da sottrazione', in quanto corrispondono a un trasferimento di risorse da un soggetto a un altro, e non a un aumento delle risorse complessive. I profitti 'da sottrazione' possono essere imputati a posizioni di monopolio o a operazioni puramente speculative in periodi di inflazione ovvero - ma qui i profitti sarebbero 'distruttivi' e non soltanto sterili - possono provenire dalla produzione e dal commercio di sostanze stupefacenti e attività consimili. Il profitto 'fecondo' o 'da addizione', invece, è quello proveniente da una crescita della produttività e dalla conseguente riduzione dei costi. Se si ammette che i soggetti economici tendono a ripetere le operazioni alle quali sono abituati, si può presumere che di regola coloro che ottengono un profitto 'fecondo' tendono a reimpiegarlo produttivamente, cosicché la spirale produttiva tende a perpetuarsi, originando un processo di sviluppo che è tale sia per il singolo sia per la società. Questi concetti sono tutti presenti, esplicitamente o implicitamente, nell'impostazione stessa delle analisi elaborate dai classici, e riacquistano tutta la loro importanza nello studio dei paesi sottosviluppati.
Tra i modelli teorici relativi ai paesi sottosviluppati quello di Arthur Lewis (n. 1915, premio Nobel nel 1979) - che riguarda specialmente i paesi delle fasce tropicali e subtropicali - si ricollega, sotto importanti aspetti, alle analisi degli economisti classici, e comunque si situa fuori dalla tradizione marginalista. Il modello di Lewis concentra l'attenzione sulle condizioni dell'offerta di lavoro, che in quei paesi è economicamente illimitata (com'era nella prima fase dell'industrializzazione dei paesi oggi sviluppati), non solo per la crescita demografica, ma anche per la possibilità, per le imprese capitalistiche, di reclutare manodopera sottraendola ad attività premoderne, come quelle svolte nelle tribù. Il modello considera inoltre le condizioni delle produzioni di beni alimentari di base, nelle quali, per la bassa produttività, è assai limitato il sovrappiù che può essere investito sia nella stessa agricoltura sia in attività extra-agricole: come già avevano messo in rilievo i classici, infatti, un sovrappiù limitato frena l'accumulazione. D'altra parte, l'offerta economicamente illimitata di lavoro - anche questa è una caratteristica che nella sostanza troviamo già nelle analisi dei classici - comporta un livello dei salari basso, vicino al livello di sussistenza, e relativamente stazionario, cosicché ogni aumento di produttività nelle attività basate sul lavoro salariato, come quelle svolte nelle piantagioni e nelle miniere, tende a tradursi in una flessione dei prezzi relativi (che nelle relazioni internazionali sono denominati 'ragioni di scambio'), in direzione sfavorevole ai paesi produttori, cioè in genere ai paesi in via di sviluppo.
Da notare che durante gran parte del secolo scorso, un periodo in cui gli aumenti di produttività si traducevano in flessioni dei prezzi dei beni prodotti dai paesi sviluppati, le 'ragioni di scambio' variavano non contro ma a favore dei paesi in via di sviluppo, giacché nell'industria manifatturiera dei paesi sviluppati la produttività cresceva e i prezzi diminuivano a ritmi più rapidi di quanto accadeva nei paesi arretrati.Il modello di Lewis riguarda in modo particolare i paesi sottosviluppati tropicali che producono materie prime agrarie e minerarie: paesi che si trovano in larghe zone dell'Africa e dell'Asia, e in zone più ristrette dell'America Latina. Per numerosi paesi sottosviluppati dell'America Latina e dell'Asia, tuttavia, valgono modelli interpretativi alquanto diversi. Occorre rilevare che in un numero ancora piccolo ma in continua crescita di paesi asiatici ha avuto luogo un processo di sviluppo economico e, in particolare, industriale, relativamente vigoroso: sono i 'paesi di nuova industrializzazione', fra i quali troviamo la Corea del Sud e Taiwan; l'Indonesia sta entrando in una fase di crescita sostenuta. L'India, oltre a un non trascurabile sviluppo industriale, è riuscita, grazie anche a innovazioni di tipo agrario ('rivoluzione verde'), a ottenere una crescita della produzione di beni alimentari un po' più rapida della pur ragguardevole crescita demografica, cosicché le frazioni della popolazione colpite dalla fame si stanno decisamente restringendo, mentre permangono estese le fasce di popolazione che soffrono di malnutrizione.
Non solo per l'India, ma in generale per molti paesi in via di sviluppo è importante la questione del rapporto fra crescita delle produzioni di beni alimentari e crescita demografica. Tale questione può essere risolta da paesi arretrati relativamente piccoli procurandosi i beni alimentari di cui hanno bisogno attraverso gli scambi internazionali piuttosto che attraverso la produzione diretta; ma per paesi grandi e popolosi come l'India tale via può rappresentare solo un contributo parziale. Accanto alla questione dello sviluppo produttivo c'è dunque un problema di crescita demografica. Dopo la seconda guerra mondiale nei paesi del Terzo Mondo tale crescita si è accelerata, non per un aumento della natalità ma per una rapida diminuzione della mortalità, imputabile alla costruzione di strutture igieniche e alla diffusione dei farmaci moderni e dei servizi sanitari. In larga misura, il problema della miseria del Terzo Mondo è da attribuire proprio alla rapida crescita demografica. È bene osservare che agli inizi della scienza economica moderna i problemi dello sviluppo produttivo e quelli della crescita demografica erano considerati congiuntamente e non separatamente, come oggi accade. Il problema demografico chiama direttamente in causa i problemi dell'evoluzione culturale e del grado dell'istruzione. Infatti per i demografi è ormai un dato acquisito che il grado dell'istruzione, in particolare quello delle donne (che nei paesi arretrati di regola hanno un'istruzione inferiore, non di rado assai inferiore, a quella degli uomini), condiziona la velocità del declino del saggio di natalità: a parità di reddito individuale, maggiore è il grado d'istruzione delle donne, più rapida è la flessione del saggio di natalità. (La flessione della mortalità prima o poi porta con sé quella della natalità, ma la velocità relativa delle due flessioni ha importanza fondamentale per l'andamento del reddito pro capite.) Una politica demografica tendente ad accelerare la flessione della natalità deve pertanto collegarsi alla politica di diffusione dell'istruzione; si possono poi utilizzare anche incentivi e disincentivi di carattere economico.
Questi temi vengono tutti trattati, spesso separatamente, da demografi e da economisti. Anche questi temi rientrano nell'ambito della dinamica economica, intesa in senso ampio; e anche per questi temi c'è una ripresa d'interesse da parte degli economisti, alcuni dei quali si rifanno esplicitamente, per questo come per altri aspetti, agli economisti classici come Adam Smith.
d) I problemi dell'ambiente e lo sviluppo sostenibile
Il processo di sviluppo ha portato con sé, nei paesi in cui ha avuto luogo, cospicui benefici, ma ha avuto e sta avendo altresì costi rilevanti sotto l'aspetto dei valori morali e umani e sotto l'aspetto economico. Già al principio di questo secolo, alcuni economisti mettevano in rilievo i costi economici che lo sviluppo economico può comportare, per esempio, per via dell'inquinamento. Negli ultimi decenni gli effetti della crescita esplosiva delle produzioni industriali si sono manifestati in forme sempre più allarmanti. Si può stimare che nei paesi sviluppati la produzione industriale sia cresciuta di oltre venti volte negli ultimi cento anni; se si ammette che le esalazioni, i fumi, i rifiuti provenienti dai processi produttivi e i rifiuti provenienti dai consumatori siano cresciuti in una proporzione simile, ci si rende conto delle dimensioni gigantesche assunte dai problemi che oggi vengono definiti ambientali. Questi problemi inoltre sono stati fortemente aggravati dal fatto che certe produzioni sono risultate non semplicemente inquinanti ma addirittura tossiche, con effetti che si propagano attraverso l'aria, le acque e i terreni, e quindi attraverso le produzioni alimentari.
Di fronte a questi problemi, molti studiosi - economisti e non economisti - si sono chiesti in quale misura e in quale modo lo sviluppo economico sia 'sostenibile', cioè tale da non danneggiare l'ambiente naturale in cui viviamo. Il concetto di 'sviluppo sostenibile' ha attratto sempre più l'attenzione in questi ultimi anni; dal nostro punto di vista, il problema principale non riguarda la sua concreta definizione, che è affidata a campi scientifici in rapido sviluppo genericamente indicati con il termine 'ecologia', ma il modo in cui ci si può assicurare che le scelte degli operatori economici si muovano nella direzione desiderata. Le questioni rilevanti, da questo punto di vista, riguardano il conflitto tra interessi privati e interesse pubblico, e tra mercato e Stato, ma anche il rapporto tra economia e morale. Si tratta di questioni che sono state al centro del dibattito fin dalla nascita dell'economia politica, alle quali in parte abbiamo già accennato sopra parlando della concezione di Adam Smith (v. § 2b), e che di recente sono tornate a costituire oggetto di riflessione (ricordiamo ad esempio le ricerche di Amartya Sen). Così come non potrebbe funzionare un'economia di mercato in cui il macellaio e il fornaio fossero liberi di adulterare la loro merce, non sarebbe possibile evitare il degrado dell'ambiente naturale senza una coscienza civica che abbia interiorizzato la sua importanza per il benessere sociale, e senza istituzioni capaci di intervenire per imporre il rispetto dei vincoli ambientali nei casi di violazione della norma morale. Il problema del rapporto tra intervento pubblico e libera iniziativa privata nell'ambito di un'economia di mercato appare così come una questione di complementarità, piuttosto che di opposizione. Ma questo non vale solo per le macrostrutture giuridiche e amministrative: vale anche per gli interventi più specifici di politica economica. A titolo esemplificativo, consideriamo alcuni problemi relativi al settore energetico.
La crescita del settore energetico e i cambiamenti nella sua struttura interna sono collegati da complesse relazioni di causa ed effetto all'evoluzione dell'economia nel suo complesso. Così è evidente che i consumi energetici complessivi dipendono strettamente dall'andamento della produzione e del reddito; ed è altrettanto evidente che una crescente disponibilità di energia costituisce un prerequisito per lo sviluppo economico. In altri termini, lo sviluppo economico è condizionato dall'offerta di energia, ma allo stesso tempo ne determina la domanda. Non dobbiamo trascurare poi il ruolo del cambiamento tecnologico: da un lato la crescente meccanizzazione e l'aumento del prodotto pro capite spingono nella direzione di un'espansione dei consumi energetici; ma dall'altro lato il progresso tecnico, nella costante ricerca della riduzione dei costi di produzione, è anche la fonte di una riduzione dei fabbisogni energetici per unità di prodotto, e di una maggiore efficienza nell'uso di energia in generale. Il risultato netto di queste due spinte contrastanti dipende in misura probabilmente decisiva dall'andamento dei prezzi delle varie forme di energia: nei periodi di crescita di tali prezzi, si ha un processo di 'sostituzione dinamica', in cui imprese e famiglie dedicano maggiore attenzione allo sviluppo e all'applicazione pratica di nuove tecnologie che consentono risparmi energetici; mentre nei periodi di prezzi calanti dell'energia (non necessariamente in assoluto, ma rispetto ai prezzi degli altri mezzi di produzione e di consumo) la spinta a una riduzione dei consumi energetici viene meno, e questi ultimi tendono a seguire da vicino l'andamento della produzione e del reddito. Anzi, i consumi energetici possono crescere più rapidamente della produzione e del reddito, sia per i motivi indicati sopra (crescente meccanizzazione, e quindi crescente 'intensità energetica', della produzione), sia perché i consumi energetici delle famiglie corrispondono in misura notevole alla domanda di beni e servizi per soddisfare bisogni di ordine superiore, che per loro natura assorbono una quota crescente del reddito.
Il progresso tecnico, che procede a velocità diseguale nei vari campi, è il fattore principale anche nel determinare i cambiamenti nella struttura interna del settore energetico. La sua importanza è confermata da due circostanze. In primo luogo, la sequenza legna-carbone-petrolio-fissione nucleare e gas naturale-fusione nucleare ed energia solare, che indica la successione delle fonti di energia dominanti (dove l'ultimo anello della catena indica lo scenario più verosimile, anche se non l'unico possibile, per la metà del prossimo secolo), appare come una sequenza di miglioramenti nella capacità tecnologica dell'uomo di estrarre energia dalla natura, caratterizzata da fortissimi aumenti dell'offerta di energia a costi mediamente decrescenti. In secondo luogo c'è da registrare la crescente penetrazione dell'elettricità, cioè l'aumento della quota dei consumi di energia soddisfatti dall'elettricità. Tale tendenza assicura maggiore flessibilità all'offerta di energia, dato che l'elettricità può essere prodotta usando diverse fonti primarie, e quindi assicura una maggiore autonomia di politica energetica ai vari paesi, che possono compiere scelte diverse a seconda delle proprie dotazioni di risorse naturali; inoltre, nei sistemi industriali moderni l'elettricità permette un uso più flessibile dell'energia, oltre a costituire il supporto necessario per la diffusione dell'informatica nelle imprese manifatturiere (automazione) e nei servizi.
Lo sviluppo dei consumi di energia ha posto problemi gravissimi per la salvaguardia dell'ambiente naturale che, come si accennava sopra, vanno affrontati dalle autorità pubbliche. Infatti gli effetti sull'ambiente della produzione e dell'utilizzo delle diverse fonti di energia sono un caso classico di 'esternalità', cioè di effetti dell'attività di uno specifico gruppo di produttori o consumatori che non costituiscono costi o benefici per il singolo produttore o consumatore, ma vantaggi o svantaggi per un gruppo più ampio di agenti economici, talvolta per la società nel suo complesso. Nel caso di una 'esternalità negativa' (ad esempio le emissioni di sostanze inquinanti), l'impresa o il consumatore che ne sono responsabili non hanno alcun incentivo economico a limitarne la portata. Perciò, tradizionalmente, la teoria economica suggerisce di controbilanciare le 'esternalità negative' tramite apposite tasse o tramite specifiche norme che impongano limiti o interventi di depurazione. Tuttavia, in pratica, la difficoltà di individuare gli effetti ambientali delle varie attività umane, e in particolare di quelle connesse alla produzione e all'utilizzo di energia, e poi la difficoltà di determinarne con precisione la portata, hanno favorito in passato un atteggiamento lassista. Solo negli ultimi anni è diventato evidente che le conseguenze ambientali della produzione e del consumo di energia sono state sottovalutate, se non completamente ignorate, nei decenni successivi alla rivoluzione industriale e fino a un'epoca molto recente. Questioni come l'effetto serra, completamente ignorate fino a pochi anni fa, sono ora al centro dell'attenzione. Possiamo prevedere, dunque, che i problemi ambientali avranno un peso crescente nelle scelte strategiche nel campo dell'energia.
La necessità di favorire scelte compatibili con il rispetto dell'ambiente naturale implica sia una normativa sempre più precisa e vincolante sulle diverse fonti di energia (ad esempio sulla sicurezza delle centrali nucleari, o sulle emissioni inquinanti derivanti dall'utilizzo di combustibili fossili), sia un deciso stimolo a ricerche tecnologiche finalizzate a migliorare l'impatto ambientale delle diverse fonti di energia, sia una politica di imposte specifiche anche assai elevate (come quella sui consumi di benzina). Una politica decisa in questo senso può contribuire a ridurre l'elasticità rispetto al reddito dei consumi di energia, e in casi estremi a renderla negativa, permettendo una crescita del reddito accompagnata da una riduzione dei consumi di energia. Questa riduzione, tuttavia, potrà riguardare i paesi sviluppati, non quelli in via di sviluppo, molti dei quali presentano oggi consumi energetici pro capite bassissimi, destinati a crescere se appena - come tutti desiderano - il loro reddito pro capite tenderà a salire verso quello attuale dei paesi oggi industrializzati. La politica energetica dovrà perciò assicurare che la disponibilità di fonti di energia non costituisca un ostacolo per lo sviluppo economico; la compatibilità dello sviluppo con la difesa dell'ambiente dovrà essere assicurata, oltre che frenando i consumi di energia per unità di prodotto, anche favorendo le scelte più opportune tra le varie fonti di energia disponibili, e assicurando nell'utilizzo di ciascuna di esse il rispetto dei vincoli ambientali.Accanto ai contrasti tra interessi privati e pubblici, un altro tipo di contrasti emerge sul piano internazionale: se in un certo paese le imprese vengono obbligate ad adottare costosi accorgimenti per ridurre o eliminare l'inquinamento, tali imprese possono trovarsi in condizioni svantaggiose, nella concorrenza internazionale, rispetto alle imprese di altri paesi in cui questi obblighi non siano stati introdotti. I contrasti di questo tipo possono essere ridotti attraverso accordi internazionali che stabiliscano obblighi comuni. Lo sviluppo sostenibile non può essere conseguito da un solo paese, ma solo da una cooperazione internazionale su vasta scala: lo stesso tipo di cooperazione che è necessaria per affrontare i problemi drammatici del sottosviluppo.
Mentre nelle scienze chiamate sperimentali la costante preoccupazione degli studiosi è di verificare empiricamente i loro modelli teorici, in economia una simile preoccupazione è più l'eccezione che la regola. Ciò dipende solo limitatamente dal fatto che in questa disciplina, come nelle altre discipline sociali, non ci sono e non possono esserci laboratori: dipende soprattutto dalle caratteristiche assunte nel nostro tempo dalla teoria economica dominante, che ha privilegiato i ragionamenti assiomatici, nei quali ciò che conta è essenzialmente il rigore logico, mentre la rilevanza empirica conta poco o nulla. In effetti, nelle analisi economiche si assiste a una sorta di polarizzazione: da un lato troviamo modelli puramente astratti; dall'altro lato, indagini essenzialmente empiriche. Sono relativamente rari i lavori che mirano a combinare la riflessione teorica con l'analisi empirica: da un lato ci si preoccupa essenzialmente del rigore, dall'altro lato essenzialmente della rilevanza, mentre in qualsiasi disciplina scientifica entrambi i requisiti sono importanti.
Ciò non significa affatto sostenere che non siano apprezzabili e anzi raccomandabili i modelli astratti; né che non si debba far ricorso a metodi formali, particolarmente a metodi matematici; significa invece sostenere che quando si elaborano modelli astratti ci si deve domandare se potenzialmente siano suscettibili di successive approssimazioni che consentano di avvicinarsi progressivamente alla realtà economica e di interpretare i fenomeni concreti. Se gli economisti non dispongono di laboratori, dispongono tuttavia di una serie di strumenti analitici ausiliari, come quelli forniti dalla statistica e dall'econometria che, pur non consentendo controlli paragonabili agli esperimenti dei fisici e dei chimici, rendono possibili verifiche di carattere empirico. Si tratta di verifiche assai meno robuste di quelle compiute dagli scienziati sperimentali, che tuttavia, se usate con prudenza, possono suggerire ipotesi e problemi interessanti, stimolare dubbi e riflessioni critiche, e, più in generale, ridurre quelle incertezze e quella indeterminazione che sono connaturate a tutte le scienze, ma che sono particolarmente estese nelle discipline sociali.
In conclusione, le pecche più gravi della teoria economica moderna sono tre. In primo luogo, sono relativamente scarsi i lavori che combinano la riflessione teorica con l'analisi empirica. In secondo luogo, dominano ancora i modelli statici, che prescindono dal tempo e quindi ignorano in via di principio i più importanti fenomeni dell'epoca in cui viviamo, cioè il progresso tecnico e lo sviluppo economico. Infine, c'è una sorta di spaccatura fra microeconomia e macroeconomia, ossia, da un lato l'analisi dei prezzi e di tutti quei fenomeni che si collegano ai singoli soggetti, come le imprese e i consumatori, e dall'altro lato l'analisi dei grandi aggregati economici, come il reddito nazionale e l'occupazione. La divisione del lavoro, di cui Adam Smith parlava in senso concreto, è andata crescendo anche nelle diverse discipline, e quindi fra le discipline sociali e, in particolare, nell'economia. In questa esposizione abbiamo cercato di fornire un ragguaglio estremamente conciso dello stato e delle tendenze osservabili nell'analisi economica; la menzione delle tendenze non poteva non comportare l'indicazione di alcuni problemi e dibattiti critici oggi in corso. In trattazioni specifiche di questa Enciclopedia vengono illustrate, non meno concisamente, le linee essenziali sia delle discipline ausiliarie, come l'econometria, sia dei diversi rami in cui, a questo stadio della sua evoluzione, l'economia si è suddivisa (economia agraria, industriale, internazionale, monetaria, pubblica). Analogamente, resta affidata a trattazioni specifiche l'illustrazione di alcune tendenze recenti che qui non è stato possibile considerare: come il neoistituzionalismo, che spiega le istituzioni economiche e sociali mediante modelli contrattualistici; o come l'utilizzo di modelli di disequilibrio economico per spiegare la disoccupazione; o come la diffusione della teoria dei giochi nelle analisi dell'equilibrio economico generale da un lato e nelle moderne teorie dell'organizzazione industriale dall'altro lato, per considerare la possibilità di 'ragionamenti strategici' dei soggetti economici, che nelle loro decisioni tengono conto delle possibili reazioni degli altri alle loro scelte.
Un ultimo aspetto al quale è necessario dedicare almeno un cenno è costituito dai rapporti fra conoscenza e azione, ossia fra clima culturale e modelli teorici da un lato, e strategie politiche generali e linee di politica economica dall'altro lato.
A titolo illustrativo conviene considerare tre fra gli economisti precedentemente ricordati, e cioè Adam Smith, Karl Marx e John Maynard Keynes. Con la sua grande opera, Smith ha certamente contribuito a determinare un mutamento radicale nella cultura politica del suo tempo e, ancora di più, del tempo successivo. Sul piano pratico, Smith raccomandava la progressiva eliminazione delle barriere e dei vincoli all'attività economica che provenivano dall'epoca feudale e dalle politiche mercantilistiche. Il liberismo di Smith va inteso appunto in questo senso e non, come spesso si sostiene, nel senso di un atteggiamento passivo o inerte della pubblica autorità - governo e parlamento - nell'attività economica. (Così Smith era favorevole all'istruzione elementare pubblica, una posizione assolutamente minoritaria ai suoi tempi; era favorevole a interventi dello Stato per diverse opere pubbliche; raccomandava una riforma dei contratti agrari per favorire lo sviluppo agricolo: e questi sono solo tre esempi). L'analisi di Marx deve essere valutata con riferimento alle condizioni osservabili nel primo stadio del capitalismo, una fase in cui i salari erano ancora assai vicini al livello di sussistenza e molte donne e molti bambini erano costretti a svolgere lavori pesanti nelle fabbriche. È nota la grande influenza che le idee di Marx hanno esercitato su intellettuali - non solo economisti -, su partiti politici e su sindacati, soprattutto in Europa e in Asia: un'influenza che è stata enorme in certi paesi a regime dittatoriale, in cui la dottrina marxista era divenuta addirittura la dottrina ufficiale.
Il crollo dei regimi che si richiamavano al marxismo, verificatosi in diversi paesi a partire dal 1989, è almeno in parte legato al peggioramento delle condizioni economiche di tali paesi, imputabile principalmente alla loro incapacità d'introdurre innovazioni. Questa incapacità non si è manifestata in una prima fase, fino a quando è stato possibile concentrare lo sforzo economico sulle fondamentali infrastrutture, né in una seconda fase immediatamente successiva, quando è stato possibile acquistare dai paesi a economia di mercato impianti 'chiavi in mano' per l'industria di base; si è invece manifestata in modo drammatico quando dalle grandi unità industriali utilizzate per la produzione di beni di base qualitativamente omogenei è stato necessario passare alle medie e piccole unità produttive, che spesso impiegano tecnologie relativamente più sofisticate. Infatti, in un'economia pianificata, i dirigenti delle aziende monopolistiche di Stato potevano eseguire più o meno efficacemente gli ordini dell'ufficio centrale di pianificazione, ma non avevano alcun incentivo a introdurre innovazioni: un'attività che necessariamente presuppone l'iniziativa individuale e la disponibilità a correre rischi. Ciò vale non solo per le grandi innovazioni, ma anche per le piccole, quasi sempre scientificamente irrilevanti, ma molto importanti per lo sviluppo economico. Innovazioni di questo genere sono particolarmente rilevanti in agricoltura, a condizione che i contadini abbiano la proprietà della terra, ovvero operino nell'ambito di contratti agrari che riconoscano i miglioramenti introdotti da chi coltiva la terra.
Oggi nei paesi dell'ex Unione Sovietica e dell'Europa orientale si discute sulla necessità di passare da un'economia pianificata a un'economia di mercato, e non di rado si ragiona come se l'economia di mercato fosse sinonimo di puro laissez faire; ma non è così. Il mercato è l'espressione di un sistema di contratti e, più in generale, di un complesso sistema istituzionale. Il passaggio da un'economia pianificata a un'economia di mercato implica il passaggio a un nuovo sistema istituzionale, in cui sia consentita la proprietà privata dei mezzi di produzione (pur con correttivi e limitazioni, come ad esempio una legislazione antimonopolistica), siano incoraggiate le innovazioni grandi e piccole, e in cui lo Stato abbia un suo ruolo, non onnicomprensivo, ma neppure insignificante. Una tesi di questo tipo, per quanto riguarda il ruolo dello Stato, è stata sostenuta da Keynes, la cui influenza è stata grande soprattutto nei paesi occidentali. La principale opera teorica di Keynes è nata quando, a causa della grande depressione (1929-1939), la disoccupazione aveva raggiunto proporzioni straordinariamente ampie. In generale, per combattere la disoccupazione e sostenere la crescita dell'economia, Keynes e i suoi discepoli raccomandano, oltre a politiche monetarie e fiscali espansive, anche il "controllo sociale degli investimenti". Gli interventi pubblici nell'area della sicurezza sociale hanno origini assai antiche, ma la teoria keynesiana ha dato alla loro crescita un nuovo vigoroso impulso, senza il quale il moderno Stato sociale, almeno in Europa, non avrebbe probabilmente assunto l'importanza che conosciamo. L'influenza di Keynes, tuttavia, ha fortemente indebolito le resistenze presenti nella fase precedente, almeno nei periodi di pace, alla diffusione dei controlli pubblici sull'attività produttiva e alla crescita delle spese pubbliche.
In tempi recenti gli eccessi hanno dato luogo a reazioni; tali reazioni hanno trovato una giustificazione teorica in certi modelli, come il monetarismo di Friedman e il modello delle aspettative razionali.
Da queste teorie emergevano precettistiche di carattere ultraliberistico, che negli ultimi vent'anni hanno influenzato in modo significativo le politiche economiche di diversi governi. Le misure di riduzione dei controlli - interventi di privatizzazione delle imprese pubbliche e di deregolamentazione - in vari casi hanno avuto effetti tutto sommato positivi. La stessa cosa non si può dire però per gli effetti delle nuove politiche monetarie e fiscali; fra l'altro, le politiche fiscali hanno accentuato la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e, quanto alle spese pubbliche, hanno determinato un freno alla loro espansione, ma non una loro riduzione. Inoltre, le politiche monetarie restrittive adottate nei paesi più sviluppati hanno avuto un pesantissimo effetto negativo a livello internazionale, frenando la crescita dei paesi in via di sviluppo, particolarmente attraverso l'aumento dei tassi d'interesse e quindi dell'onere per i debiti internazionali.Conoscenza e azione sono i due termini riscontrabili in ogni ramo della cultura e non solo nelle scienze sociali. Le forme sono tuttavia diverse: nelle scienze sociali, e soprattutto in economia, l'aspetto dell'intervento pubblico assume un rilievo tutto particolare, sia al livello delle manovre contingenti di politica economica, sia al livello delle grandi strategie. (V. anche Banca e sistema bancario; Benessere, Stato del; Cambio; Capitale; Capitalismo; Cicli economici; Credito; Debito pubblico; Diritto dell'economia; Diritto ed economia; Disoccupazione; Distribuzione della ricchezza e del reddito; Divisione del lavoro; Ecologia; Econometria; Economia e politica agraria; Economia e politica del lavoro; Economia e politica industriale; Economia e società; Economia internazionale; Economia pubblica; Equilibrio economico; Finanza pubblica; Finanziari, mercati; Fisco e sistemi fiscali; Moneta; Politica economica e finanziaria; Sottosviluppo; Sviluppo economico).
Breglia, A., Profitti sterili e profitto fecondo, in "Giornale degli economisti", 1953, pp. 211-213.
Fanno, M., La teoria delle fluttuazioni economiche, Torino 1947.
Harrod, R.F., Economic dynamics, London 1973 (tr. it.: Dinamica economica, a cura di P. Varri, Bologna 1990).
Hayek, F. von, Conoscenza, mercato, pianificazione (a cura di F. Donzelli), Bologna 1988.
Hicks, J., Moneta, capitale e benessere (a cura di C. Casarosa e S. Zamagni), Bologna 1985.
Hirschman, A.O., The passions and the interests, Princeton 1977 (tr. it.: Le passioni e gli interessi, Milano 1979).
Jevons, W.S., The theory of political economy, London 1871 (tr. it.: La teoria dell'economia politica, Torino 1947).
Kahn, R., Selected essays on employment and growth, Cambridge 1972 (tr. it.: L'occupazione e la crescita, Torino 1976).
Kaldor, N., Essays on economic stability and growth, London 1960 (tr. it.: Saggi sulla stabilità economica e lo sviluppo, Torino 1965).
Kalecki, M., Selected essays on the dynamics of the capitalist economy, 1933-1970, Cambridge 1971 (tr. it.: Sulla dinamica dell'economia capitalistica: saggi scelti, Torino 1975).
Keynes, J.M., A treatise on money, 2 voll., London 1930 (tr. it.: Trattato sulla moneta, 2 voll., Milano 1979).
Keynes, J.M., General theory of employment, interest and money, London 1936 (tr. it.: Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, Torino 1971).
Kula, W., Miary i ludzie, Warszawa 1970 (tr. it.: Le misure e gli uomini, Roma-Bari 1987).
Lewis, W.A., The theory of economic growth, London 1955 (tr. it.: Teoria dello sviluppo economico, Milano 1963).
Malthus, T.R., An essay on the principle of population as it affects the future improvement of society, London 1798 (tr. it.: Saggio sul principio della popolazione, Torino 1977).
Marshall, A., Principles of economics, London 1890 (tr. it.: Principî di economia, Torino 1972).
Marx, K., Das Kapital: Kritik der politischen Ökonomie, 3 voll., Hamburg 1867-1894 (tr. it.: Il capitale: critica dell'economia politica, 3 voll., Roma 1968).
Mill, J.S., Principles of political economy, 2 voll., London 1848 (tr. it.: Principî di economia politica, 2 voll., Torino 1983).
Pareto, V., Cours d'économie politique, 2 voll., Lausanne 1896-1897 (tr. it.: Corso di economia politica, 2 voll., Torino 1942).
Petty, W., Economic writings (1899) (a cura di C. Hull), 2 voll., New York 1963.
Quesnay, F., Tableau économique, Paris 1758 (tr. it.: Il 'Tableau économique' e altri scritti di economia, Milano 1973).
Ricardo, D., On the principles of political economy and taxation (1817), in The works and correspondence of David Ricardo (ed. critica a cura di P. Sraffa e M. Dobb), vol. I, Cambridge 1951 (tr. it.: Sui principî dell'economia politica e della tassazione, Milano 1976).
Schumpeter, J.A., Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, München-Leipzig 1912 (tr. it.: Teoria dello sviluppo economico, Firenze 1971).
Schumpeter, J.A., Business cycles. A theoretical, historical and statistical analysis of the capitalist process, 2 voll., London-New York 1939 (tr. it. parziale: Il processo capitalistico. Cicli economici, Torino 1977).
Schumpeter, J.A., History of economic analysis, New York 1954 (tr. it.: Storia dell'analisi economica, 3 voll., Torino 1959).
Smith, A., An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), in The works and correspondence of Adam Smith (ed. critica a cura di R.H. Campbell, A.S. Skinner e W.B. Todd), vol. II, Oxford 1976 (tr. it.: Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano 1973).
Sraffa, P., Production of commodities by means of commodities, Cambridge 1960 (tr. it.: Produzione di merci a mezzo di merci, Torino 1960).
Walras, L., Éléments d'économie politique pure, Lausanne 1874 (tr. it.: Elementi di economia politica pura, Torino 1974).
Weber, M., Wirtschaft und Gesellschaft, 2 voll., Tübingen 1922 (tr. it.: Economia e società, 2 voll., Milano 1961).
Wicksell, K., Föreläsningar i nationalekonomi, 2 voll., Stockholm-Lund 1901-1906 (tr. ingl.: Lectures on political economy, 2 voll., London 1934-1935; tr. it.: Lezioni di economia politica, Torino 1966).
Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)
Fondamento dell'economia politicaed in generale di ogni scienza socialeè evidentemente la psicologia.Vilfredo Pareto
Il Novecento è stato senza dubbio il secolo dell'economia neoclassica: un approccio alla teoria economica nato nel pieno dello sviluppo industriale per analizzare le proprietà e i limiti del funzionamento del mercato nella produzione di beni e servizi. Un tentativo rigoroso e coerente di costruire una 'meccanica del comportamento economico' che nel suo formalismo si richiama apertamente alla fisica tardo-ottocentesca, in particolare alla meccanica hamiltoniana (v. Mirowski, 1989). Nel corso degli ultimi cento anni, l'economia neoclassica ha conquistato spazi sempre più ampi, coabitando con paradigmi alternativi come il marxismo, l'istituzionalismo o il keynesismo, quest'ultimo parzialmente assimilato attraverso la cosiddetta 'sintesi neoclassica' dell'immediato secondo dopoguerra. Negli ultimi due decenni, il predominio si è fatto assoluto: nessun economista che intendesse ambire a una credibilità scientifica poteva - né può tuttora - permettersi di non padroneggiare perfettamente e utilizzare in modo appropriato lo strumentario dell'economista neoclassico.
Le ragioni di questo successo sono tutto sommato semplici: l'approccio neoclassico, con la sua enfasi sulle scelte ottimizzanti operate da agenti economici individualizzati, offre uno schema analitico compatto ed efficace per l'analisi delle proprietà allocative dei mercati, permettendo inoltre di formulare previsioni chiare e falsificabili. In linea di principio, la teoria neoclassica dispone di strumenti di analisi applicabili a una qualunque scala fenomenica, dalla scelta dell'individuo isolato fino al sistema economico nel suo complesso (v. Townsend, Arrow-Debreu ..., 1987) o all'intera economia-mondo, sebbene si ammetta comunemente che un allargamento eccessivo della scala fenomenica possa condurre a problemi tecnici di aggregazione sempre più complessi e al limite potenzialmente insormontabili, quantomeno dal punto di vista operativo.
Nelle sue formulazioni più ambiziose, l'economia neoclassica si è spinta fino alla rivendicazione di una capacità descrittiva ed esplicativa estesa all'intero spettro dei comportamenti sociali: in ogni forma di comportamento, per quanto elaborata e complessa, si nasconderebbe un homo œconomicus che potrà essere individuato con facilità non appena si saranno specificati in modo sufficientemente preciso e accurato le opportunità e i vincoli che definiscono il contesto di scelta (v. Townsend, Models as ..., 1987). Non ci sarebbe aspetto del comportamento umano - dalle scelte matrimoniali (v. Becker, The economic approach ..., 1976) all'altruismo parentale (v. Becker, Altruism, egoism ..., 1976), dalla religione (v. Iannaccone, 1992) alla creatività (v. Adler, 1985), alla devianza sociale (v. Ehrlich, 1996), per limitarci solo a qualche esempio - per il quale una lucida e rigorosa applicazione della metodologia neoclassica non sarebbe in grado di rivelare le ragioni profonde delle scelte individuali ottimizzanti che si celano dietro la 'sovrastruttura' di comportamenti in apparenza contrari a ogni logica economica.
Negli stessi anni in cui il paradigma neoclassico trovava la sua definitiva affermazione, si è tuttavia assistito a una proliferazione di contributi che tendevano, in genere non programmaticamente, a metterne in discussione 'dall'interno' alcuni aspetti, evitando l'interpretazione unilaterale dei comportamenti umani appartenenti ai domini più vari delle scelte sociali in termini di scelte ottimizzanti appropriatamente formulate, per realizzare invece contaminazioni abbastanza complesse e ardite tra categorie economiche e categorie mutuate da altre scienze sociali, come la psicologia, la sociologia o la political science. Un vero caposcuola in questo senso è stato George Akerlof (v., 1984), premio Nobel per l'economia nel 2001. Questi sviluppi in senso transdisciplinare non rinnegano in genere le premesse dell'approccio neoclassico, ma le mettono selettivamente in discussione dando luogo a 'mutazioni' più o meno sostanziali delle metodologie di analisi. Ancora una volta, le ragioni di questa svolta non del tutto inaspettata sono abbastanza chiare: il dominio 'elettivo' della teoria neoclassica è quello dell'analisi dei contesti di produzione e scambio di beni tipici di un'economia nella quale le scelte economiche sono guidate da un substrato motivazionale stabile e ben definito, che si esprime in precisi ordinamenti di preferenze individuali. Tuttavia, l'avvento dell'economia postindustriale ha comportato una discontinuità fondamentale nella logica dei comportamenti economici: le società 'del primo mondo' si trovano oggi, per la prima volta nella storia economica dell'umanità, in una condizione nella quale le scelte individuali prescindono pressoché completamente da una logica di 'sopravvivenza', che richiede l'allocazione di risorse scarse tra bisogni essenziali alternativi (nutrirsi, vestirsi, avere un luogo in cui abitare, curarsi, ecc.), per privilegiare invece una logica di espressione e di realizzazione delle proprie potenzialità identitarie (v. Buscema e Sacco, 2001). Le caratteristiche stesse dei prodotti assumono un peso secondario rispetto alla loro capacità di conformarsi alla posizione identitaria di chi è chiamato a sceglierli e ad acquistarli e di corroborarla. Questo mutamento è stato colto ancora una volta con il consueto acume da Akerlof, il quale in un recente saggio dall'eloquente titolo Economics and identity (v. Akerlof e Kranton, 2000) arriva ad affermare che le conseguenze della scelta individuale dal punto di vista dell'identità sociale possono assumere un peso preponderante rispetto al valore utilitario vero e proprio della scelta stessa.
L'economia neoclassica è in parte impreparata ad affrontare questi nuovi ordini di problemi, in quanto la logica della costruzione identitaria chiama in causa aspetti del comportamento umano che non possono essere adeguatamente mediati dal mercato. Se motivazioni di carattere puramente strumentale possono governare la produzione di beni e servizi, che diventano quindi oggetto di uno scambio impersonale, altrettanto non può dirsi per la produzione di identità e relazioni sociali, che richiedono una logica di interazione intrinsecamente irriducibile alla transazione di mercato (v. Sacco e altri, 2004). Inoltre, questo nuovo ordine di problemi comporta un profondo ripensamento del ruolo delle preferenze all'interno dei processi di scelta: le preferenze, infatti, non possono più essere considerate la 'causa prima' delle scelte individuali, in quanto divengono esse stesse espressione di un livello più profondo, quello delle motivazioni, e acquistano una plasticità molto superiore a quella normalmente prevista all'interno del quadro descrittivo ed esplicativo neoclassico (v. Albanese, 1987; v. Samuelson, 2001).
La teoria neoclassica si trova dunque, agli albori del XXI secolo, di fronte a un bivio. La prima opzione è quella di arroccarsi nella difesa di un approccio che ha grandi meriti e grande tradizione, ma è filogeneticamente legato a una fase ormai superata del capitalismo, caratterizzata dallo sviluppo e dal consolidamento di un sistema produttivo industriale e da una società dai ritmi di mutamento elevati ma ancora relativamente contenuti sulla scala temporale intra-generazionale. Un'economia e una società, in altre parole, caratterizzate da una ragionevole presunzione di stabilità dal punto di vista dei piani d'azione e delle scelte individuali (e dei sistemi motivazionali che li sottendono). Come si è già sottolineato, la teoria neoclassica è ancora senza rivali nella capacità di analisi di fenomeni economici e sociali nei quali è possibile riscontrare modalità di interazione essenzialmente riconducibili allo scambio impersonale di mercato; non può quindi stupire il fatto che la maggior parte dello spazio sulle riviste di teoria economica di questi anni sia dedicato a significativi risultati di applicazione ad ambiti specifici di interesse. D'altra parte, la ricerca fondamentale sull'architettura concettuale profonda del paradigma è più o meno ferma da circa vent'anni, denunciando chiaramente la sua mancanza di progressività (v. Ackerman, 2002).
La seconda opzione è invece quella di assecondare le nuove istanze evolutive, nella consapevolezza che queste porteranno gradualmente all'emergere di un paradigma più consono alle reali esigenze descrittive ed esplicative dello scenario economico postindustriale, che significativamente riprendono e attualizzano alcuni temi portanti della riflessione compiuta dai 'padri' della moderna economia politica nelle prime fasi della rivoluzione industriale circa la sostenibilità 'sociale' e i fattori di criticità istituzionale dell'organizzazione di mercato (v. Pulcini, 2001). Nel tentativo di espandere indefinitamente il dominio di pertinenza del mercato, come si è tentati di fare portando la logica neoclassica alle sue estreme conseguenze, si rischia infatti di perderne di vista le precondizioni sociali, che non sono mediate né mediabili dal mercato e che anzi ne costituiscono il presupposto, finendo così per indebolirne le fondamenta comportamentali e istituzionali e l'efficienza allocativa. È opinione di chi scrive che il futuro della ricerca vada cercato soprattutto in questa seconda direzione. Nelle pagine che seguono ci proporremo quindi di fornire un breve resoconto ragionato di alcuni dei filoni più interessanti e rappresentativi di questa nuova stagione della ricerca teorica.
Il fatto che il premio Nobel per l'economia sia stato conferito nel 2001 a George Akerlof (assieme a Michael Spence e Joseph Stiglitz) e l'anno successivo a due studiosi dal profilo intellettuale eterodosso, come lo psicologo sociale Daniel Kahneman e l'economista sperimentale Vernon Smith, può essere considerato un evento di notevole valenza simbolica per le scienze sociali contemporanee. Sembra infatti del tutto naturale scorgere dietro questi riconoscimenti una piena legittimazione di quello spazio di ricerca transdisciplinare, situato sul crinale tra l'economia e le altre scienze sociali come la psicologia e la sociologia, che rappresenta con tutta probabilità il nucleo generatore di un nuovo, importante paradigma per la teoria economica. Un primo filone significativo, ormai rubricato sotto l'etichetta di 'economia comportamentale' (behavioral economics), esplora la frontiera tra economia e psicologia cognitiva e sociale. È opportuno chiarire subito - a scanso di equivoci terminologici - che l'economia comportamentale non solo non fa riferimento al comportamentismo nella sua comune accezione in psicologia, ma anzi presenta in un certo senso uno statuto metodologico anti-comportamentista: se infatti nell'approccio teorico neoclassico si assume che le preferenze individuali possano essere 'rivelate' dalle scelte degli agenti, l'economia comportamentale si affida a test di laboratorio, partendo dal presupposto che non sia possibile interpretare in modo univoco i comportamenti economici se non in presenza di speciali condizioni ambientali. Un secondo filone, che potremmo sinteticamente etichettare come 'socio-economia', sviluppa invece il dialogo tra economia e sociologia. Vi sono poi altri importanti filoni al confine tra economia e political science (v. Grossman, 2000 e 2002) o tra economia e antropologia (v. Henrich e altri, 2001), ma dei quali non possiamo purtroppo qui occuparci per limiti di spazio. Sullo sfondo di ciascuno di questi filoni si delinea una nuova 'microeconomia dei comportamenti sociali' che fa riferimento in misura crescente a una delle più significative e promettenti innovazioni teoriche degli ultimi anni, la cosiddetta 'teoria dei giochi evolutivi' (v. Weibull, 1995; v. Gintis, 2000), nella quale si combinano in modo estremamente complesso e sofisticato elementi di razionalità ottimizzante e processi di selezione sociale fortemente sensibili al contesto storico, sociale e culturale.
Il punto di partenza per il recente interesse degli economisti nei confronti dell'economia comportamentale può essere rintracciato nel lavoro fondamentale di John Geanakoplos, David Pearce ed Ennio Stacchetti (v., 1989), che inaugurando il filone dei cosiddetti 'giochi psicologici' consente alla psicologia di entrare direttamente nel cuore della modellizzazione economica contemporanea, imponendosi con forza all'attenzione degli studiosi della teoria dei giochi non cooperativi. La teoria dei giochi ha sempre mantenuto uno statuto 'ibrido' nei confronti dell'economia neoclassica. Da una parte, attraverso la nozione di 'equilibrio di Nash', essa ha di fatto fornito agli economisti un chiaro equivalente delle condizioni di ottimizzazione - precedentemente sviluppate per i problemi decisionali non strategici - nel contesto dell'interazione strategica, tanto che nei modelli di equilibrio economico generale (che rappresentano l'espressione più compiuta e articolata dello schema concettuale neoclassico), nei quali sono presenti elementi almeno embrionali di interazione strategica, si parla ormai di 'equilibri Walras-Nash', accomunando il nome di John Nash (premio Nobel per l'economia nel 1994, ma i cui contributi fondamentali risalgono ai primi anni cinquanta) a quello di Léon Walras, l'ottocentesco padre della teoria dell'equilibrio economico generale. Dall'altra, la teoria dei giochi è stata, soprattutto negli ultimi venti anni, uno dei principali terreni di coltura di approcci teorici eterodossi e allo stesso tempo caratterizzati da un elevato livello di formalismo. Il già citato studio di Geanakoplos, Pearce e Stacchetti rappresenta un chiaro esempio in questo senso: esso dimostra in modo rigoroso come l'introduzione di un nesso diretto - e non puramente strumentale - tra fattori di carattere psicologico e dimensione individuale del benessere (formalmente rappresentata dai 'pagamenti' del gioco) renda indispensabile l'adozione di una prospettiva analitica differente rispetto a quella tradizionale nello studio dell'interazione strategica tra agenti economici. L'articolazione di tale programma di ricerca resta comunque ancora largamente compatibile con l'apparato concettuale neoclassico.
Un'ulteriore, e per molti aspetti decisiva, accelerazione al processo di (palin)genesi e sviluppo dell'economia comportamentale è stata impressa dal contributo di Matthew Rabin (v., 1993), che - innestando la propria analisi formale nel solco tracciato dall'articolo di Geanakoplos, Pearce e Stacchetti - ha introdotto la nozione di fairness equilibrium. A differenza di altri importanti e pionieristici contributi elaborati in precedenza su tematiche affini (v., in particolare, Akerlof e Dickens, 1982), il lavoro di Rabin ha prodotto un forte impatto sulla comunità accademica: il suo merito principale consiste nell'aver presentato risultati formali innovativi e nel contempo dotati di elevata generalità, che hanno stimolato la rapida produzione di una mole notevole di ricerche teoriche e sperimentali a vario titolo incentrate sulla rilevanza delle preferenze socialmente condizionate nell'interazione economica (v., ad esempio, Berg e altri, 1995; v. McCabe e altri, 1998). L'importanza dello studio di Rabin non consiste tanto nell'aver sottolineato la centralità dei problemi di fairness per la teoria e la politica economica - in fondo, non si può certo negare che tali istanze abbiano da sempre permeato il vivace dibattito sulle finalità del welfare State e sulla ineliminabilità dei giudizi di valore dal discorso economico. L'effettiva originalità del suo lavoro risiede piuttosto in una 'rivoluzione copernicana' che pone al centro dell'analisi sulla fairness gli agenti economici stessi, con la loro 'naturale' tendenza a costituire l'uno il 'metro di valutazione' del comportamento (e delle intenzioni) dell'altro. Tale radicale spostamento di prospettiva non è ovviamente privo di implicazioni rilevanti (benché a tutt'oggi largamente inesplorate), anche e soprattutto in chiave normativa, sul piano della policy e dell'economia del benessere.
Se la prima fase del processo di sviluppo dell'economia comportamentale è stata segnata da ricerche aventi carattere prettamente teorico (pur in una costante interazione con le analisi sperimentali), la ricerca più recente si contraddistingue per il proliferare di una 'seconda generazione' di studi sperimentali tesi a mostrare la rilevanza delle nuove assunzioni comportamentali in un'ampia gamma di contesti socio-economici significativi. Un impulso decisivo in tale direzione è stato fornito dall'importante serie di esperimenti condotti da Ernst Fehr assieme ad altri studiosi (v. Fehr e altri, 1993 e 1997; v. Fehr e Schmidt, 1999; v. Fehr e Gächter, 2002), che hanno dimostrato la rilevanza empirica di un fenomeno a lungo considerato poco più di una curiosità intellettuale o, nel migliore dei casi, un residuo in via di estinzione di una cultura premoderna: la reciprocità. Si tratta di un ambito comportamentale molto complesso e articolato, che trova in effetti ampia espressione nel sistema normativo di società e culture premoderne (v. Sahlins, 1972), ma che non per questo perde la sua attualità nelle moderne società di mercato. Gli economisti hanno sempre dato poco peso alla reciprocità, in quanto essa richiede una disponibilità individuale a intraprendere azioni costose e prive di benefici per chi le mette in atto in nome di un determinato criterio 'astratto' di equità: un comportamento che sembra apertamente in contrasto con la logica ottimizzante dell'homo œconomicus.
Dalle ricerche di Fehr e dei suoi collaboratori emerge con chiarezza la tendenza di una frazione consistente di soggetti sperimentali tanto a 'premiare' comportamenti altrui di segno positivo (reciprocità positiva), quanto a 'punire' comportamenti percepiti invece come 'ingiusti' (reciprocità negativa). È importante sottolineare come per questi soggetti l'attuazione della norma di reciprocità sia generalmente preponderante rispetto ai calcoli di convenienza individuale; in altre parole, lo schema di reciprocità viene attivato anche in presenza di costi o di mancati benefici materiali quantitativamente rilevanti. E significativa appare la profonda convergenza, rispetto alla nozione di fairness come reciprocità, esistente tra i risultati sperimentali ottenuti da Fehr e la nozione teorica di fairness equilibrium sviluppata da Rabin. Il richiamo alla reciprocità appare in grado di fornire spiegazioni plausibili a una vasta e crescente evidenza empirica e sperimentale secondo cui, all'interno di numerosi contesti di interazione, si assiste alla creazione di reti cooperative stabili anche là dove la teoria economica tradizionale prevederebbe il diffondersi su larga scala di comportamenti improntati all'opportunismo. In particolare, la nozione di reciprocità sembra dotata di elevato potere esplicativo in ordine a fenomeni di cooperazione a tutta prima 'irrazionali', come quelli che si verificano in assenza di relazioni di conoscenza o parentela tra gli agenti, o quando le dimensioni complessive del gruppo sono talmente ampie da rendere l'interazione sostanzialmente non ripetuta (e dunque anonima) e i potenziali guadagni 'reputazionali' derivanti dall'adozione di scelte cooperative praticamente nulli (v. Fehr e Gächter, 2002).
In tali contesti, sarebbe proprio la disponibilità di una frazione non trascurabile di agenti a ricompensare i comportamenti pro-sociali e a sanzionare le tendenze anti-sociali a configurarsi come un meccanismo di self-enforcement potenzialmente in grado di generare esiti cooperativi pur in presenza di condizioni ambientali non favorevoli. La reciprocità si rivela dunque come un meccanismo di governance estremamente potente ed efficace in una pluralità di contesti. Un esempio significativo è costituito dal problema dell'enforcement dei contratti tra privati: a questo riguardo, sappiamo dalla tradizionale teoria dei contratti che fenomeni di asimmetria informativa, nonché l'assenza di autorità 'terze' in grado di assicurare un enforcement esogeno dei contratti stessi, renderebbero necessario il rispetto di requisiti particolarmente stringenti in termini di incentive compatibility. In questo caso, l'economia correrebbe il rischio di allontanarsi dalle allocazioni socialmente ottimali, se non addirittura di non raggiungere i punti di ottimo paretiano vincolato (v. Hart e Holmström, 1987; v. Milgrom e Roberts, 1992). Fehr e altri (v., 1997) mostrano come in tali contesti di interazione, la cui struttura riproduce quella del classico dilemma del prigioniero, la presenza di un orientamento alla reciprocità sufficientemente forte e diffuso può portare al raggiungimento della soluzione Pareto-efficiente. Più specificamente, l'evidenza sperimentale mostra come sia possibile realizzare notevoli miglioramenti in senso paretiano sempre ipotizzando meccanismi di self-enforcement guidati dalla reciprocità anche nell'importante contesto delle relazioni (di tipo principale/agente) tra datore di lavoro e lavoratore.
Le ricerche sulla reciprocità hanno mostrato come la complessità motivazionale degli agenti economici possa modificare profondamente la valutazione dei comportamenti economici rispetto al caso nel quale si attribuisce rilevanza soltanto alle conseguenze che si producono a favore o a carico del soggetto che sceglie (ipotesi del self-interest). Ulteriori indicazioni in questo senso provengono dalla ricerca sui cosiddetti fenomeni di 'spiazzamento motivazionale' (motivation crowding-out; v. Frey e Jegen, 2001; v. Seabright, 2002). Con tale espressione si intende fare riferimento a quel meccanismo in forza del quale, in determinati contesti economici, schemi di (presunta) incentivazione imperniati sulla promessa di benefici monetari (extrinsic motivation) finiscono per produrre in realtà uno spiazzamento nella propensione a contribuire del soggetto (fondata invece su una motivazione 'intrinseca', di natura psicologica o etica), determinando in ultima analisi un effetto opposto a quello desiderato. Anche questo fenomeno, come quello della reciprocità, ha una lunga storia, come documenta il pionieristico studio di Richard Titmuss (v., 1970) sulle donazioni di sangue nel Regno Unito; come nel caso della reciprocità, però, soltanto negli ultimi anni, con il consolidarsi del nuovo filone di studi dell'economia comportamentale, quella che sembrava una curiosità empirica senza particolare importanza è divenuta la pietra angolare di una nuova e affascinante area di ricerca.
Se l'elemento comune agli studi sperimentali finora esaminati è identificabile in una focalizzazione sulle implicazioni economiche prodotte da specifici fattori motivazionali, un'altra area in forte espansione all'interno della letteratura comportamentale si concentra invece sulle limitazioni psicologiche e cognitive che caratterizzano i processi di scelta individuale. Si tratta di lavori che cercano di consolidare e approfondire assunzioni comportamentali maturate in seno alla ricerca psicologica nel corso degli ultimi decenni, nel tentativo di inserire tali ipotesi all'interno di opportuni modelli analitici.
L'ipotesi di 'avversione alle perdite' (v. Kahneman e altri, 1986) - una delle acquisizioni più rilevanti di questo filone di ricerca - può essere facilmente spiegata nei termini seguenti: gli individui tendono ad attribuire alle perdite conseguite un peso superiore a quello assegnato a guadagni di uguale entità. In altri termini, di fronte a una scommessa che offre la prospettiva di un guadagno pari a 11 con una probabilità pari a 0,5 e una perdita pari a 10 con probabilità 0,5, l'evidenza sperimentale mostra come la preferenza ricada quasi sempre sullo status quo, malgrado il valore atteso della scommessa sia strettamente positivo. In termini ancora più generali, gli esseri umani sembrano valutare le conseguenze delle alternative che hanno di fronte in relazione a determinati 'punti di riferimento': ad esempio, i soggetti sperimentali sembrano più interessati a eventuali cambiamenti nel proprio livello di ricchezza che non al livello assoluto della stessa, anche se esibiscono comunque una 'sensitività decrescente' (decreasing sensitivity), nel senso che l'importanza attribuita ai cambiamenti pare dipendere negativamente dall'entità dei cambiamenti stessi (siano questi guadagni o perdite). Uno dei campi nei quali questi risultati stanno producendo implicazioni di particolare interesse è la teoria della finanza (v. Odean, 1998; v. Froot e Dabora, 1999; v. Shleifer, 2000). Nella riflessione sviluppata con riferimento a queste tre caratteristiche comportamentali (avversione alle perdite, dipendenza da punti di riferimento e sensitività decrescente) possiamo individuare il contributo più significativo della prospect theory (v. Kahneman e Tversky, 1979) allo sviluppo dell'economia comportamentale.
Ulteriori fenomeni di grande interesse, sui quali la ricerca è attualmente molto attiva ma che in questa sede dobbiamo limitarci a elencare, sono rappresentati dall''effetto dotazione' (endowment effect; v. Thaler, 1985), dalla propensione per lo stato attuale (status quo bias; v. Knetsch, 1989), dall'effetto dei costi irrecuperabili (sunk cost fallacy; v. Dawes, 19984) e dalla ricerca di una valorizzazione identitaria (positive self-image o self-esteem; v. Tirole, 2002). L'agente economico sembra inoltre essere affetto da non trascurabili problemi di autocontrollo (v. Tirole, 2002) che possono produrre conseguenze economiche individuali e aggregate particolarmente rilevanti: pensiamo, ad esempio, ad alcuni fenomeni che sono stati recentemente oggetto di attenzione, quali il 'sovraconsumo' (v. Banks e altri, 1998) e la tendenza alla 'procrastinazione' (v. Ainslie, 1992; v. Rabin, 2002). Quando dallo studio di questi effetti emergeranno risultati più chiari, sarà importante riuscire a elaborare un'analisi delle modalità di rapporto esistenti tra tali meccanismi comportamentali: sembra, ad esempio, che gli stessi giudizi che gli agenti economici formulano in merito all'equità di una determinata allocazione siano profondamente influenzati dallo status quo e da altri punti di riferimento. Daniel Kahneman e altri (v., 1986) hanno dimostrato in particolare che la valutazione dei consumatori sull'equità dei prezzi praticati da una determinata impresa dotata di potere di monopolio dipende in larga misura dal livello dei prezzi praticati in passato dalla stessa impresa.
Come ampiamente mostrato dalla letteratura sociologica e psicologica, l'identità si forma primariamente attraverso meccanismi di interazione sociale. Un'area in grande crescita nella ricerca economica contemporanea (che possiamo sinteticamente indicare come socio-economia) è quella che si propone di collocare i comportamenti economici all'interno di una descrizione ricca e articolata delle varie dimensioni della relazionalità interpersonale. Per semplicità, possiamo distinguere due meccanismi elementari di determinazione della propria identità, che peraltro non si escludono affatto a vicenda: quello per differenza, per cui si cerca di distinguersi dagli altri, e quello per somiglianza, per cui si cerca invece di avvicinarsi a essi. Il primo meccanismo ha attirato maggiormente l'attenzione degli economisti, almeno a partire dall'analisi di Fred Hirsch (v., 1976) della competizione posizionale, ossia del desiderio di arrivare 'più in alto' degli altri all'interno della scala dello status sociale. Harold Cole, George Mailath e Andrew Postlewaite (v., 1992), ad esempio, si soffermano sull'importanza dello status come strumento che stabilisce un ordinamento tra le persone e determina il loro successo relativo nell'allocazione dei beni non di mercato. Il fatto che il reddito o il consumo possano avere il ruolo di segnalare lo status sociale è stato studiato a fondo da Giacomo Corneo e Olivier Jeanne (v., 1997, 1998 e i contributi del 1999).
Un altro esempio di attenzione per tali fenomeni viene dall'economia del lavoro, la quale mostra come tanto la decisione se lavorare o meno quanto la soddisfazione per il proprio lavoro dipendano molto di più dal reddito relativo che non dal reddito assoluto; ciò vale sia che si definisca il reddito relativo per confronto con il reddito di un gruppo di riferimento, sia che lo si rapporti alle aspirazioni personali (v. Clark e Oswald, 1996; v. Clark, 1997; v. Neumark e Postlewaite, 1998). Crescente interesse ha destato negli ultimi anni anche il secondo meccanismo, ossia la ricerca di identificazione tramite vicinanza con gli altri, nonché il bisogno di relazioni sociali dirette. Un contributo significativo in questa direzione viene da Carole Uhlaner (v., 1989), che definisce 'bene relazionale' ciò che soddisfa tale bisogno. Esempi di beni relazionali sono l'approvazione sociale, la solidarietà, l'amicizia, il senso di appartenenza a un determinato gruppo, nonché l'identificazione con le sue norme. L'argomentazione di Uhlaner parte dalla constatazione che i modelli tradizionali di 'scelta razionale' non riescono a spiegare fenomeni come la partecipazione alle elezioni nonostante la consapevolezza che l'influenza del proprio voto sui risultati finali è pressoché nulla, per cui la disponibilità degli individui a sostenere dei costi per andare a votare non risulta compatibile con un comportamento ottimizzante. Le cose cambiano se si prende in considerazione il fatto che una dimensione rilevante del voto consiste nel definire l'identità individuale attraverso la relazione con la comunità di appartenenza. In altre parole, gli individui determinano la propria identità attraverso la partecipazione a un evento sociale. In tal caso, sostenere dei costi per andare a votare non appare più 'irrazionale', in quanto il voto fornisce socialmente un bene che non può essere acquisito privatamente. Alcuni autori (v. Corneo e Jeanne, Social organization ..., 1999) preferiscono parlare di 'bene privato fornito socialmente', piuttosto che di 'bene relazionale', ma non pare di poter ravvisare differenze sostanziali tra le due espressioni, cosicché le useremo entrambe come sinonimi. Altri autori (v. Gui, 2000) analizzano più in dettaglio gli aspetti comunicativo-affettivi dei beni relazionali.
Strettamente collegata alla nozione di beni relazionali è quella di capitale sociale. L'espressione 'capitale sociale' è stata resa popolare dai contributi di James Coleman (v., 1988 e 1990) e di Robert Putnam (v., 1993 e 1995) e ha incontrato rapidamente il favore di molti studiosi: la Banca Mondiale, ad esempio, dispone di un'intera biblioteca elettronica di studi sull'argomento. In uno di questi, Deepa Narayan definisce il capitale sociale al livello più generale come quell'insieme di "norme e relazioni sociali, incorporate nelle strutture di una determinata società, che consentono il coordinamento delle azioni individuali per raggiungere gli obiettivi desiderati" (v. Narayan, 1999, p. 6). Il tratto che distingue il capitale sociale dalle altre forme di capitale, segnatamente da quello fisico e da quello umano, consiste nel fatto di essere incorporato nella struttura delle relazioni sociali, anziché in beni fisici o in singoli individui. L'uso del termine 'capitale' appare legittimo quando si consideri la sua natura di risorsa accumulabile e il fatto che la sua accumulazione richiede un 'investimento' relazionale, misurabile in termini di rinuncia allo sfruttamento di opportunità private.
Detto ciò, la complessità delle strutture sociali ha indotto diversi autori ad attribuire significati differenti al medesimo termine, cosicché oggi si designa come 'capitale sociale' un intero filone di ricerca più che un concetto univoco. Tuttavia, le varie definizioni di capitale sociale si possono raccogliere attorno a due nuclei fondamentali: alcune lo identificano con il livello di fiducia e di effettività delle norme civiche all'interno di una società, altre si concentrano piuttosto sul livello di partecipazione in organizzazioni orizzontali volontarie. Entrambi gli aspetti hanno una radice comune, in quanto sono il prodotto di un'attività di partecipazione sociale e quindi possono essere considerati come un 'effetto collaterale' della produzione di beni relazionali: ad esempio, la fiducia interpersonale si produce inizialmente all'interno dei gruppi primari, ma si generalizza attraverso la partecipazione a gruppi d'interazione allargata, a patto che non vi predomini la tendenza allo sfruttamento delle possibilità di profitto privato a scapito di altri.
Stephen Knack e Philip Keefer (v., 1997) hanno verificato l'impatto del capitale sociale sulla crescita economica, a partire da entrambe le definizioni cui abbiamo accennato, in 29 economie di mercato e hanno trovato una correlazione positiva significativa tra livello di fiducia e tasso di crescita, mentre le attività associative non paiono giocare un ruolo di rilievo per la crescita. Ciò contrasta con la visione di Putnam, il quale spiega la differenza fra lo sviluppo dell'Italia settentrionale e meridionale proprio attraverso la diversa presenza di associazioni orizzontali nelle due zone. Una possibile spiegazione di tale contrasto viene dalle due considerazioni seguenti: da un lato, l'indice utilizzato, che calcola il numero medio di gruppi associativi a cui un individuo appartiene, potrebbe non essere una misura empirica adeguata del livello di partecipazione sociale, poiché trascura l'intensità della partecipazione; dall'altro, le associazioni formali, mentre includono i propri membri, possono anche avere una funzione di esclusione degli esterni, cosicché una fervida vita associativa non solo non è incompatibile con forti divisioni sociali, per esempio di natura etnico-linguistica, ma può addirittura rafforzarle. Ciò significa che per una società eterogenea non basta considerare la partecipazione a gruppi associativi formali, ma bisogna analizzare più in dettaglio il loro processo di formazione, per vedere se essi stabliscano legami all'interno di segmenti predefiniti della popolazione o se invece pongano in collegamento membri appartenenti a gruppi diversi.
Come ha notato Narayan (v., 1999), tale aspetto è cruciale per determinare i livelli di integrazione sociale e di identificazione come membri di una medesima comunità, da cui dipendono l'adesione alle sue norme civiche, nonché l'interiorizzazione dell'altro generalizzato che genera fiducia interpersonale e affidabilità individuale. Questi fattori hanno un grande impatto economico, poiché determinano le possibilità di cooperazione fra membri di gruppi diversi e i costi a essa associati. Una ulteriore prova empirica di ciò viene da Jonathan Temple e Paul Johnson (v., 1998), che hanno mostrato come un indice di 'capacità sociale' costruito all'inizio degli anni sessanta per 74 paesi in via di sviluppo sia stato un ottimo previsore della loro crescita nei 25 anni seguenti.
Naturalmente, esistono altre dimensioni della fiducia oltre a quella interpersonale. Vi è ad esempio anche un aspetto legato al buon funzionamento delle istituzioni statali: si pensi al ruolo giocato da un buon sistema di amministrazione della giustizia, nonché alla percezione del sistema fiscale come equo e adeguato rispetto alle prestazioni sociali, nel determinare la propensione a seguire le norme di cooperazione civica e nello stabilire condizioni di possibilità per lo sviluppo di una fiducia interpersonale generalizzata. Questo è sicuramente un aspetto più direttamente controllabile dalle autorità pubbliche. Paul Collier (v., 2002) distingue tra il capitale sociale prodotto al livello della famiglia, dello Stato e della società civile. La maggior parte della letteratura recente sul capitale sociale si è concentrata su quest'ultimo aspetto, non perché gli altri siano di minore importanza, ma perché questo è quello che fino a oggi è stato studiato meno. Lo stesso Collier (ibid.), fra l'altro, sottolinea come nella società civile le interazioni che generano capitale sociale siano determinate tipicamente da scopi autonomi, cosicché esso si configura come un effetto collaterale di tali scopi, ovverosia come un'esternalità che si accumula nel tempo in conseguenza di una logica non strumentale di partecipazione sociale. Tale osservazione riprende le considerazioni di Coleman (v., 1990) sul fatto che del capitale sociale, nella maggior parte delle sue forme, non ci si può appropriare privatamente, cosicché ai suoi effetti positivi non corrispondono adeguati incentivi individuali all'accumulazione. Siccome poi non vi è pianificatore, per quanto benevolo, che possa sostituirne la produzione, ossia che possa forzare gli individui ad atti volontari di partecipazione, il problema di un sotto-investimento si impone, dal punto di vista teorico, con estrema forza. Un ulteriore aspetto interessante è che la relazione fra funzionamento dei servizi statali e capitale sociale accumulato dalla società civile non è univocamente di complementarità o di sostituzione: Narayan (v., 1999) spiega teoricamente, e documenta empiricamente, che quando uno di questi due aspetti è carente, l'altro funge da sostituto, mentre vi sono indiscutibili complementarità quando entrambi sono soddisfacenti (v. anche Bowles e Gintis, 2003). Di converso, ma per ragioni simili, istituzioni mal funzionanti possono indurre le persone a fare affidamento più sui gruppi primari che su meccanismi pubblici, statuali o di mercato, per ottenere ciò che desiderano.
In sintesi, il capitale sociale, inteso come patrimonio accumulato di relazioni e strutture associative, di fiducia e di osservanza delle norme civiche, ha certamente un impatto positivo sulla crescita economica, per quanto sia corretto distinguere fra diverse sue forme e fra diversi processi di accumulazione, alcuni dei quali possono anche avere effetti negativi. In particolare, è opportuno distinguere fra società omogenee ed eterogenee, poiché in queste ultime è possibile che allo sviluppo di un consistente capitale sociale all'interno dei singoli gruppi non corrisponda un'integrazione fra gruppi diversi, bensì un'accentuazione delle fratture sociali, la quale rende difficile la cooperazione fra membri di gruppi distinti e dunque limita le possibilità di sviluppo economico.
In definitiva, mentre l'orientamento relazionale corrisponde al desiderio di aumentare il proprio grado di prossimità nei confronti di altri individui attraverso forme di interazione come l'amicizia, la simpatia, la condivisione di fini, di norme, di appartenenza a gruppi o al limite la convivenza e il matrimonio, l'orientamento posizionale, tutto centrato sull'acquisizione di uno status differenziale, corrisponde al desiderio di 'stare al di sopra' degli altri. I due orientamenti non sono però banalmente contrapponibili: il perseguimento posizionale di un certo status sociale può essere finalizzato alla creazione di relazioni con altri individui dello stesso status, mentre al contrario la creazione di determinate relazioni interpersonali può essere funzionale alla conquista di uno status superiore. Di volta in volta, i due orientamenti si configurano come sostitutivi o complementari, senza che sia possibile al momento pervenire a una precisa caratterizzazione dei loro rapporti nei vari contesti di interesse. Si tratta di problematiche molto sottili e ancora troppo poco studiate per poter arrivare a concettualizzazioni chiare e ampiamente condivisibili, ma è comunque già abbastanza evidente che il filone di ricerca aperto dalla socio-economia solleva questioni molto diverse da quelle che caratterizzano la teoria economica di orientamento più tipicamente neoclassico. Il futuro ci dirà se questo e gli altri approcci qui presentati e discussi o anche soltanto accennati saranno capaci di dare vita a un nuovo e fecondo paradigma di teoria economica.
Ackerman, F., Still dead after all these years: interpreting the failure of general equilibrium theory, in "Journal of economic methodology", 2002, IX, pp. 119-139.
Adler, M., Stardom and talent, in "The American economic review", 1985, LXXV, pp. 208-212.
Ainslie, G., Picoeconomics. The strategic interaction of successive motivational states within the person, Cambridge: Cambridge University Press, 1992.
Akerlof, G. A. (a cura di), An economic theorist's book of tales, Cambridge: Cambridge University Press, 1984.
Akerlof, G. A., Dickens, W. T., The economic consequences of cognitive dissonance, in "The American economic review", 1982, LXXII, pp. 307-319.
Akerlof, G. A., Kranton, R., Economics and identity, in "Quarterly journal of economics", 2000, CXV, pp. 715-753.
Albanese, P. J., The nature of preferences: an exploration of the relationship between economics and psychology, in "Journal of economic psychology", 1987, VIII, pp. 3-18.
Andreoni, J., Brown, P. M., Vesterlund, L., What makes an allocation fair? Some experimental evidence, in "Games and economic behavior", 2002, XL, pp. 1-24.
Banks, J., Blundell, R., Tanner, S., Is there a retirement-savings puzzle?, in "The American economic review", 1998, LXXXVIII, pp. 769-788.
Becker, G. S., Altruism, egoism, and genetic fitness: economics and sociobiology, in "Journal of economic literature", 1976, XIV, pp. 817-826.
Becker, G. S., The economic approach to human behavior, Chicago: The University of Chicago Press, 1976.
Berg, J., Dickhaut, J., McCabe, K., Trust, reciprocity, and social norms, in "Games and economic behavior", 1995, X, pp. 122-142.
Bowles, S., Gintis, H., Social capital and community governance, working paper n. 01-01-003, Santa Fe, N.M.: The Santa Fe Institute, 2001.
Buscema, M., Sacco, P. L., Ecologie della socialità e dell'identità: la complessità comportamentale in un'economia post-industriale, in "Keiron", 2001, VII, pp. 116-127.
Camerer, C., Babcock, L., Loewenstein, G., Thaler, R., Labor supply of New York City cabdrivers: one day at a time, in "Quarterly journal of economics", 1997, CXII, pp. 407-441.
Clark, A., Job satisfaction and gender: why are women so happy at work?, in "Labour economics", 1997, IV, pp. 341-372.
Clark, A., Oswald, A., Satisfaction and comparison income, in "Journal of public economics", 1996, LXI, pp. 359-381.
Cole, H. L., Mailath, G. J., Postlewaite, A., Social norms, saving behavior and growth, in "Journal of political economy", 1992, C, pp. 1092-1125.
Coleman, J. S., Social capital in the creation of human capital, in "American journal of sociology", 1988, XCIV, pp. S95-S120.
Coleman, J. S., Foundations of social theory, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1990.
Collier, P., Social capital and poverty: a microeconomic perspective, in The role of social capital in development (a cura di C. Grootaert e T. van Bastelaer), Cambridge: Cambridge University Press, 2002, pp. 19-41.
Corneo, G., Jeanne, O., Conspicuous consumption, snobism and conformism, in "Journal of public economics", 1997, LXVI, pp. 55-71.
Corneo, G., Jeanne, O., Social organization, status, and saving behavior, in "Journal of public economics", 1998, LXX, pp. 37-51.
Corneo, G., Jeanne, O., Pecuniary emulation, inequality and growth, in "European economic review", 1999, XLIII, pp. 1665-1678.
Corneo, G., Jeanne, O., Social organization in an endogenous growth model, in "International economic review", 1999, XL, pp. 711-725.
Dawes, R., Behavioral decision making and judgment, in Handbook of social psychology (a cura di D. Gilbert, S. Fiske e G. Lindzey), New York: McGraw-Hill, 19984, pp. 589-597.
Ehrlich, I., Crime, punishment, and the market for offenses, in "Journal of economic perspectives", 1996, X, pp. 43-67.
Fehr, E., Falk, A., Psychological foundations of incentives, in "European economic review", 2002, XLVI, pp. 687-724.
Fehr, E., Gächter, S., Altruistic punishment in humans, in "Nature", 2002, CDXV, pp. 137-140.
Fehr, E., Gächter, S., Kirchsteiger, G., Reciprocity as a contract enforcement device: experimental evidence, in "Econometrica", 1997, LXV, pp. 833-860.
Fehr, E., Kirchsteiger, G., Riedl, A., Does fairness prevent market clearing? An experimental investigation, in "Quarterly journal of economics", 1993, CVIII, pp. 437-459.
Fehr, E., Schmidt, K. M., A theory of fairness, competition and cooperation, in "Quarterly journal of economics", 1999, CXIV, pp. 817-868.
Frey, B., Jegen, R., Motivation crowding theory, in "Journal of economic surveys", 2001, XV, pp. 589-611.
Froot, K., Dabora, E. M., How are stock prices affected by the location of trade?, in "Journal of financial economics", 1999, LIII, pp. 189-215.
Geanakoplos, J., Pearce, D., Stacchetti, E., Psychological games and sequential rationality, in "Games and economic behavior", 1989, I, pp. 60-79.
Gintis, H., Game theory evolving, Princeton, N. J.: Princeton University Press, 2000.
Grossman, H. I., The State: agent or proprietor?, in "Economics of governance", 2000, I, pp. 3-11.
Grossman, H. I., 'Make us a king': anarchy, predation, and the State, in "European journal of political economy", 2002, XVIII, pp. 31-46.
Gui, B., Beyond transactions: on the interpersonal dimension of economic reality, in "Annals of public and cooperative economics", 2000, LXXI, pp. 139-169.
Hart, O., Holmström, B., The theory of contracts, in Advances in economic theory. Fifth world congress (a cura di T. Bewley), Cambridge: Cambridge University Press, 1987, pp. 71-155.
Henrich, J. e altri, Cooperation, reciprocity and punishment in fifteen small-scale societies, in "The American economic review", 2001, XCI, pp. 73-78.
Hirsch, F., Social limits to growth, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1976 (tr. it.: I limiti sociali allo sviluppo, Milano: Bompiani, 1981).
Iannaccone, L. R., Sacrifice and stigma: reducing free-riding in cults, communes, and other collectives, in "Journal of political economy", 1992, C, pp. 271-292.
Kahneman, D., Knetsch, J. L., Thaler, R., Fairness as a constraint on profit seeking: entitlements in the market, in "The American economic review", 1986, LXXVI, pp. 728-741.
Kahneman, D., Tversky, A., Prospect theory: an analysis of decision under risk, in "Econometrica", 1979, XLVII, pp. 263-291.
Kahneman, D., Tversky, A., Choices, values, and frames, Cambridge: Cambridge University Press, 2000.
Knack, S., Keefer, P., Does social capital have an economic payoff? A cross-country investigation, in "Quarterly journal of economics", 1997, CXII, pp. 1251-1288.
Knetsch, J. L., The endowment effect and evidence of nonreversible indifference curves, in "The American economic review", 1989, LXXIX, pp. 1277-1284.
Laibson, D., Golden eggs and hyperbolic discounting, in "Quarterly journal of economics", 1997, CXII, pp. 443-478.
McCabe, K. A., Rassenti, S. J., Smith, V. L., Reciprocity, trust and payoff privacy in extensive form bargaining, in "Games and economic behavior", 1998, XXIV, pp. 10-24.
Milgrom, P., Roberts, J., Economics, organization and management, Englewood Cliffs, N. J.: Prentice Hall, 1992 (tr. it.: Economia, organizzazione e management, Bologna: Il Mulino, 1994).
Mirowski, P., More heat than light: economics as social physics, physics as nature's economics, New York: Cambridge University Press, 1989.
Narayan, D., Bonds and bridges: social capital and poverty, World Bank policy research working paper n. 2167, Washington: The World Bank, 1999.
Neumark, D., Postlewaite, A., Relative income concerns and the rise in married women's employment, in "Journal of public economics", 1998, LXX, pp. 157-183.
Odean, T., Are investors reluctant to realize their losses?, in "Journal of finance", 1998, LIII, pp. 1775-1798.
Pulcini, E., L'individuo senza passioni: individualismo moderno e perdita dei legami sociali, Torino: Bollati Boringhieri, 2001.
Putnam, R., The prosperous community: social capital and public life, in "The American prospect", 1993, XIII, pp. 35-42.
Putnam, R., Bowling alone: America's declining social capital, in "Journal of democracy", 1995, VI, pp. 65-78.
Rabin, M., Incorporating fairness into game theory and economics, in "The American economic review", 1993, LXXXIII, pp. 1281-1302.
Rabin, M., A perspective on psychology and economics, in "European economic review", 2002, XLVI, pp. 657-685.
Rabin, M., O'Donoghue, T., Procrastination on long-term projects, working paper E02-314, Berkeley: University of California, Department of Economics, 2002.
Sacco, P. L., Vanin, P., Zamagni, S., The economics of human relationships, in Handbook on the economics of giving, reciprocity and altruism (a cura di S. Kolm e J. M. Ythier), Amsterdam: North-Holland, 2004.
Sahlins, M. D., Stone age economics, Chicago: Aldine Publishing Company, 1972 (tr. it.: L'economia dell'età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, Milano: Bompiani, 1980).
Samuelson, L. (a cura di), The evolution of preferences, in "Journal of economic theory", 2001, XCVII, n. 2, monografico.
Seabright, P., Blood, bribes and the crowding-out of altruism by financial incentives, Toulouse: University of Toulouse, IDEI, 2002.
Shleifer, A., Inefficient markets: an introduction to behavioral finance, Oxford: Clarendon Press, 2000.
Smith, V. L., Experimental economics: induced value theory, in "The American economic review", 1976, LXVI, pp. 274-279.
Temple, J., Johnson, P., Social capability and economic growth, in "Quarterly journal of economics", 1998, CXIII, pp. 965-990.
Thaler, R., Mental accounting and consumer choice, in "Marketing science", 1985, IV, pp. 199-214.
Tirole, J., Rational irrationality: some economics of self-management, in "European economic review", 2002, XLVI, pp. 633-655.
Titmuss, R., Gift relationship: from human blood to social policy, London: Allen & Unwin, 1970.
Townsend, R. M., Arrow-Debreu programs as microfoundations of macroeconomics, in Advances in economic theory. Fifth world congress (a cura di T. Bewley), Cambridge: Cambridge University Press, 1987, pp. 379-428.
Townsend, R. M., Models as economies, in "The Economic journal", 1987, XCVIII, 390, suppl., pp. 1-24.
Uhlaner, C. J., Relational goods and participation: incorporating sociability into a theory of rational action, in "Public choice", 1989, LXII, pp. 253-285.
Weibull, J., Evolutionary game theory, Cambridge, Mass.: The MIT Press, 1995.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
Politica - nella lingua italiana - è generalmente un aggettivo femminile sostantivato, del tutto analogo al tedesco Politik e al francese politique, mentre in inglese abbiamo politics, ma anche policy per indicare le politiche pubbliche. Alla parola politica segue in genere un aggettivo, come estera, interna, economica, sociale, un aggettivo che non sempre però riguarda la vita pubblica: si parla anche della politica aziendale. L'uso del termine è decisamente neutrale: si parla anche della politica razziale di Hitler. Manca, nella lingua italiana, una parola equivalente all'inglese polity per indicare una società bene ordinata, un buon governo.Tuttavia politica può essere inteso come un neutro plurale, per indicare le cose politiche, analogamente al greco τὰ πολιτιϰά o al tedesco die Politik. Esiste anche il sostantivo il politico (Politiker, politique, politician) per indicare l'uomo politico; nel linguaggio scientifico, però, è entrato in uso per indicare l'essenza della politica o la politicità, riproducendo il neutro tedesco das Politische o il neutro plurale inglese politics. Questo uso sostantivato di valore neutro serve o dovrebbe servire a distinguere il politico dal privato e dal sociale. Esiste anche l'aggettivo politico, che si accompagna a un'infinità di parole, come partito, élite, partecipazione, cultura, regime, sistema. Talvolta serve anche per indicare virtù private come la prudenza.Come si vede, questo termine, sia per l'inflazione del suo uso generico, sia per il suo uso improprio, è suscettibile dei significati più diversi e più disparati, e non esprime più un concetto univoco e forte: la sua estensione semantica indebolisce il concetto. La nostra parola di origine greca si precisa solo con l'aggettivo che la segue o con il sostantivo che la precede. Con riferimento ad altri concetti politici moderni - soprattutto, ma non solo, dell'Ottocento - essa diventa un termine subordinato al concetto di Stato (o di governo). Nella lingua tedesca appare il concetto di Herrschaft che, in una traduzione debole, significa potere, in una traduzione forte, indica il dominio. Per Max Weber la politica è la lotta per il potere, per il monopolio legittimo della forza; per la Scuola di Francoforte il dominio materiale e totale della società esclude ogni possibilità della politica, che non sia un radicale rovesciamento del sistema.Per tentare di pervenire a una definizione concettuale di 'politica' è necessario - in prima istanza - procedere ad alcune distinzioni. La politica si riferisce all'azione umana, che si dà in un mondo di azioni: ciò implica una molteplicità di soggetti agenti in una situazione sempre precaria e mutevole. Questa azione vuole mutare l'esistente (non importa in che senso) e non ha pertanto obiettivi conoscitivi: essa è soltanto prassi, una prassi mossa da valori e/o interessi. È un'azione cosciente, dato che a essa è immanente un sapere pratico che i Greci chiamavano ϕϱόνησιϚ; il termine latino prudentia è rimasto in età moderna, mentre oggi usiamo diverse parole, fra cui senso, arte, fiuto politico. Le massime per l'azione sono poi state nel tempo passato raccolte in manuali di precettistica.Il concetto di politica è dunque strettamente collegato alla prassi, all'azione, e questo ci permette di distinguere radicalmente la politica come prassi dalla politica come oggetto di conoscenza: in primo luogo dalla scienza empirica della politica, che ha come campo d'indagine l'osservazione delle azioni e perviene alla compilazione di complesse tipologie; in secondo luogo dalla filosofia politica, che cerca gli universalia dell'agire politico (pensiamo a Croce, Weber, Schmitt); in terzo luogo dalla storia del pensiero politico, che è una storia di valori politici: molti - o troppi - che hanno cercato di definire la politica si sono ridotti poi a stendere una storia del pensiero politico, un pensiero che spesso non è collegato con la prassi. Più utile è seguire la storia della parola coniugata alla storia del concetto, anzi allo svuotarsi del suo significato, per capire - nelle grandi rotture epocali - le più profonde trasformazioni sociali e istituzionali nelle quali si dà il fenomeno politico. Detto questo, resta pur sempre ineludibile il compito di definire - oggi - nel vasto oceano delle azioni, quali siano ritenute politiche e quali no. I Greci distinguevano radicalmente la sfera pubblica della politica da quella privata della casa (οἶϰοϚ); nel Medioevo si distinse la politica dalla morale, dal diritto, dall'economia, dalla cultura, ciascuna avendo ambiti istituzionali e principî suoi propri. Ma una vera rottura fra politica e morale si ha solo in età moderna. Oggi si parla, invece, di politica della famiglia, politica del diritto, politica economica, politica culturale: la politica sembra essere dappertutto, investendo e sbriciolando ogni sfera autonoma. Lo Stato contemporaneo sembra aver distrutto tutte quelle differenziazioni istituzionali, tutte quelle autonome arene nelle quali si era formato lo Stato moderno.
a) Il concetto greco
Per comprendere il significato autentico di una parola bisogna risalire alle sue origini. Politica deriva da πόλιϚ, la comunità cittadina greca. La πόλιϚ fu il risultato di un lento, spontaneo sviluppo, dovuto al concorso di più forze e di più circostanze. Con ciò s'intende che questa forma della convivenza civile radicalmente nuova e originale non fu il risultato di un progetto o di una imitazione: fu il frutto casuale e spontaneo della storia sociale e politica greca. È unita al termine πόλιϚ con un legame assai stretto - ora perduto - una famiglia di parole: tutte, da un lato, sottolineano lo stesso concetto, dall'altro si riferiscono a un'esperienza storica comune e hanno, quindi, uno stretto legame con la prassi.La πόλιϚ è una città autonoma perché indipendente, autarchica perché basta a se stessa. Essa è abitata dai cittadini (πολῖται), che hanno il diritto di cittadinanza (πολιτεία): proprio perché uniti in una comunità, in una ϰοινωνία, essi si occupano permanentemente della cosa pubblica, della vita della πόλιϚ in pace e in guerra, e la loro presenza costituisce l'identità politica della città. Vi è anche il politico, il πολιτιϰόϚ (al maschile), per indicare chi ha rilevanza o eccelle nel disbrigo degli affari della città, ma senza appartenere a una separata classe politica: per il cittadino l'essere partecipe e non destinatario della politica implica una completa partecipazione e politicizzazione. Passando alla riflessione filosofica, τὰ πολιτιϰά indica le cose pubbliche, πολιτεία - oltre il diritto di cittadinanza - indica la costituzione e spesso la costituzione giusta. Inoltre, per indicare la scienza che ha come oggetto la politica c'è l'espressione πολιτιϰὴ ἐπιστήμη.
Uno dei primi a suggerire in che cosa consista la politica fu Protagora (ca. 480-410 a.C.). Nel famoso mito (DK 80 C 1) mostra come gli uomini, pur avendo avuto da Prometeo l'arte tecnica, non riuscissero - uscendo dai boschi - a convivere fondando una città, perché erano privi dell'arte politica (πολιτιϰὴ τέχνη). Allora Zeus mandò loro Giustizia (δίϰη) e Rispetto (αἰδώϚ) e incaricò Ermes di distribuirli a tutti, perché altrimenti la città non sarebbe potuta esistere. In quest'ottica la politica è, dunque, un dono degli dei. Al democratico Protagora si contrappone Platone (427-347 a.C.), che vede la scienza politica (πολιτιϰὴ ἐπιστήμη) posseduta soltanto da pochi o da uno solo. Nel Politico fa tuttavia un'affermazione interessante: paragona il πολιτιϰόϚ al tessitore, che con la sua scienza (ἐπιστήμη) o la sua arte (τέχνη) con cose diverse (le concause o cause ausiliari) riesce a costruire un solo ordito. Certo il protagonista è il πολιτιϰόϚ, mentre gli altri sono soltanto materia passibile della sua forma; ma è solo un protagonista, non certo un creatore. Questa definizione del politico come tessitore è importante nella misura in cui indica la capacità di unire gli uomini in una comune prassi. Platone resta, tuttavia, dominato da un'esigenza assoluta e indeclinabile: quella dell'unità politica. È per questo che viene criticato da Aristotele (384-322 a.C.), che condanna proprio quel fine dell'unità che la πόλιϚ dovrebbe raggiungere come suo bene supremo: questa unità infatti distruggerebbe la πόλιϚ che per sua natura è pluralità, πλῆθοϚ (Pol. II 2, 1261a, e III 1, 1275a).
È nota la definizione aristotelica dell'uomo distinto dalle bestie e dagli dei (Pol. I 2, 1253a): egli è per natura un animale politico (πολιτιϰὸν ζιῶον). Se "la natura è il fine" (Pol. I 2, 1252b) l'uomo ha la possibilità di tendere alla realizzazione delle proprie potenzialità naturali soltanto nella comunità politica. Si è detto che con questo Aristotele definisce l'uomo, non la politica, ma l'affermazione è valida solo se estrapoliamo la citazione dal contesto. Infatti l'uomo, solo tra gli animali, ha la parola (ζιῶον λόγον ἔχον) e la voce gli serve per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l'ingiusto, per cui la giustizia (διϰαιοσύνη) è il fine della πόλιϚ (Pol. I 2, 1253a). La πόλιϚ, infatti, è una comunità che si costituisce in vista di un bene (Pol. I 1, 1252a) e solo in essa si realizza il fine naturale dell'uomo (Pol. I 2, 1253a). Nell'Etica Nicomachea Aristotele definisce l'azione politica come πϱᾶξιϚ e la differenzia dall'azione produttiva o fabbricatrice (ποίησιϚ) (Eth. Nic. VI 2, 1139a-b). Si tratta di agire secondo la retta ragione (Eth. Nic. II 2, 1103b) e la retta ragione è la saggezza o ϕϱόνησιϚ (Eth. Nic. VI 13, 1144b), la quale non è la tecnica (τέχνη) propria del sapere produttivo.La πόλιϚ è composta da una molteplicità di uomini liberi ed eguali (Pol. III 1, 1275a): la libertà, però, non è del singolo, ma della πόλιϚ, l'eguaglianza (ἰσονομία) è solo nella cittadinanza, e a tutti è consentito - come afferma Erodoto (490/480-ca. 424 a.C.) - il diritto di parola (ἰσηγοϱία). Ciascuno è, a vicenda, governante e governato e l'autorità del πολιτιϰόϚ si esercita su uomini liberi ed eguali (Pol. I 7, 1255b).
Le cariche, infatti, sono limitate nel tempo e quindi c'è una circolazione nelle funzioni di governo. In questo contesto non appare una vera e propria classe politica, non si può parlare di un dualismo fra società e potere.Tutti i cittadini partecipano ai lavori dell'assemblea, pochi accedono alle funzioni di giudice e alle cariche (Pol. III 1, 1275a): un giusto titolo alle cariche è dato da valori diversi, come la nobiltà, la libertà, la ricchezza, la giustizia e la virtù (Pol. III 12, 1283a). Aristotele, ancora una volta, mescola il principio democratico e quello aristocratico, la giustizia aritmetica, dove vige un'eguaglianza aritmetica, e la giustizia geometrica, dove vige un'eguaglianza proporzionale (Eth. Nic. V 5, 1130b-1131a). Ma di che cosa si occupano i cittadini, in che cosa consiste il loro fare politica? Potrà sembrare strano, ma per loro non rientra nella politica la nostra politica estera - anche se è l'uomo politico che decide la pace e la guerra - e tanto meno la politica sociale, che è diretta a soddisfare i bisogni per fornire sicurezza alla mera vita materiale.
Nella sua netta distinzione fra πόλιϚ e οίϰοϚ, la casa che è sede dell'attività economica, Aristotele parla delle diverse relazioni di autorità che si danno nell'amministrazione della famiglia, dove troviamo i rapporti fra padrone e servo (o schiavo), fra padre e figli, fra marito e moglie (Pol. I 3, 1253b), nei quali si comanda in modo diverso. Questo tema lo ritroveremo agli inizi dell'età moderna. Lo schiavo è un oggetto, uno strumento di mera proprietà, mentre sui figli il capofamiglia ha l'autorità paterna del re, e con la moglie ha un rapporto - anche se attenuato - politico (Pol. I 12, 1259b). L'autorità del padrone e quella del politico sono radicalmente diverse, dato che quest'ultima si esercita solo su uomini liberi (Pol. I 7, 1255b). La prima - ovviamente - è un'autorità dispotica e tutta la Politica è percorsa da un'opposizione al dispotismo e alla tirannide.La Politica è una vasta analisi delle costituzioni delle πόλειϚ greche, un'analisi di scienza politica proprio per il suo fondamento empirico e per il suo metodo comparato. Essa sarà letta e interpretata nei secoli posteriori soprattutto nei passi che abbiamo ora indicato: quelli sulla natura dell'uomo come animale politico, nei quali è presente una forte carica polemica contro la tirannia e il dispotismo, e quelli sulle diverse forme di autorità dispotica, paterna, politica. Erano, questi, dei concetti che corrispondevano a un'esperienza storica comune, a una prassi condivisa: quella, appunto, della πόλιϚ.
b) L'eredità aristotelica nel Medioevo e nell'età moderna
L'aggettivo politicus è raro nella lingua latina, anche se è usato da Cicerone; irrompe soltanto nel Medioevo, dopo la traduzione in latino della Politica di Aristotele (ca. 1260) fatta da Guglielmo di Moerbeke, nei diversi commenti di Tommaso (1221-1274). Si inserisce, però, in una costellazione di parole assai mutata: le parole dominanti sono civis, civitas; l'aggettivo civilis spesso s'accompagna - o lo sostituisce - all'aggettivo politicus quando si parla di communitas, societas, scientia, prudentia, e si usa anche il civiliter vivere. Questo si spiega facilmente col fatto che è scomparso il referente forte, la πόλιϚ, alla quale gli stoici (e anche Cicerone) contrappongono la nuova μεγαλόπολιϚ. I termini per indicare l'unità politica sono altri: regnum, regimen, dominium, principatus. Quell'organica costellazione di parole, propria dei Greci, si sfalda e si perde così il concetto autentico che la parola politica sottintendeva.Tommaso è incerto nel tradurre l'aristotelico πολιτιϰèον ζιῶον: nel De regimine principum lo rende con "animal sociale et politicum", nella Summa theologiae parla sia di animal sociale, sia di animal politicum, mentre nella Sententia libri politicorum è l'aggettivo - già visto - civile che prevale. Si è persa l'autentica dimensione del πολίτηϚ. A riscontro basta vedere l'esigenza - anche se in forma non moderna - dell'unità, che domina non soltanto il De regimine principum, con il quale s'inaugura un genere politico destinato ad avere fortuna sino alla fine del Cinquecento: al principe, che rappresenta l'unità politica, si deve solo obbedienza. La communitas politica o civilis ha certo un fine, ma il vivere bene aristotelico è assai lontano da quel bonum commune che Tommaso iscrive in una gerarchia di fini che hanno il loro fondamento ultimo nella teologia e come realizzatore il principe stesso.
Ma tramite Tommaso qualcosa dell'eredità aristotelica entra a far parte della cultura medievale e moderna. La distinzione aristotelica fra πολιτιϰή ἀϱχή e δεσποτιϰèη ἀϱχή resta al centro della speculazione politica di Tommaso, tutta costruita nell'opposizione fra il principatus politicus e il principatus despoticus. L'aggettivo politicus resta, ma non per indicare l'azione o la prassi del πολίτηϚ: esso indica un ordinamento conforme a una giusta costituzione, non al vivere politico. Il significato del termine πολιτεία o politia resta con un accento esclusivamente assiologico. Si ricollega a Tommaso John Fortescue (ca. 1409-1476), che tanta influenza avrà sul costituzionalismo inglese: mentre il primo aveva fatto anche la distinzione fra regimen regale e regimen politicum, riferendosi rispettivamente al regnum e alla civitas, il secondo nel De laudibus legum Angliae distingue il dominium regale, proprio della monarchia assoluta francese, e il dominium politicum et regale, proprio della monarchia limitata inglese. Con quel politicum di Fortescue inizia la problematica del moderno costituzionalismo, che è assai debitore ad Aristotele.Tracce dell'eredità aristotelica sono rinvenibili anche nei tempi moderni. Niccolò Machiavelli (1469-1527) nei Discorsi usa frequentemente l'espressione "vivere politico" assieme a quelle di "vivere civile" e "vivere libero". Ma mentre le prime due sono usate sia per le repubbliche, sia per i regni ove ci sia la supremazia della legge, l'ultima è usata solo per le repubbliche. Il concetto greco emerge con più forza nella Politica methodice digesta di Johannes Althusius (1557-1638), il quale afferma sin dall'inizio che "la politica è l'arte per mezzo della quale gli uomini si associano allo scopo di instaurare, coltivare e conservare tra di loro la vita sociale. Per questo motivo essa è definita 'simbiotica'".In età moderna ritorna la tripartizione aristotelica delle forme di potere, delineata a proposito dell'amministrazione della casa: abbiamo un potere dispotico, un'autorità paterna (sui figli) e una 'politica' sulla moglie. Thomas Hobbes (1588-1679) distingue due tipi di Stato (in realtà chiamati o city o common-wealth): quelli naturali (natural) e quelli per 'istituzione', definiti anche political (De cive, V 12). Quelli per istituzione nascono dal contratto di unione, mentre gli altri sono appunto naturali e sono il dominio (dominion) paterno e quello dispotico (Leviathan, II 20). Ci si aspetterebbe una radicale distinzione fra il primo, 'politico', e gli altri due, 'naturali', ma Hobbes risolve il problema con una semplice affermazione: "i diritti e le conseguenze del dominio, sia paterno che dispotico, sono proprio gli stessi di un sovrano per istituzione" (Leviathan, II 20). John Locke (1632-1704), invece, diverge radicalmente da ciò: esclude che la famiglia appartenga alla political or civil society (Two treatises of government, II 7), riconosce la legittimità del potere paterno sui figli sino alla loro maggiore età, ritiene contro natura il potere dispotico, mentre il potere politico (political power) è solo quello istituito da un contratto. In fondo Locke, il fondatore del moderno costituzionalismo, resta fedele al pensiero greco nell'usare la parola politica, ma non tanto ad Aristotele, anche se parte dalla sua tipologia, quanto all'idea della politica intesa come l'arte di associarsi (II 15). Una pari condanna del governo paterno c'è in Immanuel Kant (1724-1804), che non lo considera uno Stato giuridico o civile, come afferma nel saggio dal titolo Über den Gemeinspruch: das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis. L'imperium paternale viene contrapposto all'imperium civile, che è l'unico adeguato alla modernità (Zum ewigen Frieden).
Da ultimo non possono essere tralasciate alcune considerazioni sulla ricezione medievale e moderna della philosophia practica. Sempre interpretando Aristotele, Tommaso aveva diviso la filosofia morale in tre branche: "una analizza le azioni del singolo individuo ordinate al fine, e prende il nome di monastica. La seconda ha per oggetto le azioni della comunità domestica, e viene detta economica. La terza infine si occupa delle azioni nella comunità civile, e il suo nome è politica" (In decem libros ethicorum expositio, I 1).
Aristotele aveva distinto tre diverse forme di ϕϱόνησιϚ in relazione all'agire nella πόλιϚ, all'agire nell'οἶϰοϚ e all'agire dell'individuo (Eth. Nic., VI 8), ma aveva parlato di una sola ἐπιστήμη πϱαϰτιϰή. In realtà poi egli relativamente all'agire nella πόλιϚ distingue e unisce, perché fa interagire etica e politica e pone la scienza politica come regina di tutte le altre scienze pratiche (Eth. Nic., I 1, 1094b), mentre Tommaso non solo iscrive la sua philosophia practica nella teologia, ma subordina anche la politica all'etica.La philosophia practica non solo è presente nella Scolastica e nelle enciclopedie medievali, ma viene recepita nelle università tedesche dalla fine del Cinquecento alla fine del Settecento: l'ultimo grande esponente di questi studi fu Christian Wolff (1679-1754) con la sua Philosophia practica universalis, dove tratta in modo sistematico, ma anche eclettico, di etica, economia e diritto. Immanuel Kant segnò la fine di questa tradizione, già intaccata dalla scienza politica moderna di Hobbes e dalla cameralistica. Rientrano in questa tradizione le opere di Christian Thomasius (1655-1728), il quale, al posto dell'economia (ormai dominio incontrastato della cameralistica), pone il diritto. Egli individua tre valori: l'honestum per la morale, lo justum per il diritto, e il decorum per una politica senza coercizione (Fundamenta juris naturae et gentium, I, VI, 40-43). L'importanza della philosophia practica sta nell'aver ricercato (ma con scarsi risultati) di definire la politica - aristotelicamente - in termini di azione, di prassi, senza lasciarsi influenzare dal paradigma moderno, quello dello Stato. Oggi essa è ritornata in auge con la Rehabilitierung der praktischen Philosophie, una corrente di pensiero che in Germania ha tentato di riattualizzare l'etica e la politica di Aristotele.
Nel Cinquecento comincia a delinearsi un nuovo paradigma, con una sua propria costellazione di concetti: la parola politica non esce dal linguaggio comune, ma perde lentamente il suo peso e soprattutto il suo significato normativo. La continuità terminologica nasconde una rivoluzione semantica, perché il nuovo per prendere coscienza di sé ha bisogno di nuove categorie. Certo, nella Francia cinquecentesca il termine police ha una rilevanza costituzionale: per Jean Bodin (1529-1596) indica la complessa rete degli uffici, delle magistrature, dei commissari, dei corpi e dei collegi, delle assemblee degli Stati e dei Consigli che hanno come fine quello di mantenere il buon ordine, l'armonia nella società governata da una monarchie royale. Per dirla con Charles Loyseau (15661627), questa complessa rete metteva il re nella felice impotenza di fare il male.Chi per primo intuisce che le nuove realtà dei moderni non possono essere comprese con il vocabolario degli antichi è Niccolò Machiavelli: come si è visto l'espressione 'vivere politicamente' ricorre frequentemente nei Discorsi, ma la parola politica non compare mai nel Principe. Questa consapevolezza appare anche da alcuni capitoli dei Discorsi (I 25 e 26, ma anche 18). Dopo aver consigliato il rispetto della tradizione a "colui che vuole ordinare uno vivere politico, per via di repubblica o di regno", Machiavelli afferma: "ma quello che vuole fare una potestà assoluta, la quale dagli autori è chiamata tirannide, deve rinnovare ogni cosa"; e nel capitolo seguente consiglia al "nuovo principe" di "usare modi crudelissimi e nemici d'ogni vivere non solamente cristiano, ma umano": "quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male". Questa è la lezione del Principe, che - non dimentichiamolo - ha come protagonista il "principe nuovo", che per fortuna e non per virtù ha acquistato il suo dominio. Egli ha bisogno soltanto di due virtù, la scaltrezza e la forza, quella della "golpe" e quella del "lione", ma queste capacità della "bestia" (Principe, XVIII) sono lontanissime dalla ϕϱόνησιϚ aristotelica come dalla prudentia o prudenza di coloro che l'avevano interpretata.Per indicare questa nuova realtà opposta alla politica Machiavelli usa frequentemente il termine Stato, ma anche signoria o dominio; e il dominio è l'opposto della politica. La parola Stato da Machiavelli non viene approfondita concettualmente, non è centrale nella sua riflessione, e ha, anzi, diversi significati: indica l'estensione territoriale, la popolazione soggetta al dominio del principe, ma anche il potere, la signoria, il dominio del principe. Siamo ancora lontanissimi dal concetto moderno di Stato, ma la parola comincia a entrare in uso, anche se in Europa incontra difficoltà dato che sino a Kant si preferisce restare fermi ai derivati di res publica. Saranno gli scrittori politici realistici, che annoveriamo sotto l'etichetta di 'teorici della ragion di Stato', a imporla: Giovanni Botero (1544-1617), sin dalle prime battute della sua opera dal titolo Della ragion di Stato (I 1), afferma che 'Stato' è "un dominio fermo sopra popoli, e ragion di Stato è notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio cosiffatto". La parola lentamente prende spessore concettuale, anche per opera dei giuristi, annettendosi il termine politico. Al termine di questo processo Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), che ben conosceva il pensiero greco, nella Rechtsphilosophie definì il suo "uno Stato propriamente politico" (§ 267). Ma era soltanto l'uso di una parola del passato.
In questa storia la parola 'politica' mostra un'ambiguità semantica per la tensione dei significati a essa attribuiti. Ciò si verifica in maniera evidente durante le guerre di religione in Francia. Attorno al cancelliere Michel de L'Hospital (1505-1573) si era costituito un gruppo di legisti e di magistrati: sono i politiques che miravano soprattutto a salvare il Regno di Francia dai conflitti religiosi fra papisti e ugonotti e per questo miravano realisticamente a realizzare mediante editti di tolleranza una pace religiosa in nome del primato della politica. Il termine politique era forse legato ad Aristotele, dato che la Politica era stata tradotta nel 1658 da Louis Le Roy. Un esponente del gruppo, Étienne Pasquier (1529-1615), il più grande storico che ebbe la Francia nel Cinquecento, in un breve dialogo sulla miglior forma di governo, il Pourparler du Prince (1560), contrappone il 'cortigiano', che consiglia al re di ampliare il suo dominio anche a costo di diventare tiranno, al 'politico', che difende le antiche istituzioni del Regno, gli Stati Generali e i Parlamenti, facendo un'apologia degli antichi ordini ai quali tutti - dal popolo al principe - dovevano essere sottoposti. Pasquier non è certo lontano da Machiavelli, quando descrive il regno di Francia. Durante le guerre di religione il termine politique diventa per entrambi i partiti religiosi subito sospetto, perché in esso si afferma un primato della politica sulla religione: i politiques sono soltanto "libertins, épicuriens et athéistes". Dopo la strage della notte di San Bartolomeo (24 agosto 1572) da parte ugonotta uscirono - tra gli altri - due volumi in cui la condanna di Machiavelli si accompagna alla giustificazione del tirannicidio: l'Anti-Machiavel (1576) di Innocent Gentillet, e le Vindiciae contra tyrannos (1579) di Stephanus Junius Brutus (pseudonimo di Hubert Languet o di Philippe Duplessis-Mornay).
Il dibattito sulla politica si intreccia, così, con la polemica su Machiavelli e anche con i teorici della ragion di Stato, i quali, lettori di Tacito, parlavano degli arcana imperii o dominationis, dell'arte della simulazione e dell'obiettivo di ottenere dai sudditi obbligazione e obbedienza. Ma non c'è nessun approfondimento concettuale e non si va oltre la contrapposizione fra una vera scienza politica e una scienza politica tirannica, già impostata da Innocent Gentillet. Si è ancora fermi all'ideale medievale del principe cristiano (che ha la sua fonte più in Platone che in Aristotele), senza prendere coscienza che la politica, per i Greci, possedeva una dimensione orizzontale, mentre nei tempi moderni si parla solo di un principe che esercita un dominio. Il dibattito fra moralisti e realisti è solo sulle virtù del principe: c'è chi vuole che governi secondo giustizia e secondo virtù; e chi, invece, vuole che, pratico delle cose mondane, sia attento alla ratio necessitatis.
La parola 'politica' diventa ambigua: può essere bella o brutta a seconda del giudizio morale che pronunciamo sulle azioni del principe. Nell'articolo Politique, contenuto nel XII volume dell'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert, si protesta contro l'abuso di coprire con il nome di politica le arti della tirannide: il vero principe deve avere "un cuore grande".
La parola 'politica' perde il suo peso concettuale, ma nell'età della secolarizzazione si aprono grandi dicotomie: dopo quella fra politica e religione, appaiono quella fra politica ed etica e quella fra politica ed economia, poi quella fra politica e amministrazione e, infine, quella fra politica e cultura.Per capire la nuova realtà, che poi prenderà il nome di Stato, era necessaria una radicale rottura con la tradizione aristotelica che, tramite Tommaso, continuava - anche se in modi diversi - a contrapporre il principe cristiano e il tiranno. Era necessario un nuovo paradigma, che segnasse radicalmente la fine della politica e usasse una nuova costellazione di parole incentrata su un nuovo concetto forte. Questo fu espresso dal termine 'sovranità', che col tempo, assieme a 'territorio' e 'popolo', costituirà la triade su cui si articola il moderno concetto di Stato.
A compiere questa radicale rottura fu Thomas Hobbes, che conosceva benissimo il greco. In un'opera minore, il Behemoth, indagando sulle cause delle guerre civili inglesi, ha parole durissime contro Aristotele: "Nessuno tra gli scritti dei filosofi antichi è paragonabile a quello di Aristotele, quanto alla capacità di confondere e invischiare gli uomini con le parole, e alimentare così le loro dispute".
Al πολιτιϰèον ζιῶον egli contrappone l'homo homini lupus dello stato di natura, nel quale l'individuo ha un diritto naturale all'autoconservazione. Lo Stato - a differenza della πόλιϚ - è soltanto una costruzione artificiale: è il suo imperium, il suo potere effettivo, a fondare la ϰοινωνία, l'unità e l'identità politica dei cittadini, ridotti però al silenzio sul destino della città perché è solo il sovrano a rappresentarli. Il sovrano non ha soltanto il monopolio della forza, ma anche quello dell'interpretazione, sia delle leggi naturali sia delle Sacre Scritture, quindi anche della morale.È la fine della politica: essa continua solo fra gli Stati, i quali sono fra loro in uno stato di natura e quindi di potenziale guerra (ma Hobbes non usa certo la parola politica). All'interno dello Stato il sovrano non fa politica: la sua azione, diretta a mantenere la pace, è ispirata da imperativi tecnici, da una razionalità meramente formale, e le sue decisioni devono essere funzionali al fine. Così il fine dello Stato assoluto è la neutralizzazione, cioè la spoliticizzazione della società. La politica interna appare come pura amministrazione in base a chiare leggi stabilite dal sovrano.L'amministrazione: nella lingua tedesca abbiamo nel Sei e Settecento il termine Polizey o Policei, del tutto analogo al francese police e all'italiano polizia (usato da Botero), dato che tutti derivano dal latino politia.
Ma ora tali termini indicano l'amministrazione. In Germania la Polizey ha un grande impulso scientifico tramite la cameralistica: questa nuova scienza - comprensiva, alle origini, di diversi ambiti disciplinari, sociali ed economici - era al servizio del principe per la buona amministrazione dei suoi territori e aveva come fine la sicurezza interna e il benessere dei sudditi. Essa è una scienza in quanto non parla astrattamente dell'arte di governare secondo giustizia, ma studia sul piano amministrativo i mezzi per la gestione finanziaria, per la politica economica, per realizzare il buon ordine in una società amministrata. C'è un disciplinamento sociale attraverso la scienza dell'amministrazione, criticata alla fine del Settecento per il suo eccessivo dirigismo legato a una concezione paternalistica dello Stato. Nella Policei domina un sapere empirico, non l'antica prudenza, una razionalità rivolta a un fine, non la proposta di una società virtuosa. Dall'arte del governo siamo passati alle scienze al servizio dello Stato.
L'antico significato di politia è del tutto scomparso, ma la parola politica riappare per indicare le diverse politiche interne dello Stato, come la politica amministrativa, finanziaria, agraria, fiscale, che fanno capo alle nuove diverse specializzazioni della cameralistica, perché queste scienze sono in funzione della legislazione del principe.Con la crisi dello Stato assoluto, in seguito alla rivoluzione democratica, appare un potere ascendente contrapposto al vecchio potere discendente. Nel 1848 si parla di emancipazione politica dei cittadini in uno Stato democratico, si contrappone la politica del popolo a quella del governo, si vede nell'agire politico la promozione della libertà e dell'eguaglianza. La Allgemeine Staatslehre compie un formidabile sforzo teorico per fondere Stato e popolo, la maiestas personalis e la maiestas realis. Dopo il fallimento di questo sforzo ci si accorge che la società - un tempo spoliticizzata - si ripoliticizza e appaiono nuovi soggetti, come i partiti, e nuovi fenomeni, come la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Gli uomini, per comunicare fra loro e discutere i problemi della loro vita associata, hanno bisogno di parole e così ritorna, con questo potere ascendente, il vecchio termine politica, ma l'estensione semantica finisce per indebolire il concetto e abbiamo le politiche e non la politica, politiche del tutto estranee alla politica greca.
Max Weber (1864-1920) nel saggio Politik als Beruf è consapevole dei pericoli di questa eccessiva estensione semantica della parola e propone una sua definizione: "Politica significherà dunque per noi aspirazione a partecipare al potere o a influire sulla ripartizione del potere, sia tra gli Stati, sia nell'ambito di uno Stato tra gruppi di uomini compresi nel suo territorio". D'altronde il concetto di potere è centrale nella sua grande opera sistematica Wirtschaft und Gesellschaft.
Questa definizione si iscrive nel tradizionale concetto di Stato (sintesi di sovranità, territorio, popolo), di cui sottolinea - alla Hobbes - il "monopolio legittimo della forza fisica": il suo concetto di Herrschaft suona spesso più come dominio (da dominus) dall'alto, che come potere (o meglio prassi) dal basso. Per quanto sia felice la sua definizione della politica, essa però rimanda ad altro, al potere (o al dominio), allo Stato. Eppure in Politik als Beruf Max Weber ebbe un'illuminante intuizione di sapore greco: l'autentico politico deve avere "passione, senso di responsabilità, lungimiranza", e questo lo differenzia dai professionisti della politica. Ma questa intuizione contiene un giudizio di valore, mentre la sua sociologia si basa su giudizi di fatto.
L'uso della parola politica si trasferisce, così, dallo Stato (con la sua politica estera e le sue politiche interne) alla società: si parlerà così di partecipazione politica e di partiti politici. Nel Novecento, però, con solidi ancoraggi al pensiero ottocentesco, appare nella prassi - una prassi munita di una ben precisa teoria, quella marxista - un nuovo concetto forte di politica, in cui questa si contrappone alla politica come routine, la quale si limita ad amministrare i meri interessi esistenti avendo soltanto fini immediati. È la 'politica assoluta', che mira alla totale trasformazione della società attraverso una prassi rivoluzionaria al fine di realizzare una società pacificata, nella quale - essendoci armonia - scompaia la politica. Su questa linea si muovono il socialismo marxista e il socialismo anarchico. Per raggiungere questo fine ha luogo una 'politicizzazione' di tutte le manifestazioni della vita e la politica tende a farsi totale: il nuovo principe - per Gramsci il partito rivoluzionario - incarna la stessa istanza etica. In realtà si tratta di una teologia laicizzata (o secolarizzata) della redenzione umana o della salvezza ultima, che mantiene però intatta la vecchia struttura concettuale escatologica: eliminare il male dalla storia per attuare il regno di Dio in terra, per realizzare una compiuta felicità terrena. Il fine ultimo è, così, la scomparsa della politica.
Nel linguaggio comune la parola politica si è profondamente consumata, o meglio svuotata del concetto che essa sottintendeva quando venne forgiata nell'età della πόλιϚ. Tuttavia le scienze sociali in senso lato, cioè quelle il cui interesse è rivolto essenzialmente all'azione dell'uomo, sentirono l'esigenza, proprio per dare ordine alle loro ricerche, di ridefinire la 'politica'. È necessario pertanto esporre tre definizioni, che si possono ritenere paradigmatiche o emblematiche perché colgono o situano la politica in tre campi diversi e lontani, senza alcuna pretesa da parte nostra di essere esaustivi. Queste tre definizioni risentono della formazione culturale dei loro autori, del campo delle loro indagini e, infine, delle loro opzioni politiche, ma sono illuminanti per il dibattito politico contemporaneo alla ricerca del concetto di politica.
a) Carl Schmitt
Carl Schmitt (1888-1985) è l'erede - nonostante tutte le critiche che le rivolge - della grande scuola dell'Allgemeine Staatslehre, ma mentre questa aveva dissolto il concetto di politica in quello di Stato, egli con Der Begriff des Politischen (v. Schmitt, 1932³), per dare una definizione universale e non storicamente condizionata del 'politico', procede a una radicale dissociazione di Stato e politica; il che gli consente - come vedremo - di comprendere fenomeni nuovi di questo dopoguerra. Nell'età moderna, con l'affermazione dello Stato assoluto, si è rivolta l'attenzione soltanto allo Stato, che può essere però definito solo dal concetto di politico: lo Stato è quell'organizzazione del potere che ha, appunto, il monopolio del politico. Per approfondire un concetto - secondo Carl Schmitt - bisogna individuare il suo opposto, come in altre discipline dove vigono le coppie bello/brutto, utile/dannoso, buono/cattivo. Per definire il politico Schmitt propone l'antitesi amicus/hostis, dove il nemico è il nemico esistenziale, cioè il nemico in guerra, un nemico che deve essere ucciso, e la guerra può essere quella classica fra Stati, ma anche la guerra civile. Proprio questa antitesi determina il massimo grado di unione nel gruppo sociale e la massima divisione dall'altro gruppo. Se rompe con la tradizione dell'Allgemeine Staatslehre, Schmitt rompe anche con la più antica tradizione della philosophia practica. Questa, infatti, studiando l'azione, aveva individuato dei modi di agire diversi dalla politica, dei campi neutrali d'azione: la morale, l'economia, il diritto (ma Schmitt aggiungerebbe anche la religione e l'arte). Nella vita umana però non esistono - secondo Schmitt - campi neutrali, dato che l'antitesi amicus/hostis può investirli tutti, e quindi la politica può essere dappertutto.Sarebbe un grave errore interpretare questa definizione come se la guerra fosse lo scopo o la meta o il contenuto della politica: la guerra è solo il caso limite in cui meglio possiamo cogliere la vera natura di questa antitesi; o ancora la guerra è solo il "presupposto della politica, sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l'azione dell'uomo provocando così uno specifico comportamento politico".
Chi fa politica deve sempre sentire incombente la possibilità reale del momento dell'ostilità, della guerra. Se l'inimicizia è il concetto primario, essa però si palesa con intensità diversa, perché può essere relativizzata. La vecchia guerra fra gli Stati, dominante dal Cinquecento sino alla prima guerra mondiale, è stata relativizzata dal lento formarsi del diritto internazionale, che Schmitt chiama lo jus publicum europaeum (Der Nomos der Erde, 1950): esso, infatti, è riuscito a relativizzare le ostilità sino a quando - nelle moderne guerre ideologiche - il nemico è stato trasformato in delinquente e criminale.L'attenzione di Carl Schmitt si rivolge anche alla guerra civile, dove l'ostilità è assoluta: un tempo ci furono le guerre di religione, ma lo Stato assoluto riuscì a neutralizzare e a spoliticizzare la società, distinguendo radicalmente la vera politica, che è la politica estera, dalla politica interna che è soltanto Polizei, cioè amministrazione.
Lo Stato liberale poi (del quale il Nostro è avversario dichiarato) riesce a relativizzare i conflitti (e quindi la politica) al suo interno, conflitti dovuti all'esistenza dei partiti e dei sindacati; ma in questo Stato resta sempre la possibilità di una guerra civile, che si verifica quando appare il rivoluzionario di professione che - a differenza del vecchio partigiano - proprio per il suo impegno politico totale ha un nemico non reale, ma assoluto. Infine c'è una terza forma di ostilità, una ostilità assoluta che non si dà fra gli Stati o all'interno di uno Stato: è il terrorismo internazionale cui si accenna nella Theorie des Partisanen (v. Schmitt, 1963), nel quale è il terrorista che decide chi è il nemico: un nemico soltanto simbolico la cui identità empirica non interessa. Concludendo: in una riflessione durata per più di mezzo secolo Carl Schmitt, nonostante l'importante dissociazione fra il politico e lo Stato, resta nostalgicamente legato - come è dimostrato da tanti altri suoi lavori - alla realtà dello Stato moderno, per cui la vera politica è la politica estera che, nell'età classica dello jus publicum europaeum, sapeva relativizzare l'inimicizia internazionale. Ma è anche fedele all'impostazione iniziale, quando crede che - in ultima istanza - il vero sovrano, che ha il monopolio del politico, sia colui che decide lo stato di eccezione per fronteggiare il nemico: questo è possibile anche in uno Stato costituzionale quando è previsto - come nella Repubblica di Weimar - che ai vertici ci sia chi abbia questo potere di decisione per sospendere la validità dell'ordinamento giuridico al fine di fronteggiare un nemico esterno o interno.
b) Harold D. Lasswell
Harold D. Lasswell (1902-1979) è stato il grande protagonista del rinnovamento delle scienze sociali in America e quindi anche della scienza politica. Uomo di vastissima cultura, è riuscito a combinare in modo non sincretistico varie correnti del pensiero politico contemporaneo, dalla filosofia analitica alla rivoluzione comportamentistica, con una particolare attenzione all'informatica, per i simboli e i messaggi che essa trasmette. Per quanto riguarda la scienza politica i suoi punti di riferimento sono Marx e Freud, e soprattutto i teorici italiani delle élites. In questo campo Lasswell svincolò la scienza politica dai vecchi compagni di strada (la storia, la filosofia e il diritto pubblico) per saldarla alla psicologia sociale. Studiò insieme la politica interna e la politica internazionale: il loro punto di connessione è posto nel concetto di insicurezza - quasi la hobbesiana paura fisica - da cui nasce la politica. Egli è un teorico della politica, ma le sue definizioni servono soprattutto a costruire griglie per la ricerca empirica.
Dal suo saggio del 1936, dal titolo Politics: who gets what, when, how, all'articolo Politica per l'Enciclopedia del Novecento, pubblicato nel 1980, c'è una profonda continuità di pensiero, anche se gli arricchimenti successivi mostrano oscillazioni nella sua prospettiva. Il primo saggio ora ricordato introduce quattro termini: chi prende, che cosa prende, quando e come. Questa impostazione ha le sue radici nella teoria delle élites: infatti ci sono attori attivi e attori passivi, anche se, proprio in base a quella generale definizione, c'è poi una complessità o un pluralismo di élites, di fronte sempre a diverse maggioranze, che cercano di massimizzare i propri valori. I valori sono per Lasswell i fini o i desiderata dell'individuo. Egli ne indica principalmente tre: il potere, il benessere, la reputazione; ma questa indicazione non è esaustiva, dato che in taluni scritti ne indica altri, come il sapere e la libertà personale. La scelta di questi valori è in funzione della concreta ricerca empirica. La politica è allocazione dei valori: qui l'analisi di Lasswell diventa più complessa, proprio per la diversità di questi valori e per la diversità delle situazioni storiche.
Agli estremi di un possibile continuum possiamo porre il governo e il mercato, perché nell'allocazione dei valori ci sono aree statizzate e aree liberiste. Ma possono esserci anche aree intermedie che non conoscono il 'come' o il modo delle prime ma neanche delle seconde, sicché è necessario introdurre una nuova distinzione, quella tra autorità e persuasione. Nell'articolo per l'Enciclopedia del Novecento Lasswell dà, invece, una chiara definizione della politica, assai più restrittiva perché si tratta solo della politica del governo: essa è una allocazione imperativa dei valori o, per citare le parole dell'Autore, è una "presa di decisioni assistite da sanzioni nell'ambito di una comunità politica".Tuttavia nel processo sociale, di cui quello politico è soltanto una parte, si danno altre allocazioni di valori con sanzioni meno forti di quelle dello Stato, restando però fermo il punto che la politica può influenzare l'intero processo sociale con decisioni che modificano la condotta degli altri con la minaccia di sanzioni. Tuttavia anche le grandi unità produttive, le istituzioni religiose, i mezzi di comunicazione di massa prendono decisioni che sono politiche quando producono effetti sulla distribuzione generale dei valori nella società. Il risultato di questa pluralità di élites è che la politica è dappertutto, e non ha un suo campo particolare e riservato, quello del governo. Ma Lasswell, proprio per la sua costruzione di una rete concettuale che serva alla ricerca empirica, deve porre una radicale distinzione, quella fra potere e influenza, dove soltanto nel primo caso c'è un reale monopolio delle sanzioni che consente un reale potere di decisione e di coercizione.
La definizione più ristretta di politica finisce per consistere o scivolare in quella di potere: non per nulla una delle opere più importanti di Lasswell, pubblicata nel 1950, porta come titolo Power and society. La politica è sempre ridotta a un potere discendente, anche se - da democratico - Lasswell auspica un ampliamento del numero delle persone che partecipano alle decisioni importanti nello sviluppo del processo sociale. Ma sia nella definizione ristretta di politica o di potere che in quella ampia, questo fenomeno ci si presenta come un fenomeno discendente, tutto ancorato alla decisione, per cui la sola alternativa resta o subire o partecipare. Nel suo sistema politico ci sono gli outputs del governo e non gli inputs dei cittadini.A sistemare la nuova impostazione di Lasswell è stato David Easton (n. 1917) con il concetto di 'sistema politico' e con la definizione della politica come distribuzione di valori: in The political system, del 1953, c'è una pari attenzione sia agli inputs che agli outputs, sia alle sfide che alle risposte del sistema politico. Molti degli eredi di Lasswell si sono invece dedicati a studiare empiricamente solo gli outputs del governo, con il risultato che è scomparsa la politica, anche nel nome: al posto della politics c'è la policy, anche se Lasswell ha cercato di vedere le interazioni fra politics, policy e polity.
Ma se la vita politica dello Stato è ridotta alla politica interna delle allocazioni dei valori, allora è giusto parlare di amministrazione, anche se ora si è coscienti della politicizzazione dell'amministrazione. L'attenzione privilegiata verso lo studio delle policies corrisponde all'espansione dell'intervento pubblico nella società e nell'economia, e forse è il segno di una raggiunta stabilità democratica nella quale è scomparsa la politica. Significa però anche ridurre il problema della legittimità di un governo solo e soltanto alla sua capacità di garantire il benessere alla popolazione, come era nei fini degli Stati assoluti. Contro questa idea paternalistica ci si rivoltò in nome della cittadinanza. La fine della politica può essere soltanto un'illusione accademica.
c) Da Hannah Arendt a Dolf Sternberger
Hannah Arendt (1909-1975), allieva di Martin Heidegger, ha proceduto a decostruire il pensiero del maestro con le sue stesse categorie. Essa però non rompe soltanto con la tradizione metafisica, rompe con tutta la tradizione della filosofia politica europea (salva solo Tucidide, Machiavelli, Tocqueville), in quanto sussume l'esperienza politica sotto categorie filosofiche: Hannah Arendt nega, infatti, un qualsiasi primato della teoria sulla prassi, e così mette in questione concetti tradizionali che sono stati sempre collegati alla politica - come Stato, dominio, sovranità, rappresentanza - in quanto hanno radici nella metafisica. La filosofia politica occidentale ha obliato ciò che è veramente originario.Originario è l'essere dell'uomo nel mondo, che implica la coesistenza con il mondo e gli esseri che in questo mondo abitano. L'uomo non esiste, ma coesiste in uno spazio pubblico visibile e trasparente. In questa situazione l'uomo non ascolta l'essere, ma gli altri: la vita quotidiana non è banale se l'uomo è capace, partendo da questa sua situazione originaria, di ritrovare l'autenticità della vita proprio nell'azione o, meglio, nella prassi politica, una prassi basata sul discorso con il quale si comunica agli altri, in un mondo che è comune e che il filosofo non deve disprezzare.
Hannah Arendt presenta questo suo modo nuovo di pensare la politica in The human condition (1958) o Vita activa (nell'edizione italiana e tedesca), partendo dall'esperienza della πόλιϚ greca nella quale era netta la distinzione fra la sfera pubblica (ἀγοϱά) e la sfera privata (l'οἶϰοϚ, la casa), fra la politica e l'economia. Il mondo è caratterizzato non solo da una pluralità di soggetti, ma anche dalla fenomenicità e dalla contingenza legata all'irrompere del nuovo, che è sempre una 'nascita' dovuta all'azione, al discorso.In questo mondo dominato dall'incertezza e dall'instabilità, per definire la politica Arendt si fonda sul concetto di libertà e su quello di partecipazione. La libertà coincide con l'assenza del dominio, con l'assenza di una qualsiasi ἀϱχή: ciò consente - e qui è presente il motivo della partecipazione - all'uomo assieme agli altri uomini di creare un novus ordo contro il dominio ereditato dal passato - tema che sarà poi approfondito in On revolution (1963). In sintesi: la politica è azione discorsiva e, in quanto tale, è il momento più alto della vita activa, perché dà inizio al nuovo rompendo con la routine della passività umana e con la ciclicità della natura. Non è né violenza, né dominio, e in essa l'uomo dà un senso alla propria esistenza.Conviene sottolineare ancora un punto: in Vita activa, partendo dalla Politica di Aristotele, Arendt dice che il linguaggio caratterizza la politica, anzi, che è il linguaggio a fare dell'uomo un essere politico. Arendt è tornata sul problema nella sua ultima opera, The life of the mind (1978), in cui è chiara l'intenzione di rinsaldare il pensiero con l'azione tramite il "giudizio riflettente". Interpretando in modo piuttosto libero la Kritik der Urteilskraft di Immanuel Kant, Arendt vuole definire una razionalità pratica sottratta a ogni metafisica.
Il giudizio riflettente è svincolato dai comandi della ragione universale dei filosofi, perché è fondato sull'uso pubblico del proprio pensiero, cioè sulla comunicazione, che presuppone una pluralità di soggetti dato che richiede l'assenso degli altri: la verità comunicativa si basa su un mondo comune.Il pensiero di Hannah Arendt ha avuto una grande influenza: nel mondo inglese è apparsa un'appassionata Defense of politics (1962, 1964²) di Bernard Crick, che, professore di scienze politiche, non solo è un irriducibile avversario di Lasswell, ma anche degli accademici di scienze politiche per il loro linguaggio inutilmente tecnico: "Se un problema è d'importanza pubblica, deve essere trattato in modo intelligibile, sì che tutti possano comprendere: i governi incompetenti prosperano sul segreto; gli studiosi incompetenti su una terminologia pseudoscientifica".
Hannah Arendt ha poi influenza - ma minore - sia sui neoaristotelici americani sia sulla Rehabilitierung der praktischen Philosophie; si ha però la netta sensazione di ricadere nella vecchia 'filosofia' dei filosofi di professione, chiusi nel loro gergo tecnico: nella loro filosofia c'è alla fine la riduzione della molteplicità degli individui - categoria centrale nel pensiero della Arendt - in nome dell'unità, o a volte in nome del 'trascendentale'.
Unica eccezione è Dolf Sternberger (1907-1989), un non filosofo di professione capace di unire l'analisi del linguaggio alla storia delle idee, il quale dopo molti saggi è giunto a quella magistrale ricostruzione del pensiero politico occidentale che è Drei Wurzeln der Politik (1978), in polemica con Max Weber e Carl Schmitt.Sternberger, per scoprire il significato originario, o meglio il concetto sotteso alla parola politica, si rifà in modo più analitico ai testi aristotelici, nei quali sottolinea l'ἐπιστήμη πολιτιϰή, la concezione della politica come opposta alla tirannia (termine che in età moderna sarà sostituito da dominio), e mette in luce il governo misto, inteso come governo su uomini liberi. Ma l'opposizione categoriale fondamentale che regge tutta la sua analisi (non solo dei testi aristotelici) è quella fra unità e molteplicità: ma la molteplicità implica anche dissenso, conflitto, discordia, e non necessariamente un agire comune, che è l'aspetto rilevante della politica. Nella storia dell'Occidente si sono date altre forme di politica, con proprie specifiche strutture categoriali: alla forma greca, che egli chiama Politologik, si contrappongono la Dämonologik e l'Eschatologik. Con Machiavelli - il Machiavelli del Principe e non dei Discorsi - abbiamo l'emancipazione del tiranno e la politica intesa come dominio: tutta la successiva teoria dello Stato è dominata dal principio dell'unità, dall'esigenza di sopprimere le differenze, che generano conflitti. La Eschatologik è la trascrizione in chiave laica e immanentistica della teologia di Agostino, fatta dalle utopie rivoluzionarie: la fine dei tempi è posta su questa terra.
Anche in Sternberger c'è alla fine un elemento prescrittivo: riproporre la Politologik greca per le nostre società. Analizzando minutamente la Politica aristotelica egli mette a fuoco la costituzione mista: la πόλιϚ è certo una comunità di eguali nella cittadinanza, ma per la diversità dei ruoli e delle funzioni c'è una distinzione fra governanti e governati, fermo restando il principio che l'accesso alle cariche è libero a tutti: c'è una mistione di diversi modi di partecipare alla politica. Sternberger rielabora Aristotele facendo espressamente riferimento a Gaetano Mosca e al concetto di 'classe politica' e alla sua esigenza di combinare il principio aristocratico con quello democratico. L'ideale del governo misto è interno a tutta la storia del costituzionalismo, che conserva l'idea aristotelica di costituzione, una costituzione che riesce a mantenere al suo interno le diversità, le pluralità, ad armonizzare le differenze, senza ricorrere al dominio. È l'ideale del costituzional-pluralismo. Ma che cosa tiene insieme il tutto? È appunto la politica, una politica nutrita di prudenza, di ϕϱόνησιϚ. L'essenza della vera politica è così la pace, come l'essenza della pace è la politica. Non si tratta certo della pace a cui pensano i seguaci della Dämonologik o della Eschatologik, perché si tratta pur sempre di una pace provvisoria e instabile che non può non essere tale proprio perché vuole mantenere la pluralità, la diversità degli uomini. Come afferma Sternberger, l'unità è inumana, l'accordo è umano.
Oggi, proprio nel momento in cui si evidenzia la crisi dello Stato, lo scienziato politico, che studi empiricamente il fenomeno della politica, non può trascurare le tre prospettive ora esposte; si tratta però di prospettive che hanno presupposti concettuali assai diversi e lontani per cui è estremamente difficile - se non impossibile - costruire su di esse una teoria generale della politica. Tuttavia una conclusione non può essere meramente descrittiva dei vari significati che la parola politica ha - nel suo uso inflazionato - nel linguaggio comune e nel linguaggio scientifico, ma deve, invece, contenere elementi normativi. Infatti, dietro l'apparenza della parola, usata in ogni campo del nostro vivere in comune, la politica è assente, sicché alcuni parlano di estinzione, di esaurimento, di entropia della politica.
Quello che ci deve mettere in allarme è che, con l'uso neutro di questa parola, si possa anche parlare della politica razziale di Hitler o della politica dei gulag di Stalin.
Ripercorrendo questa lunga storia nata con la πόλιϚ potremo fare due osservazioni. In primo luogo, il termine politico viene usato in riferimento sia all'azione (del πολιτιϰèον ζιῶον), sia a una retta costituzione (la πολιτεία dei Greci o la polity degli Inglesi). In secondo luogo, la parola appare sempre in grandi opposizioni: il πολίτηϚ greco non può vivere in un regime tirannico o dispotico; nel V secolo dopo Cristo è chiara la distinzione fra res publica e dominatus; nel Medioevo è netta e costante la contrapposizione fra principatus politicus e principatus despoticus; nei tempi moderni (da Locke a Kant) si distingue il potere politico dal potere dispotico e dal potere paterno; oggi si vede nel dominio l'assenza della politica. Se, in base alle esperienze della vita vissuta, vogliamo ridefinire e ricollocare la politica, dovremo partire dalla radicale distinzione dei Greci fra vita privata e vita pubblica, fra l'οἶϰοϚ e la partecipazione.
Nel nostro secolo l'autonomia della vita privata è stata rivendicata con forza dagli scrittori, prima da Thomas Mann e poi dai rappresentanti più radicali del dissenso sovietico, come Solženicyn e Sinjavskij. Thomas Mann con le Betrachtungen eines Unpolitischen vuole mantenere l'arte e la cultura libere dal politico, anzi mostra il disprezzo dello spirito per la politica che "rende rozzi, volgari e stupidi, e non insegna altro che invidia, spudoratezza e avidità". Sta sulla stessa linea, ma con una ben più tragica esperienza alle spalle, il dissenso degli scrittori russi, nei quali il rifiuto della politica assume le forme più radicali: essi rifiutano ogni strategia politica e vogliono soltanto dare una testimonianza autentica di se stessi. Infatti il dissenso nasce dalla riscoperta del linguaggio, nel quale l'individuo esprime autenticamente la propria esperienza vissuta, ignorando i codici linguistici del potere che sono soltanto 'menzogna'. Al potere oppongono - volutamente impolitici - la poesia, consapevoli inoltre che la verità nasce solo nel gulag.
La politica dovrebbe riguardare l'ambito pubblico, ma a causa della sua espansione oggi è sempre più forte la rivendicazione del diritto alla privacy. Nell'ambito pubblico, però, bisogna procedere a ulteriori distinzioni. In contrasto con il rifiuto della politica, che si è dato nei regimi totalitari, c'è oggi nei paesi democratici la nostalgia per la politica, per la politica che non c'è più, una politica che dia senso all'esistenza. Se la scienza politica è - come ha affermato Aristotele - la regina delle scienze, perché è la "più architettonica" (Eth. Nic. I 2, 1094a), dobbiamo ricollocare le diverse azioni umane negli spazi loro propri per ridare alla politica il suo spazio autentico. La ricchezza del mondo moderno, rispetto a quello greco, è che la nostra è una società a più dimensioni, nella quale più sfere devono coesistere con chiare distinzioni, senza che nessuna possa sopraffare l'altra: abbiamo l'arte, la filosofia, l'economia, la morale e la religione. La storia dell'Occidente, sempre densa di tensioni e di conflitti, consiste nel continuo tentativo di istituzionalizzare queste differenze, che hanno codici diversi. La politica può essere una sintesi solo se rispetta la diversità di queste sfere. Non per nulla - ricordando Machiavelli - non esiste la politica dove non esiste la libertà e il "vivere libero" coincide con il "vivere politico".
(V. anche, oltre Scienza della politica, sotto, Ideologia; Politiche pubbliche; Potere; Simboli politici; Stato).