Incontro della serie "L'ora del the in libreria", Messina 2012
Adriana Morisani, nell’ introdurre i temi su cui si incentra la tavola rotonda, sottolinea che questa vuol essere un’occasione per riflettere ancora una volta sul nostro modo di fare scuola, sul senso dell’insegnamento, su quali siano gli obiettivi verso cui dirigere la nostra proposta…come e con quali apporti facilitare ai nostri allievi, la lettura del mondo o il modo di viverlo pienamente…se è possibile!
Sicuramente – prosegue - non c’è una ricetta pronta e sicuramente se ne è già parlato tanto nei consigli di classe e nei dipartimenti di ogni scuola e, se ne continua a parlare, ma oggi lo possiamo fare insieme, docenti di scuole diverse, con qualche spunto in più che verrà certamente fornito nel corso delle relazioni e del dibattito.
Dà quindi un primo input richiamandosi al significato del termine competenza, sempre molto discusso e controverso, ma che è proprio l’ obiettivo che dobbiamo raggiungere e far raggiungere ai nostri studenti, e lo fa con una citazione di Silvano Tagliagambe[1] : “Forse l’accezione più corretta è quella che nel termine competenza intende connettere ‘sapere e capire’. È indubbio che quando si parla di capire non si può prescindere dalla conoscenza della realtà, naturale e sociale, … cosa che richiede una gran massa di contenuti specifici… Il capire presuppone di conseguenza il sapere, che è quindi condizione necessaria perché si possa arrivare allo scopo indicato, ma non è condizione sufficiente, perché senza sapere non si può arrivare a capire, ma non è affatto detto che basti sapere per poter capire. … Il riferimento al capire, infatti comporta in primo luogo la padronanza degli strumenti per pensare e ragionare (analisi, astrazione, deduzione, induzione, analogia), quindi il saper costruire e riferirsi a modelli concettuali, poi il saper trasferire tali modelli in situazioni reali e quindi saper comunicare e argomentare le proprie scelte.”
Quale insegnamento dunque deve essere attuato per far capire?
Dalle esperienze e dal dibattito di questi ultimi anni, emergono, come ci ricorda la dott. Marina Medi[2], esperta in metodologie didattiche, alcune indicazioni:
Giuseppe Giordano ha esordito sottolineando come il titolo dato all’ incontro – “Docenti da ri-formare” – vada letto non in senso autoritario: ogni formazione o ri-formazione è sempre un’auto-formazione. È però necessario parlare di ciò perché siamo di fronte a un mutamento antropologico – nativi digitali ecc. – che rischia un collasso della trasmissione dei saperi e la conseguente perdita di una tradizione e di una identità culturale.
Per Giordano – seguendo Edgar Morin – ci possono essere utili due parole chiave: transdisciplinarità e decima epistemologica.
Con la prima non si vuole mettere in discussione l’importanza delle discipline, ma fare emergere che la realtà è fatta di problemi e non di discipline appunto; questo comporta che lo spostamento di concetti e di punti di vista è sicuramente fonte di crescita culturale e di conquista. Il problema è che non si può pensare di fare a meno delle discipline. La soluzione è praticare l’interdisciplinarità (mostrando come problemi simili possano essere “aggrediti” da prospettive disciplinari differenti) per educare alla transdisciplinarità.
La decima epistemologica è strettamente correlata alla transdisciplinarità in quanto costituisce una sorta di auto-critica del sapere specialistico, che “si salva” se presenta le proprie credenziali, se fa vedere quale sia il suo senso, il perché sia opportuno studiare certe cose. Allora, la “decima” è praticabile, in primo luogo, come ricostruzione storica di una disciplina, che mostri come anche quei saperi apparentemente più definitivi ed evidenti sono invece storici, migliorabili e soprattutto frutto delle passioni umane e non solo di una asettica ragione.
La conclusione è che una riforma di tale genere non può essere imposta dall’alto, ma deve essere attuata singolarmente da ogni insegnante; ma è una riforma necessaria se si vuole mantenere il ruolo di “trasmettitori” di conoscenza.
Claudia Petrucci aggiunge altri interessanti spunti di riflessione, a partire da un ricordo letterario. Nel romanzo di Thomas Mann, I Buddenbrook - ci dice - assistiamo a un dialogo tra Hanno e Kai, due figlioli ribelli di famiglie decadute, che sanno di non poter più contare sulle agiate sicurezze dei loro padri:
- Non avrebbe senso [ afferma Kai] dire che adesso sono le dieci e mezzo di mattina. No, adesso è l'ora della lezione di geografia, ecco la realtà. Domando e dico se questo si chiama vivere! È tutto spostato, travisato... Oh, Dio mio, se l'Istituto ci liberasse una buona volta dal suo abbraccio affettuoso!
La scuola in cui vivono Hanno e Kai (il romanzo è del 1901) è per certi versi un contenitore protettivo, che ripara dall’ansia e dà un senso, almeno provvisorio, al tempo spaesato dell’adolescenza. Ma è insieme un universo artificiale, “spostato e travisato”, scandito da materie separate una dall’altra che determinano priorità arbitrarie, lontane da quelle della realtà. Questa doppia faccia contraddittoria, “abbraccio” e insieme separazione (separazione tra le materie, separazione dalla realtà che presenta problemi complessi), è ancora oggi la faccia della scuola.
Ma il secolo e più che ci separa dai Buddenbrook ha reso ancora più necessaria, per la sopravvivenza di tutti, la capacità di costruirsi contesti interpretativi, in un mondo velocissimo e complesso, in cui è diventato addirittura difficile distinguere il virtuale dal reale e dalle sue conseguenze.
A scuola si deve quindi anche imparare a costruire contesti, a usare le conoscenze disciplinari calandole nelle situazioni e nelle sfide del mondo reale.
Questa necessità ci mette, per forza di cose, almeno un po’ in urto con il codice organizzativo prevalente e in parte necessitato delle nostre istituzioni scolastiche, il “codice a collezione” che affianca a canne d’organo saperi e contenuti, e, se fa posto alle “educazioni” trasversali e complessive (“civica”, “alla salute”, ecc.), le fa diventare un’altra materia a parte o un doposcuola indefinito...
E qui servono le scienze umane e sociali, non come disciplina in più, ma come prospettiva da introdurre per ri-formare, cioè ridare forma a cose e relazioni di scuola. Perché la prospettiva delle scienze umane e sociali comporta la capacità di usare competenze d’uso su terreni misti, l’alternanza dei punti di vista, l’abitudine al cambiamento di scala, l’attenzione alle conseguenze diverse che stesse azioni hanno per attori diversi. Solo una prospettiva “da scienze sociali” ci può permettere di capire l’insopportabilità di un edificio magari bellissimo ma fuori scala, e che sbanca una collina. O di capire, e quindi evitare, le conseguenze assurde di una confidenza adolescente postata sul web, che poi corre per il mondo e può finire perfino in mano a orchi e profittatori.
Amelia Stancanelli chiude il giro degli interventi prendo spunto da quanto detto in apertura dalla coordinatrice quando giustamente si è riferita a curricoli integrati, didattica attiva e laboratoriale, didattica della ricerca, e che è stato argomentato e rafforzato dagli altri relatori.
Perché la formazione dei docenti oggi deve passare attraverso queste metodologie, e perché una scuola può essere “sostenibile” quando mette in atto circuiti virtuosi del genere di quelli finora illustrati?
Ai tanti motivi estrinseci (ampliamento del sapere, globalizzazione, nuove tecnologie, ecc.) dobbiamo aggiungerne uno intrinseco, e cercare le motivazioni dell’atteggiamento dei nostri giovani di oggi verso la scuola, che spesso nella migliore delle ipotesi è di superficialità, fino a giungere al disinteresse ed alla totale estraneità nei confronti di tutto o quasi il lavoro scolastico. Ovviamente è un tema enorme, sul quale si sono detti e scritti fiumi di parole, e non si può avere certo la presunzione di esaurirlo in poche battute. Tuttavia non è fuor di luogo qualche ulteriore riflessione.
Come ben sappiamo, due sono i modi dell’ apprendere.
- Il primo è un processo innato, ed avviene attraverso la percezione e l’ azione motoria sulla realtà; è quello che gli psicologi chiamano «apprendimento percettivo-motorio». Si tratta di un processo per così dire accrescitivo : io agisco, ed in base all’ effetto ed al risultato del mio agire strutturo di conseguenza le azioni successive, e così via di seguito. E’ in pratica l’ apprendimento che comunemente chiamiamo “per prove ed errori”, e contrariamente a quanto potremmo credere, non è confinato ai soli saperi pratici, al cosiddetto “saper fare”. E’ un processo in gran parte inconscio che avviene in un continuo scambio di input/output con l’ esterno. Ne derivano delle conoscenze interiorizzate, implicite, e per questo stabili e dunque disponibili a tradursi in reali competenze. In più, questo processo non costa fatica, non produce noia né assuefazione, né stanchezza.
- Il secondo è quello su cui praticamente è costruito il sistema scolastico (tutto, non solo il nostro), e si basa sul linguaggio, o meglio ancora, sul testo; è quello che gli psicologi chiamano «apprendimento simbolico-ricostruttivo». Leggo, decodifico, ricostruisco, studio, insomma, compio un lavorio mentale di interpretazione del linguaggio e di ricostruzione. Non è certo un processo innato; al contrario, dobbiamo governarlo costantemente e controllarlo coscientemente, il che rende lento il suo procedere, e costa attenzione, fatica...in poche parole, stanca. Le conoscenze che ne derivano sono delle conoscenze esplicite, tendono ad essere instabili e rischiano di essere “dimenticate”, e per mantenerle occorre richiamarle periodicamente. Ovviamente questo compito è difficile e impegnativo, e tuttavia se il lavoro del docente è fatto bene e il discente è disposto a sottoporsi allo sforzo e alla fatica richiesti, le conoscenze correlate saranno anch’ esse durevoli e generatrici di competenze.
L’ ambiente ideale per l’ apprendimento percettivo-motorio è quello che ha accompagnato gran parte della nostra storia e sopravvive, sia pur in forme sempre più marginali, fino ad oggi,cioè la “bottega”, mentre l’ apprendimento simbolico-ricostruttivo, che ha avuto uno sviluppo esponenziale dopo l’ invenzione della stampa, ha il suo fulcro nella scuola, o meglio ancora, nel testo (ci dice Francesco Antinucci[3] che “la scuola è un sistema di supporto all’ autoapprendimento tramite il testo”).
Ora, tralasciando, poiché il tempo non ce lo consente, tutta una serie di passaggi che sarebbe interessante – nonché necessario – fare, possiamo facilmente comprendere i problemi che la nostra scuola da anni si trova a fronteggiare (alunni distratti, demotivati, superficiali, e via dicendo…). In sovrappiù, ricordiamo soltanto che l’ apprendimento tramite il testo è lineare e sequenziale, e lineare è anche l’ organizzazione scolastica (susseguirsi di discipline nell’ orario scolastico, scarsissima flessibilità, saperi separati), mentre non lo sono affatto né l’ organizzazione della mente né la realtà, che seguono percorsi complessi e reticolari.
Il lungo cammino dello sviluppo tecnologico ci ha portato però ad un risultato che implica conseguenze importantissime: grazie al computer ridiventa possibile praticare il modo esperienziale di apprendimento, e farlo senza quelle limitazioni che la tradizionale “bottega” di necessità imponeva. Infatti la cultura del computer parla il linguaggio dell’esperienza (non a caso il computer si impara “facendo” e non “studiando”!).
Ma attenzione! Spesso con l’ introduzione delle nuove tecnologie nella scuola non è cambiato assolutamente nulla: infatti esse sono entrate come strumenti, (“sussidi”, ci dice ancora Antinucci, aggiungendo che questa etichetta lo riporta all’ idea dei sussidi di disoccupazione, qualcosa cui si fa ricorso quando, disgraziatamente, non si possa avere vera occupazione), fuori di metafora, come surrogati della “vera” lezione che rimarrebbe quella frontale. Viceversa, il computer non può essere un accessorio, ma è una componente essenziale dell’ ambiente di apprendimento in virtù della sua potenza e della sua capacità simulativa. Diventa sempre più squilibrato quindi il divario tra la realtà tecnologica in cui si trovano immersi i nostri alunni (ormai tutti digitali nativi o addirittura generazione touch) e l’ organizzazione del sapere nella modalità scolastica.
Certo, per affrontare e cercare di risolvere con successo la crisi della scuola bisognerebbe andare a modificare proprio le condizioni di apprendimento : ma lo scoglio essenziale sta nel fatto che si dovrebbe intaccare alle radici la natura stessa dell’ istituzione scuola.
E’ però percorribile – e per noi affascinante, ancorché irta di difficoltà intrinseche e obiettive – una seconda via, quella della “riforma” degli operatori : incidere sul nostro modo di operare mettendo in moto processi di apprendimento il più possibile assimilabili a quelli esperienziali. Operazione che necessita di molta cautela e attenzione per non correre il rischio di cadere nella superficialità e di ottenere risultati opposti a quelli auspicati. Infatti, se l'apprendimento lineare che scaturisce da un sapere veicolato dal testo (a cui la scuola comunque ci ha abituato) è lento e faticoso, esso tuttavia impone rispetto di coerenza e rigore. Ma in questa “terza fase”[4], dominata da un ritorno all'intelligenza simultanea, tipica della visione non alfabetica, rigore e coerenza rischiano di perdersi se non vengono recuperati all'interno della nuova struttura reticolare delle conoscenze.
Ecco allora che tornano in campo la didattica attiva e laboratoriale e la didattica della ricerca di cui si parlava in apertura. E soprattutto, eccoci arrivare alla necessità dei curricoli integrati, poiché bisogna partire dalla convinzione che questi processi siano totalmente transdisciplinari.
E i contenuti?... Se si ha veramente di mira la scuola come luogo dell’ apprendimento e della formazione dell’ individuo è un falso problema: non esistono “contenuti essenziali” per questo tipo di scuola, nessuno lo è, o meglio, tutti lo sono. Se si costruiscono percorsi a rete e li si persegue nelle loro diramazioni non ha importanza da dove si parte, perché prima o poi i percorsi si intrecceranno; l’ uno porterà all’ altro e viceversa.
Possiamo concludere dando la parola ancora una volta ad Antinucci : «Nella scuola dell’ esperienza, se dispiegata pienamente e con coerenza, e senza remore e timori, gli allievi ‘inciamperanno’ fatalmente nelle cose ‘importanti’: la grande differenza sarà che allora queste cose saranno importanti anche per loro, e non solo per noi»
È quindi seguito un interessante dibattito da parte della folta ed attentissima platea, nel quale molti degli spunti forniti dai relatori sono stati sviscerati, ampliati ed approfonditi.