ADDIO A CLOTILDE

 

La notizia della Sua scomparsa ci coglie increduli e sgomenti.

Malgrado i suoi 86 anni ci sembrava che godesse di una sorta di invulnerabilità, che ci fosse sempre e comunque, la nostra "madre nobile", fragile e fortissima, dolce e arguta, lucidissima sempre, sempre pronta a un suggerimento, un consiglio, un incoraggiamento.

Diremo del Suo immenso spessore culturale e umano e dei Suoi meriti.

Ma questo - per SISUS - è il momento dell'emozione, del dolore e dell'addio.

Ciao, Clotilde, sei sempre con noi 

Clotilde Pontecorvo, Maestra di Scuola e di Vita

Per Clotilde* 

di Lucia Marchetti

È difficile esprimere il sentimento di perdita e lo smottamento emotivo che provoca la mancanza di Clotilde in me e in tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di lavorare con lei e di condividere per un lungo tempo il modo di intendere e di stare nella scuola.

Nel mio caso devo risalire ai primi Anni Novanta quando, con una collega, cercavamo di costruire un curricolo verticale di insegnamento della filosofia che coniugasse l’imparare con il piacere della scoperta e di tenere insieme i due aspetti (filosofia e storia della filosofia) individuando possibilità concrete di traduzione didattica nella prospettiva implicita della centralità dello studente. Era un campo minato, soprattutto per due donne, perché la filosofia era ancora un settore molto maschile - e forse lo è ancora - e abbiamo pubblicato due articoli sulla rivista delle scuole sperimentali Sensate Esperienze (1).
Qualcuno si irritò perché stavamo mettendo mano a un sapere che poco si lascia tentare, almeno quello istituzionalizzato dai manuali e dagli accademici. Proponevamo per esempio di cominciare da subito con la lettura di un dialogo di Platone, di trovare modi per mettere lo studente al centro del processo, e ci furono alcuni rilievi critici, qualcuno polemico.
Tra i riferimenti teorici di psicologia dell’apprendimento citavamo Bruner, Vygotskij e Clotilde Pontecorvo.
Così pensai di mandare l’articolo alla professoressa Pontecorvo perchè ho sempre ritenuto che la scuola militante dovesse mantenere il confronto con l’università, o meglio, con chi stava portando avanti la ricerca in campo educativo.
Leggevamo i suoi libri e ci sembrava di essere in forte sintonia con il suo pensiero.
 
Inaspettatamente dopo un po’di tempo arrivò una risposta, una lunga lettera scritta a mano, in cui mi si consigliava di andare avanti e di scrivere; diceva Clotilde in quella lettera che gli insegnanti non amano scrivere sulle cose che fanno e quindi tanta esperienza va buttata e si deve ricominciare sempre daccapo.
Avere questo rinforzo da una persona che per me era il punto più alto nel campo della psicologia dell’apprendimento, fu uno stimolo fortissimo, non solo per me, ma anche per la mia collega di scuola e per il mio gruppo di Sensate Esperienze.
 
La rivista Sensate Esperienze ha rappresentato un riferimento importante per la scuola italiana dal 1987 al 2003; era stata pensata da docenti che la scrivevano e pubblicavano in proprio, sui temi dell’innovazione sia relativa ai saperi, sia relativa all’organizzazione del lavoro, all’orientamento e all’apprendimento. Era un’idea di scuola di alto profilo, che cercava di tenere insieme qualità e quantità, ricerca didattica e approfondimento teorico, riflessione sull’organizzazione e attenzione alla relazione educativa. Non consideravamo tutto ciò elitario, perché lavoravamo per un ideale di uguaglianza delle opportunità, sancito dalla Costituzione e perseguito con pratiche e principi tenacemente ancorati alla ricerca. Abbiamo sempre pensato che fuori da questo riferimento l’idea stessa di formazione diventa incerta e opinabile. Abbiamo sempre pensato che "per migliorare la scuola occorre che le e gli insegnanti assumano in prima persona la responsabilità del progetto e si sentano autorizzati a farlo, non come individui, ma come parte di una comunità, scientifica e civile al tempo stesso, nella quale esercitare e misurare la libertà di insegnamento" (2). Siamo stati quasi sempre minoritari, ma abbiamo trovato eco in alcune voci che nella comunità scientifica si occupavano di scuola, e tra queste, appunto, quella di Clotilde Pontecorvo.
 
Per tutti gli Anni ’90 Clotilde ha aiutato e sorretto la ricerca sperimentale nel costruire curricoli e nel pensare a una scuola buona per tutti e per tutte da parte del gruppo di docenti della scuola secondaria che si riconoscevano nella rivista Sensate Esperienze.
E’ stata una bella avventura, un possibile modello di lavoro tra docenti, che imparano facendo e discutendo insieme.
Appunto discutendo si impara.
 
Siamo arrivati così al Convegno di Palermo del 1998 (3)  in cui si continuava a discutere di riforma della scuola e Clotilde, nella bella relazione introduttiva, sottolineava la necessità di coniugare nella pratica quotidiana il sapere e l’identità del soggetto, la necessità di trovare assieme - adulti e giovani - il senso dello stare in classe, indicava 8 punti fondamentali da considerare nelle competenze di base e, a proposito di scuola secondaria e metodologia, diceva che occorre ridurre le occasioni in cui l’insegnante parla a un grande gruppo:
“Bisogna ridurre al minimo queste situazioni, il grande gruppo funziona solo in certi momenti, per fare certe cose, ma molto raramente. La pratica didattica ci ha insegnato da anni la funzione del gruppo: occorre creare una comunità di apprendimento in cui le pratiche didattiche che si realizzano devono essere le pratiche specifiche di ciascuna disciplina di studio. Si tratta di una sfida: io devo “fare” con i miei studenti quello che è rilevante della mia disciplina. Le discipline di studio vanno pensate come campi di significato che debbono acquistare un senso personale e tradursi in operatività, non solo verifiche scolastiche. Il mio compito è dare un quadro teorico essenziale dei testi, degli strumenti di analisi, e porre questioni utili e rilevanti. Poi è necessario che il lavoro, l’attività relativa al campo la facciano gli studenti, non lo posso fare io per loro…si tratta di fare delle scoperte personali, non di fare ciò che l’insegnante impone. (…) I contenuti offrono i materiali per imparare, ma solo le metodologie garantiscono un apprendimento specifico. Noi non trasmettiamo dicendo, ma facendo, costruendo procedure di partecipazione. Ovviamente all’inizio abbiamo bisogno di dare segnali, indizi, suggerimenti, ma poi i ragazzi diventano sempre più autonomi. (…) Se si dovesse dire qual è la cosa più importante da insegnare a scuola, direi che è la responsabilità, il farsi carico (…) il contrario del fregarsene e dell’indifferenza”
 
E a proposito dei materiali di studio:
Io penso che, con tutto il rispetto per i libri, anche fatti molto bene, bisognerebbe togliere l’idea agli studenti e anche ad alcuni insegnanti, che in un libro c’è tutta la storia di un’epoca, tutta la biologia, la filosofia, la fisica. In realtà a scuola, soprattutto nella secondaria, in gran parte si apprende dal testo, si pratica prevalentemente un apprendimento mediato dal testo. In realtà penso che si apprende da vari testi, da molti altri pre-testi, da ipertesti, da qualunque altro testo, non dal testo scolastico in senso stretto. Mi sembra fondamentale, secondo questo principio metodologico, integrare i testi con la disponibilità di molti altri strumenti di studio
 
E sull’apprendimento:
“ L’apprendimento è molte cose, ma è anche qualcosa a cui si partecipa. Come si impara a collaborare? Si impara lavorando con gli altri, partecipando ad una attività di lavoro…anche ad insegnare si impara partecipando, si impara facendo con gli altri, insegnanti e studenti” (4)
 
Durante i lavori di preparazione del convegno mi suggerì di invitare Marco Rossi-Doria che allora non conoscevo e che poi è diventato un amico e un compagno di lavoro. Perché questo era un tratto forte di Clotilde: essere un ponte di comunicazione tra persone che lei riteneva si potessero capire e trasmettere buone esperienze. Non lo diceva solamente, ma lo praticava. E così poi ho conosciuto Annamaria Ajello e Marina Pascucci che sono un po’ alla volta diventate care amiche. Questo tratto di costruire relazioni e costituire gruppi si ricava dai suoi libri, quasi sempre scritti con le sue collaboratrici e collaboratori, con insegnanti di diversi ordini di scuola, in una relazione che vuole riconoscere il lavoro quotidiano di chi sta nelle situazioni di apprendimento e, insieme, vuole dare valore a un pensiero che altrimenti rischierebbe di andare perduto.
 
Parallelamente la mia attività di insegnamento si spostava sulle scienze sociali e mi impegnavo assiduamente nella costruzione di in indirizzo di studi che fino dal 1974 la sperimentazione aveva delineato, ma che in Italia stentava a decollare per un’arretratezza storica del nostro paese nei confronti di questi saperi.
Era uscito da Einaudi nel 1977, Scienze sociali e riforma della scuola secondaria, frutto delle riflessioni di un gruppo di lavoro del Consiglio italiano per le scienze sociali, fra cui Clotilde. Le ipotesi contenute nel libro erano quanto mai ottimistiche. Nella quarta di copertina si diceva “il volume arriva a toccare i nodi più scottanti della riforma, oggi finalmente pervenuta al dibattito parlamentare…”.
L’idea di fondo era che la scuola italiana, tra le molte carenze della formazione, presentasse quella di “una conoscenza sistematica della realtà sociale”. E si proponeva una presenza autonoma delle scienze sociali nella secondaria, accanto alle altre aree di saperi, “le uniche in grado di offrire una base adeguata per l’analisi e la comprensione del mondo contemporaneo” (p. 18). Le scienze sociali venivano proposte per blocchi tematico-problematici costruiti dall’integrazione fra i diversi saperi disciplinari.
 
Negli ultimi Anni Novanta Clotilde si è impegnata in prima persona per sostenere attivamente il nuovo liceo delle scienze sociali sia nel sostenere gruppi di insegnanti che nelle diverse parti del paese venivano aggiornati dal Ministero attraverso le scuole-polo, sia nel costruire collegamenti tra Ministero, scuole e università, sia nel ritessere i fili tra il testo del ’77 e le nuove pratiche maturate dalle scuole, svolgendo un ruolo decisivo nel gruppo di lavoro che produsse un documento assunto a livello centrale come riferimento per tutti i licei delle scienze sociali del Paese.
 
E’ stata sostegno e stimolo in tutti i convegni che ha promosso la Rete dei licei delle scienze sociali, Passaggi, fino all’ultimo convegno di Sezze [Latina, 2013]  (5) in cui ha valorizzato la nostra esperienza e riflessione non solo come una buona pratica ma come un possibile, e desiderabile, modello generale di scuola.
E quando la Rete si è trasformata in un’associazione, SISUS (Società Italiana di scienze umane e sociali) ha accettato con generosità di essere la nostra presidente onoraria e ha continuato ad essere stimolo e sostegno per le nostre attività.
Le migliori esperienze e riflessioni prodotte dai licei delle scienze sociali sono confluite in un testo voluto da Clotilde che ne ha curato l’introduzione (6).
 
Su un piano più generale Clotilde è stata un riferimento e motore organizzativo di un gruppo di persone che a diversi livelli si occupavano di scuola e alcune di loro oggi si trovano sui banchi parlamentari e in importanti sedi istituzionali. Altri venivano dalla scuola ‘militante’, dalla scuola di base alla secondaria.
Per circa due anni ci siamo incontrati alla Sapienza o a casa sua, liberamente, senza un fine preciso, per discutere di scuola, degli aspetti nodali, delle questioni più urgenti e spinose. Ne è uscito un piccolo libro che è ancora molto attuale e valido per i problemi che dovremmo affrontare nella scuola di oggi e di domani (7).
 
Dicevo sopra che gli insegnamenti di Clotilde andrebbero ripresi e rilanciati, io penso non solo al livello degli insegnanti, ma anche a un livello più generale e politico. Per vie diverse Clotilde ha sempre lavorato, fino agli ultimi giorni, a un’idea di scuola che deve rivedere abbastanza radicalmente i suoi fini, i suoi mezzi e i suoi contenuti, ma che non rinuncia a misurarsi con l’agire nel quotidiano e con i problemi concreti. Su questo modello molti insegnanti hanno cercato di costruire una nuova identità professionale che tiene insieme teoria, pratica, organizzazione, relazione educativa e interazione tra interno ed esterno alla scuola.
 
Per me in tutte queste relazioni Clotilde ha rappresentato la possibilità di confronto autorevole, di legittimazione di un pensare e fare nella scuola, ma anche spinta a crescere. E soprattutto misura e rispetto, amicizia e accoglienza, ingredienti senza i quali è difficile crescere, ma anche fare un mestiere e – forse - fare politica nel senso più vero del termine.
 
In questi ultimi tempi di pandemia tengo un diario e in occasione dell’8 Marzo avevo pensato alle donne, esclusa mia madre, importanti per la mia storia. Me ne erano venute in mente quattro e Clotilde era una di queste, così le avevo mandato la pagina che la riguardava.
Ne riporto uno stralcio. “ E’stato un incontro della maturità, quando la personalità era ormai formata, ma conoscerla e poterla frequentare non solo per studio mi ha fatto intravedere un modo di essere che mi sarebbe piaciuto imitare. Non parlo della intelligenza, a tratti fulminante, né dei livelli di elaborazione a cui era arrivata, certo quelli mi affascinavano ma restano unici, parlo del suo modo di essere sempre positiva nell’accogliere l’altro, nell’essere sempre a disposizione nel sostenere gruppi di lavoro e nel condividere il suo sapere e la sua casa per chi volesse incontrarsi e produrre per la scuola”. Le era piaciuta e aveva voluto sapere chi erano le altre tre.
 
Ora che non c’è più penso anche alla leggerezza, al senso dell’umorismo e al divertimento che ha sempre condito i nostri incontri.
 
Note

Per Clotilde*  :  Gran parte di questo scritto è tratta da L.Marchetti, "Lavorare nella scuola secondaria" in A.M.Ajello e V.Ghione (a cura di) Comunicazione e apprendimento tra scuola e società. Scritti in onore di Clotilde Pontecorvo, Edizioni Infantiae.org. 2011

!1) L.Bolognini, L.Marchetti, Insegnare filosofia, Rivista Sensate Esperienze, Febbraio 1990, n°8

(2) Lucia Marchetti, Editoriale Cattaneo e Dewey, "Sensate Esperienze", Gennaio 2003, n°56

(3) Convegno nazionale, “Sensate esperienze per una nuova e diversa cultura della scuola”, Riforme strutturali, saperi, professionalità e forme di organizzazione, Palermo 28-29-30 Settembre 1998

(4) Clotilde Pontecorvo, La scuola tra sapere e pensare: contenuti essenziali, pratiche discorsive e costruzione dell’identità, Sensate Esperienze, Giugno-Settembre 1999, n°43/44

(5) Seminario nazionale di formazione per i licei delle scienze sociali, La categoria della complessità. Questioni di confine tra scienze sociali e riforma della scuola, Sezze (Lt) 27-28-29 Marzo 2006

(6) C.Pontecorvo, L.Marchetti, Nuovi saperi per la scuola. Le scienze sociali trent’anni dopo, Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, Marsilio 2007

(7) Ajello, Di Cori, Marchetti, Pontecorvo, Rossi-Doria, La scuola deve cambiare, L’àncora del mediterraneo, Napoli 2002

Clotilde e la pedagogia della psiche

 Ricordi e considerazioni

di Paolo Cinque

- Professore, la voglio mandare a Montecatini per un convegno sul Liceo delle Scienze Sociali. Io non posso andarci. Andrebbe lei al posto mio?

Non mi era stato difficile accettare l’offerta. Riflettevo fra me, tra l’altro: «Ma perché ci deve andare un preside e non un docente?»
Da qualche mese avevo in carico le tre prime classi in un Liceo delle Scienze sociali, una sperimentazione a livello nazionale che quella scuola aveva deliberato di aprire alla fine dell’anno scolastico precedente: uno spazio pionieristico e un’occasione propizia per un mio trasferimento “mirato”, cioè più corrispondente ai miei orientamenti didattici. Da alcuni anni, infatti, avevo scelto di insegnare pedagogia come “scienze dell’educazione”, seguendo un percorso per singole discipline sociali ed evitando la più diffusa prassi d’insegnamento basata sull’identificazione della materia curricolare con “storia della pedagogia”.
Ero in preda ad uno stato d’animo che dietro l’eccitazione nascondeva anche molta preoccupazione: il nuovo arrivato in quella scuola – un ex Istituto magistrale diventato Liceo polivalente – non aveva infatti trovato colleghi della sua classe di concorso che volessero prendersi la “gatta da pelare”. Sembrava, anzi, che se ne volessero disfare in fretta, nascondendo la mano dopo aver tirato il sasso. Quelle tre classi prime sostituivano le corrispondenti del magistrale, in via di estinzione e la sensazione più diffusa era che per quell’esordio “assoluto” fosse stato chiamato un “utile idiota” con lo “specchietto” della sua diversa scelta didattica: giusta o no che fosse quell’impressione, il nuovo arrivato sarebbe stato comunque un isolato, uno “spiaggiato” sulla riva di una delle tante scuole interessate più a rimediare posti di lavoro che a curare i contenuti sperimentali di un progetto formativo.
 
Avevo già conosciuto la gioia professionale di lavorare per un progetto comune, sentivo che lì non sarebbe stata la stessa cosa e i primi mesi avevano confermato gran parte delle mie supposizioni.
 
Di solito non mi tiro indietro, però, e a Montecatini andai con la testa piena di curiosità, più che di idee. E fu una fortuna per me: quel convegno avrebbe costituito una svolta professionale che smentiva le mie fosche sensazioni iniziali, relativizzandole. Fu come sbarcare in una terra abitata, altro che finire spiaggiato chissà dove. Molte fra le persone che incontrai sarebbero diventate una “bussola” del mio lavoro scolastico, e motivarono anche i numerosi incontri nei convegni successivi, fin oltre la soglia della pensione.
Divennero anche amicizie.
 
Arrivavo con il gruppetto degli ultimi perché alcuni si conoscevano da tempo, da prima che la sperimentazione diventasse nazionale. Non per questo venni escluso, però: anzi, mi colpì subito il senso di interesse a valorizzare la persona che partecipava, nella convinzione che una motivazione condivisa l’avesse portata fin lì; di conseguenza, c’era un interesse a mettere in comune le diverse esperienza della sperimentazione, mettendo a disposizione documenti, esempi, pubblicazioni, teorie, che spesso confluivano in una rivista creata apposta per essere fonte di informazioni e diffusione di contributi individuali. Si chiamava, galileianamente, “Sensate Esperienze”, dove il richiamo al “senso” evidenzia il significato di “dare senso” alle cose, attraverso la condivisione di un lavoro per la formazione di un curriculum liceale che era inedito nel panorama scolastico italiano (e forse non solo). Grazie a quel rispecchiamento la testa, oltre che piena di curiosità, me la scoprivo anche più piena di idee, e perfino non proprio malvagie: erano in buona compagnia con quelle dei partecipanti, a giudicare dall’accoglienza.
 
La curiosità, però non venne meno: anzi. Qual era, mi chiedevo, la sorgente che animava la messa in comune di tutte quelle energie, la calamìta di quelle presenze così bene intenzionate, che si sarebbero disperse nel territorio nazionale ma sarebbero anche tornate regolarmente a ricostituirsi, oltre che a ritrovarsi nelle pagine della rivista? Alcune di quelle persone avevano una chiara funzione organizzatrice, che orientava i lavori all’interno del gruppo e si avvaleva della collaborazione di docenti e dirigenti degli istituti organizzatori dei convegni, come quello toscano di quell’anno: mancava però qualcosa che rappresentasse l’anima, per così dire, di tutte quelle motivazioni ad andare, a organizzare, a partecipare, per poi tornare a disperdersi nel territorio senza perdere il senso del legame coltivato. Il mio fantasma del lavoro isolato era intanto esorcizzato, però: ora potevo lavorare nonostante la sopportazione indifferente dei colleghi – o, al massimo, la loro prudente, cortese e rispettosa curiosità, “neutrale” ma non di più – perché il “respiro” da dare a quel lavoro quotidiano di costruzione di un nuovo curriculum accreditabile era finalmente trovato e sarebbe durato fino alla fine della corsa, quando anche qualche altri colleghi di scuola (molto pochi) si sarebbero finalmente avvicinati a quella sperimentazione così snobbata.
 
Venne così anche il tempo di scoprire e incontrare la fonte originaria, il “magnete” di tutta questa energia catalizzatrice: era Clotilde Pontecorvo, alla cui memoria è dedicato questo sommesso intervento, una persona capace di restare discretamente ai margini delle attività, lasciando che fossero i colleghi delle pratiche curricolari quotidiane ad esprimersi, per ricondurle ad una sintesi finale che rafforzava il senso d’aver lavorato insieme.
 
 
Émile Durkheim distingue tre livelli di “sapere” e di “agire” pedagogico, tutti indispensabili e fra loro interdipendenti. Oggi sarebbe forse più corretto intenderli come tre “tipologie”: una prima è quella dei grandi teorici dell’educazione, capaci di intuizioni profonde sulla “natura umana” e sulle finalità educative più generali, feconde anche senza un apparato di conoscenze e informazioni paragonabile a quelle di oggi. Da Platone a Dewey ( e oltre), sono autori che entrano agevolmente nei manuali di storia della pedagogia e della filosofia: ad essi fanno necessariamente riferimento tutti quelli che si occupano di educazione, consapevolmente o meno,. Una seconda tipologia riguarda chi si occupa di educazione scientificamente, con ricerche che possiedono rigore induttivo sistematico e richiedono, a complemento, la sfera dell’azione concreta che ha valore di verifica scientifica. Una terza è costituita da tutti coloro che si impegnano nell’effettivo lavoro scolastico quotidiano particolare: “artigiani” dei processi educativi, li chiamava Durkheim, preziosi e indispensabili ma non necessariamente degli “applicati”, perché il loro lavoro è una riserva di informazioni, intuizioni e pratiche originali decisive per l’elaborazione di conoscenze e strategie ulteriori.
 
Se queste distinzioni, comunque relative, hanno un senso, allora si può affermare che Clotilde Pontecorvo ha rappresentato quella classe di educatori che, impegnati a fondo nella conoscenza dei processi educativi, ha fornito agli “operai” nella scuola gli strumenti intellettuali indispensabili alla loro opera, ma anche alla sua stessa: ricevendo da essi, dalle informazioni sulla loro esperienza diretta, indicazioni indispensabili per confermare o ampliare e raffinare la comprensione di quei processi, dando così senso complessivo, in cambio, alla loro didattica più contestualizzata.
 
Per Clotilde, però, questo non basta, per comprendere bene: era infatti senza dubbio capace di esprimere questa necessaria connessione fra i tre aspetti dell’opera educatrice, traendola dall’alto delle sue conoscenze e dal profondo della sua “sapienza” teorica. Eppure, le metafore “alto” e “profondo” non rendono adeguatamente il tono e lo stile della persona: trovo più confacente esprimermi nei termini dello “stare accanto”, della vicinanza personale rispetto agli “artigiani” che operano nel quotidiano delle scuole, essendo questi ultimi gli attori definitivi, le “sinapsi” di ogni sistema scolastico inteso come comunità integrata verso un fine formativo. Essi non sono affatto i “travet” di un sistema a livello puramente esecutivo, ma soggetti attivi in un progetto formativo autoprodotto, dove la “direttiva” scaturisce dalle conseguenze dell’impostazione condivisa e fa riferimento alle sue motivazioni propulsive.
Clotilde rendeva evidenti queste intenzioni e conferiva ad esse il carattere di una coscienza comune. È riuscita, così, a dare una modulazione ulteriore ad una linea di pensiero e buone pratiche ch’era stata iniziata da Lev Semënovič Vygotskij – come “zona di sviluppo prossimale” – e ripresa una generazione più tardi da Jerome Seymour Bruner attraverso l’elaborazione del concetto di “scaffolding”. Nella sua visione il lavoro scolastico dei docenti era anch’esso un apprendimento “prossimale”, un’attività di sostegno come risultato di una mediazione inter-soggettiva fra gli stessi insegnanti, alcuni dei quali sono più competenti di altri, e proprio per questo “sostengono” maggiormente il senso dell’apprendere.
 
Scuola sovietica (non ufficiale), scuola statunitense, scuola romana, dunque: Clotilde Pontecorvo apparteneva ad una generazione ulteriore, che si inserisce con pieno diritto in questa linea di sviluppo, qui connotata come “stare accanto”, come particolare articolazione di una presenza relazionale, che si attua essenzialmente attraverso il sostegno, la solidarietà intellettuale tra i “pari”, nella realizzazione di un’impresa comune. Era un impegno di lunga data da parte sua, questo: ero io che venivo in ritardo, impacciato nello “spiaggiamento” e nei lacci di una pretesa che una laurea in filosofia potesse essere la chiave per rispondere preventivamente a tutte le richieste di un “sapere” aperto. Ora scoprivo invece che non c’è sapere senza una costruzione comune, condivisa nella negoziazione dei significati. La formazione di un curriculum come insieme integrato di “saperi” non si riferiva, poi, solo alla scuola primaria ma, attraverso la sperimentazione del Liceo delle Scienze sociali, anche alla secondaria. Inteso in modo “costruttivista”, un curriculum scolastico non diventava più una somma di “materie” ma una rete disciplinare interconnessa attraverso una riflessione sulle “intelligenze”, ovvero sui “modi del pensare” tipici delle diverse discipline: come pensa un fisico, uno storico, un biologo, un giurista, un filosofo, un economista, un matematico, e così via? E poi, domanda delle domande: «Un bambino, un adolescente, un adulto, come pensano? Come “sanno”?».
 
Clotilde riconnetteva tutte queste problematiche in un’unità complessa, la cui risposta comportava l’assunzione di un atteggiamento, di una posizione a sua volta complessi, da parte nostra: declinava la “complessità” come formazione curricolare, e come processo psicopoiètico, formatore della mente.
 
È evidente, allora, la ricaduta di questo tipo di problemi sulla stessa formazione del docente, di qualsiasi ordine e grado, dovunque la costruzione di “senso” prendesse la forma di “saperi”. Con ciò, Clotilde si spingeva oltre la strada dell’ovvietà formativa per inoltrarsi in un’ovvietà “altra”, quella relazionale, così spesso trascurata perché data per scontato: nel nostro rapporto diretto con lei e all’interno di quei gruppi, questa “ovvietà” acquisiva invece il senso di una presenza accudente, come pre-condizione per un’identità professionale. Così, trasferendo quello “stare accanto” nel mondo nella scuola dove operavamo, la “parola”, oggetto asettico dei programmi didattici della letto-scrittura e della ripetizione di nozioni, si mostrava innanzitutto come espressione di una relazionalità discorsiva, quanto mai vicina alla socializzazione primaria e promotrice di quella secondaria. Non attività dialettica ma dialogica, dunque, che nella scuola superiore, integrandosi con il pensiero logico, guida il flusso delle argomentazioni scambiate e interpretate, rendendo possibile il contatto con il pensiero altrui. Non una parola qualsiasi, comunque sia, ma una parola “data”.
 
Non ci vuole molto per vedere come tutta questa attenzione alla parola scritta, letta, dialogata, relazionale, sia potuta sfociare in una psicologia culturale: oltre che psicopoiètica, la parola psichica è etnopoiètica. Si può perciò comprendere come molti di noi insegnanti, attraverso questa sorprendente coscienza antropologica, si siano potuti rispecchiare nell’avventura delle “scienze sociali in classe”. La sperimentazione nostra, animata in questo modo, ha portato per la prima volta, nella storia della scuola italiana, la sociologia, l’antropologia culturale, la psicologia sociale e culturale come discipline di studio, da integrare con altri studi di carattere sociale già presenti nei curricula, come il diritto, la storia, l’economia. Per non parlare del confronto con le scienze “naturali”. Era un curriculum complessivo, da rifondare in un progetto formativo integrato, che comportava perfino – ciliegina sulla torta – la verifica dei saperi attraverso uno “stage” formativo (cioè a sua volta curricolare, non aziendale e tirocinante, e non in alternanza scuola-lavoro), di osservazione del territorio locale dal punto di vista dei servizi che vi si svolgevano e alla luce delle conoscenze che si studiavano, per comprendere “sul campo” la presenza e il senso delle figure sociali di riferimento.
 
 
Clotilde è stata una protagonista in questa nostra avventura: la sua era cominciata quasi cinquant’anni fa con la pubblicazione, nel 1977 presso Einaudi, di un testo, Scienze sociali e riforma della scuola secondaria, che conteneva anche un suo scritto, assieme a diversi altri contributi (di G. Baglioni, V. Castronovo, A. Cavalli, R. Laporta, S. Rodotà, P. Rossi, B. Sajeva, P. Sylos-Labini), Vent’anni più tardi, ecco finalmente una sperimentazione nel solco delle considerazioni che vi si svolgevano, continuata fino alla “stretta” finale (anche nel senso di “strozzatura”) costituita dalle “riforme” dei Ministri Moratti, prima, e Gelmini, immediatamente dopo. Testimonianza di quell’esperienza era espressa in un secondo testo, Nuovi saperi per la scuola. Le Scienze Sociali trent’anni dopo, edito da Marsilio nel 2007, da lei curato assieme a Lucia Marchetti: l’avevamo scritto in gran parte noi docenti, questa volta, ed era introdotto da Clotilde (Come fare scuola con le scienze sociali. Un possibile modello di scuola).
 
Si compiva un arco di trent’anni. Con quali risultati?
 
La conclusione di quella sperimentazione costituisce un motivo di dispiacere, che fa parte del dolore per la scomparsa di Clotilde: quel progetto si è arenato nelle secche di una “riforma” che lo ha mortificato e sciupato in un liceo “altro”, irriconoscibile rispetto alle finalità di quella sperimentazione, perché concepito come “essenzializzazione” dei saperi, cioè in un impoverimento semplificatorio rispetto alla realtà complessa della formazione in un periodo storico-sociale ricco di trasformazioni drammatiche. E dire che lo stesso Ministero si era preoccupato di realizzare un agile strumento (scritto collettivamente da noi insegnanti nella sperimentazione: Lo stage formativo nell’indirizzo di scienze sociali. Don’t worry! c cura di Lucia Marchetti, Ferrara 2001), che aiutasse gli insegnanti alle prese con l’imbarazzante prospettiva di “sporcare” i saperi “alti” di un liceo, nel confronto fra quei saperi e l’effettiva operatività sociale circostante, terraterra. Niente da fare: dopo quasi cinquant’anni i “nuovi saperi” e i vecchi bisogni restano “spiaggiati” in un Liceo che sembra mostrare perfino il timore di ospitare nella sua denominazione ufficiale il termine “sociale”.
 
Ci sarebbe da riflettere sul motivo di questo impoverimento, di questo gravissimo ritardo, sui sintomi che lo accompagnano, anche alla luce delle ricerche che hanno caratterizzato la presenza di questa pedagogista del “fare psiche”. Ci sarebbe ad esempio ancora molto da riflettere sul progressivo abbandono della scrittura in corsivo, da sempre considerata una meravigliosa esperienza motoria raffinata e un tramite prezioso di velocizzazione del pensiero, di dominio e coordinazione dello spazio-tempo, di unificazione stilistica di segni diversi in una parola fluida personalizzata, di de-codifica dei segni altrui, di conquista globalista di un cosmo di segni, differenziati da un caos indifferenziato di segni generici ma già intenzionati al senso. Ci sarebbe da riflettere sulla limitazione della scrittura personale allo stampato o al ricorso all’impersonale tastiera di un computer o di una smartphone, che è spesso così comoda … Che riflessi ha una simile trascuratezza sulla psiche e sulla personalità? Sono domande attualissime – poste anche in uno dei nostri convegni, quello di Verbania – di fronte alle quali mi sarebbe piaciuto ascoltare le risposte di Clotilde, che alla scrittura, come parte visibile della psicopoièsi, ha dedicato parte della sua ricca e feconda ricerca.
 
Questa scuola incompiuta Clotilde non la meritava: è un grande rammarico pensare che il suo sguardo profetico si sia fermato sul limitare di una terra promessa, intravista solo da lontano ma non raggiunta.
È un’impossibilità che ha riguardato anche noi, suoi compagni e colleghi di viaggio – come minimo per quelli della mia generazione – ai quali la nostra cara Clotilde, con la sua pedagogia del libro, della parola “data” che si fa psiche, ha donato l’ultima delle nostre utopie.
 
 
Oggi, la sua scomparsa conferisce a quel suo “stare accanto” il senso di un’assenza che non può essere del tutto lenìta dai ricordi, come il venir meno di una tacita sollecitudine, che in molti di noi è nel frattempo diventata parte della propria coscienza.

Clotilde, l'autenticità di un vero formatore

 Sabato scorso i funerali di Clotilde, cui non ho potuto partecipare.
Dalla telefonata di Antonella il 6 novembre, e poi la lettura del ricordo così completo di Lucia Marchetti, gli scambi con Claudia, Anna Maria, Lia...

La penso spesso e La rivedo in quelle occasioni che ci hanno viste tutte insieme, intorno a Lei che ci chiamava, ci stimolava, ci raccontava, ci ascoltava e così ci insegnava il coraggio di osare un modo nuovo di vedere la scuola, le relazioni sociali, le materie scolastiche, ma anche la bellezza, l'arte, la religione, la musica.

Cara Clotilde.
Eri sempre presente, presente anche durante il Covid, presente fino all'ultimo.
Ci manchi moltissimo.
Voglio aggiungere ai ricordi che ho letto con grande riconoscenza ed emozione, scritti da chi Le è stato vicino e ha collaborato con Lei con maggiore continuità, quello piccolo, mio, del primo incontro, perchè quell'immagine è ancora viva dentro di me ed è tuttora la prima a riemergere quando penso a Clotilde.
 
1980. Convegno sulla comunicazione alle Stelline a Milano.
Io venivo dalla scuola della Stambak a Parigi, il tema di ricerca era quello del rapporto tra interazione sociale e costruzione delle conoscenze, l'importanza della comunicazione nel piccolo gruppo, l'interazione tra coetanei, il ruolo fondamentale del contesto... tutti aspetti che confluivano nel considerare sorpassata la lezione frontale, compresi anche i cosiddetti convegni - passerella, considerati luoghi di esibizione più che di apprendimento.
Eppure a questo convegno io volevo andare.... volevo ascoltare di persona la Pontecorvo, il faro italiano su questi stessi temi.
Dalle 14 alle 19 , il susseguirsi di interventi di 15 minuti l'uno...senza dibattito, senza discussione.. l'osservare in me e intorno a me stanchezza e sbadigli, sembrava poter dare ragione a quella diffidenza per le “passerelle”.
 
Ma alle 19, ultimo degli interventi... arriva Lei a parlare di STORIA e di come si possa insegnare e capire la storia.
 
Non so se riesco, vorrei essere capace di restituire quella sferzata derivata dalla sua voce sicura e musicale, dalla empatia che creava con il pubblico, dalla intelligenza dei contenuti.., dal suo brio...come se le 5 ore precedenti di passivo ascolto fossero state smaltite in un attimo.
Io ora mi sentivo attiva, attenta, curiosa, concorde e questa pienezza di partecipazione nel presente aveva completamente zittito quel rumore di fondo che aveva ronzato fino ad allora nella mia mente (uffa.. che noia.. la solita passerella, a che cosa serve...), sostituito dalla sensazione di stare davvero apprendendo qualcosa di nuovo, anche al di là dell'insegnamento della storia.
L'emozione più profonda era forse data dal contrasto tra la convinzione che il contesto sia fondamentale e il verificare di persona come l'autenticità individuale di un vero formatore possa raggiungerti, anche oltre i limiti del contesto.
 
Forse è questo paradosso a commuovermi, perchè nel riconoscere la potenza dell'intelligenza e della comunicatività dell'individuo Clotilde,,, mi sembra quasi di fare un torto alle convinzioni alla base del nostro gruppo “CONTEXT”, da lei fondato.
Perdonami cara Clotilde e grazie grazie di tutto.
Laura Bonica