Relazione di Gioia di Cristofaro Longo

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Il Liceo Economico-sociale verso il primo esame”
Seminario nazionale di avvio delle attività formative per la preparazione alla seconda prova scritta dell’esame

 

 

Abstract

Partendo dal concetto di cultura in antropologia culturale, l’intervento intende approfondire alcuni concetti chiave riguardanti:

  • l’interdipendenza tra il contesto socio-culturale nel quale l’agire umano, a livello di singoli, gruppi e comunità, si trova oggi ad operare con particolare riferimento al fenomeno della globalizzazione, avendo attenzione alle sue diverse tipologie;
  • multiculturalismo ed intercultura: indicazioni di percorsi per la gestione orientata del multiculturalismo;
  • rilettura del concetto di diversità e suo ruolo nei processi di costruzione dell’identità;
  • il consumo e la società dell’immagine: avere, essere e apparire;
  • il ruolo dei mass media: squilibrio di rappresentazione della realtà;
  • abitare i diritti umani. La sfida del XXI secolo: dai principi (Dichiarazioni e Convenzioni) alle pratiche;
  • dall’empatia al dialogo interculturale, fondamenti antropologici del concetto di pace;
  • rilevanza di analisi trasversali nell’ambito delle scienze umane per coglierne nessi ed intrecci nella prospettiva di una cultura del mosaico.

 

Concetto di cultura

L’antropologia è una delle tre scienze sociali insieme alla sociologia e alla psicologia sociale. Il suo statuto epistemologico riguarda il concetto di cultura e l’analisi critica della società.

Lo scopo è quello di individuare il funzionamento reale dei rapporti sociali, cogliendo l’organizzazione simbolica di un insieme sociale che comprende sia gli aspetti materiali che quelli spirituali.

L’antropologia dunque si dedica allo studio delle relazioni sociali in un dato spazio e nel loro contesto caratterizzato da due fenomeni: urbanizzazione e globalizzazione.

L’estensione del tessuto urbano è un fenomeno che corrisponde alla moltiplicazione degli spazi di circolazione, di consumo e di circolazione.

A proposito degli spazi di comunicazione è bene precisare che oggi internet si mostra capace di creare relazioni che poi si concretizzano in reti sociali: la contiguità di tutti i luoghi possibili ha rotto l’incantesimo del viaggio come rottura esistenziale ed ha mutato il senso dello spazio e delle stesse differenze culturali, grazie anche alla globalizzazione dell’informazione, per cui il sogno prima presente solo nelle favole dell’istantaneità e dell’ubiquità è oggi quasi realtà.

Il terreno o campo è l’elemento essenziale delle discipline fondate sulla ricerca empirica allo scopo di osservare e comprendere i comportamenti, le rappresentazioni e i saperi rilevati nello studio concreto di contesti di cultura come procedure di materializzazione, oggettivazione e costruzione dell’oggetto antropologico, prima un altrove esotico, selvaggio, lontano, oggi sempre più intrecciato con realtà vicine.

Il luogo si definisce come spazio in cui si possono decifrare le realtà sociali, i simboli che uniscono gli individui e la storia che li accomuna.

La storia della mobilità ci consegna complesse e variegate realtà riguardanti i processi di urbanizzazione: sub urbanizzazione, disurbanizzazione, riurbanizzazione, gentrification, nuova forma di mobilità della cittadinanza fondata sulla dinamica centro-periferica.

Il terreno va dunque a definirsi come antropologia dell’incontro, incontro negli spazi della circolazione, del consumo, della comunicazione, quelli che M. Augè chiama i non luoghi della sovra modernità, caratterizzati da:

  • individualizzazione dei percorsi,
  • rotture nella filiazione,
  • perdita delle solidarietà generazionali,
  • famiglie monoparentali,
  • crisi degli alloggi,
  • comparsa dei senza tetto.

Tutte nuove forme di solitudine.

 

Un aspetto centrale in quello che Augè chiama i paesaggi del mondo attuale è rinvenibile nel fenomeno che viene definito globalizzazione fenomeno segnato da: accelerazione del tempo, restringimento del pianeta, individualizzazione dei percorsi.

Di tale realtà ogni giorno cogliamo i segni di un rapido cambiamento di scala di cui gli schermi della TV e dei computer sono l’indice e l’accelerazione.

È bene aver presente che il fenomeno della globalizzazione investe varie dimensioni con le quali si indica il processo di connessione tra realtà, soggetti, gruppi, più o meno estesi, in dimensioni sempre più ampie, fino a comprendere il globo.

Tale ragionamento è di particolare attualità se si tengono presente le caratteristiche inedite delle forme di globalizzazione in atto, come si è visto, incrementate dallaccelerazione del tempo, dalla moltiplicazione di fruibilità degli spazi in connessione con i nuovi mezzi di trasporto, dallindividualizzazione dei vissuti personali, dallaffermarsi di una realtà tecnologica e multimediale (di cui gli schermi della TV e dei computer sono l’indice) e l’accelerazione che segnano un sostanziale cambiamento di scala nella percezione di tratti culturali rinviabili ai concetti di vicinanza/lontananza, inclusione/esclusione, possibilità /impossibilità, intimità/estraneità.

Qualche breve riferimento alle diverse forme di globalizzazione:

  •  Globalizzazione spaziale

La globalizzazione sta ristrutturando il nostro modo di vivere: accorciamento delle distanze (mezzi di trasporto e comunicazione). Risultato perdita dei confini dell’agire quotidiano: il denaro, le tecnologie, le merci, le informazioni, l’inquinamento oltrepassano i confini come se questi non esistessero. Muta la percezione dello spazio.

  • Globalizzazione temporale

Muta non solo la percezione dello spazio ma anche quella del tempo: la nostra vita si svolge a velocità mai sperimentate sino ad ora, incidendo sicuramente sul nostro modo di ragionare e sulle nostre categorie interpretative.

  • Globalizzazione cognitiva

Tale dimensione concerne l’immagine che abbiamo di noi stessi e del mondo che ci circonda.

Riguarda i cambiamenti relativi alla creazione e allo scambio di conoscenze, idee, leggi, valori, identità culturali ed altri processi mentali.

Le cause sono svariate: mass media, commissione di esperti, scienziati, società di consulenza ed esperti di comunicazioni.

Tutto ciò offre l’occasione per l’avvicinamento e la comparazione tra culture diverse.

 

La globalizzazione, ovvero la crescente interconnessione tra le persone, secondo le caratteristiche sopra evidenziate, con particolare riferimento anche alla liberalizzazione commerciale e finanziaria, si accompagna con il degrado sul piano della natura collegato alle di produzioni invasive e tecnologiche, lavvelenamento del tessuto fondamentale della vita, la produzione di materiali tossici e di combustibile fossile, la privazione di cibo ed acqua in vendita, il saccheggio della biodiversità e delle foreste, il fenomeno dellinquinamento atmosferico a livello planetario.

Facciamo nostre le parole di Vandana Shiva che afferma che è necessario il cambiamento di paradigma da Terra Nullius a Terra Madre e che bisogna allontanarsi dalla Natura consumistica che ci rende complici della guerra al pianeta e far nostra una cultura che ci aiuti a far pace con il Pianeta, recuperando una visione olistica della terra: umanità e natura, fine dell’ecoapartheid.

Noi siamo parte della Natura e non unentità a parte. Occorre un ricongiungimento tra economia, società e natura. Il cibo è biodiversità. Nel cibo la Terra entra in noi.

Infine, at last but not at least, la globalizzazione economica che ha assunto una dimensione esorbitante e in un certo senso dominante sulle altre.

Le strategie politiche contemporanee richiedono infatti una capacità di favorire ladattamento ai mercati mondiali ed ai flussi economici transnazionali: lorientamento costante è ormai quello di operare per ladeguamento alleconomia internazionale e ai mercati finanziari globali, determinando i processi decisionali nazionali.

Lhomo oeconomicus ha messo al centro il danaro e non la persona come icasticamente ha recentemente affermato Papa Francesco. Ciò determina squilibri insostenibili: il 15% della popolazione mondiale possiede l85% delle risorse del Pianeta, allargando a dismisura la distanza tra il salario minimo e quello massimo.

Tutto ciò ha gravi riflessi sugli stili di vita: accenniamo alla dittatura del consumo, oggi in declino proprio per le difficoltà di accedere al consumo a causa della grave crisi economica.

Oggi invece viviamo la crisi con un senso di pessimismo, sfiducia, disorientamento, atteggiamenti che trasmettiamo esplicitamente e implicitamente ai giovani ai quali stiamo ammazzando il concetto di futuro.

La scienza economica ha colonizzato il mondo

Tutto ciò ha conseguenze specifiche e gravi sulle concezioni valoriali: attraverso il virus pan economico si è realizzato una svalorizzazione delle ricchezze umane sganciate dal prezzo in danaro, come la gratuità (dono), le relazioni umane ispirate all’amicizia e all’amore, ecc..

Un aspetto da evidenziare riguarda le modalità con le quali stiamo vivendo tale crisi. Siamo ben lontani dalla concezione espressa da Einstein:

“Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine … è nella crisi che emerge il meglio di ognuno di noi … non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose”.

 

Cultura del Consumo

Connessa alla globalizzazione economica la cultura del consumo

Affrontare il rapporto tra stili di vita e consumi rende opportuna una breve ricostruzione della storia del consumo.

Per fermarci alla seconda metà del XX secolo possiamo individuare quattro periodi:

  • quello che va dal dopoguerra agli anni ‘60;
  • il periodo del “boom economico” dal ‘60 al ’68 circa;
  • il periodo del “dissenso” tra il 1968 e il 1973;
  • il periodo della crisi energetica dal 1973 ad oggi.

L’oggi è caratterizzato dalla crisi economica che rimette in discussione alcuni assi culturali per cui si realizza una coesistenza tra orientamenti opposti.

Numerosi sono gli autori che hanno affrontato tale problematica con stretta connessione tra possesso di beni e stili di vita. Tra questi è opportuno riferirsi a Simmel (1911) con le sue analisi sulla moda, oppure a Veblen (1899) con la sottolineatura da lui posta sulla funzione di possesso di beni come status symbol e sulla differenziazione sociale, oppure a Max Weber (1922) che vede nel consumo una delle caratteristiche nell’individuazione dei ceti, considerandone conseguentemente i rispettivi stili di vita e, più recentemente, a Baudrillard (1968) e Bourdieu (1979).

La “società affluente” presuppone dunque una produzione su larga scala che si immette nel mercato e per la quale deve essere messa in opera una sistematica induzione al consumo di massa attraverso l’intervento sostanziale della pubblicità.

I consumi diventano la cartina di tornasole attraverso la quale valutare i vari status symbol di singoli e gruppi che delineano i diversi stili di vita.

Il collegamento consumi e stili di vita, già presente come si è accennato in M. Weber, Simmel e Veblen viene ripreso in tempi più recenti da F. Alberoni che per primo in Italia propone l’agire di consumo come agire sociale dotato di senso, espressione di significati e valori socialmente condivisi, un patrimonio, dunque, di significati riconoscibili e riconosciuti, legati agli oggetti e ai beni da possedere.

Cambia la prospettiva con la quale ci si rapporta ai beni che vengono visti come un sistema di segni traendo il loro valore essenzialmente dai rapporti che li legano gli uni agli altri. L’oggetto, divenuto segno, non trae più il suo senso dalla relazione concreta tra due persone, ma dalla relazione differenziale rispetto ad altri segni (Baudrillard, 1972).

Il bene, dunque, è come un medium simbolico simile al linguaggio che comunica aderenze e preferenze in rapporto agli stili di vita. Tali stili di vita possono essere letti da un duplice punto di vista: come codice di combinazioni ritenute idonee per sé ed il proprio gruppo e come strutture che comunicano valori chiave di un determinato gruppo sociale.

Non è il caso di sottolineare come tutto ciò ponga in discussione valori, abitudini, tradizioni e modi consolidati di vivere ed introduca quella che viene definita lideologia della festa.

E’ interessante, infatti, soffermare l’attenzione sul fatto che l’ideologia che accompagna il modo di produzione consumistica introduce un’utopia velleitaria che scardina dalle fondamenta l’etica precedente dei doveri della fatica, dei risparmi, dei sacrifici. E’ l’utopia della “festa” che accredita il mito tecnologico edonistico dell’abbondanza e del godimento facile e perenne. In questa ideologia fattori come spreco, competizione, ostentazione diventano non più eccezionali, ma esperienza quotidiana. L’ideologia del prestigio diventa valore assoluto ed è inscindibilmente collegato allo spreco. Tutto ciò capovolge l’assetto tradizionale precedente nel quale la festa era l’evento eccezionale che segnava le tappe fondamentali della vita: nascita, matrimonio e in misura più ridotta, compleanni.

L’attuale situazione consegna un nuovo grande cambiamento, frutto delle trasformazioni ulteriori dei consumi di massa. Per descrivere questa realtà si parla di società indistinta.

Tale società si caratterizza per segmentazioni e frammentazioni attraverso meccanismi differenziati e multidimensionali. Quello che emerge è la domanda, il desiderio di beni piuttosto che l’affermazione che il possesso di tali beni produce. La conseguenza di questo processo complesso e a volte contraddittorio è l’insoddisfazione crescente che i consumi non riescono a colmare. Alla società indistinta, infatti, corrispondono consumi indistinti per cui l’obiettivo cambia di senso. E’ più importante “non essere da meno” piuttosto che “avere di più”, ubbidendo a scelte di politeismo del consumo e non più a imitazioni di stampo unitario. Non, quindi, una condizione per emergere, bensì un modo per autopercepirsi al posto giusto con le “cose giuste”.

Il consumo assume, dunque, una valenza multifunzionale, non più per definire l’appartenenza ad una classe o ad un ceto, bensì la collocazione in una società indistinta che è contemporaneamente frammentata e segmentata.

Tale indistinzione si trasmette anche all’uso del tempo, sia a fini di lavoro che di svago, tempo che diventa oggetto di tensioni, di aspirazioni simultanee e spesso denotate da messaggi contraddittori. Per accostarci con un esempio a questo tipo di realtà può essere utile riferirsi al telecomando di un televisore: il consumo, dunque, come un’attività di zapping attraverso la quale porsi obiettivi molteplici e contemporanei che per la velocità e l’inevitabile segmentazione dei risultati rischia di generare livelli sempre più ampi di insoddisfazione.

Unaltra conseguenza è che ciascuno diventa entro certi limiti impresariodi se stesso per cui si può sintetizzare questo processo con lo slogan: avere è essere, ma, ancor più precisamente, apparire è essere. Di questa realtà è esemplare documentazione la realtà dei mass media che vengono a formare il contesto della coscienza caratterizzata da una molteplicità di voci e prospettive. La “giustapposizione” diventa l’esperienza prevalente nella società postmoderna, sia che si faccia lo zapping alla televisione, sia che si vada in giro per i grandi magazzini, negozi, o centri commerciali.

Un consumo, dunque, che superando i raggruppamenti sociali tradizionali in via di dissolvimento (per lo meno in apparenza), caratterizza stili di vita per definizione più labili, meno codificati, in continuo divenire, spesso sotto forma di struttura aperta, in cui la soggettività personale gioca un ruolo non certo secondario.

Le opzioni di consumo ed il possesso di determinati beni costituiscono oggi lo strumento di identificazione della comunicazione della personalità culturale e sociale: stili di vita, gusti, sensibilità sono comunicati e soddisfatti attraverso una sottile regia nelle strategie di “shopping”. Di questa realtà sono una sintetica ed esemplare dimostrazione i centri commerciali, nuove “cattedrali” della società urbanizzata che ormai fioriscono non solo nelle città, ma anche nelle aree provinciali, spesso fuori dai centri abitati, piccoli e grandi che siano.

La personalità di un individuo viene, quindi, comunicata non più e non solo per il ceto di appartenenza, per nascita, professione o attività svolte, bensì dal tipo di abiti indossati, tipo di abitazione e arredamento, gusti musicali, alimentazione, ecc. Il consumo, quindi, come attività non solo economica, ma soprattutto sociale e simbolico-comunicativa. Esiste, infatti, un patrimonio di significati socialmente condivisi e legati a oggetti e beni, dimostrando così la loro capacità semantica.

La capacità di surplus di consumo diviene così segno sociale, vero e proprio medium di comunicazione. Prima la funzione del consumo era prevalentemente segno di distinzione, oggi si capovolge del tutto e il segno si trasforma in condizione di indistinzione, di omologazione, pur nella multidimensionalità e frammentazione. Non più, quindi, un consumo volto a dimostrare agli altri “chi” si è, quanto piuttosto un consumo autoreferenziale che rassicura se stessi, che fa sentire adeguati, “a posto”. Un consumo che è anche spazio di vissuti e tempo di relazioni.

Si delinea così la figura di quello che viene definito prosumer, sintesi di producer e di consumer.

Si affermano in questo scenario nuovi consumi legati al mutare del sistema di valori culturali di riferimento che hanno al centro in particolare il corpo (salute, fitness, diete, ecc.), il tempo libero (vacanze, viaggi), l’ecologia che sposta l’attenzione a tutta una serie di prodotti biologici che sono oggetto di valutazione positiva in opposizione al cibo prodotto industrialmente con il rischio di sofisticazioni alimentari.

Tanti stili di vita, quindi, in coerenza con il fluttuare di orientamenti che diventano paradigmi di lettura delle differenze sociali più mobili e sganciate da strutture di differenziazioni sociali quali classi e ceti che tendono a dissolversi, stili di vita come aggregati di tempo affinità di persone che condividono in quel momento gusti e propensioni di scelte.

 

Appare evidente la funzione surrogatoria dei consumi rispetto ai valori, la possibilità di consumare diventa finalità di vita, occupa lo spazio valoriale, anzi si identifica con esso.

E’ opportuno riflettere su questa realtà da un duplice punto di vista. Prendiamo a prestito le due categorie usate in diritto per la valutazione di un danno: il danno emergente e il lucro cessante.

Anche nella realtà della società del consumo di massa, è opportuno distinguere il danno emergente costituito dal consumismo e il lucro cessante da collegare al fatto che tale invasività soffoca lo spazio dei valori impedendone la libera espressione e manifestazione.

Il consumo in sintesi, occupa lo spazio fisico e mentale, è una vera e propria occupazione che, come tutte le occupazioni forzate e, nel nostro caso, fortemente indotte, coarta la libertà di espressione e le capacità creative di ciascuno.

Il consumo diventa così il cemento tra le persone che disegna specifici stili di vita. Gli stili di vita aggreganti si frammentano per tipologie di attività che presuppongono il possesso di determinati specifici beni.

Ne consegue che la cultura materiale di una società può essere letta come un’area “oggettivata” di mediazione simbolica, un medium non verbale di comunicazione attraverso il quale risalire alle strutture di organizzazione degli oggetti in rapporto alla cultura. Gli stili di vita con i relativi consumi possono, quindi, essere visti come potenti indicatori sociali e culturali.

Collegata all’orientamento ai consumi, fondamentale è il ruolo della pubblicità. La pubblicità è un fenomeno estremamente complesso e multidimensionale che contrasta con la sua apparente semplicità. Si tratta, dunque, di un fenomeno che deve essere considerato nella prospettiva interdisciplinare delle scienze umane, del comportamento e delle scienze sociali.

La pubblicità fa parte, ormai, della vita quotidiana. E’, dunque, uno specchio dei nostri gusti, rappresenta il palinsesto delle idee ritenute più condivise, è una realtà così familiare che accompagna ogni momento della nostra esperienza, anche con un’intrusività spesso non gradita.

Una caratteristica da evidenziare riguarda la funzione di antropoformizzazione del mercato, attribuendo una “personalità” alle merci e conferendo loro un preciso senso e significato. A tali aspetti contribuisce l’immaginario collettivo generale, individuando aree di consumo sulle quali convogliare desideri e obiettivi necessari e artificiali.

La pubblicità, dunque, attribuisce visibilità alle scelte degli acquisti che si presentano come funzionali e compatibili con l’immagine che l’individuo vuole comunicare di sé.

Tanto è forte l’induzione ai consumi che si afferma lo stato sociale nella società dei consumatori che ha lo scopo di difendere la collettività contro i “danni collaterali” che il principio guida dell’esistenza provocherebbe se non venisse monitorato, controllato e contenuti. Il riferimento è al welfare che servirebbe a proteggere la società dagli effetti di un ingrossamento delle file delle vittime collaterali del consumismo (gli esclusi e gli emarginati). Il suo compito è salvare la solidarietà umana dall’erosione e impedire che i sentimenti di responsabilità etica si estinguano (Bauman).

Oggi questa situazione è ancora più grave se si tiene conto che la crisi economica sta erodendo anche lo stato sociale senza ancora intaccare significativamente i principi costitutivi di quella che abbiamo indicato come dittatura del consumo.

È bene ricordare che la vita del consumatore consiste nella necessità di sminuire e screditare, ridicolizzare, ritenere superati i bisogni di ieri.

L’economia consumistica vive del ricambio delle merci per cui fondamentale diventa desiderare, acquistare, smaltire.

 

Migrazioni, multiculturalismo e intercultura

L’Italia è passata negli ultimi decenni da Paese di prevalente emigrazione a Paese di immigrazione , anche se nel silenzio quasi totale dei mass media sono riprese negli ultimi anni le migrazioni di italiani nel Nord Italia e in Europa.

Questo silenzio è un’ulteriore conferma della censura in termini di memoria che accompagna il fenomeno che stiamo vivendo , un silenzio imbarazzante che occulta una realtà più complessa che ha visto, per fermarci ad un aspetto del problema poco noto, un’emigrazione italiana verso l’Africa nel diciannovesimo e ventesimo secolo e un’immigrazione africana verso l’Italia e l’Europa a partire dagli ultimi due decenni del ventesimo. Ciò a testimonianza di quanto i rapporti tra i popoli del Nord e del Sud del Mediterraneo siano stati più intensi di quanto non si creda e caratterizzati più che da diffidenza, conflittualità e separatezza dalla percezione di una comune appartenenza e possibilità di dialogo e convivenza. Di tutto ciò si è persa consapevolezza.

Gli emigranti italiani hanno conosciuto bene i drammi dell’esodo e dell’esilio,la fatica dell’inserimento nei nuovi contesti, le discriminazioni dirette ed indirette subite, l’essere oggetto continuo di pregiudizi con la conseguente applicazione di etichettature e stereotipi:pizza, mafia e mandolino per limitarci a qualche esempio. Questa realtà avrebbe dovuto rendere gli italiani più comprensivi nei confronti dei nuovi arrivati,ma,come è noto, questo non è avvenuto, anzi più il fenomeno è divenuto consistente, più sono aumentati gli atteggiamenti di intolleranza che si vanno radicando vere e proprie forme di discriminazione accentuando il fenomeno dell’amnesia storico-culturale in termini sempre più macroscopici.

Una breve riflessione merita il tema del pregiudizio e le forme di discriminazione. Il pregiudizio è un giudizio emesso a priori , acritico che va a stabilire una superiorità da parte di chi è autore del contenuto pregiudiziale, al contempo, un’inferiorizzazione del destinatario della stigmatizzazione compresa nel pregiudizio. Tali atteggiamenti legittimano la violenza, la sopraffazione, le discriminazioni.

Proprio rispetto alle discriminazioni è opportuno analizzare le tre modalità che le caratterizzano, anche a volte, in termini coesistenti.

La prima riguarda il concetto di impedimento. Alle categorie discriminate viene impedito l’accesso a responsabilità e partecipazione alla sfera pubblica e della cultura in genere.

La seconda riguarda il processo di occultamento di quanto i soggetti discriminati hanno realizzato negando la visibilità e la rappresentazione del loro operato.

La terza, più sottile, ma insinuante negli interstizi del non detto, riguarda i fenomeni di banalizzazione, riduzione e distorsione di quanto realizzato dai soggetti discriminati.

La presa di coscienza di questa realtà va declinata su due versanti: il primo riguarda l’analisi delle discriminazioni; il secondo, invece, consiste nel progettare e vivereuna società orientata ai principi che teoricamente sono approvati e proposti, evitando il rischio di omogeneizzazione delle situazioni nel senso di riduzione o cancellazione delle differenze.

È importante sottolineare un aspetto, fonte spesso di disorientamento e distorsione semantica, che consiste nellillusione di un atteggiamento di presunta neutralità per la quale possono legittimarsi comportamenti apparentemente non ostili che, nella sostanza invece, vanno nella direzione, in forme più o meno gravi, più o meno esplicite, dalla non accettazione, del rifiuto, dell’esclusione.

In questa prospettiva, decisiva è la riflessione sul multiculturalismo e linterculturalità.

Con il termine multiculturalismo si intende far riferimento ad una realtà descrittiva: in un determinato contesto sono presenti soggetti di culture diverse.

Con il termine interculturalità si intende fare riferimento alla gestione orientata del multiculturalismo.

Si profila l’esigenza ineludibile di un educazione interculturale.

Se il termine multiculturalismo consegna in una prospettiva semplicemente descrittiva una realtà nella quale si trovano a convivere più culture in seguito a processi migratori, il termine intercultura supera il dato descrittivo e pone di fronte ad una scelta: quella di gestire i rapporti con le nuove culture in termini di impegno reciproco, relazioni interdipendenti, messa in gioco “bilaterale”, senza ovviamente sottovalutare o occultare gli elementi di conflittualità e contraddittorietà esistenti. L’impegno, però, deve andare nella direzione di un passaggio ad una concezione interculturale che deve tradursi in una cultura dell’intercultura, intendendo con tale denominazione quel complesso di valori, orientamenti, atteggiamenti e comportamenti ai quali ispirare le scelte individuali e collettive di soggetti appartenenti a culture diverse che convivono in una stessa comunità.

L’intercultura indica, quindi, i termini di una gestione culturale di una realtà multiculturale, evidenziandone direzione, opzioni e operatività.

La cultura dell’intercultura è caratterizzata da due elementi coesistenti e complementari: l’interdipendenza, intesa come l’aspetto che contraddistingue ogni tipo di relazione e ne descrive i livelli di interazione per la quale ogni identità stabilisce un rapporto ineliminabile con l’alterità, intesa sia a livello individuale che collettivo; la reciprocità, per la quale all’interno dell’interdipendenza si stabiliscono rapporti reciproci. La reciprocità, infatti, coglie l’interdipendenza partendo dall’esplicitazione del punto di vista della prospettiva dalla quale si conduce l’analisi e, insieme, i suoi riflessi complementari nei soggetti che interagiscono nella stessa relazione reciproca, anche se spesso non percepiti e quindi non riconosciuti: si tratta di assumere nell’analisi culturologica contemporaneamente la duplicità dei punti di vista degli attori in situazione.

Per entrambi gli attori, infatti, si produce una rielaborazione sintetica delle esperienze vissute avendo consapevolezza che si attua sempre un processo di reinterpretazione bilaterale.

Dobbiamo ad Herskovitz il concetto di reinterpretazione bilaterale, opportunamente ripreso da Roger Bastide (1990) nella sua analisi dell’acculturazione formale.

Tale processo deve essere inteso realmente in termini di reciprocità: si tratta, infatti, di reinterpretazione di realtà occidentali in termini di cultura che chiameremo sinteticamente “altre” per indicare semplicemente che non sono occidentali e reinterpretazioni di realtà “altre” in termini di culture occidentali.

 

La sfida attuale sta, infatti, nel riconoscere, studiare e valorizzare la differenza tra le culture intendendo, come si è visto, la differenza come una risorsa, così come la Dichiarazione Universale dellUNESCO sulla Diversità Culturale del 2001 significativamente afferma: “ La difesa della diversità culturale è un imperativo etico, inseparabile dal rispetto della dignità umana” (Art. 4). Ancora: “Oltre ad assicurare la libera circolazione di idee attraverso parole ed immagini, bisogna vegliare affinché tutte le culture possano esprimersi e farsi conoscere” (Art. 6); “Il patrimonio culturale è fonte principale della creatività. La creazione si basa sulle radici della tradizione culturale, ma si sviluppa in contatto con altre culture … in un dialogo autentico …” (Art. 7).

Si ribalta, quindi, il pregiudizio informalmente e silenziosamente operante che vede nell’incontro con gli “altri” un atteggiamento denigratorio che compromette ancora oggi la comprensione e la valorizzazione delle differenze.

La differenza è di per sé dialogica e si configura in termini di intersoggettività categoria che descrive le interazioni continue e reciproche attraverso le quali gli esseri umani si rapportano agli altri, stabilendo aree di convergenza o di divergenza più o meno esplicita. Si realizzano, cioè, interazioni tra sistemi diversi e complessi che, connettendo i contesti ambientali e sociali e i sé individuali, fondano lo sviluppo del “senso del noi”.

E’, quindi, attraverso il confronto e il riconoscimento delle differenze che si costruiscono gli assi di una nuova solidarietà e convivenza civile e democratica, contrastando in tal modo ogni forma di razzismo ed intolleranza, favorendo una conoscenza reciproca dei rispettivi universi culturali,antidono unico in grado di porre le condizioni per il superamento di pregiudizi e stereotipi.

L’aspetto peculiare da tenere in considerazione è che nella relazione interdipendente, reciproca e differente, i soggetti, pur riferendosi a una medesima situazione, la interpretano con un apparato simbolico, normativo e strumentale che genera orientamenti e comportamenti diversi, come diversi sono i mondi culturali, gli interessi e i punti di vista che rappresentano, pur nella convergenza del rapporto che li vede legati ed interagenti in un determinato contesto temporale e spaziale.

In questo quadro appare decisivo individuare i contenuti che vanno a caratterizzare l’incontro e il dialogo tra le culture, evidenziando sia gli elementi da rifiutare che quelli da proporre.

Tra quelli da rifiutare indichiamo:

  • No alla neutralità

Tale atteggiamento si traduce in un alibi per il disimpegno, ritenendo possibile una posizione equidistante che prescinda dall’irrinunciabile opzione iniziale che consiste nello scegliere di orientare i propri comportamenti, nelle diverse forme e gradualità, nella direzione della cultura dell’accoglienza, oppure in quella del rifiuto

  • No al buonismo

Alleato inconsapevole dell'atteggiamento di neutralità, è spesso un orientamento ad un generico buonismo sterile, anzi dannoso, in quanto è di per sé superficiale, avallando un personale e concreto disimpegno mascherato dalla patina buonista impedendo la visibilità delle contraddizioni e il riconoscimento della gravita delle relative conseguenze.

  • No alla Tolleranza

Pur riconoscendo, sotto il profilo storico, l’importanza dell’emergere di tale concetto (si pensi, solo per fermarci a due esempi, all’ Epistola de Tolerantia di Locke e al Trattato sulla Tolleranza di Voltaire) oggi è doveroso comprendere che questo termine, nella percezione diffusa di questa parola, ha perso la sua ampia valenza semantica e va, piuttosto, nella direzione della “sopportazione” che tende a scomporsi in un soggetto che tollera e in un soggetto che è tollerato.

  • No alla Mercificazione

Con tale termine si intende fare riferimento ai processi di monetizzazione di molti aspetti della vita rispetto ai quali si va perdendo la capacità di espressione in termini di gratuità, affettività, attraverso la scorciatoia di un trasferimento di un bene in termini economici: un transfert, quindi, affettivo.

Tra gli orientamenti da proporre individuiamo la:

  • -Sì Conoscenza;

La conoscenza deve comprendere tre aspetti tra loro collegati:

saperi che devono abbracciare il tempo e lo spazio; informazione, attraverso la quale assicurare la circolazione dei contenuti della conoscenza; trasmissione, attraverso metodologie plurime (a livello di oralità, scrittura, rappresentazioni iconografiche, teatro, audiovisivi, ecc.).

  • Sì Comparazione

Si tratta di una dimensione ineliminabile, ancora troppo poco praticata.

Si tratta di uno strumento fondamentale per superare il culturicentrismo ed il conseguente “trionfalismo culturale”, pericolosamente presenti in ogni cultura.

Il pregiudizio, i pregiudizi sono, infatti, una forma per avvalorare ogni forma di centrismo culturale.

Il metodo comparativo, immettendo nelle logiche reali dei comportamenti “altri” e dei rispettivi contesti è l’unico modo per superare forme di atteggiamenti pregiudiziali.

  • Comunicazione

Fondamentale il ruolo della comunicazione attraverso la quale assicurare le indispensabili forme di rappresentazione e visibilità della realtà nelle sue varie espressioni e articolazioni, al fine di promuovere conoscenze reciproche, la messa in comune di obiettivi prioritari, l’incontro intergenerazionale, il potenziamento degli obiettivi di esperienze positive: aspetti tutti spesso negletti nella comunicazione dominante.

  • Sì Responsabilità

E fondamentale impegnare ciascuno ad esprimere la propria soggettività e sperimentare le proprie capacità da potenziare quanto più possibile nella prospettiva di un'assunzione di responsabilità in prima persona non cedendo alla tentazione sistematica alla delega.

Il percorso così delineato fa emergere con grande chiarezza i presupposti fondamentali ai quali ispirare le relazioni tra persone, gruppi, culture nelle quali non trova spazio il pregiudizio che pone in termini essenziali listanza di individuare lapparato valoriale sul quale impostare le relazioni tra le persone e tra le culture.

 

Ruolo dei diritti umani nella gestione delle relazioni interculturali

Il riferimento che si propone è ai diritti umani che costituiscono un’antica ispirazione dell’umanità.

Alcuni esempi:

  • Il Cilindro di Ciro, un documento del VI secolo a.C. rinvenuto tra le rovine di Babilonia nel 1879. In esso Ciro il Grande, re persiano, assicura, tra l’altro, ai sudditi e agli stranieri deportati la libertà religiosa, l’abolizione della schiavitù, la restituzione delle abitazioni confiscate ai coloni.
  • La Carta di Manden redatta nel 1222 nel giorno dell’incoronazione di Sundjata Keita, sovrano dell’Impero del Mali, contiene sette principi ritenuti fondamentali. Rivolti “ai quattro angoli del mondo” costituiscono una dichiarazione dei diritti umani essenziali, quali il diritto alla vita, alla libertà, l’abolizione della schiavitù. Essi sono: ogni vita è una vita; il torto richiede una riparazione; aiutatevi reciprocamente; veglia sulla patria; combatti la servitù e la fame; che cessino i tormenti della guerra; chiunque è libero di dire, di fare e di vedere.

Tra le eredità del XX secolo senz'altro è da ricordare il lungo e faticoso percorso che ha condotto all'elaborazione di un corpus di norme a livello internazionale che va sotto il nome di diritti umani. A titolo esemplificativo citiamo la Magna Charta inglese dell'11 Febbraio 1225, il Bill dei diritti del 1689 da cui sono nati i Trattati sul governo di John Locke, nonché le Dichiarazioni dei Diritti della rivoluzione americana del 1776 (Virginia Bill of Rights) e quella della rivoluzione francese del 1793.

La novità che introduce la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, solennemente adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948, è quella di costituire il primo tentativo riuscito di elaborazione a livello mondiale a cui sono seguiti più di sessanta anni di Dichiarazioni, Convenzioni, Congressi mondiali dell’ ONU.

Dobbiamo, però, registrare una forte preoccupazione: alla sempre più estesa e precisa specificazione dei diritti umani, non corrisponde una conseguente e coerente applicazione.

Si realizza, dunque, un forte, totale divario tra dichiarazioni e pratiche quotidiane.

I termini di questo divario sono:

  • nessuno mette in dubbio la validità dei diritti umani, frutto dell'elaborazione culturale di quasi tutti gli stati del mondo;
  • moltissimi sono convinti, però, della loro quasi impossibile praticabilità;
  • ne consegue una sorta di schizofrenia: per cui entrambi gli atteggiamenti convivono dando luogo ad una realtà contraddittoria.

Quale il problema, o meglio i problemi? La prima constatazione da fare è che, nonostante i precisi suggerimenti di tutte le Dichiarazioni e Convenzioni, i diritti umani non sono conosciuti.

Se questo è vero bisogna contemporaneamente interrogarsi sul perché di questa realtà. I valori che ispirano i diritti umani sono, pur generalmente condivisi, recepiti come utopici e generici e, quindi, lontani e considerati irrealizzabili. Genericità rimanda ad astrattezza, a pura petizione di principio, semplice dichiarazione, in sintesi, parole e non fatti, realtà, quindi, svalorizzata in partenza.

E' qui che si fa strada la sfida che si pone oggi: quella del passaggio dalla dichiarazione alla cultura dei diritti umani. Parlare di cultura significa fare riferimento a norme, valori, attitudini, orientamenti personali e collettivi - un sistema culturale di riferimento dunque - per soggetti, gruppi, collettività ispirato ai diritti umani.

Essenziale a questo punto uscire dalla definizione generica e sintetica "diritti umani" e passare all'analisi specifica di ogni diritto umano, individuato, riconosciuto e positivamente e dinamicamente inserito all'interno della propria cultura.

Finché non si procede all'inveramento, al processo di universalizzazione di ognuno di essi nei singoli contesti culturali, tali diritti rimangono lettera morta, non possono vivere nell'esperienza concreta delle singole persone.

E' opportuno a questo punto precisare che cosa s'intenda con il riferimento al processo di inculturazione e universalizzazione di tali diritti nelle culture.

L'ipotesi è che si instauri un sistema culturale che parta da un'ispirazione, un orientamento comune e che si concretizzi in cento, mille, un numero indefinito e indefinibile di attuazioni ed esperienze che leghino il passato al presente e al futuro in un continuum che tenga conto quanto più possibile degli intrecci e vere e proprie interdipendenze esistenti tra i singoli ed i gruppi.

Una nuova cultura, dunque, una cultura della mondialità che con gli strumenti della specificità e originalità delle singole culture, della loro tradizione, della loro storia, della loro identità operi nell'ambito di una precisa scelta di campo, oggi irrinunciabile per la costruzione di una reale possibile convivenza pacifica.

Se si riflette questo processo è già realtà per altre espressioni dell'umanità: l'arte, ad esempio, traduce la capacità di interpretazione di ogni artista del bello, ma le espressioni, le interpretazioni che ne conseguono sono innumerevoli, pur partendo dalla medesima condivisa ispirazione (le cadute, pur numerose, sono, però, dentro questa scelta); l'amore nelle sue varie forme è valore universale e contemporaneamente esperienza comune e specifica di tutte le persone di ogni tempo. L'amore, però, trova in ognuno forme di espressione diverse, ma tutte riconoscibili e riconducibili al valore stesso.

 

Per una cultura del dialogo

Fondamentale in questa prospettiva una riflessione sul dialogo come strumento essenziale di relazione.

Il dialogo indica di per sé una relazione ma, al contempo, invoca ineludibilmente i termini di una qualità della relazione i cui elementi costitutivi possono essere individuati in:

Interdipendenza. E’ l’elemento specifico ogni tipo di relazione e ne descrive i livelli di interazione. Ogni identità, infatti, stabilisce un rapporto ineliminabile con l’alterità, intesa sia a livello individuale che collettivo;

Reciprocità. All’interno dell’interdipendenza si stabiliscono rapporti reciproci. La reciprocità, infatti, coglie l’interdipendenza partendo dall’esplicitazione del punto di vista, della prospettiva dalla quale si conduce l’analisi e, insieme, i suoi riflessi complementari nei soggetti e da parte dei soggetti che interagiscono nella stessa relazione reciproca. Ciò comporta lassunzione contemporanea e paritaria dei diversi punti di vista e quindi delle prospettive interagenti attraverso le quali stabilire rapporti, scambi, assunzioni di responsabilità, processi di crescita e cooperazione.

Differenza. Nella prospettiva della cultura del dialogo la differenza, lungi dall’essere cancellata o acriticamente esaltata, viene considerata e gestita in termini di risorsa, valore e ricchezza, aspetto sul quale si ritornerà più avanti.

Che cosa dunque si intende per dialogo?

Un atteggiamento ed un comportamento che non va confuso con il semplice parlarsi. Presuppone un reciproco interesse profondo che riguarda sia la conoscenza che la volontà di tessere relazioni e “lasciarsi attraversare” dall’altro, scoprendo la comune umanità e sperimentando la duplice competenza sia in quanto interlocutori che ascoltatori

Il dialogo va preso sul serio:è ciò che ci rende umani tra noi e la natura in una interconnessione continua alla base del reciproco benessere. In questa prospettiva si parla di ecoantropologia.

Inteso in questo senso il dialogo rimanda ad una dimensione sistemica che non si esaurisce in una aggiunta, ma invoca un cambiamento sostanziale, un ribaltamento culturale nella percezione di sé nei confronti dell’altro e degli altri nei confronti del nostro sé, una vera e propria cultura.

È opportuno rivedere, in questa logica, il concetto di io e di altro, cogliendo gli elementi che li definiscono non in termini alternativi o oppositivi, bensì circolari nel senso che io sono io a me stesso, ma, al contempo, io agli altri: lalterità dunque è parte costitutiva della mia identità.

È opportuno ricordare che le identità che insistono su ciascuno di noi sono plurime sia in quanto singoli, sia in quanto gruppo o comunità.

Anche questo è un esercizio che dobbiamo imparare a fare. Spesso si cade nell’errore di eleggere un’identità a categoria dominante intorno alla quale leggere tutte le realtà: donne, immigrati, disabili, ecc.. senza impegnarsi in quella fondamentale operazione che è il decentramento, meglio la circolarità, dei punti di vista.

Quando si è fatto riferimento all’aspetto sistemico, si è inteso indicare l’esigenza della prospettazione in termini teorici e pratici di una cultura del dialogo, cultura in senso antropologico, si intende il complesso dei valori, degli orientamenti e indispensabili e coerenti comportamenti che debbono ispirare le scelte singole e collettive.

 

Per una cultura della pace

A mio giudizio, in questo contesto, una riflessione approfondita merita il tema della pace come ambito strettamente connesso alla finalità sottesa all’elaborazione dei diritti umani.

Rispetto alla pace si è realizzato un processo per cui si sono andati perdendo i significati costitutivi della pace. Sappiamo quello che la pace non è, la guerra, ma non sappiamo dare un significato autonomo e positivo della pace senza fare riferimento alla guerra. Abbiamo memoria e cultura della guerra, è, però, evanescente la memoria e la cultura della pace in termini di autonomia del concetto.

Sulla pace si è realizzata una discontinuità di memoria che può essere letta sotto una duplice angolatura:

  • uno svuotamento semantico;
  • un conseguente impoverimento simbolico.

Tutto ciò porta alla crisi di schemi mentali all'interno dei quali collocare - ricordandole e riconoscendone un giudizio positivo - esperienze e testimonianze che possono essere definite di pace.

Il risultato è un forte restringimento della valenza semantica del concetto di pace che ha portato ad ignorare o a occultare esperienze ed eventi ad essa ricollegabili e, aspetto altrettanto grave, a crearne di nuovi.

Il confronto con le definizioni di pace nei dizionari conferma tale realtà. Pace è assenza, pausa tra due guerre (il riferimento forte, dunque, rimane alla guerra), oppure a livello personale rinvia a quiete, tranquillità, serenità.

Il risultato è che oggi parlando di pace, facciamo i conti con un concetto:

  • svuotato di contenuto e abusato nei suoi riferimenti generici;
  • disdetto nella sua dimensione autonoma;
  • privato dellimmaginario che lo collega ad una realtà di sistema, che fondi, ispiri, e renda possibili pratiche quotidiane;
  • depotenziato operativamente a livello di identità collettiva.

Al fine di recuperare un concetto positivo del termine pace può essere utile riandare all'etimologia della parola.

Pace deriva dalla radice indoeuropea pag, pak che ha come nucleo semantico il significato di piantare, conficcare e, quindi, fissare, stabilire. E' alla base del verbo latino pango, pangis, pepigi, pactum, pangere. Il participio passato del verbo pongo, pactum è illuminante e può restituire un contenuto e, allo stesso tempo, una metodologia di pace.

 

Il patto, infatti, rinvia ad un accordo preso con il massimo livello dei contraenti (pacta sunt servanda), pena la perdita di onore di chi trasgredisce.

E', dunque, un contenuto e, allo stesso tempo, una metodologia che è il risultato di un incontro, di un accordo nella forma più stringente.

Da ciò deriva il carattere bilaterale o multilaterale del concetto di pace. Non si ha pace con un processo unidirezionale.

In ogni cultura il riferimento alla pace rinvia a contenuti positivi, tutti iscrivibili a un orientamento che coincide con i valori alti di una comunità.

Non c'è, dunque, un unico significato di pace.

I contenuti, infatti, che possono andare a definire la pace come relazione e rapporto, sono molteplici.

In questo senso pace è un concetto polisemantico. Pace è bene.

Se, quindi, i valori culturali di una comunità possono essere identificati, ad esempio, nella giustizia, nella libertà, nel rispetto, ecc, ne consegue che la pace è un accordo al massimo livello di impegno per i contraenti su contenuti, appunto, quali giustizia, libertà, rispetto, ecc.

La pace diventa, quindi, finalità e modalità di attuazione dei valori positivi di una società a livelli più o meno ampi, ma tutti convergenti nell'ispirazione di fondo.

Ancora, è un concetto attivo, perché la pace, come possiamo purtroppo constatare ogni giorno, per esistere non può essere solo predicata, ma deve essere messa in pratica concretamente. Un detto africano afferma incisivamente: "La pace non è una parola, ma è un comportamento". La pace, dunque, una parola, ma una parola che richiama inequivocabilmente un sistema culturale.

 

Conclusioni: il ruolo della scuola

Per descrivere questa realtà complessa, articolata e fortemente variegata si può ricorrere alla metafora del mosaico in chiave diacronica, sincronica, transculturale.

Un mosaico è formato da tante tessere, ognuna di queste è autonoma, ma è anche contestualmente collegata al disegno generale, ne è parte essenziale, in quanto svolge al suo interno una precisa funzione in termini di elementi di rappresentazione e coloriture in tutte le tonalità e sfumature.

La metafora del mosaico riassume, quindi, specificità, diversità, unitarietà, aspetti tutti presenti e messi in relazione funzionale nel quadro di un progetto.

La realizzazione di un mosaico, infatti, presuppone un progetto, un’idea generale che deve, però, tradursi in operatività attraverso le singole tessere.

Non sembri questo discorso utopico!

Mentre continuiamo ad assistere, come già magistralmente ha messo in evidenza K. Popper decenni fa, ad una rappresentazione sistematica e purtroppo vera, ma, comunque sbilanciata, di violenza, guerre, sopraffazioni, ingiustizie,squilibri economici, corruzioni, molti sono i segnali dell’esigenza di affermazione di valori orientati alla pace, al rispetto, al riconoscimento di diritti.

La percezione che si ha di questa realtà va, però, nella direzione di un’aspirazione considerata sì, in termini positivi, ma destinata purtroppo al fallimento.

Riemerge in questo contesto quel senso di sfiducia, di smarrimento e pessimismo di cui si è parlato prima, una patologia culturale che va assolutamente superata e curata.

Sintetizzo questo ragionamento con il titolo di un libro di cui sono autrice: Larte di decidere.

Decidiamoci ad assumere idee, comportamenti e responsabilità nei confronti del nostro futuro attraverso scelte coerenti alle quali la scuola, in primis, deve fornire la cassetta degli attrezzi in grado di tradurre le scelte proposte in orgoglio di competenze da spendere nella propria vita.