Leonello Bettin – per me semplicemente “Leonello, leone scolastico” – impersonava il nostro sogno di scuola. Così vividamente che gli altri sogni apparivano più sbiaditi, pur non essendo affatto meno profondi: in quel suo sogno, però, potevano più facilmente confluire anche i sogni scolastici degli altri. Cosa difficilissima se si segue il detto di Eraclìto secondo cui ciascuno sogna per conto proprio, a differenza del mondo “da svegli” che è comune a tutti.
Questo sogno però ha sostanziato anni di riflessione e di azione comune, di progetti e di comunicazione di esperienze. Come ciò fosse possibile ciascuno può forse narrarselo guardando alla “mappa” che lui è stato capace di tracciare per il nostro lavoro. Non era necessario essere sempre d’accordo con lui: era comunque immissione di idee-progetto, di idee-mappa per la navigazione tra gli stretti della retorica scolastica, delle prassi autoreferenziali, della semplificazione brutale di ciò che è complesso e complesso deve rimanere (in analogia con l’immagine del “labirinto” che ci venne suggerita da Giacomo Camuri); tutte insidie ed equivoci di cui si alimentano (e si inquinano) l’arcipelago e il mare della scuola.Leonello era capace di tracciare le rotte concettuali che contribuivano potentemente alla nostra navigazione a bordo di così fragili navicelle scolastiche.
Leonello dimostrava, con chiara e raffinata eleganza concettuale, che si può lavorare nella scuola senza essere meri “travet” dei programmi ed esecutori di circolari de-responsabilizzanti. Rivendicava, con ciò – in modo schivo e riservato, a tratti perfino scostante per la ritrosia a mostrarsi – la dimensione del docente come intellettuale a tutto tondo. Era facile cedergli il passo, in questo: non tanto per un riconoscimento di superiorità di idee (sempre e comunque di grande qualità e argomentate in modo invidiabile) quanto soprattutto perché molto meglio e più immediatamente di molti di noi faceva trasparire questo modello di insegnante come intellettuale “organico”, in cui cioè si compiva la mediazione fra “cultura” (l’essere colti) e l’antropo-poiesi attraverso l’istruzione e la formazione (“acculturazione”). Leonello trasmetteva un modello ed un’esigenza etico-professionale, molto al di là dei singoli contenuti, che non sono stati pochi e sono stati spesso decisivi per i nostri orientamenti nella sperimentazione scolastica.
È a gente come Leonello che dobbiamo, sostanzialmente, l’introduzione dell’antropologia nella scuola italiana: non come singola materia d’insegnamento curricolare ma come modo di pensare, come “disciplina”. Senza la quale il nostro lavoro come “riciclati” da pedagogia, psicologia, filosofia e quant’altro, si sarebbe ridotto a mero esercizio funambolico da arrampicatori sui vetri, nella realizzazione di un programma purchessia. Senza la quale abbiamo oggi, per esempio, un liceo fagocitato in una propedeutica aziendalistica, con una surreale “alternanza scuola-lavoro”.
Nell’ambito di questo suo impegno, indipendentemente dalle riflessioni e decisioni personali di ciascuno, chi di noi non si è sentito coinvolto nel condividere il compito di evitare gli “equivoci” di un antropologismo male inteso? Questo allarme critico proveniva proprio da chi, come lui, propugnava appassionatamente la necessità di sostenere un “asse storico-antropologico” come “albero maestro” su cui issare le vele per la navigazione della sperimentazione di un Liceo mai visto prima. Chi non ha potuto ri-vedere la distinzione – così fondamentale nella formazione curricolare di un Liceo delle Scienze sociali – tra “guardare” e “osservare”? Una distinzione non originale ma che Leonello sottolineava con particolare enfasi, perché non si esaurisce in comprensione concettuale ma si rinnova sempre, ogni giorno di ogni anno scolastico, differenziandosi per ogni caso.
Sono sempre stato orgoglioso (e oggi sono commosso), di aver sentito vibrare siffatte affinità intellettuali con un uomo così, di averne percepito, attraverso di esse, un senso di fraterna amicizia, sebbene a quella inevitabile ed essenziale distanza di cui si sostanziava il nostro personale riserbo e il suo stile di contatto (niente affatto privo di senso dello humor e dello “scherzo” letterario). Una distanza che l’intellettuale “a tutto tondo” porta inevitabilmente con sé e che alimenta l’attenzione degli affini. Gli sono grato per aver percepito un aiuto chiarificatore e solidale nel pensare il mio posto nella scuola, non importa quanto valorizzato. Ho sentito la familiarità d’essere un suo “fratello minore”, per quel senso di supporto – di “vela” – che riusciva a trasmettere alle idee degli altri, così faticosamente coltivate in un contesto scolastico generalmente poco benevolo (e gli esiti della sperimentazione lo mostrano impietosamente) e pure così capaci di rinvigorirsi nelle mitiche occasioni dei convegni e delle giornate di studio sulle “scienze sociali”. Non sono state poche le volte che, nel lavoro con i miei studenti, ho potuto pensare anche a lui come ad uno degli ispiratori di quel che andavo facendo. Chissà quanti aspetti del mio lavoro per i quali potevo essere considerato un insegnante “originale”, derivano in realtà dall’influsso di gente come Leonello!
Penso spesso ad alcuni insegnanti “speciali”, che ho avuto la buona sorte di incontrare da giovane. Non avrei mai pensato, però, che la serie sarebbe continuata anche da adulto e fino alle soglie della pensione: non ho alcuna difficoltà a riconoscere che Leonello è stato uno degli ultimi maestri che ho incontrato. E oggi so che questo riconoscimento non è solo un gesto cognitivo: si sostanzia anche di un’emozione che è solo pallidamente contenibile in uno scritto.
È con fraterna riconoscenza che oggi lo ricordo, seppellendolo nella mia memoria intenerita per fargli ancora più posto.
Paolo Cinque