"Frequentare genti di diverse indoli e condizioni" aveva scritto Cartesio agli inizi del Discorso, in un incipit dai toni appropriati ad un breve romanzo di formazione. Incontrare genti detenute, separate dal corpo sociale, ubicate in un altrove blindato, è forse tra le esperienze formative, che la Scuola può offrire in età giovanile, una delle più incisive. Sconfinare dagli spazi abitudinari, lasciare alle spalle oggetti ormai divenuti protesi personali, attraversare passaggi obbligati, sottoposti a vigilanza continua, altro non è che ritrovarsi interpreti dei molti sensi in cui si declina la parola esperienza: mettersi alla prova, far cadere gli stereotipi, misurarsi con le fragilità e le paure, liberare l'attenzione, essere pronti a cogliere quanto di sorprendente si può scorgere in un luogo deprivato e deprivante.
Il carcere è un luogo gravido di domande sospese ma come tale è uno spazio provocatoriamente fecondo, appropriato a generare pensiero, riflessioni, conoscenze. Da tempo alla Casa Circondariale di Lodi persone detenute, studentesse, studenti, insegnanti14 si incontrano attorno a domande cruciali, ancorché possano talvolta apparire di primo acchito paradossali.
Ci si può interrogare, ad esempio, sul senso della Bellezza in uno spazio di detenzione? Come parlarne quando l'assenza del Bello si fa più stridente? Il percorso, che ne è scaturito, ha toccato problemi di notevole rilevanza conoscitiva e di forte impatto emotivo.
Sulle tracce di quel Bello, che nessuna reclusione può allontanare, si è fatta innanzi l'immagine della luce: un furtivo riverbero di luce tra le sbarre, la luce che accende la notte, la luce dell'intelletto, la luce che sostanzia l'arte fotografica. Attraverso l'osservazione di alcune opere di grandi fotografi e la testimonianza di una fotografa professionista15, la riflessione si è spostata nel campo dello sguardo. Ci si è soffermati a più riprese sul suo potere rivelativo, sul gioco degli sguardi, degli sguardi rivolti alle cose: le cose che racchiudono storie, piccoli mondi (gesti, memorie, tradizioni, affetti, sentimenti, sensazioni) come le cose che si possono tenere nello spazio angusto di una cella.
Dallo sguardo alle cose il confronto si è arricchito dell'andirivieni di oggetti a disposizione delle persone detenute, oggetti che, posti di volta in volta al centro di uno sguardo comune e messi dinnanzi all'obbiettivo di una macchina fotografica, destinato a isolarne o a ingrandirne le forme, hanno mostrato lati diversi, più ricchi e nascosti di quello che si poteva ancora pensare di essi nel solo transito dalle celle all'aula del lavoro di gruppo. Vi sono oggetti che "sembrano sfuggire alla propria finitezza, al loro essere ottusamente oggettuali" ha scritto Steven Connor in Effetti personali.
Vite curiose di oggetti quotidiani: oggetti che "vengono investiti di poteri, associazioni o significati, così da non risultare più docili cose, bensì segni, manifestazioni, epifanie"16. Ed è quanto è accaduto negli incontri nella Casa Circondariale per un pennello da barba, un fornello, un accendino, una sigaretta, un pallone, per delle scarpe, un fermaglio a forma di coccinella, un orologio, un cuscino, un rosario, una bottiglia d'acqua, una saponetta, per delle foto ricordo, un notes, un calendario, una racchetta da ping pong, una fede nuziale, una torta preparata in cella, per una radio e un telecomando: diventare 'altro', soggetti di pratica poetica, metafore ispiratrici di piccoli testi impensabili sino al momento di un più attento guardare.
Così là dove l'intreccio delle parole ha iniziato a mostrare una natura più articolata e profonda delle cose, forse anche più vera, improvvisa è apparsa nel piacere dell'invenzione, nell'affabulazione ispiratrice, l'ombra luminosa della Bellezza. Esercizi di semiotica, scatti fotografici, scrittura a più mani hanno scandito i momenti salienti di un dialogo rispettoso e serrato tra persone di diverse culture.
Nelle ore trascorse in 'sezione' l'esperienza di studio si è arricchita di un sapere di sé e degli altri, che nessuna aula scolatica anche tecnologicamente attrezzata avrebbe potuto far diversamente sortire.
Squarci di storia della fotografia, incursioni mirate in alcuni ambiti della psicologia e della sociologia hanno accompagnato nello scambio di sguardi e scrittura la riflessione che si è sviluppata, nel confronto con storie di pena, attorno a problemi essenziali di diritto e di giustizia, questioni sancite dalla Costituzione ma anche smentite dalle effettive condizioni della vita carceraria.
Su di questa si è aperta a Lodi un'altra finestra: quaranta pannelli per una mostra itinerante con i testi prodotti in carcere e le fotografie degli oggetti che li hanno ispirati.
Il testo è estratto da una relazione più ampia tenuta dall'autore, prof. Giacomo Camuri, a Lucca il 5 maggio 2017, che si può consultare integralmente qui
È stata una grande opportunità per noi ragazzi e ragazze del “Maffeo Vegio” quella di poter scoprire la vita all'interno del carcere.
Un grazie infinito va al prof. Camuri, alle prof. Astorri, Franceschin e Peviani per averci seguiti in questo cammino di alternanza scuola lavoro, dal quale abbiamo imparato molto, soprattutto a livello di umanità.
La mostra che abbiamo organizzato si intitola “Gli sguardi le cose”.
Il nostro sguardo su ciò che riguarda il carcere è mutato, perché abbiamo incontrato persone che, raccontandoci le loro storie, ci hanno permesso di riflettere su quello che siamo. Noi siamo esseri umani, noi sbagliamo, perché siamo deboli, perché siamo sfortunati. Spesso cerchiamo soluzioni facili ai nostri problemi, alle nostre sofferenze, non risolvendo, però, nulla di quello che ci affligge. Ormai ci siamo dentro, non possiamo più uscire, non possiamo tornare indietro, è troppo tardi, siamo al buio: siamo nella nostra prigione, quella in cui ci siamo rinchiusi, quella per cui non troviamo la chiave. Nessuno può tirarci fuori, siamo bloccati. Forse sentiamo le flebili voci di chi ci ama implorarci di tornare indietro, di svegliarci, ma noi ci sentiamo inadatti, inadeguati, non più degni di essere amati. Guardiamo fisso l'orrido in cui siamo caduti, l'unico a cui diamo il permesso di guardarci. È un tunnel profondo che sembra non avere fine, ormai non ci speriamo più: non c'è via di uscita, non ci sono né redenzione né riscatto.
Finché a un certo punto le nostre mani non toccano una parete fredda, umida, dura; ci spingiamo contro le mani, ma niente da fare, più giù di così non si può andare: abbiamo toccato il fondo e non ci resta che risalire. Ci sentiamo smarriti, consapevoli che da soli non possiamo farcela: ecco che allora torniamo a metterci in ascolto, nuovamente. Scopriamo che le voci di chi ci vuole bene non avevano smesso di chiamarci, di pronunciare il nostro nome, di dirci di tornare a casa, che è aperta per noi giorno e notte. Scopriamo che l'unica chiave in grado di aprire la nostra prigione è l'affetto dei nostri cari, che abbiamo sottovalutato, nel quale non abbiamo creduto. Abbiamo sbagliato. Il mondo attende il nostro ritorno: possiamo ancora fare qualcosa. C'è in gioco la felicità di chi ci ama.
Per loro possiamo cambiare, diventare persone migliori, ci vorrà tempo, ma questo è possibile, io l'ho visto, io ve lo testimonio: è questo quello che ho imparato in carcere.
Letizia Persico Mollica
Mi hanno chiesto spesso (e mi sono chiesta anche io) il motivo che mi ha spinta ad andare in carcere per due anni consecutivi. In altre parole "perché andare in carcere invece che starmene a casa?" o, se vogliamo, "perché in carcere e non in qualche altra realtà?".
Una delle risposte è che le nostre carceri non sempre hanno la possibilità di assolvere al compito di rieducazione previsto dalla Costituzione italiana, qualcuno deve darsi da fare e collaborare per cambiare le cose, mi piace pensare di essere anche io quel "qualcuno".
E tuttavia il motivo più importante, ciò che in primo luogo mi ha spinto ad andare in carcere tutti i venerdì, è forse un altro, molto più umile, molto meno "eroico". Il tempo trascorso nel salone del carcere è una delle poche occasioni che ho per fermarmi, riflettere, e parlare. Semplicemente parlare, con serietà e impegno, della vita, del mondo, di tutto ciò che di importante accade attorno a noi e dentro di noi.
Il nostro non è un dialogo tra persone libere e detenuti, non si tratta di un'indagine né di un interrogatorio che ha per oggetto la quotidianità dietro le sbarre. Paradossalmente, è tutto molto più semplice. Il nostro è un confronto molto naturale tra persone che hanno voglia e tempo di condividere le proprie idee.
L'ambientazione è, oserei dire, ininfluente. Questo almeno è il modo in cui io ho vissuto questa esperienza. D'altronde è proprio questo il messaggio che vorrei comunicare al mondo: se chi è in carcere va ascoltato non perché è in carcere ma perché è un essere umano che, in quanto tale, potrebbe avere cose interessanti da dire, è perché qualunque persona è, prima di tutto, una persona.
Lo diciamo spesso ma, per una volta, pensiamo a cosa tutto ciò voglia davvero dire.
Sono sicura che se riusciremo ad intuire il senso più vero e profondo dell'essere persona e dell'avere a che fare con delle persone cambierà il nostro modo di "vivere l'umanità" e, con esso, cambierà il mondo.
Giulia Gavardi